Dopo secoli di lotta per proteggere il proprio territorio, e 26 anni di attesa per testimoniare in una controversia legale internazionale, una comunità indigena colombiana ha finalmente rilasciato le proprie dichiarazioni formali contro lo Stato. La comunità indigena U’wa è infatti riuscita a dichiarare alla Corte interamericana dei diritti umani che la Colombia ha ripetutamente mancato di riconoscere le sue terre ancestrali, nonché minacciato la sua sopravvivenza inquinandole il territorio con le attività petrolifere. La Corte ha giurisdizione vincolante nella maggior parte dei Paesi dell’America Latina, quindi una sua sentenza potrebbe contribuire a proteggere molte popolazioni indigene e gli ecosistemi in cui esse vivono. Ci sono inoltre i presupposti affinché si origini un significativo precedente per tutti i popoli autoctoni della Colombia, il quale potrebbe avere un impatto a livello regionale su questioni di rilievo come il diritto dei popoli indigeni al libero consenso informato.
Il popolo U’wa vive nel nord-est della Colombia, più di preciso, nelle zone pedemontane e nelle foreste nebulose delle Ande a cavallo degli Stati di Arauca, Santander, Casanare, Norte de Santander e Boyacá. Gli U’wa, fin dalla conquista spagnola, sono minacciati e pertanto riconosciuti dalla Corte costituzionale della Colombia come “a rischio di sterminio fisico e/o culturale”. Dal canto loro, i membri della comunità preispanica si considerano i guardiani della Madre Terra e, mossi da questi principi, hanno a lungo combattuto contro i progetti delle multinazionali petrolifere, in primis, quelli della Royal Dutch Shell e della Occidental Petroleum. Nonostante le proteste, le battaglie legali e persino una minaccia di suicidarsi in massa, il gruppo non è però mai riuscito a impedire lo sfruttamento di petrolio e gas in quella che da sempre ritengono essere la loro terra sacra. E in tutto questo il governo colombiano ha un ruolo. Secondo i leader U’wa, Bogotá avrebbe infatti autorizzato la costruzione di stazioni di servizio nella loro riserva senza consultarli, così come di oleodotti che vengono spesso sabotati da ribelli armati facendo fuoriuscire il greggio nei fiumi e nei torrenti locali. Oltre a mettere a repentaglio la loro stessa esistenza, i progetti fossili violano poi la convinzione del gruppo etnico che la natura sia sacra e che si debba mantenere un equilibrio tra terra, acqua, petrolio, montagne e cielo: «il petrolio è il sangue della Madre Terra e aiuta a mantenere l’equilibrio della natura – ha dichiarato Javier Villamizar Corona, membro e rappresentante legale della comunità U’wa – sfruttare il petrolio significa violare i principi fondamentali della natura».
E come se non bastasse, le attività fossili non rappresentano l’unico smacco ai danni della comunità. Alla base vi sarebbe infatti un mancato riconoscimento, da parte dello Stato, delle terre da sempre appartenute alla comunità. Gli U’wa, in particolare, sostengono che le riserve a loro riconosciute dal Paese comprendono appena un quarto dell’effettivo territorio ancestrale del gruppo, come dimostrato dai titoli coloniali che precedono l’esistenza della Repubblica di Colombia. Poiché il governo nazionale non è mai corso ai ripari, gli U’wa sperano ora che la Corte interamericana dei diritti umani intervenga, costringendo la Colombia a riconoscere le terre che abitano da secoli, nonché a offrire un risarcimento per i danni causati nel tempo al loro ambiente. Per gli indigeni U’wa, l’essere stati ascoltati è già una vittoria, ma un’eventuale sentenza a loro favore avrebbe del rivoluzionario. Ad oggi, non è ancora noto sul quando la Corte si pronuncerà.
[di Simone Valeri]