venerdì 22 Novembre 2024

Perché raccontare vuol dire vivere

“Il treno si allontanò lungo il binario, scomparendo alla vista dietro la collina dai tronchi bruciati. Nick sedeva sul fagotto della tenda e delle coperte che l’uomo del bagagliaio gli aveva calato giù dallo sportello. Non c’era paese, c’erano soltanto i binari e la campagna bruciata”. A qualcuno questo Nick di Il gran fiume dai due cuori di Hemingway, 1925, ricorderà Nick mano fredda, il film con Paul Newman del 1967, anche questo associato a dei binari e a un riscatto di valori, in Hemingway dopo la guerra, nel Nick del film durante i lavori forzati. Il treno, anzi i binari, metafore potenti di orizzonti che vanno ancora esplorati ma che ti mettono già alla prova.

A noi, lettori o spettatori, tocca seguire storie che si concatenano nell’immaginario, che si generano in quella speciale solitudine avventurosa in cui ci raccontiamo cosa ci è successo nella vita. Se non siamo scrittori o registi, almeno diventiamo produttori di memorie. Il Nick del racconto di Hemingway si fermerà in una radura, metterà la tenda e allora finalmente his mind was starting to work (la sua mente stava iniziando a lavorare), quindi si aprirà il racconto come fantasia di futuro che la mente al lavoro vorrà proiettare. Esattamente questo: fantasia di futuro, cioè riuscire a costruire ipotesi che ci rendano creativi, giornalisti della nostra vita, reporter di letture altrui e di vicende nostre che si fondono prodigiosamente nei mondi possibili che vogliamo escogitare. Leggere è mettersi allo specchio, esorcizzare quella mancanza di immaginazione che, secondo Borges, porta a diventare crudeli. E allora non temiamo le vertigini anche se, come Borges osservava tragicamente ne La biblioteca di Babele, gli specchi moltiplicano il numero degli uomini. Ma così accade anche alla scrittura romanzesca e cinematografica che mette al mondo persone che magari altrimenti non esisterebbero o non avrebbero ragione di esistere. Egualmente i sogni che duplicano all’infinito entità note o ignote a chi sogna, attribuendo loro un transitorio diritto di stare al mondo, e il cui senso può essere sempre frainteso.

Qualcosa del genere ci accade quando, da turisti, incontriamo luoghi e personaggi di altri tempi che rinascono grazie alla nostra visita e magari grazie alle parole di una guida che ce li spiega. Cees Nooteboom compone un diario funambolico e insieme realistico di un viaggio in Spagna, in varie tappe (Verso Santiago, ed.it. Iperborea), e quando si trova nell’immensa barocca Granja di San Ildefonso, sede di Filippo V di Spagna, immagina un viaggio nel tempo, in un domani in cui i monumenti e i simboli che ancora dicono qualcosa, si disperderanno come in un film di fantascienza. “La guida spiegherà che cosa significa re, imperatore, pregare, inginocchiarsi, colonna dorica, il vello d’oro, e sembrerà un racconto relativi a una mitica preistoria di cui i turisti che ora si trovano ancora nel mondo di là da venire rimpiangeranno le meraviglie di un tempo, quando le persone vestivano d’oro e credevano negli dei” (p. 163). È il tempo il massimo narratore, alleato inevitabile del linguaggio, e soprattutto del linguaggio poetico, immaginifico. Come ricordava Bruce Chatwin citando Giambattista Vico, “il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fossero quelle persone vive” (Le vie dei canti, trad.it. Adelphi 1988, p. 357).

I bambini che parlano ai loro giocattoli sono come i burattinai che danno voce alle loro creature, sono come le attrici che mimano il coro di una tragedia greca o gli attori che ogni sera diventano qualcun altro, maschere transitorie di storie che si ripetono.

Ogni arte di parola ha dunque a che fare con l’anima, dunque con quella richiesta di senso che ci viene da profondità remote ma anche semplicemente dall’incontro con persone con cui ci raccontiamo qualcosa. Raccontare consiste infatti in un atto di generosa libertà e disponibilità, non è necessariamente effetto di professionalità. Le fiabe di tutto il mondo non esisterebbero se gli anziani del villaggio, poi le mamme, i papà e chissà ancora chi, non avessero avuto il gusto di vivere su una nuova dimensione con i loro piccoli e le loro piccole che li ascoltavano. Chi narra è inevitabilmente dalle parti di Peter Pan, di Pinocchio, di Biancaneve. In un film di Shrek tutti gli eroi fiabeschi si ritrovano accomunati in uno speciale mondo utopistico dove la realtà non esiste più ma esiste soltanto il racconto, senza confini. Dove il mito prende la parola e diventa logos, dove le leggi immutabili dei tempi mutabili si esprimono attraverso formule, parole magiche o spirituali, sentenze o preghiere, invocazioni o maledizioni, suppliche o esorcismi, consigli o precetti. La realtà e il racconto però per fortuna non si identificano mai. C’è sempre, ci sono sempre margini di verità, di imprevisti, di rivelazioni, di sorprese, di promesse, di sogni inesplorati che reclamano necessità di nuove esperienze.

Il mondo non è del tutto scritto. C’è sempre bisogno di nuove persone vere che ritrovino nuovi sensi nelle parole già dette, che si trasformano in attori e ascoltatori di un dialogo ininterrotto, di uno spettacolo illimitato, ancora in parte da vivere e da immaginare.

[di Gian Paolo Caprettini]

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