Riduci-Riusa-Ricicla è il primo comandamento anti-spreco del sistema tessile (e di tutte le economie circolari in generale). Queste tre “R” non sono messe in ordine casuale: per ridimensionare i rifiuti e la prima mossa da fare è quella di ridurre sia le produzioni sia i consumi (azione che stenta a entrare nelle agende delle grandi aziende); in secondo luogo utilizzare fino allo sfinimento quello che c’è già e, solo come ultima spiaggia, riciclare. Non perché questa pratica sia malvagia, ma semplicemente perché, rispetto alle prime due, è comunque un’attività che implica l’uso di altre risorse e che ha bisogno di un sistema funzionante per essere obiettivamente efficiente ed efficace.
Il riciclaggio degli indumenti aiuta a ridurre la quantità di rifiuti tessili, le emissioni di gas serra e, almeno in parte, il consumo di risorse vergini per produrre nuovi capi. Eppure, problemi legati all’ottimizzazione dei sistemi di recupero degli scarti, la necessità di mescolare le fibre riciclate con quelle vergini per garantirne le prestazioni e la difficoltà nel riciclaggio di fibre miste (di cui sono composte il 90% dei capi in circolazione), stanno rendendo questa transizione ancora lenta e macchinosa. Ma ci sono anche buone notizie in vista.
I processi di riciclo
Il riciclo è un processo durante il quale i materiali, una volta giunti alla fine della loro vita, sono recuperati e rimessi in gioco. É una storia vecchia questa, soprattutto nel nostro Paese, che durante i due conflitti mondiali si è trovata costretta a riciclare le materie prime presenti perché impossibile importarle. Nel distretto di Prato, per esempio, l’industria del riciclo dei panni di lana (la così detta industria degli stracci per opera dei “cenciaioli”) vanta una storia secolare. Qui, con procedimento meccanico, senza l’impiego di sostanze chimiche, sono realizzati tessuti ottenuti dal riciclo di vecchi capi di lana o cotone (rifiuti post-consumo, ovvero i vestiti che non mettiamo più) ed anche da spazzatura pre-consumo (gli scarti e i ritagli della produzione). In pratica i capi vengono prima smontati, separando accessori come zip e bottoni, poi scuciti e poi trasformati in stracci. In seguito sono suddivisi secondo la composizione fibrosa e divisi in lotti per colore (per evitare la tintura, operazione che è fatta manualmente); poi passano in una macchina che tecnicamente li sfilaccia riportandoli alla forma del fiocco (fibra) originario. Da qui possono essere ri-lavorate per essere trasformate in filato e poi in tessuto, spesso con l’aggiunta di fibre vergini per garantire resistenza e qualità; oppure destinando i materiali all’edilizia o al riempimento di asfalti (downcycling*, il riciclaggio di qualcosa in un materiale con un valore o una qualità inferiore rispetto all’oggetto originale).
Per quanto riguarda il poliestere, si può optare per il riciclo meccanico o chimico. Il processo meccanico consiste nel prendere una bottiglia di plastica, lavarla, triturarla e poi trasformarla di nuovo in un chip di poliestere, per poi seguire il percorso tradizionale di produzione della fibra. Il riciclaggio chimico, invece, parte da un prodotto di plastica di scarto e lo riporta ai suoi monomeri originali. Questo termine si riferisce a una pluralità di tecnologie quali la glicolisi, l’idrolisi, ammonolisi, aminolisi e idrogenazione. In generale si tratta di una metodologia che usa la dissoluzione chimica o reazioni chimiche per disassemblare le fibre usate, estrarre i polimeri e rifilarli per nuovi usi o nel riciclaggio dei monomeri. A oggi, la maggior parte delle fibre in poliestere riciclato, viene da materie plastiche come il PET oppure tappeti di nylon o vecchie reti da pesca, manipolate attraverso il riciclaggio meccanico, decisamente più economico e che non richiede prodotti chimici che non siano i detergenti per pulire i materiali in ingresso.
Il riciclo del poliestere da tessuto-a-tessuto è una pratica notevolmente più complicata, sulla quale si stanno investendo sempre più risorse; questo perché permetterebbe di gestire articoli formati da fibre miste e smettere di utilizzare il PET proveniente dagli imballaggi. Consiste in un processo di depolimerizzazione dei rifiuti in monomeri, mediante l’uso di sostanze e reazioni chimiche in grado di scomporre il materiale, sciogliendolo. I coloranti, gli altri materiali o le impurità sono eliminati attraverso l’impiego di altre tecnologie che consentono di avere prodotti finali puliti, di qualità molto simile a quella del materiale vergine.
Separazione cotone/poliestere: possibile?
Uno dei più grandi limiti del riciclo tessile è quello legato alle fibre miste (non 100% di un singolo materiale), presenti nella grande maggioranza dei capi (N.B. la questione qui è puramente economica: mescolare fibre naturali con poliestere o fibre artificiali abbatte notevolmente i costi). Liberare il cotone dal suo intreccio con il poliestere sembrava impossibile. Fino a che dei giovani ricercatori del dipartimento di chimica dell’Università di Copenaghen non hanno iniziato a sperimentare metodi per sciogliere il poliestere e “salvare” contemporaneamente le fibre di cotone. Si tratta di un processo di glicolisi catalitica con bicarbonato di ammonio (NH 4 HCO 3), che si decompone in ammoniaca, anidride carbonica e acqua. Ammoniaca e CO2 (che in questa combinazione pare perda la sua tossicità, diventando sicura) insieme, funzionano da catalizzatore, scomponendo il poliestere ma preservando le fibre di cotone. Anche in questo caso il tessuto è stato ridotto in piccoli pezzi, messo a bagno in questa soluzione e portato a una temperatura di 160°; dopo circa 24 ore si è potuto osservare il liquido ottenuto, dove fibre di plastica e quelle di cotone si sono depositate in strati distinti, permettendone il recupero. Il tutto è ancora in via sperimentale, ma la semplicità e i costi contenuti fanno ben sperare.
Affinare e investire in tecnologie per il riciclo è uno sforzo utile. Ancora più utile sarebbe smaltire il problema all’origine: riducendo i volumi delle produzioni (incrementandone la qualità e i criteri di circolarità) e allontanando il più possibile il momento in cui un capo diventa un rifiuto (buttare meno, usare di più).
[di Marina Morgatta]