A 86 anni, Amoim Aruká, l’ultimo discendente maschio del popolo indigeno Juma, è deceduto dopo aver contratto il coronavirus. A metà gennaio, i primi sintomi. Successivamente il ricovero presso l’ospedale di Humaitá. Infine, trasferito in terapia intensiva nella struttura di Porto Velho dove però si è spento il 17 febbraio. A nulla è servito quindi lo sforzo congiunto di indigeni, enti pubblici ed organizzazioni non governative. Con la sua morte termina per sempre la storia di un popolo indigeno. Rabbia e dolore da parte delle associazioni dell’Amazzonia brasiliana. Aruká lascia tre figlie, uniche sopravvissute a una serie di massacri che nel corso del tempo hanno annullato un intero popolo.
All’inizio del XX secolo, il popolo Juma contava circa 15mila persone. Nel 2002, a causa di genocidi perpetrati nel tempo e mancanza di tutela, ne rimasero solo cinque. Nel 2020, poi, è arrivata la pandemia. I popoli indigeni, particolarmente vulnerabili all’emergenza, ne hanno subito le più gravi conseguenze. Solo nel bacino dell’Amazzonia, secondo gli ultimi dati, sono stati accertati oltre 1 milione e mezzo di casi e un totale di 42mila morti. Il metodo più efficace per proteggerli sarebbe l’istituzione di una barriera sanitaria. Questa la proposta sostenuta dal Coiab e dall’Unione dei popoli indigeni del Brasile (Apib). Una soluzione per cui però il governo si è dimostrato – denunciano le associazioni – “assente e incompetente”.