In un’udienza storica, le piccole nazioni insulari colpite in modo sproporzionato dalla crisi climatica hanno in un certo senso affrontato i Paesi che rilasciano più emissioni di gas serra. Un caso di giustizia climatica unico nel suo genere che ha avuto luogo presso il tribunale di Amburgo, in Germania. Le nazioni ricorrenti – tra cui Bahamas, Tuvalu, Vanuatu, Antigua e Barbuda – nel dettaglio, hanno chiesto al Tribunale internazionale per il diritto del mare di stabilire se le emissioni di anidride carbonica assorbite dall’ambiente marino possano essere considerate inquinamento. Essendo uno dei maggiori serbatoi di carbonio del pianeta, l’oceano assorbe infatti il 25% delle emissioni di anidride carbonica, cattura il 90% del calore generato da tali emissioni e produce metà dell’ossigeno mondiale. Tuttavia, l’anidride carbonica in eccesso prodotta dalle attività industriali ha già causato non pochi squilibri, tra cui un’elevata acidificazione delle acque e il conseguente impatto negativo sulla biodiversità marina.
Le piccole nazioni insulari, riunite nella Commissione dei piccoli Stati insulari sul cambiamento climatico e il diritto internazionale, sono quindi alla ricerca di un parere consultivo. In pratica, se il rilascio di gas serra, nel caso degli oceani, venisse riconosciuto come forma di inquinamento, allora sarebbe più facile obbligare giuridicamente gli stati altamente emissivi ad agire contro i cambiamenti climatici. Anche se non vincolante, il parere della corte potrebbe poi indicare nuove misure da adottare per limitare il riscaldamento globale, nonché potrebbe essere usato in altre sedi internazionali per favorire l’azione climatica. Ad ogni modo, stando alla convenzione ONU sul diritto del mare, gli stati hanno il vincolo di tutelare gli oceani dall’inquinamento. Quindi, se la richiesta delle piccole isole venisse accolta, i nuovi obblighi dovranno necessariamente includere la riduzione delle emissioni di carbonio e la protezione degli ambienti marini già danneggiati dalla troppa CO2.
Di riflesso, le nuove misure si spera contribuiranno anche a proteggere direttamente proprio questi piccoli Stati insulari dal già drammatico innalzamento del livello del mare e altri fenomeni estremi connessi ai cambiamenti climatici. «Il livello del mare si sta alzando rapidamente e minaccia di far sprofondare le nostre terre sotto l’oceano – ha dichiarato in una nota, Kausea Natano, primo ministro del piccolo stato oceanico di Tuvalu – gli eventi meteorologici estremi, che crescono in numero e intensità ogni anno che passa, stanno poi uccidendo la nostra gente e distruggendo le nostre infrastrutture. Interi ecosistemi marini e costieri stanno morendo in acque che stanno diventando sempre più calde e acide». Per questi motivi, insomma, è stato aperto il caso ad Amburgo, il quale fa tra l’altro parte di una campagna più ampia finalizzata proprio a collezionare sentenze da diversi tribunali internazionali. L’obiettivo è chiarire quali sono gli obblighi per gli stati di fronte all’accelerazione della crisi climatica, partendo dal presupposto che c’è chi ha da sempre emesso grandi quantità di gas serra e chi, pur avendo contribuito meno, sta invece pagando il conto più caro.
Ad esempio, ormai un anno fa, il piccolo stato insulare di Vanuatu è stato il primo Paese al mondo ad aver richiesto ufficialmente un trattato di non proliferazione delle fonti fossili climalteranti. La proposta è stata presentata all’assemblea generale dell’ONU di New York da parte di quello che è anche non a caso uno dei paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico. Inoltre, sempre nelle sedi delle Nazioni Unite, qualche mese fa, il piccolo Stato insulare situato nell’Oceano Pacifico ha anche già portato a casa una vittoria a tratti storica. La nazione oceanica, particolarmente sotto pressione a causa dell’innalzamento del livello dei mari, aveva infatti chiesto di allargare il mandato della Corte internazionale di giustizia anche ai casi legati alla crisi climatica. La risoluzione proposta da Vanuatu, in quanto sostenuta da altri 120 paesi, è stata approvata per consenso. Così, da marzo scorso, la Corte internazionale di giustizia deve esprimersi anche sulle modalità con cui gli stati dovrebbero agire contro i cambiamenti climatici e, se le loro azioni dovessero risultare carenti, stabilire le conseguenze legali a cui potrebbero andare incontro.
[di Simone Valeri]
Ma poi da quando il cambiamento climatico è diventato crisi climatica?
Ovviamente la non proliferazione delle fonti clima alteranti dovrà essere compatibile col mantenimento in vita di otto Miliardi di esseri umani in crescita e qui sorge il problema perché senza innovazione scientifica, ma semplice ritorno alle fonti naturali come nel Medio Evo famoso per mulini a vento e per riscaldamento a legna sic. che il Sole già non bastava, c’è n’è appena per mezzo miliardo, gli altri li manderanno tutti ad Auschwitz?
Per come la vedo, le politiche energetiche e di utilizzo dell’energia verso cui si sta andando, non sono sostenibili in un mondo con 9 miliardi di persone.
Ergo in termini pratici: o abbatteranno la popolazione mondiale, o abbatteranno l’accesso a tutto ciò che oggi diventerà servizio e quindi disuguaglianza a livelli altissimi e chissà quanto tollerabili.
E’ esattamente questo il punto; il punto che nessun politico osa dire, e tantomeno affrontare. E’ questa la ragione per cui discutere contrapponendosi solo su auto elettrica si/no, fonti di energia fossili si/no, è del tutto privo di senso. Se la scelta di riduzione dei consumi energetici sarà imposta dai Governi, per legge, non potrà che essere autoritaria. Se imboccheremo questa strada per scelta consapevole, volontaria e condivisa, forse potremo fare qualcosa. Ma la vedo dura…