Nella serata di ieri il governo Meloni ha approvato, in sede di Consiglio dei ministri, un nuovo pacchetto di misure per contrastare l’impennata di sbarchi cui il nostro Paese si trova a far fronte in questi giorni. L’unica misura cui l’esecutivo è riuscito a pensare, tuttavia, è stato il dilatamento dei tempi di detenzione dei migranti nei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), portato da 3 mesi a 18. L’efficacia del sistema dei CPR, tuttavia, è messa in dubbio da tempo: non solo dalle associazioni per la tutela dei migranti e dalla società civile, che più volte hanno denunciato (e mostrato, con abbondanza di materiale documentale) come i CPR siano spazi dove i diritti umani sono sistematicamente calpestati, ma dai numeri stessi. Nel 2021, infatti, il tasso di rimpatrio dei destinatari di provvedimento di espulsione è stato di appena il 49%, una media in linea con l’andamento del decennio precedente. Il governo ha inoltre previsto l’approvazione di un piano per la costruzione di nuovi CPR, “da realizzare in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili”, persistendo dunque nell’adottare un approccio securitario, quando è ormai palese che questo risulti fallimentare nella gestione dell’intero fenomeno migratorio.
I CPR sono centri funzionali “alle procedure di identificazione e a quelle successive di espulsione e rimpatrio”, cui sono soggetti i migranti giunti irregolarmente sul suolo italiano che “non fanno richiesta di protezione internazionale” o “non ne hanno i requisiti necessari”. Ciò significa che i migranti dovrebbero sostare al loro interno per il tempo sufficiente a essere identificati ed espulsi. Secondo ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), “Il tasso di rimpatri non varia al variare della durata massima del trattenimento e se il rimpatrio non avviene durante il primo mese di trattenimento, le possibilità che si verifichi dopo sono estremamente scarse”. Di fatto, a partire dalla loro istituzione (con la cosiddetta legge Turco-Napolitano, la n. 40 del 6 marzo 1998), il periodo di permanenza all’interno dei CPR è variato quasi ad ogni cambio di governo. Inizialmente la detenzione amministrativa poteva avere durata massima di 30 giorni, estesi poi a 60 e a 180, fino ad arrivare ai 18 mesi, sotto l’esecutivo Berlusconi (dl 89 del 23 giugno 2011). Come mostrato dall’analisi del Garante nazionale delle persone private di libertà personale, la durata della detenzione non influisce sul numero dei rimpatri, il cui tasso si attesta intorno al 50%. In poche parole, a prescindere da quanto tempo passino nel CPR, solamente la metà dei detenuti viene rimpatriata. L’efficacia del trattenimento non dipende dunque dalla durata in sé, ma segue un “andamento proprio”, che si basa su fattori quali, per esempio, l’efficacia della cooperazione con i Paesi di provenienza degli stranieri trattenuti (da qui l’importanza degli accordi con Paesi specifici).
Nel 2021, oltre la metà (54,5%) dei detenuti nei CPR erano persone di nazionalità tunisina, cui seguivano l’Egitto e il Marocco. In generale, il 75% dei detenuti all’interno dei CPR proviene dal Nord Africa. Sempre nel 2021, il tasso di soggetti effettivamente rimpatriati è stato del 48,9%, mentre per il 31,5% dei casi l’autorità giudiziaria non ha confermato l’arresto. Nel corso di questo stesso anno, due persone si sono suicidate durante il periodo di permanenza: Moussa Balde, di 23 anni, suicidatosi all’interno del CPR di Torino, e un ragazzo di origine marocchina, che si è tolto la vita nel CPR di Gradisca d’Isonzo. A questi due decessi va aggiunta la morte di Wissem Abdel Latif, 26enne di origini tunisine, sulla cui morte non è ancora stata fatta chiarezza. Già da questi pochi dati è facile evincere come il sistema dei CPR sia estremamente traballante, soprattutto se si tiene conto dei costi di gestione delle strutture. Un report di CILD (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili) spiega come, per il periodo 2018-2021, la spesa sostenuta dai soggetti privati che gestiscono le 10 strutture attive in Italia è stato di 44 milioni di euro, a fronte di una media di appena 400 persone detenute. Per il periodo 2021-2023 la spesa si aggira intorno ai 56 milioni di euro, costi di manutenzione delle strutture e delle personale di polizia esclusi. Si tratta, scrive il CILD, di “cifre che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni, interessi economici di grandi multinazionali e cooperative”. L’apertura di nuovi centri, con il conseguente aumento dei costi, non farà che aumentare la pressione economica sui contribuenti, spesa che, si può facilmente supporre, non aumenterà l’efficacia dei CPR né rallenterà la pressione migratoria sulle nostre coste.
Il tutto escludendo le gravi violazioni dei diritti umani che avvengono all’interno di queste strutture, dove le persone sono rinchiuse per un mero reato di natura amministrativa. Aspetto, anche questo, di evidente poco interesse per le istituzioni al governo.
[di Valeria Casolaro]
Consiglio di guardare un’intervista recente a Marco Rizzo, non so da che canale venga ma gira su internet, sul tema della gestione degli immigrati e la “collaborazione” dell’Europa o dei paesi d’origine; molto saggia e condivisibile, per me.