sabato 23 Novembre 2024

Cassazione: i giudici possono modificare i contratti che non garantiscono una vita “dignitosa”

Mentre imperversa la battaglia politica sul “salario minimo” e il governo attende le proposte del Cnel per il contrasto alla povertà lavorativa, con una sentenza dirompente la Cassazione ha sancito che i giudici possono disapplicare i contratti collettivi nazionali che prevedano minimi non “proporzionati alla quantità e qualità del lavoro” e “sufficienti ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, arrivando persino a fissare una cifra che risulti adeguata: un “salario minimo Costituzionale”.

La decisione della Cassazione, dunque, smorza la centralità della contrattazione collettiva, “che non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale” nell’individuazione del livello della retribuzione. La Corte indica ai giudici i parametri su cui calibrare la loro decisione: uno stipendio “giusto” deve essere proiettato a “una vita libera e dignitosa e non solo non povera” e, per individuare la somma, occorre basarsi sui contratti collettivi di settori affini. Il limite minimo inderogabile deve essere inquadrato nella soglia di povertà calcolata dall’Istat, ma la Cassazione si spinge oltre, affermando che “l’attuazione del precetto del giusto salario costituzionale” deve essere effettuata “considerando anche le indicazioni sovranazionali e quelle provenienti dall’Unione Europea e dall’ordinamento internazionale”.

La sentenza 27711/23 della Cassazione scaturisce dalla causa intentata da un dipendente che svolge l’attività di vigilante presso un Carrefour alla cooperativa per cui lavora. L’uomo si era rivolto a un tribunale per chiedere un aumento di stipendio al fine di ottenere una cifra che fosse rispettosa dell’art. 36 della Costituzione: guadagnava solo 830 euro lordi al mese per un lavoro full time (il contratto collettivo nazionale di lavoro della vigilanza privata, infatti, è noto per contemplare le paghe più basse dell’intero universo dei contratti collettivi italiani). Il giudice di primo grado gli aveva dato ragione, sancendo che la sua paga dovesse essere integrata. In appello, invece, si era stabilito che la sua retribuzione non fosse irregolare, poiché rispettava il Ccnl. La Cassazione, però, ha ribaltato il verdetto.

La Cassazione ha sottolineato che l’intervento giudiziale può concernere non soltanto il diritto del lavoratore di richiamare in sede di determinazione del salario il Ccnl della categoria nazionale di appartenenza, “ma anche il diritto di uscire dal salario contrattuale della categoria di pertinenza”, poiché, “per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento”.

Soddisfazione è stata espressa dalle opposizioni, che quest’estate hanno depositato una proposta di legge per un salario minimo di 9 euro lordi all’ora in Parlamento. Riferendosi alla pronuncia della Cassazione, hanno parlato di una sentenza “storica”, intestandosene, di fatto, la bandiera. Ciò che è certo, però, è che il diritto a un “giusto salario” è cosa ben diversa dall’individuazione di un “salario minimo”, che non sempre è sinonimo di liberazione dal lavoro povero. La previsione di un importo così modesto, infatti, sposterebbe ben poco gli equilibri: basti pensare che, nel nostro Paese, l’80% delle lavoratrici e dei lavoratori è coperto da contrattazione collettiva con un salario superiore rispetto a quello ipotizzato. Su tale platea, la norma non produrrebbe sostanzialmente nessun effetto, mentre rimarrebbero irrisolti i veri problemi di fondo: la mancanza di diritti politici e sindacali della comunità del lavoro e il dramma della disoccupazione, frutto delle misere condizioni del mercato del lavoro, in cui domanda e offerta si incrociano sempre meno.

[di Stefano Baudino]

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