giovedì 21 Novembre 2024

Meta vuole batter cassa sui diritti che spetterebbero per legge agli utenti UE

Il regolamento generale sulla protezione dei dati europeo (GDPR) è divenuto operativo il 25 maggio del 2018 e il suo avvento ha condizionato una terra digitale che altrimenti era caotica e brulla. Non tutti hanno però digerito il pacchetto di imposizioni. Piuttosto che aderire alle nuove leggi, Meta si è imbarcata in un processo giudiziario fatto di infiniti appelli attraverso il quale è riuscita a portare lungamente avanti strategie commerciali illegali. Vedendo poche vie d’uscita da questo impasse, la Big Tech starebbe ora valutando una soluzione estrema con cui circumnavigare i fastidi attribuibili al GDPR: introdurre un sistema di abbonamento sui suoi social network.

Facciamo un passo indietro: Meta, così come una fetta sostanziale di imprese del web, trae buona parte dei suoi profitti dalla raccolta capillare dei dati utente. Tanto più le informazioni accumulate sono dettagliate, tanto più è definita la profilazione degli iscritti. Il tesoretto voyeuristico fa a sua volta felice gli inserzionisti, i quali sono disposti a pagare somme generose perché le loro pubblicità raggiungano persone particolarmente predisposte ad acquistare i loro prodotti. Stando all’ultimo report finanziario di Meta, il 98,4% dei ricavi dell’azienda derivano dalle pubblicità, il che rende immediatamente comprensibile perché i dirigenti siano pronti a fare carte false pur di mantenere lo status quo: con simili percentuali, basterebbe anche una minima revisione del modello di monetizzazione per scatenare un tracollo in Borsa. 

Per anni, la Big Tech ha vissuto i suoi abusi con una certa serenità poiché era ben consapevole che le indagini sulle sue malefatte spettavano al Paese europeo in cui aveva registrato la sua sede amministrativa, l’Irlanda. Che fosse rallentato da un evidente conflitto di interessi o da un’inadeguatezza cronica, il legislatore locale si è dimostrato per anni inefficiente, goffo ed estremamente accomodante nei confronti delle imprese d’oltreoceano. Più recentemente il ritmo è però cambiato. L’UE, stufatasi della mollezza irlandese, è intervenuta per obbligare il regolatore responsabile a imporre a Meta una multa da 1,2 miliardi di euro. L’Irlanda si è sottomessa all’imposizione, tuttavia ha tenuto a specificare che, fosse stato per lei, non avrebbe puntato su sanzioni tanto salate. Per evitare che situazioni simili si ripetano, i tecnici europei si sono messi quindi all’opera per assicurarsi che la vigilanza nei confronti delle Big Tech sia intavolata a livello sovranazionale, il che ha complicato non poco la vita al CEO di Meta, Mark Zuckerberg.

Secondo il GDPR, gli internauti devono infatti essere liberi di poter scegliere se cedere o meno i propri dati personali ai fini pubblicitari e le aziende non hanno il diritto di bloccare l’accesso ai servizi a coloro che si rifiutano di cedere in toto le proprie informazioni. In tal senso, molti preferiscono rivelare il meno possibile alle multinazionali, una tendenza che però affossa immancabilmente il valore attribuito ai loro profili. Secondo fonti della CNN e del The Wall Street Journal, prospettandosi un futuro in accordanza con la legittimità, Meta ha dunque partorito uno stratagemma mefistofelico per forzare gli utenti a piegarsi alle sue volontà: una retta mensile che va dai 14 ai 17 dollari.

Si tratta della dinamica nota come pay or okay, anglicismo traducibile come “paga o accetta le condizioni di trattamento dei dati”. Il modello è stato lanciato in Europa dal giornale austriaco Der Standard, il quale ha deciso nel 2018 di concedere l’accesso al suo portale solamente agli abbonati o a coloro che hanno scelto “liberamente” di condividere con gli inserzionisti della testata i propri dati. L’idea, per quanto controversa, si è presto diffusa in gran parte delle redazioni. Visto che il giornalismo sta vivendo un lunghissimo periodo di crisi, l’escamotage è stato tutto sommato tollerato dai tecnici dell’UE, i quali han deciso che una simile soluzione sia sopportabile almeno fintanto che il costo dell’abbonamento sia caratterizzato da unadeguato corrispettivo. L’applicazione del GDPR non fa però distinzione tra i vari media, i social valgono tanto quanto le redazioni giornalistiche, quindi Meta mantiene gli stessi diritti di un qualsiasi quotidiano nazionale.

Difficile credere che la Big Tech si aspetti davvero che le persone siano disposte a pagare cifre simili per finanziare ciò che è sempre stato percepito come gratuito, molto più probabilmente l’abbonamento ha una funzione coercitiva, serve a sollecitare cedevolezza in un pubblico di massa che è ancora oggi digitalmente illetterato. Zuckerberg deve d’altronde fare i conti col fatto che la crescita infinita – miraggio per eccellenza del sistema finanziario neoliberista – non sia sostenibile. Per ampliare il proprio bacino di utenti, Meta ha già gettato cavi sottomarini per raggiungere gli abitanti delle nazioni tecnologicamente più arretrate e ha istruito i leader nazionali perché capissero come meglio adoperare Facebook per veicolare i loro messaggi politici, tuttavia i social del brand hanno ormai raggiunto la loro massima espansione, quindi si dimostra necessario trovare nuovi percorsi di sviluppo. E ormai Zuckerberg si è rassegnato all’idea che il metaverso non rappresenti la soluzione definitiva a questo suo problema.

Quando costrette in questo cul de sac, le aziende digitali tendono tutte ad adottare una strategia simile, quello di peggiorare le proprie offerte al fine di offrire prontamente soluzioni con cui ricavare introiti su vasta scala. Che si tratti di servizi video, streaming di musica, videogiochi, piattaforme di monetizzazione o motori di ricerca, i grandi del settore informatico hanno la tendenza a creare inconvenienti artificiali al fine di costringere gli utenti a condizioni tanto scomode, quanto remunerative per gli investitori. Non c’è motivo di credere che i piani di Meta non rientrino a loro volta in questo schema.

[di Walter Ferri]

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