Cessate d’uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.
Hanno l’impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell’erba,
Lieta dove non passa l’uomo.
C’è un silenzio, quello della pace, e c’è un altro silenzio, quello che si presenta quando non cadono più le bombe e si deve vedere che cosa è successo, chi è stato colpito, chi è morto. Due silenzi, due distinte ragioni per allontanarsi, per fare a meno dell’odio, per ritrovarsi vittime e persone, viventi, innocenti o colpevoli, ignari o consapevoli non importa. Un tempo sospeso quando l’urto del male sembra placarsi.
Ungaretti lo sa e lo fa capire, ancora in piena guerra. I morti hanno diritto al silenzio, al pianto, alla meditazione caotica e travolgente che sopravviene in chi si chiede chi sono stati, chi erano davvero per noi, in mezzo a noi viventi che intoniamo canti, urla, preghiere coperti dalla polvere.
Viviamo, ho detto ‘noi’ ma in realtà noi che ne siamo lontani viviamo con difficoltà questo silenzio della desolazione. Possiamo essere partecipi o assenti, in collera con questa storia assassina o rassegnati al peggio che da qualche parte deve pur colpire.
Ma questo è in ogni caso un silenzio della pietà che deve consentire allo strappo della morte di trovare un suo tempo, una sua durata, al di là del fatto in sé. Nulla capiamo della guerra finché non abbiamo nella realtà o nel ricordo un caduto o un superstite. Tutto questo finché i morti non cominceranno a farsi sentire nelle notti insonni di chi ha deciso le guerre. I morti che si faranno sentire anche a noi, apparentemente estranei, ogni volta che ci porremo qualche domanda.
C’è però anche un silenzio della vera pace, quella ostinata e tremante come una ragazzina coraggiosa, quella che suona come un diritto di chi fa una vita difficile, quella che chi governa con fatica sa quanto vale. Quella pace che è conquista di una terra desolata, frontiera calpestata che chiede ogni volta di rinascere.
“Dove non passa l’uomo”: dove i sentieri sono salvi dal calpestio, dall’urto del tempo e parlano della necessità di vivere come camminatori instancabili che non hanno paura dei cattivi incontri. Le parole del poeta sono davvero sussurri, voci lontane del sogno di un eterno ritorno, privo di cronologie, di età, di destini. Immemorabili perché perenni.
Vorrei ancora chiamare in causa un poeta e la sua consapevolezza visionaria, il suo urlo ritmato di un esserci come aspirazione umana. Evgenij Evtušensko: Per tutte le vittime, poesia che rivela quello spirito senza frontiere del poeta russo: “E divento un lungo grido silenzioso qui/ Sopra migliaia e migliaia di sepolti/ Io sono ogni vecchio/ Ucciso qui/ Io sono ogni bambino/ Ucciso qui/ Nulla di me potrà mai dimenticarlo”.
Con queste parole il poeta dedica al massacro della gola di Babi Yar dove nel settembre 1941 trovarono la morte trentatremila ebrei. Questo popolo ha tragicamente fornito al mondo il parametro orrendo di quel che può significare la radicalità programmatica e irriducibile della discriminazione e dell’odio. A questo proposito, dunque, per ogni forma di guerra che contenga l’espressione di un pregiudizio etnico non dovremmo mai dimenticare. E oggi dunque, se diciamo ‘Israele’, con eguale padronanza del vero dobbiamo dire ‘Palestina’.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Grazie. Fa bene trovare un momento di quiete anche nel dolore del nostro assurdo presente.