Nella riserva naturale del Madidi, nell’amazzonia boliviana a nord-est di La Paz, il saccheggio dell’oro è una piaga che sta consumando i tessuti sociali tanto quanto l’equilibrio di quello che è considerato essere l’ecosistema protetto più biodiverso dell’America Latina. Cominciò negli anni ‘70 e da allora, vista l’abbondanza e la qualità dell’oro, non ha smesso di crescere ed espandersi. Oggi le conseguenze sociali e ambientali dell’attività estrattiva hanno raggiunto livelli allarmanti soprattutto da quando imprese straniere, cinesi e colombiane, hanno cominciato a fornire macchinari e capitale, quindi ad appropriarsi di gran parte dei ricavi.
La risalita del Rio Beni e Rio Kaka fino al centro aurifero di Mayaya
Per capirne di più su come funziona quello che è conosciuto come l’inferno dell’oro boliviano, ho risalito il fiume Beni e Kaka, dove sono concentrate la maggior parte delle operazioni minerarie in mano agli imprenditori cinesi. Qui ha origine la contaminazione che sta causando danni irreparabili al parco del Madidi e alle sue comunità indigene, alcune delle quali non contattate.
Il viaggio di 12 ore su una peque, ovvero piccola imbarcazione di legno spinta da un motore vecchio e rumorosissimo, mi è reso possibile da Don Valentin, un signore sulla sessantina, membro della comunità indigena Tacana di San Miguel del Bala, che da anni lotta contro la devastazione del suo territorio. Partiamo da Rurrenabaque alle 6 del mattino, con le prime luci dell’alba. Il fiume Beni è correntoso e a tratti presenta ostacoli difficili da superare, come secche e tronchi. Tutt’intorno la foresta si fa sempre più densa e le montagne più impervie. Decine di uccelli dai colori e dai paesaggi più sorprendenti sorvolano la nostra canoa. Purtroppo il rumore assordante del motore impedisce di ascoltare i suoni della foresta vergine che ci circonda. I rami degli alberi si esprimono nello spazio con libertà artistica decorati dalle bromelie e le orchidee che su di loro si aggrappano. Lungo il fiume cominciamo ad incrociare imbarcazioni che viaggiano in direzione opposta alla nostra cariche di banane. Poi, sulle rive iniziamo a scorgere i primi accampamenti di minatori. Don Valentin mi spiega che sono gente delle comunità limitrofe che si guadagna da vivere estraendo oro artigianalmente e che non utilizzano sostanze contaminanti.
Ecco che inizia il rio Kaka, dove la maggior parte delle imprese cinesi operano. Non tardiamo molto ad incrociare la prima draga, ovvero una chiatta di ferro posizionata in mezzo al fiume e ancorata a riva con un grosso cavo metallico che con una pompa motorizzata e un tubo di circa mezzo metro di diametro risucchia la terra dal fondale per poi depositarla su un setaccio inclinato. Qui la terra viene lavata con dei getti d’acqua per separare i residui più fini dalle pietre più grosse. Quel che rimane è sabbia, all’interno della quale si trova l’oro. Per separare l’oro dalla sabbia più fina lo si fonde al mercurio che viene poi fatto evaporare cucinandolo in delle grosse pentole. Quando evapora, il mercurio, insieme ad altri metalli come l’arsenico e il piombo che vengono liberati durante il processo, viene trasportato dall’aria e si deposita nel suolo e nell’acqua, contaminandoli irrimediabilmente. Solo in Bolivia sono emesse ogni anno 228 tonnellate di mercurio nell’aria, il 70% delle quali deriva dal settore aurifero. Una volta separato, l’oro viene immagazzinato e mandato a terra, dove viene fuso e trasformato in lingotti. Questo processo non si ferma mai. Le draghe lavorano giorno e notte consumando enormi quantità di benzina, fornita illegalmente dai trafficanti in grossi barili
Man mano che risaliamo il fiume le draghe aumentano, e così i macchinari pesanti che a riva scavano enormi buchi accumulando i detriti ai margini del fiume, riducendo sempre di più la superficie navigabile. Questo è un altro processo di estrazione in cui la terra delle sponde del fiume viene raccolta con delle scavatrici e quindi lavata per estrarne l’oro. Prima di arrivare a Mayaya contiamo circa 30 draghe e innumerevoli scavatrici. La maggior parte espongono il nome dell’impresa Fengxiang o Tiankai, le altre sono anonime, quindi probabilmente non registrate.
Stipulando contratti bilaterali con le cooperative locali, che solo nel dipartimento di La Paz sono quasi 1000, le imprese straniere si aggiudicano l’accesso al territorio in cambio di un mero 20% del ricavato totale. Come riferitomi da Adolfo Loza, segretario generale della cooperativa Ferreco R.L., in questo modo tali imprese possono beneficiare del regime fiscale delle cooperative, che prevede una esenzione totale da tasse sui ricavi e tra l’1 e il 2.5% royalties minerarie, contro il 40% richiesto alle imprese registrate. In cambio, portano macchinari e materiali necessari all’estrazione intensiva dell’oro, che altrimenti le cooperative non potrebbero permettersi. Don Valentin mi spiega che tutte queste cooperative e imprese stanno operando in violazione dell’articolo 151 della Ley Mineria 535, che appunto vieta questo tipo di contratti. Tuttavia, tracciare queste imprese è molto difficile dal momento che si nascondono dietro nomi fasulli ed effettuano tutte le transazioni in denaro contante.
Arriviamo a Mayaya di sera e mi accoglie la scena di una donna che svuota un grosso bidone di rifiuti direttamente nel fiume. Valentin mi dice che è normale: nel villaggio non hanno un sistema di smaltimento, perciò tutti i comunari buttano i loro rifiuti nel fiume.
Di fatto Mayaya, prima dell’arrivo delle imprese, era poco più che un agglomerato di capanne. La rapida crescita economica che ha portato l’oro non è mai stata investita per sviluppare un sistema di gestione dei rifiuti. A Mayaya il clima è poco sereno, le facce poco amichevoli, le strade sporche e gli sguardi inquisitori mi pesano sulle spalle. Decine di suv blindati sfrecciano avanti e indietro per l’unica strada del villaggio. Abbondano anche i ristoranti cinesi e negozi di prodotti asiatici. Seduti su sedie di plastica i proprietari fumano sigarette una dietro l’altra.
Il mercurio semina morte
L’indomani mattina vengo invitato a prender parte alla riunione delle autorità locali con le cooperative aurifere del rio Kaka, per discutere il futuro dell’estrattivismo nella regione. Non mi sorprende che non ci siano lamentele sul fatto che l’oro non stia portando alcun tipo di beneficio sociale. Come riferitomi da Ruth Alipaz, leader indigena Uchupiamona, gran parte delle imprese opera senza licenza ambientale, evitando così controlli da parte delle autorità: sono circa il 67% delle 167 operazioni minerarie attive nella regione e l’85% delle cooperative boliviane. Queste, vendendo direttamente nel mercato nero l’oro estratto, non apportano alcun vantaggio economico alla regione.
Non mi sorprende nemmeno che nessuno parli di contaminazione da mercurio, il quale viene utilizzato in grandi quantità in tutta la Bolivia, che ad oggi ne è considerato il maggior importatore al mondo e che nel 2005 si aggiudicò il titolo di maggior emissore, con 133 tonnellate di questa sostanza disperse nell’ambiente. Nemmeno il sindaco, che durante un’intervista mi aveva confessato che sia le cooperative che le imprese illegali stanno contaminando irrimediabilmente il fiume con il mercurio, fa cenno alla problematica. Molti addirittura negano che il mercurio stia contaminando il fiume. «Siamo stanchi di essere dipinti come dei distruttori dell’ambiente, quando le nostre operazioni sono in regola con gli standard di sicurezza imposti dal governo» dichiara il direttore della cooperativa Ferreco, concludendo così la riunione e ricevendo sonori applausi.
Tuttavia, le comunità indigene del Madidi stanno soffrendo enormemente della contaminazione da mercurio. Alipaz mi racconta nella sua comunità varie donne si sono ammalate di tumore e che ci sono bambini con deficit dell’apprendimento. «Abbiamo sempre sospettato fosse per causa del mercurio, e uno studio condotto dall’università di Cartagena e il CEDIB ce l’ha confermato». In questo studio, di fatto, sono stati analizzati i livelli di mercurio presenti nel sangue di varie comunità indigene del Madidi, e i risultati sono stati spaventosi. Solo nel 2001, la maggior parte degli individui testati presentava livelli di mercurio 10 volte più alti a quelli permessi dall’OIM, ovvero di 1 parte per milione. Nel 2020, nella comunità Esse Ejja che abita le sponde del rio Beni, la media era di 7.5 ppm, con casi di 30 ppm e un caso di 100 ppm. A differenza di altre sostanze contaminanti, il mercurio una volta che entra nel corpo non è possibile espellerlo.
Visitando questa comunità mi rendo presto conto della tragicità dello scenario descritto da Ruth e dai dati dello studio. Al mio arrivo, il leader Lucho mi spiega che ci sono vari bambini con danni neurologici, danni alla vista e all’udito e deficit di apprendimento. Poi decide di portarmi a visitare una donna malata di tumore all’utero. Sta sdraiata per terra con delle mosche che le ronzano attorno. È pallida e magra. Nelle mani stringe un pulcino che accarezza di tanto in tanto. Nella penombra della stanza siedono altre donne che le fanno aria con una stuoia. Il caldo è torrido e dei bambini giocano in un angolo con la faccia tutta sporca di terra. Lucho mi racconta che non hanno soldi per curarla e l’unica cosa che possono permettersi sono antidolorifici e del paracetamolo.
Per un momento incrocio lo sguardo della donna, che accenna un sorriso. I suoi occhi però non smettono di trasmettere un misto di disgusto e paura. Mi viene in mente la frase che Ruth Alipaz mi ha detto durante un’intervista: «Ci stanno lasciando morire come animali.»
Una conseguenza dell’oro di cui si parla poco
«Li hai visti quegli annunci di ragazzine scomparse alla stazione dei bus? Molte sappiamo che finiscono nei postriboli dei centri minerari» mi dice Jimena Mercado, giornalista da anni porta avanti investigazioni per far luce sul traffico di adolescenti nelle zone aurifere. Mi spiega che ogni centro minerario ha la sua via della perdizione, ovvero una strada dove pullulano postriboli e bar dove le cameriere poco vestite non hanno più di 15 anni e si offrono a prestazioni sessuali. Al centro medico del villaggio mi raccontano che spesso arrivano minorenni gravide non accompagnate, che probabilmente sono vittime della tratta.
La maggior parte vengono tratte in inganno con annunci di lavoro fasulli, e una volta giunte sul posto vengono costrette a prostituirsi con ricatti e minacce di morte. Sono tutte giovanissime, alcune arrivano dalle grandi città come Cochabamba, La Paz e Tarija, molte altre vengono dalle comunità indigene locali. A gestire la tratta si sospetta che siano le organizzazioni criminali presenti nei centri minerari di Mapiri, Mayaya e Guanay. A Caranavi, punto di accesso a tutti i centri minerari del Madidi, le denunce di abuso, traffico umano e prostituzione forzata sono numerosissime, ma cadono regolarmente nel dimenticatoio del tribunale. I casi aperti e mai risolti dal 2015 sono 753. Negligenza, o forse complicità, dello stato che fa rabbia ad Alex Vilca, presidente dell’associazione Mancomunidad del Madidi che unisce i popoli indigeni della riserva: «Nonostante sia imposto dalla legge, non esistono controlli da parte della polizia nelle stazioni degli autobus, sui taxi e lungo le strade a permettere ai minori di raggiungere le aree aurifere senza troppi problemi. Così i trafficanti operano da anni indisturbati, nonostante ci troviamo di fronte ad uno dei crimini peggiori che si possano commettere» dice Alex con le lacrime agli occhi.
A presentarmi un altra faccia della prostituzione minorile nelle zone aurifere è Sarit della Fondazione Munasim Kullakita, che lotta contro il traffico di esseri umani legato all’estrattivismo minerario nella Riserva Naturale del Madidi da più di anni. «Alcune di loro sono costrette ad andare a lavorare nei postriboli dagli stessi genitori, ai quali vengono pagate tasse extra, e altre ancora sono volontarie… cioè scappano di casa perché sanno che nei postriboli si fanno soldi facili». Secondo lei questo è dovuto alle enormi quantità di denaro alle quali si può facilmente accedere in queste zone. La povertà in cui vivono le comunità locali costringe molte famiglie a prendere questo tipo di decisioni. Qui le alternative per generare ingressi economici sono poche e così i centri minerari diventano delle calamite per tutte le persone in stato di necessità.
«Sta crescendo sempre di più nelle comunità indigene il numero di giovani che abbandonano la scuola per andare a lavare l’oro… con una settimana di lavoro possono comprarsi cellulari, scarpe nuove, e tutto quello che un adolescente sogna… ci sono addirittura genitori che abbandonano i figli per andare a lavorare a Mayaya… così i bambini rimangono senza famiglia e senza educazione.»
Il ruolo dello Stato
Nel 2014 Evo Morales promulga una legge che apre all’estrattivismo minerario 22 riserve naturali. Nello stesso anno, il piano di gestione ambientale della riserva del Madidi viene modificato dal SERNAP (Servizio Nazionale di Aree Naturali Protette dallo Stato), ad insaputa della società civile e delle comunità locali, per ampliare le zone concedibili alle cooperative aurifere.
Tale policy non sorprende, considerato che il MAS (Movimiento al Socialismo), partito politico socialista formato dallo stesso Morales nel 2006 e dichiaratosi indigenista e anti-imperialista, ha però sviluppato un modello economico centrato sull’estrattivismo e sulla dipendenza da capitale esterno. Ne è un esempio la promulgazione della Ley Mineria 535, che riduce il diritto di consulta previa delle comunità e permette alle imprese e le cooperative di limitarsi a una socializzazione dei progetti. «Non è la prima volta che lo stato si fa scudo con leggi secondarie per permettere attività illecite come il saccheggio delle risorse naturali – commenta Alex Vilca – tale legge, è contraria alla costituzione e a trattati internazionali come la convenzione 169 ILO, che impone a qualsiasi impresa di consultare le comunità locali prima di poter intraprendere qualsiasi tipo di progetto che potrebbe avere impatti sulle stesse.»
Così, grazie a queste politiche pro-cooperative, queste sono aumentate dal 2006 al 2017 da 911 a 1816. Questo fenomeno può essere in parte spiegato dal grande appoggio politico che le cooperative aurifere hanno sempre dato al MAS e che Evo Morales ha tacitamente ricambiato con riduzioni delle imposte, sussidiando i nuovi progetti di estrazione, riducendo i controlli delle autorità nei centri minerari e mettendo a tacere oppositori. Emblematico è l’episodio in cui l’ex vicepresidente Alvaro Garcia Linera regalò 100 camion alle cooperative il giorno dopo che la Ley Mineria 535 fu approvata. Ma nonostante ciò, queste politiche teoricamente rivolte a stimolare l’economia dell’oro hanno portato a poco guadagno effettivo per il popolo boliviano, soprattutto considerato che chi ne giova alla fine dei conti sono le imprese fantasma che stipulano contratti con le cooperative.
Infatti, le riserve della banca centrale boliviana, continuano ad essere semi vuote: 42 tonnellate di oro boliviano si trovano nelle riserve di banche inglesi e svizzere. Inoltre, la Federazione Regionale delle Cooperative Minerarie Aurifere del Nord di La Paz (Fecoman) ha dichiarato che almeno il 60% dell’oro estratto nel dipartimento viene comprato abusivamente da circa 32 commercianti illegali. Nel frattempo, le popolazioni indigene e contadine soffrono drasticamente delle conseguenze di queste politiche di un partito teoricamente indigenista.
«Bisogna che i politici inizino a capire quali sono i limiti della natura e a studiare modelli di sviluppo economico alternativi, nel rispetto della nostra cultura e della biodiversità – mi dice la Senatrice Cecilia Requena in un intervista nel suo ufficio di La Paz – la Bolivia deve tenersi stretta la sua democrazia e allo stesso tempo garantire la sopravvivenza degli ecosistemi… solo così le popolazioni locali possono vivere come hanno sempre vissuto, in armonia con la natura… senza democrazia non c’è lotta per la salvaguardia dell’ambiente… bisogna imporre limiti all’estrattivismo e stabilire standard di sicurezza più alti.»
Secondo la senatrice, la transizione ad un’economia post-estrattivista è la sfida del 2023 per la Bolivia e tutti i paesi dell’America Latina. Investire sul turismo sostenibile, sull’agricoltura familiare e l’artigianato tradizionale è l’unico modo per evitare di condannare nuovi territori al triste destino di Potosi e Oruro, dove l’attività mineraria ha lasciato distruzione e povertà.
[di Francesco Torri]
Ottimo articolo, grazie!
Ottimo articolo e ottimo portare la luce della verità negli angoli bui del Mondo, tuttavia amerei anche qualche angolo pulito dove poter eventualmente scappare dall’Italia per trovare una nuova patria, che questa fa talmente schifo che magari ci sono angoli in Bolivia migliori di qui.
Grazie e complimenti per l’articolo.