giovedì 21 Novembre 2024

Depistaggio Borsellino: poliziotti sotto inchiesta e perquisizioni per trovare l’agenda rossa

Si nutre di novità salienti, di cui però l’effettiva portata investigativa non è ancora chiara, l’inchiesta sul maxi-depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui, il 19 luglio 1992, il magistrato Paolo Borsellino è rimasto ucciso insieme a cinque membri della sua scorta. Da un lato, infatti, è stato notificato l’avviso di chiusura delle indagini per l’ipotesi di reato di falsa testimonianza a quattro poliziotti della squadra dell’allora questore di Palermo Arnaldo La Barbera (deceduto nel 2002), giudicato da varie sentenze come il perno attorno a cui è ruotato lo sviamento delle indagini sull’eccidio, che conta tra i suoi membri altri tre poliziotti attualmente a processo per calunnia aggravata. I fatti sono riferiti alla “costruzione” del finto pentito Vincenzo Scarantino, un semplice “balordo di quartiere” che, completamente estraneo alla strage, nel periodo successivo venne costretto ad autoaccusarsi davanti ai magistrati, contribuendo a depistare le indagini per un ventennio. Al contempo, la Procura di Caltanissetta lo scorso settembre ha inviato le forze dell’ordine nella casa della moglie e di una delle figlie di La Barbera, che ora risultano indagate per ricettazione aggravata dal favoreggiamento alla mafia, dopo che un testimone vicino alla sua famiglia ha raccontato ai pm che l’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino – utilizzata dal magistrato per annotare incontri e spunti investigativi dalla strage di Capaci in avanti e rubata da mani istituzionali dal perimetro della strage – era stata nascosta nella casa dell’ex questore. Le perquisizioni sono scattate: i carabinieri hanno sequestrato una lunga serie di documenti. Ma l’agenda rossa non è stata trovata.

Il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca e il sostituto Maurizio Bonaccorso si apprestano dunque a chiedere un processo per i poliziotti Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco. Le ombre sulle loro condotte sono state evidenziate dalla sentenza di primo grado sul depistaggio Borsellino, in cui è stato dichiarato prescritto il reato di calunnia per il funzionario di polizia Mario Bo e l’ispettore Fabrizio Mattei, essendo per loro caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra, ed è stato assolto un altro ispettore, Michele Ribaudo, in merito al depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio. «Nel clima di omertà istituzionale il dibattimento ha consentito di cristallizzare quattro ipotesi nelle quali soggetti appartenenti o ex appartenenti alla polizia di Stato e al gruppo Falcone e Borsellino hanno reso dichiarazioni insincere», ha sancito la sentenza, in cui è stato messo nero su bianco che “l’ispettore Maurizio Zerilli ha detto 121 non ricordo, e non su circostanze di contorno”, a cui si sommano gli oltre 100 dell’ispettore Angelo Tedesco e 110 di Giuseppe Di Ganci, mentre il quarto indagato, Vincenzo Maniscaldi, “non si è trincerato dietro ai non ricordo, ma si è spinto a riferire circostanze false”. Davanti ai pm, i quattro si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.

Arnaldo La Barbera, superpoliziotto ma anche, nella seconda metà degli anni Ottanta, collaboratore dei servizi segreti, rappresenta il trait d’union tra la vicenda del furto dell’agenda rossa e quella del depistaggio Scarantino. La storica sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta del Borsellino-Quater del 2017, che ha ricevuto il timbro della Corte di Cassazione, collega la sua figura al macroscopico depistaggio verificatosi sulle indagini sulla strage di Via D’Amelio, che fu incarnato dalle false dichiarazioni rese ai magistrati dal finto pentito Vincenzo Scarantino e costituì il frutto di “un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri”. Secondo i giudici, infatti, “c’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende”, ovvero La Barbera, ritenuto “intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa” e il cui ruolo fu “fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia”. Ed ora, a 31 anni di distanza dalla strage e dal furto del taccuino del giudice, seguendo le parole della loro fonte gli inquirenti hanno cercato – senza riuscire a trovarla – l’agenda proprio nelle abitazioni dei familiari di La Barbera, stroncato da un cancro nel 2002. Anni fa era finito sotto inchiesta per il furto dell’agenda rossa il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, che fu fotografato con la borsa di cuoio in cui l’agenda era contenuta mentre si allontanava da via D’Amelio, che nel 2008 fu però prosciolto in fase d’indagine. Ora, però, il decreto di perquisizione menziona un fotogramma e nuove testimonianze che indicherebbero come Arcangioli – che quel giorno non stilò una relazione di servizio – avrebbe consegnato la borsa a un ispettore di polizia, il quale rivendicava la titolarità dell’indagine per essere arrivato prima rispetto all’Arma. Secondo quanto ricostruito da indagini e processi, successivamente la borsa di cuoio finì proprio nell’ufficio di La Barbera.

Ad apprendere con scetticismo e disillusione queste notizie è stato Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse. «Ritengo si tratti dell’ennesimo depistaggio riguardante l’agenda rossa e, in particolare, bisognerebbe interrogarsi sul motivo per il quale venga messo in atto con questa tempistica – ha dichiarato a L’Indipendente l’attivista –. Pensare che un capitano dei carabinieri possa avere consegnato un reperto di quella importanza ad un ispettore di polizia senza lasciare alcuna traccia scritta è assolutamente impensabile». Aggiunge Salvatore: «Credo non sia casuale che questa vicenda emerga mentre va in corso l’opera di ‘santificazione’ di Mario Mori e di quel Ros dei carabinieri che, tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, si rese protagonista della trattativa Stato-mafia». Dopo una condanna in primo grado in cui era stato stabilito che l’invito al dialogo partorito dal Ros nei confronti dei vertici mafiosi tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio avesse provocato l’accelerazione della morte di Paolo Borsellino, in appello e in Cassazione tale ricostruzione è stata smentita e i carabinieri sono stati assolti, rispettivamente “perché il fatto non costituisce reato” e “per non aver commesso il fatto”.

[di Stefano Baudino]

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