lunedì 15 Dicembre 2025
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Prato: bottigliate in testa contro i lavoratori del ristorante in sciopero

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Dopo gli episodi dello scorso settembre e novembre, continuano le aggressioni ai lavoratori di Prato e ai sindacalisti di Sudd Cobas. Questa volta, la protesta riguardava il settore della ristorazione, una novità per la lotta sindacale, rimarca lo stesso sindacato: i lavoratori erano in presidio davanti al ristorante cinese “Scintilla” di Via Galcianese per contestare i turni di lavoro massacranti, da 12 ore al giorno: «Il solito copione di diritti negati che dal distretto moda sconfina anche nelle cucine e nelle sale dei ristoranti», spiega un comunicato del gruppo. Lavoratori e sindacalisti sono stati presi a bottigliate di vetro in testa, riportando ferite che li hanno portati in ospedale: questa notte, sei delle persone colpite erano ancora in ospedale. Sudd Cobas porta avanti da tempo una lotta trasversale, che coinvolge diversi settori lavorativi di Prato; quella di ieri, è la quarta aggressione negli ultimi tre mesi, e la terza se si contano solo gli ultimi trenta giorni.

L’ennesima aggressione ai lavoratori di Prato sostenuti da Sudd Cobas è avvenuta ieri, 14 dicembre, nella sera. I lavoratori stavano tenendo un presidio davanti al ristorante, da dieci giorni al centro di una agitazione sindacale contro i turni di lavoro massacranti, i contratti a nero e le condizioni di lavoro precarie. Attorno alle 21:30, due uomini sono usciti dal ristorante e si sono diretti da un lavoratore, strattonandolo e cercando di portarlo di peso all’interno del locale; i manifestanti hanno cercato di fermarlo, ma i titolari del ristorante sono usciti dal locale armati di bottiglie, aggredendoli. Il comunicato del sindacato, rilasciato a notte tarda, riportava che sei dimostranti si trovavano ancora in ospedale, due dei quali – un lavoratore e un sindacalista – feriti dalla rottura delle bottiglie di vetro con le quali erano stati colpiti.

Sudd Cobas porta avanti da tempo una lotta nei diversi ambiti produttivi e lavorativi della città di Prato, ma solo recentemente ha lanciato l’istanza nel settore della ristorazione. La nuova campagna è stata avviata dopo che i dipendenti di un ristorante di Calenzano, comune fiorentino confinante con Prato, si sono rivolti al sindacato per denunciare le condizioni di lavoro degradanti; fino a ora, la campagna ha interessato quattro ristoranti, due dei quali hanno stabilizzato i lavoratori. Dopo l’aggressione, più di un centinaio di operai della zona hanno raggiunto il presidio, dando vita a una manifestazione spontanea di solidarietà; per la giornata di oggi è previsto un ulteriore presidio in Via Galcianese, che si terrà alle ore 18, con lo scopo di riaffermare il diritto di sciopero.

Non è la prima volta che i lavoratori di Prato rappresentati da Sudd Cobas vengono aggrediti dai propri datori di lavoro. Negli ultimi mesi era già successo tre volte. Un caso noto è quello di settembre, quando un gruppo di operai di una stireria industriale era stato raggiunto in presidio dalla proprietaria dello stabilimento, che ha distrutto i gazebi e preso a calci e pugni i lavoratori; un altro risale a metà novembre, quando il presidio dei lavoratori di un centro di distribuzione all’ingrosso dell’abbigliamento è stato aggredito da un folto gruppo di persone tra cui si trovavano anche i proprietari del centro; in quell’occasione, sono stati colpiti anche gli agenti di polizia che vigilavano sul presidio. Proprio quello del tessile risulta il settore in cui il sindacato è maggiormente attivo: i lavoratori denunciano turni di lavoro da 12 ore al giorno 7 giorni su 7, con contratti spesso a nero e stipendi da fame.

Repubblica Democratica del Congo: ribelli catturano soldati burundesi

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Il gruppo ribelle della Repubblica Democratica del Congo, M23 – secondo diversi rapporti sostenuto dal Ruanda – ha catturato centinaia di soldati burundesi. A dare la notizia è Patrick Busu Bwa Ngwi, governatore della provincia congolese del Sud Kivu nominato dall’M23 dopo averne strappato il controllo alle forze regolari. Il rapimento dei soldati del Burundi è avvenuto in occasione della cattura della città congolese di confine di Uvira, qualche giorno dopo la ratifica del cessate il fuoco tra RDC e Ruanda, avvenuta con la mediazione degli Stati Uniti. Gli USA hanno condannato le azioni dell’M23, sostenendo che costituiscano una violazione degli accordi, ma il Ruanda nega di fornire supporto al movimento ribelle.

Quando la fidanzatina IA si basa sui lavoratori kenioti sottopagati

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Per affinare gli “amici” e i “partner” chatbot a cui raccontate i vostri segreti, fragilità e perversioni sessuali, le aziende sembrano pronte a fare affidamento sul lavoro occulto dei più vulnerabili. Una nuova testimonianza rivela infatti che anche dietro questi strumenti si potrebbero celare gli sforzi di subappaltatori chiusi in uffici di Nairobi, pagati per mentire sulla propria identità e per intrattenere gli utenti di internet con seducenti menzogne.

A rivelare il fenomeno è The Emotional Labor Behind AI Intimacy, documento pubblicato da Data Workers’ Inquiry, un gruppo collegato all’istituto indipendente DAIR, fondato dalla ricercatrice Timnit Gebru. Ovvero colei che ha rotto con Google dopo che la Big Tech non ha apprezzato la sua decisione di pubblicare un report in cui evidenziava criticità e pericoli delle intelligenze artificiali. Il testo raccoglie il dettagliato resoconto di Michael Geoffrey Asia, moderatore di contenuti che ha sperimentato quasi ogni forma di lavoro invisibile legato alle tecnologie di Meta e che oggi ricopre il ruolo di Segretario Generale della Data Labelers Association (DLA), associazione che si propone di tutelare e garantire maggiori diritti agli operatori – spesso provenienti da Paesi a basso reddito – incaricati di catalogare e affinare i dati utilizzati per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale.

Asia racconta in particolare la sua più recente esperienza professionale presso l’azienda New Media Services. “Il ruolo impone di assumere molteplici identità costruite e di utilizzare pseudo-profili creati dall’azienda per partecipare a conversazioni intime ed esplicite con uomini e donne soli”, spiega. In pratica, agli operatori viene richiesto di praticare catfishing: fingere di essere qualcun altro per soddisfare i bisogni emotivi degli utenti, facendoli sentire amati e desiderati, con l’obiettivo di abbassarne le difese e ottenere così le loro informazioni più sensibili e personali. La retribuzione è di 0,05 dollari per messaggio inviato e ogni messaggio deve soddisfare una lunghezza minima per essere conteggiato.

La pratica del catfishing è spesso associata a truffe mirate a prosciugare economicamente le vittime. In questo caso, però, Asia ha riconosciuto uno schema già incontrato in passato: sfruttando un opaco sistema di subappalti e la segretezza imposta dai contratti di non divulgazione, le Big Tech ricorrono alla manodopera africana – ma non solo – per addestrare algoritmi che vengono presentati come prodotti neutri e “asettici”. In realtà, tali IA generative non poggiano su calcoli astratti e imparziali, bensì sullo sfruttamento di lavoratori costretti a condizioni professionali degradanti e prive di tutele.

Kenya e Ghana si sono mostrati terreno fertile per queste forme di imperialismo digitale di sorveglianza, così come India, Venezuela, Germania, Spagna, Bulgaria, Colombia. In un primo momento il lavoro consisteva nella moderazione dei contenuti social e nell’addestramento degli algoritmi destinati ad automatizzare i controlli sui post, quindi è arrivata la fase dell’etichettatura qualitativa dei risultati elaborati dalle GenAI. Non sorprende, dunque, che con la crescente diffusione dei chatbot relazionali le imprese si stiano organizzando per perfezionare questa tipologia di modelli, fondandoli sui dati generati da tali interazioni. Nel tentativo di legare il concetto di IA a una forma di pensiero magico, le Big Tech sono infatti quanto mai solite affidarsi a processi di AI washing, a presentare servizi automatizzati che, in verità, sono gestiti da teleoperatori.

L’analisi proposta da Asia non si concentra però sulle menzogne dei giganti del settore, bensì mette in luce lo spaccato umano che troppo spesso viene ignorato, se non deliberatamente nascosto. Le aziende subappaltatrici operano frequentemente in contesti segnati da mercati del lavoro stagnanti, offrendo possibilità apparentemente allettanti grazie a retribuzioni che sono perlomeno in grado di sopperire al pagamento di bollette e spese quotidiane. Tuttavia, la precarietà dei contratti fa sì che le condizioni peggiorino progressivamente e che la pressione sui lavoratori aumenti col tempo. Il burnout diventa una presenza inevitabile, aggravata dalla natura stessa delle mansioni, a prescindere che si tratti dell’analisi di messaggi violenti o dell’assunzione di identità fittizie di genere e preferenze sessuali diverse dalle proprie. Tutto ciò alimenta profonde sensazioni di alienazione e depressione, le quali non sono affatto mitigate da un adeguato supporto psicologico. Anche perché, vale la pena ricordarlo, i contratti firmati vietano esplicitamente ai lavoratori di discutere con i propri cari e con gli psicologi della reale natura del loro mestiere.

Multinazionali USA in Italia: 132,5 miliardi di ricavi, solo 2,16 miliardi di tasse

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Nel 2022 le multinazionali statunitensi hanno realizzato in Italia ricavi per 132,5 miliardi di dollari, versando allo Stato italiano imposte per 2,16 miliardi, con un rapporto tra fatturato e gettito fiscale pari a poco più dell’1,6%. Un dato che restituisce l’immagine di una presenza economica ampia e strutturata, ma anche di una marcata sproporzione tra valore prodotto sul territorio e contribuzione fiscale. In un Paese caratterizzato da un’elevata pressione tributaria su famiglie e imprese nazionali, questi numeri riaccendono il confronto sulla capacità del sistema fiscale internazionale di intercettare in modo efficace i profitti delle grandi multinazionali.

La presenza delle multinazionali statunitensi in Italia è ampia e consolidata. Secondo le elaborazioni basate sui dati dell’Internal Revenue Service (IRS), l’amministrazione fiscale degli Stati Uniti, 805 gruppi a controllo USA operano stabilmente nel nostro Paese, con attività che, rispetto al confronto europeo, vanno ben oltre i servizi digitali e finanziari. In Italia la presenza delle multinazionali USA è legata soprattutto ad attività produttive e industriali, configurandosi come una componente strutturale dell’economia nazionale. I settori maggiormente interessati di questo ecosistema sono, infatti, manifatturiero, farmaceutico, automotive, chimico, energetico e tecnologico, comparti ad alta intensità di capitale e valore aggiunto. Queste imprese impiegano circa 227mila lavoratori sul territorio nazionale, contribuendo in modo rilevante all’occupazione diretta e all’indotto. La loro presenza si traduce in stabilimenti produttivi, centri di ricerca, sedi operative e reti di fornitori locali. In molte aree del Paese, soprattutto nel Nord industriale, le controllate di gruppi statunitensi rappresentano un elemento strutturale del tessuto economico. Il dato sui ricavi riflette un’attività economica reale, radicata e continuativa. Tuttavia, l’ampiezza dell’attività produttiva non si riflette in modo proporzionale nel carico fiscale effettivamente sostenuto. Il divario tra fatturato, valore aggiunto e imposte versate evidenzia come la localizzazione delle attività economiche e quella della base imponibile non coincidano. È una dinamica tipica delle grandi multinazionali, che nel caso italiano assume una particolare rilevanza per dimensioni e impatto.

Le Big Tech statunitensi concentrano la maggiore distanza tra ricavi e imposte. Amazon guida la classifica per fatturato in Italia (oltre 3,2 miliardi di euro), ma versa al fisco poco più di 26 milioni, mentre IBM, con ricavi inferiori, risulta il primo contribuente. Microsoft e Alphabet mostrano a loro volta un divario significativo tra volume d’affari e tasse pagate, divario che si accentua ulteriormente scendendo nella graduatoria, fino ai casi di Meta che fattura 400,749 milioni e paga 3,408 milioni, Oracle 192,275 milioni con 2,152 milioni, ADP 77,519 milioni con 564 mila euro, Adobe 17,066 milioni con 753 mila euro, infine, Uber, con 5,212 milioni di fatturato, si ferma a 174 mila euro di tasse. Il quadro che emerge è quello di un carico fiscale non proporzionale ai ricavi, con contributi molto differenti a fronte di volumi economici comparabili, riflesso di modelli societari e assetti fiscali eterogenei.

La distanza tra i ricavi generati in Italia e le imposte versate non è riconducibile a singoli casi isolati, ma riflette meccanismi strutturali della fiscalità internazionale. Le multinazionali operano attraverso architetture societarie complesse che permettono di distribuire costi, ricavi e utili tra diverse giurisdizioni. In questo contesto, strumenti come i prezzi di trasferimento, la gestione centralizzata dei diritti di proprietà intellettuale e i finanziamenti infragruppo incidono in modo determinante sulla localizzazione degli utili imponibili. La concentrazione di brevetti e marchi in Paesi a fiscalità agevolata comporta che le controllate operative, come quelle presenti in Italia, versino royalties e canoni che riducono l’utile tassabile locale. Pratiche in larga parte legittime e regolate da accordi contro la doppia imposizione, ma che finiscono per erodere la base imponibile nei Paesi dove avviene la produzione. Secondo il nuovo rapporto State of Tax Justice 2025 del Tax Justice Network, questo sistema ha contribuito a una perdita di gettito stimata in circa 22 miliardi di euro in sei anni per l’Italia, a conferma di una criticità non episodica ma sistemica. Negli ultimi anni, OCSE e Unione europea hanno avviato riforme, tra cui il Pillar Two e la tassazione minima globale del 15%, per limitare tali distorsioni. Tuttavia, l’attuazione di queste misure è lenta e complessa e i risultati restano, al momento, limitati.

Oltre duemila docenti firmano contro i ddl che criminalizzano le critiche a Israele

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Il mondo accademico scende in campo contro i disegni di legge che intendono trasformare in norma vincolante la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). In poche ore, un appello ha raccolto 2.031 firme di docenti e ricercatori, chiedendo il ritiro dei ddl rispettivamente a prima firma Graziano Delrio e Maurizio Gasparri e la revoca dell’adozione della definizione IHRA decisa dall’Italia nel 2020. Secondo i firmatari, «la definizione di antisemitismo dell’IHRA» rischia di equiparare la critica allo Stato di Israele e al sionismo al reato di antisemitismo, pertanto, «rappresenta un pericolo enorme per la nostra libertà accademica e di insegnamento».

Tra i firmatari figurano studiosi noti come Angelo d’Orsi e Donatella Della Porta, insieme a numerose associazioni accademiche e scientifiche. Il ddl presentato dai senatori del Partito Democratico, con primo firmatario Graziano Delrio, e in abbinamento con un testo analogo di Maurizio Gasparri di Forza Italia, che ha immediatamente dato la sua disponibilità a un testo bipartisan, punta a introdurre nel nostro ordinamento una definizione legalmente vincolante di antisemitismo. Il cuore della norma è l’adozione della definizione operativa dell’IHRA, condivisa anche in altri Paesi europei e da istituzioni internazionali, che include come esempi di antisemitismo anche alcune forme di critica radicale verso lo Stato di Israele o verso il sionismo, la sua ideologia fondativa. La definizione IHRA descrive l’antisemitismo come «una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Le manifestazioni verbali e fisiche di antisemitismo sono dirette verso persone ebree o non ebree e/o la loro proprietà, verso le istituzioni delle comunità ebraiche e i luoghi di culto». Questo approccio rischia di sovrapporre concetti non giuridici al diritto penale e di estendere il campo di applicazione della legge fino a includere espressioni e analisi legittime delle politiche di uno Stato sovrano.

Nel testo dell’appello, i firmatari parlano apertamente di un salto di qualità pericoloso: non esistono precedenti nel nostro ordinamento in cui la critica a uno Stato sia configurata come reato. Si segnala, inoltre, l’ingresso nel diritto positivo di una definizione vaga e politicamente orientata, inadatta a fungere da parametro giuridico, soprattutto negli spazi della ricerca e dell’insegnamento. I ddl Gasparri-Delrio, sostengono, non rafforzano la lotta contro l’antisemitismo, ma ne indeboliscono la credibilità, confondendo l’odio antiebraico con il dissenso politico e producendo un effetto intimidatorio. Il documento spiega come l’IHRA venga promossa con enormi sforzi diplomatici da parte di Israele, «che la usa come strumento di protezione delle gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani che commette». Ne emerge, pertanto, «la volontà di mettere a tacere voci e saperi critici in molteplici campi di studio e negli spazi universitari, che hanno costituito uno dei fulcri del dissenso contro la distruzione della popolazione di Gaza e le complicità del nostro governo con i crimini israeliani». Il rischio non è astratto: è quello di un’autocensura preventiva, di un sapere sorvegliato, di un arretramento netto delle libertà costituzionali in nome di una tutela che può e deve essere garantita con strumenti già esistenti. In particolare, secondo i firmatari, l’uso di categorie analitiche come “colonialismo di insediamento”, “pulizia etnica” o “apartheid” in contesti accademici potrebbe essere frainteso come discriminazione penalmente rilevante, proprio perché ricompreso nella definizione di antisemitismo che il testo vorrebbe far propria. È un nuovo scenario in cui la critica a politiche statali potrebbe essere trattata sullo stesso piano delle manifestazioni d’odio razziale.

La reazione politica al ddl è stata divisa. Anche nel PD sono emerse levate di scudi per l’equiparazione ritenuta impropria tra antisemitismo e critica a Israele. Le firme accumulate in poche ore dall’appello accademico segnano l’intensità di un dibattito che promette di non esaurirsi con l’approdo del ddl in aula. In gioco non c’è solo una legge mal scritta, ma l’idea stessa di spazio pubblico democratico: un luogo in cui il sapere non deve chiedere permesso, né tantomeno la critica può essere criminalizzata.

Marocco, almeno 21 i morti nell’inondazione a Safi

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Un’ondata di inondazioni causata da piogge torrenziali ha travolto la città costiera di Safi, in Marocco, provocando la morte di almeno 21 persone e il ferimento di una trentina di abitanti. Le forti precipitazioni hanno sommerso strade, case e attività commerciali, allagando una settantina di edifici e danneggiando infrastrutture viarie, con ripercussioni sulla circolazione verso e dalla città portuale a circa 300 chilometri a sud di Rabat. Immagini condivise sui social mostrano flussi d’acqua mista a fango che travolgono veicoli e detriti, mentre le operazioni di soccorso continuano e le squadre cercano eventuali dispersi tra i resti delle abitazioni colpite.

Cile, il nuovo presidente è José Antonio Kast: ultraliberista e nostalgico di Pinochet

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Il risultato delle elezioni svoltesi ieri, domenica 14 dicembre, ha visto definitivamente tramontare la possibilità del Cile di vedere realizzata la svolta socialista promessa cinque anni fa dall’uscente Gabriel Boric e di vedere in carica la prima presidente comunista del Paese. A vincere il ballottaggio per le presidenziali, con ampio margine, è stato infatti José Antonio Kast: 59 anni, membro del Partito Repubblicano del Cile, figlio di un nazista rifugiatosi nel Paese dopo la seconda guerra mondiale e sostenitore di Pinochet, la sua campagna politica ha fatto interamente perno sul tema della sicurezza sociale e dell’appoggio alle forze armate e di polizia. Con lui, in Cile sale in carica il governo più di destra dalla fine della dittatura.

Il Paese è ormai lontano dal 2019, quando la rabbia popolare scosse il Paese con un’ondata di proteste senza precedenti, divenute note con il nome estallido social. Al centro delle contestazioni vi era il governo conservatore e corrotto dell’ex presidente Sebastián Piñera (già ministro del Lavoro durante la dittatura Pinochet): repressione e rimpasti di governo non riuscirono a domare il popolo, che meno di due anni dopo scelse come proprio presidente Gabriel Boric, 32enne proveniente dall’estremo sud patagonico protagonista a capo delle rivolte studentesche del 2011 e in prima linea durante l’estallido social. Con Boric, che promise un Paese di orientamento socialista, il Cile aveva potuto sperare in un futuro di giustizia sociale, dove non fossero gli interessi privati a farla da padrone. E proprio il “tradimento” di Boric, secondo molti, è stato un fattore determinante nel consegnare il Paese all’ultradestra. Se alcuni dei punti chiave del suo programma sono rimasti irrealizzati anche grazie al massiccio sforzo dei fondi privati, come la modifica alla Costituzione (che mirava a sostituire quella attuale, redatta durante la dittatura di Pinochet), molti altri sono rimasti in sospeso, mentre venivano approvati provvedimenti di matrice fortemente di destra, come la controferma legge Nain-Retamal, che punta a garantire un maggior grado di impunità alle forze di polizia. Le poche vittorie ottenute dal suo governo, come la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento del salario minimo interprofessionale, non sono servite a far guadagnare a Jara (ex ministra del Lavoro sotto il governo Boric) la maggioranza delle preferenze. Nonostante Boric avesse inoltre promesso il riconoscimento e la tutela delle popolazioni native, minacciate in Cile dagli interessi finanziari delle aziende, queste sono forse le maggiormente deluse dal suo operato. Nella Macrozona Sur (regione del Paese a sud di Santiago), dove il popolo mapuche è in lotta contro Stato e aziende che ogni giorno si impossessano illegalmente delle loro terre, lo Stato di emergenza introdotto da Piñera è infatti stato prolungato per tutto il periodo della presidenza Boric e ora rischia di dover fare i conti con un ulteriore peggioramento della repressione.

Dal canto suo, Kast ha fatto della minaccia dell’insicurezza sociale il perno della propria campagna politica, dominata da promesse di lotta alla criminalità e alla migrazione illegale. Chiusura delle frontiere, espulsione indiscriminata dei migranti «illegali», costruzione di nuove carceri ad alta sicurezza e l’utilizzo della tecnologia per perseguire il crimine, oltre a un totale e indiscusso appoggio a polizia e forze armate sono punti chiave del suo discorso politico che hanno dominato il dibattito in queste settimane – usato sapientemente per sviare domande scomode, come quelle riguardanti i programmi per la ripresa economica del Cile e l’impiego delle finanze statali. A questi si aggiunge la promessa di contrastare il «terrorismo» nella Macrozona Sur. E nel contesto di un Paese dove a muovere le fila sono pochi grandi gruppi economici, il programma di Jeannette Jara non è bastato a risvegliare nei cileni quella scintilla di speranza e fiducia nel cambiamento accesa dalle proteste di sei anni fa. Se da un lato il suo partito non prendeva parte alla corsa per le presidenziali dai tempi di Allende, è anche vero che questo poco ha saputo fare per guadagnarsi la fiducia dell’elettorato.

Fatto sta che il senso di disillusione nel Paese era palpabile già nelle settimane, se non nei mesi che hanno preceduto le elezioni. Buona parte della popolazione ritiene infatti che la bandiera con la quale si avvolge il presidente faccia poca differenza, in un Paese dove le oligarchie determinano l’esito delle politiche statali e sociali. Anche Jara, per convincere gli indecisi a votare per lei, aveva dovuto fare propria una retorica che puntava sulla sicurezza, sul controllo tecnologico delle frontiere e sul controllo della migrazione, un programma elettorale certo molto distante da uno che possa dirsi comunista, quantomeno in senso classico.

Hong Kong: Jimmy Lai condannato, rischia ergastolo

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Un tribunale di Hong Kong ha dichiarato colpevole Jimmy Lai, il 78enne magnate dei media e noto sostenitore della democrazia, di due capi di collusione con forze straniere e sedizione ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino nel 2020. Lai, fondatore del tabloid Apple Daily, ora chiuso, è accusato di aver usato il suo giornale per “materiale sedizioso” e di aver cercato di coinvolgere governi esteri contro le autorità di Hong Kong e della Cina. La sentenza, emessa da giudici del tribunale di West Kowloon, può portare a una pena fino all’ergastolo. Gruppi per i diritti umani hanno definito il verdetto un duro colpo alla libertà di stampa e di espressione.

Italia leader mondiale del patrimonio UNESCO: 61 siti e nuovi riconoscimenti nel 2025

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Italia Unesco patrimonio

Nel 2025 l’Italia consolida la propria leadership nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, mantenendo il primo posto a livello globale grazie all’ingresso delle Tradizioni funerarie della preistoria sarda, le Domus de janas, che seguono l’iscrizione della Via Appia - Regina viarum avvenuta nel 2024. Con un totale di 61 siti riconosciuti, il patrimonio italiano risulta composto prevalentemente da beni culturali, che rappresentano 55 iscrizioni, mentre solo 6 rientrano nella categoria dei beni naturali. L’Italia emerge inoltre come il Paese maggiormente rappresentato all’interno della WH...

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Suicidi, overdose e pestaggi: 4 morti in un giorno sintetizzano le carceri italiane

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Francesco Valeriano aveva 45 anni. È morto in ospedale dopo essere finito in coma per sei mesi, a causa di un pestaggio per mano di ignoti. Il suo è il primo di quattro casi di morti di carcere con cui lo scorso 12 dicembre – con amaro tempismo – si è aperto il giubileo dei detenuti; degli altri tre non si sa nemmeno il nome. Una donna, 59 anni, è stata trovata morta nella sua cella a Rebibbia, probabilmente per overdose. Qualche chilometro più a nord, al Mammagialla di Viterbo, un uomo si è tolto la vita in infermeria; anche lui aveva problemi di tossicodipendenza. L’ultimo è stato trovato morto suicida all’interno della sua cella, nell’istituto di Borgo San Nicola, Lecce; l’uomo con cui condivideva la cella non si è accorto di niente. Quattro morti in appena una notte, che si aggiungono alle oltre 200 avvenute nel solo 2025; ma, soprattutto, quattro morti che – nelle loro modalità – riassumono plasticamente le condizioni di criticità in cui versano le carceri italiane.

Le ultime quattro morti segnalate sono state rese note dai sindacati della polizia penitenziaria ripresi dai media e da associazioni che si battono per i diritti dei detenuti come Antigone. Francesco Valeriano, l’unica vittima di cui si conosce l’identità, era detenuto presso il carcere di Rebibbia, dove stava scontando una pena di due anni e mezzo. Lo scorso 30 giugno è stato picchiato selvaggiamente nella sua cella; è stato trasferito al policlinico Umberto I, con lesioni cerebrali gravi, dove è stato sottoposto a tracheotomia; dopo i primi trattamenti è stato trasportato in un ospedale privato e l’11 dicembre è stato portato in condizioni critiche presso il policlinico di Tor Vergata, dove è morto. Il suo caso è paradigmatico. Su di esso si è espressa anche l’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, che ha rimarcato che alla sua morte ha concorso un sistema carcerario ancora carico di criticità.

In parallelo alla morte di Francesco, nella notte tra l’11 e il 12 dicembre, la sezione femminile dello stesso carcere dove il detenuto era stato trovato agonizzante ha visto un’altra morte; della vittima si sa solo che aveva 59 anni, e che con ogni probabilità sarebbe morta di overdose. A dirlo è stato il segretario generale del sindacato Polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, che da quanto comunicano i media ipotizza il sovradosaggio di stupefacenti perché la stessa notte un’altra detenuta è stata portata in ospedale dopo avere avuto un malore. Nemmeno il suo è un caso isolato: «Siamo all’ennesimo caso di diffusione di stupefacenti che solo negli ultimi mesi dell’anno registra due morti a San Vittore-Milano e tre ricoverati in gravi condizioni; sempre a Rebibbia nel reparto maschile c’è stato un decesso, uno a Sassari, Gorizia, Reggio Emilia e Firenze» ha detto Di Giacomo. Nelle carceri la droga circola liberamente, in ogni forma e modalità: «Nel corso dell’anno», ha puntualizzato Di Giacomo, «i sequestri negli istituti penitenziari ammontano a 65 kg di sostanze stupefacenti di ogni tipo».

Gli ultimi due detenuti sono morti a Viterbo e a Lecce. Entrambi sembrano essersi tolti la vita, in un altro fenomeno – quello dei suicidi – dal carattere sistematico. Dall’inizio dell’anno in carcere sono morti 226 detenuti; è il terzo dato più alto mai registrato, secondo solo al 2024 e al 2023. I suicidi, per ora, ammontano a 76. A denunciare l’alto tasso di suicidio nelle carceri italiane sono associazioni come Antigone, istituzioni come il Consiglio d’Europa, organismi come il Garante dei Detenuti. Tutti i rapporti e gli allarmi lanciati rimarcano la necessità di migliorare le condizioni delle strutture, spesso decadenti e prive di servizi di base; di lavorare sulle condizioni psicologiche dei detenuti, introducendo stanze dell’affettività, permettendo loro di incontrare di più i propri cari, fornendo supporto psicologico; e ancora, puntano il dito sul problema del sovraffollamento, che complessivamente supera il tasso del 138%.