domenica 21 Dicembre 2025
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Sgombero Askatasuna, Torino come la Valsusa: la polizia blinda il quartiere e carica il corteo

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TORINO – Almeno quattrocento poliziotti mobilitati solamente per la giornata di oggi, un intero quartiere militarizzato, il traffico di una grossa parte della città interdetto. Così si presenta Torino a 48 ore dallo sgombero del centro sociale Askatasuna, avvenuto nella mattina del 18 dicembre scorso. Le scuole in zona sono chiuse da tre giorni e anche i negozi oggi hanno le saracinesche abbassate. Per impedire l’avvicinarsi al centro sociale, le forze dell’ordine hanno installato barriere in cemento armato e ferro. Le stesse utilizzate in Val di Susa, per proteggere i cantieri della TAV, per lo più pieni solamente di agenti. Un intero quartiere stretto nella morsa di un’operazione di polizia, culminata nelle cariche alla manifestazione di oggi. Alle 15 circa, infatti, migliaia di cittadini si sono messi in marcia a partire dall’università di Palazzo Nuovo per protestare contro la decisione del governo. Mentre l’amministrazione comunale sembra ancora indecisa sulla direzione da prendere, col sindaco Lorusso che prima ha dichiarato nullo il patto tra il centro e il Comune ma che in un video messaggio diffuso stamattina ha detto di “guardare al futuro di corso Regina 47”, la cittadinanza è scesa in piazza per far sentire il proprio dissenso. Incontrando, durante il percorso, i lacrimogeni e i manganelli della polizia.

“Stanno facendo controlli a manetta” mi racconta un militante, mentre seguiamo il percorso del corteo tra giovani, anziani e famiglie. “All’altezza di Porta Palazzo [il mercato centrale di Torino, a pochi km dal centro sociale, ndr] gli agenti in borghese sono saliti sui tram, hanno fatto chiudere le porte e hanno chiesto i documenti a tutti, indiscriminatamente. Stessa cosa con le persone in arrivo alla stazione di Porta Nuova”. Ogni accesso alle vie del quartiere Vanchiglia è bloccato da due camionette e da qualche decina di agenti in tenuta antisommossa. Le principali arterie di questa zona della città – corso Regina, corso San Maurizio, via Vanchiglia e tutte le strade circostanti – sono bloccate da agenti, camionette e, in qualche punto, anche camion-idranti. Molta è la rabbia tra gli esercenti: “Questore, viene lei a distribuire tutti i pacchi che ho da consegnare in negozio?” chiede qualcuno sui social.

Le barriere installate dalla polizia intorno al centro sociale Askatasuna

“Quello che non dicono è che Meloni ha avuto paura delle milioni di persone in piazza per la Palestina” urla l’altoparlante che anticipa il corteo. E del movimento per la Palestina, Askatasuna è stato un punto di riferimento, a Torino e non solo. Tanto che dopo lo sgombero del 18 dicembre, rivendicato con orgoglio dal ministro dell’Interno Piantedosi sui social, nei confronti del centro sociale si è sollevata un’ondata di solidarietà da tutta Italia. L’amministrazione comunale, invece, sembra non saper bene che direzione prendere. Solamente due giorni fa, il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, aveva annullato il patto di collaborazione tra Askatasuna e Comune, che trasformava il centro sociale in bene comune in cambio di un profondo lavoro di riqualificazione e ristrutturazione, tutto a carico dei militanti. Questa mattina, in un video messaggio, il sindaco ha rivendicato il percorso costruito con Askatasuna: “La nostra amministrazione, sul patto di collaborazione di corso Regina, si è fatta interprete di una linea di dialogo con la società e con i movimenti sociali che da sempre è nelle corde di una città come la nostra, profondamente democratica e antifascista” ha dichiarato. Definendo il centro uno spazio “importante, non solo per il quartiere di Vanchiglia”, il sindaco ha dichiarato che “i procedimenti giudiziari faranno sempre comunque il loro corso”, mentre “la tutela di un bene comune risponde ad altre logiche: politiche e amministrative”. Le responsabilità penali, sottolinea il sindaco, “sono e restano sempre personali: questo è un principio cardine dello Stato di diritto”. Come a dire: i problemi con la giustizia di alcuni non possono determinare la cancellazione di un’intera realtà. “Non intendiamo cambiare approccio”, conclude il sindaco, “neanche nei confronti di corso Regina 47”. Un messaggio che ha lasciato l’amaro in bocca a molti tra i membri di Askatasuna, che ritengono che l’ambiguità politica del sindaco altro non sia se non una strategia in vista delle elezioni del 2026.

Il percorso del corteo è breve. Non appena svolta in corso Regina, percorse le poche centinaia di metri che separano via Vanchiglia dal civico 47 (dove ha sede l’Askatasuna), la polizia carica: manganelli, idranti e una pioggia di lacrimogeni sparati ad altezza uomo, che colpiscono la parte anteriore e posteriore del corteo, oltre alle vie laterali. L’aria si fa irrespirabile, ma il corteo non si disperde e in pochi minuti erge barricate che rallentano l’avanzata della polizia. Per fermare l’avanzata delle camionette, i manifestanti danno fuoco ad alcuni bidoni della spazzatura. Poi il percorso del corteo devia, allontanandosi dalla sede dell’Askatasuna e la polizia non si avvicina più.

Il fatto ha immediatamente scatenato la reazione delle destre, da Salvini che invoca le “ruspe sui centri sociali” a Tajani che definisce i manifestanti “figli di papà che se la prendono con i figli del popolo”. Come se quelle migliaia di persone in corteo oggi a Torino non costituissero una fetta sostanziosa del popolo stesso. D’altronde, la politica del governo segue una linea ben precisa: dall’attacco al Forte Prenestino allo sgombero di Leoncavallo, passando per le richieste di sgomberi dell’ex OPG occupato di Napoli e di altre realtà, i partiti di governo hanno fatto della crociata contro i centri sociali un perno della propria politica.

“Saremo dove siamo sempre stati: nelle università, nelle scuole, in Val di Susa, coi popoli che lottano” urla il megafono ai presenti che sfilano per le vie del centro. E convoca, per il 31 gennaio prossimo, una grande manifestazione nazionale.

Manovra, via libera dalla commissione Bilancio

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La manovra è stata approvata in Senato dalla commissione Bilancio, che ha dato mandato al relatore per la discussione in aula, la quale culminerà nel voto in programma martedì prossimo. Il disegno di legge passerà poi alla Camera per l’approvazione finale, entro il 31 dicembre. Nelle scorse ore, la maggioranza ha sciolto gli ultimi nodi, trasformando ad esempio l’emendamento sulla riapertura del condono del 2001 in un ordine del giorno, di natura dunque non vincolante.

Emanuela Orlandi: a 42 anni dalla scomparsa le indagini su un’amica riaprono il caso

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L’ultima speranza di ritrovare il filo giusto che porta a Emanuela Orlandi, o perlomeno a cercare di capire quello che le è successo, è legata a una donna che è stata ragazzina insieme a lei, nella sua stessa scuola, e che il giorno della sua scomparsa è stata probabilmente l’ultima persona a vederla, prima che sparisse per sempre, come inghiottita da un muro di nebbia che dopo 42 anni continua a restare impenetrabile. Si chiama Laura Casagrande, ha 56 anni ed è stata iscritta nel registro degli indagati per “false informazioni date ai pm” dalla Procura di Roma. Quest’ultima sta ancora cercando di scavare sotto a cumuli di carte e indizi. L’ennesimo colpo di scena in questa storiaccia senza fine, nella quale si sono affacciati periodicamente con le loro ombre lunghe i servizi segreti e alti prelati del Vaticano, ma anche funzionari di Stato, boss della criminalità organizzata e terroristi, un mix micidiale nel quale si è persa la verità sul destino di quella cittadina della Santa Sede che aveva 15 anni, quando sparì.

Quell’ormai molto lontano 22 giugno 1983, all’uscita serale dalla scuola di musica “Tommaso Ludovico da Victoria”, di fronte a Sant’Apollinare, Emanuela è con un’amica. Si tratta di Raffaella Monzi, alla quale racconta di aver ricevuto una proposta lavorativa per conto della Avon: distribuire volantini durante una sfilata di moda per la ragguardevole somma di 375mila lire. La ragazza telefona per informare la famiglia della cosa mentre in Corso Rinascimento attende l’autobus che la dovrebbe riportare appunto a casa. Quando passa quello di Raffaella, l’amica ci sale, non rivedendo mai più Emanuela. Mentre è in attesa sul marciapiede, si avvicina a lei un’altra ragazza, mora e bassina, mai identificata, che viene notata però anche da un’altra amica di Emanuela, Maria Grazia Casini, mentre passava da lì. Casini racconterà il particolare ai magistrati nell’interrogatorio del 29 luglio 1983.

“L’ho vista dietro di me sul marciapiede, poi non c’era più”

Laura Casagrande faceva già parte della lunga lista di persone informate o coinvolte in questo giallo che è tra i più oscuri e complicati della storia italiana, perlomeno dal Dopoguerra, anche per le implicazioni politiche e diplomatiche ad esso collegate. Un’interminabile odissea giudiziaria che nel 2016, non senza il frastuono di polemiche e critiche anche personali, il procuratore Pignatone aveva archiviato. Laura non era propriamente amica di Emanuela, le separava tra l’altro una differenza di età. Erano entrambe allieve alla scuola di musica, anche se in classi diverse: Emanuela iscritta a quella di flauto traverso, mentre Laura a quella di pianoforte. Si conoscevano comunque bene e si vedevano con la frequenza imposta dalle lezioni.

Il giorno fatidico della scomparsa, entrambe avevano partecipato a una lezione di canto corale alla quale, aveva ricordato inizialmente Casagrande, la Orlandi si era presentata in ritardo. In quell’estate del 1983, tuttavia, davanti ai magistrati, la sua testimonianza era andata oltre: camminando sullo stesso marciapiede dove si trovava la fermata del bus atteso da Emanuela, Laura Casagrande ha raccontato di averla vista dietro di sé e poi di non averla più vista, come appunto si fosse volatilizzata. Anche per questo motivo, gli inquirenti ritenevano che proprio lei fosse l’ultima persona ad aver avvistato la ragazzina scomparsa.

Quel “buio totale” davanti alla Commissione

Con un salto temporale che ha scavalcato il secolo, il 20 giugno 2024 Laura è stata convocata dalla commissione di inchiesta bicamerale sul caso Orlandi, un’audizione nella quale l’ormai signora Casagrande – 41 anni dopo quel pomeriggio – ha praticamente smantellato tutto quello che aveva riferito inizialmente ai magistrati. Una lunga serie di “non so”, “non ricordo”, fino ad ammettere di avere “un buio totale” su quello che è successo quel 22 giugno dopo l’uscita dalla scuola di musica. Non ricordava la presenza di un’amica di cui aveva inizialmente parlato, e soprattutto non ricordava più di aver visto Emanuela prima della sua scomparsa. Non ricordava nemmeno di aver lasciato il proprio numero di telefono scritto sulla copertina di uno spartito musicale di Emanuela, completo dell’indirizzo di casa.

«Non ricordo di averla vista, non ricordo nulla della mia deposizione, ho il vuoto totale» ha detto Laura Casagrande. Secondo Andrea De Priamo, presidente della Commissione, la testimone «apparve molto contraddittoria, come se la audita volesse togliersi dalla scena. Successivi accertamenti ci fanno tutt’ora ritenere che possa essere stata una delle ultimissime, se non l’ultima persona ad aver visto Emanuela a corso Rinascimento. L’ufficio di presidenza aveva già inserito il suo nome tra le persone da risentire, non escludendo di farlo attraverso la forma dell’esame testimoniale e non quella della libera audizione». 

La telefonata con una voce mediorientale

In quella stessa occasione, nella prima convocazione da parte della commissione, Laura Casagrande ha anche raccontato della telefonata ricevuta a casa il pomeriggio dell’8 luglio 1983. Dall’altro capo del filo una voce maschile araba o mediorientale, che in modo concitato ha dettato un comunicato da mandare all’Ansa. La mamma di Laura era al telefono, mentre la figlia prendeva appunti. Fu poi intervistata dalla trasmissione “Telefono Giallo”, nel corso della quale la ragazzina ha raccontato che lo sconosciuto al telefono aveva motivato il rapimento di Emanuela col fatto che fosse una cittadina del Vaticano, chiedendo la liberazione entro 20 giorni di Alì Agca, il turco che il 13 maggio 1983 fu protagonista dell’attentato a Papa Giovanni Paolo I in San Pietro. Da quel momento, la scomparsa della ragazza ha preso i connotati di una spy-story sullo sfondo di intrecci oscuri e in ambito internazionale.

Seconda audizione

Un mese dopo l’audizione davanti alla Commissione, Laura Casagrande è stata convocata una seconda volta dai parlamentari che indagano sulla vicenda, per approfondire la vicenda della telefonata anonima e sul presunto rapitore: “La voce aveva un timbro tra l’arabo, l’orientale e il mediorientale, anche se non so distinguere l’arabo dal turco” ha ricordato la testimone, confermando tuttavia di aver perso la memoria per quanto attiene ai fatti del giorno della scomparsa: “Il ricordo che ho impresso di quel giorno è che non venne alla lezione di coro. La aspettavo, perché era una delle ragazze con le quali avevo più legato. Non la vidi arrivare o arrivò molto tardi, a lezione cominciata: questo ora mi sfugge. Non ho memoria alcuna. Non ricordo nulla di tutto quello che ha riletto della mia deposizione dell’epoca. Ho un vuoto totale”.

A Piazzale Clodio con l’avvocato

Secondo il presidente della Commissione, Andrea De Priamo, «tutto questo è oggettivamente molto strano», mentre l’avvocato della famiglia Orlandi, Laura Sgrò, ha sottolineato che «le incongruenze nelle sue dichiarazioni ci sono da sempre ed è molto sensato fare un approfondimento come spunto investigativo delle prime ore della scomparsa di Emanuela». Anche per questo, molto probabilmente, la Procura di Roma ha deciso di scrivere il suo nome nell’elenco degli indagati e di sottoporla ad interrogatorio, accompagnata dal suo avvocato, a Piazzale Clodio, dove è stata sentita dal sostituto Stefano Luciani.

Il magistrato vuole sicuramente cercare di fare luce sulle incongruenze, sulle amnesie, sui cambi di versione e sulle incertezze di quella che è quasi certamente l’ultima persona ad aver visto Emanuela Orlandi. “Molto contento” il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro che da anni si batte in direzione ostinata e contraria per fare luce su quello che è accaduto alla sorella: “È una notizia importante perché lei potrebbe essere stata una delle ultime persone a vedere Emanuela, quindi potrebbe aver visto in quali mani eventualmente fosse andata e chi eventualmente fosse stato il gancio di un’eventuale rapimento”. Soddisfazione condivisa anche dall’avvocato Sgrò: «Questa notizia è molto positiva, perché la Casagrande delle cose strane le ha dette, ci sono molte discrasie e lei è importante per ricostruire tutto dall’inizio», ponendo anche l’accento sul fatto che dopo aver ricevuto quella telefonata anonima, sia lei che la madre si recarono alla redazione dell’Ansa, senza avvisare o coinvolgere minimamente le forze dell’ordine: una delle tante stranezze che hanno punteggiato – e continuano a farlo – il mistero triste e cupo della scomparsa di Emanuela Orlandi. 

Pakistan: ex premier Khan condannato a 17 anni di carcere

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Imran Khan, ex primo ministro del Pakistan, è stato condannato da un tribunale speciale a 17 anni di carcere. Il processo, che ha coinvolto Khan insieme alla moglie Bushra Bibi, è legato a un presunto caso di corruzione: i due avrebbero infatti ricevuto e gestito in modo improprio regali di Stato dal valore di 140 milioni di rupie pakistane (circa 430mila euro). La sentenza è stata criticata dal PTI, il partito guidato da Khan, che continua a mobilitarsi nelle strade e sui social nonostante le ondate di arresti.

Maxiprocesso Rinascita-Scott: in appello condanne al ribasso per istituzioni e ‘ndranghetisti

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Fioccano le condanne, seppur ridimensionate rispetto al verdetto di primo grado, nella sentenza di appello al Maxiprocesso “Rinascita-Scott”, che vede alla sbarra gli ‘ndranghetisti del Vibonese insieme a numerosi uomini dello Stato. Nello specifico, sono stati comminati complessivamente 1.200 anni di carcere a 154 imputati, insieme a 50 assoluzioni e 10 prescrizioni. Tra i condannati più illustri c’è Giancarlo Pittelli, ex senatore di Forza Italia e coordinatore del partito in Calabria, che ha rimediato 7 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa: avrebbe costituito il perno tra ‘Ndrangheta, massoneria e istituzioni. Se l’ex maresciallo della Dia Michele Marinaro, per cui l’accusa richiedeva 10 anni di reclusione, è stato prescritto, sono invece arrivate condanne, tra gli altri, per l’ex tenente colonnello dei carabinieri Giorgio Naselli (2 anni rivelazione di segreto d’ufficio) e per l’appuntato Antonio ventura (5 anni e 8 mesi per favoreggiamento aggravato).

A vario titolo, ai 322 imputati del Maxiprocesso – nata da un’inchiesta coordinata dall’allora Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri – venivano contestati reati quali associazione mafiosa, concorso esterno, rivelazione di segreto, estorsioni, omicidi, intestazione fittizia di beni, usura e riciclaggio. In primis, sono stati raggiunti da importanti condanne gli uomini delle ‘ndrine della provincia di Vibo Valentia, tra cui spiccano i Mancuso e i Bonavota. Le pene più alte confermate dalla Corte d’appello – 30 anni di carcere – sono state riservate a Luigi Mancuso e Giuseppe Accorinti, presunti boss di Limbadi e Zungri. Ingenti condanne anche per Domenico Bonavota, inquadrato come capomafia di Sant’Onofrio, punito con 23 anni e 6 mesi di carcere, e per Saverio Razionale, ritenuto come il capo di San Gregorio d’Ippona (21 anni). Si è potuti arrivare a questi importanti risultati anche grazie al ruolo chiave dei collaboratori di giustizia, che hanno fatto luce sulle dinamiche interne alla consorteria criminale e sui rapporti tra la ‘ndrangheta e l’universo politico-istituzionale.

La figura più “ingombrante” presente nella lista dei condannati è infatti quella dell’avvocato e politico Giancarlo Pittelli, ex senatore della Repubblica e coordinatore di Forza Italia in Calabria, cui in primo grado erano stati comminati 11 anni di carcere e che in appello ha visto la pena ridursi a 7 anni e 8 mesi. Secondo la ricostruzione della Procura, Giancarlo Pittelli avrebbe favorito il clan dei Mancuso e l’imprenditore Rocco Delfino – condannato a 4 anni e 6 mesi in appello dopo i 5 rimediati in primo grado –, costituendo la «cerniera tra i due mondi» in una «sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico, il professionista e il faccendiere». In sede di requisitoria, i pm lo hanno inquadrato come «massone, politico eletto con l’appoggio delle logge massoniche e della ‘ndrangheta ed in particolare dei Mancuso, disposto a sfruttare le sue conoscenze, a corrompere o indurre al reato pubblici ufficiali, a recuperare e riferire notizie coperte da segreto per favorire i Mancuso». Pittelli, nella ricostruzione della Procura, poteva infatti arrivare dove il boss di Limbadi Luigi Mancuso «non poteva da solo arrivare», rappresentando «il prolungamento del suo braccio proteso sulle istituzioni e sulla società civile».

Fra gli altri, sono poi stati condannati anche il tenente colonnello dei carabinieri Giorgio Naselli (2 anni, senza aggravante mafiosa) per rivelazione di segreto d’ufficio e l’avvocato Francesco Stilo (7 anni e 8 mesi) per concorso esterno in associazione mafiosa. È stata invece confermata la condanna a 5 anni e 8 mesi nei confronti del carabiniere Antonio Ventura, in servizio all’epoca dei fatti al Nucleo investigativo di Vibo, per favoreggiamento aggravato dalla finalità di agevolazione dell’associazione mafiosa. Pietro Giamborino, ex consigliere regionale del PD condannato in primo grado a 1 anno e 6 mesi per traffico di influenze illecite, è stato assolto in appello. È arrivata invece la prescrizione per Michele Marinaro, ex maresciallo della Dia di Catanzaro, per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio in cui era stato riqualificato il reato originario di concorso esterno.

Per Pittelli si tratta della seconda batosta giudiziaria nell’arco di poche settimane. L’avvocato ha infatti subìto a fine settembre una condanna in primo grado dai giudici del Tribunale di Palmi a 14 anni di carcere, sempre per concorso esterno con la ‘Ndrangheta, nell’ambito del processo denominato “Mala Pigna”. Secondo l’accusa, come si legge nel capo di imputazione, Giancarlo Pittelli avrebbe garantito «la sua generale disponibilità nei confronti del sodalizio a risolvere i più svariati problemi degli associati, sfruttando le enormi potenzialità derivanti dai rapporti del medesimo con importanti esponenti delle istituzioni e della pubblica amministrazione». L’ex parlamentare e coordinatore di Forza Italia in Calabria, infatti, poteva contare su «illimitate possibilità di accesso a notizie riservate e a trattamenti di favore», riuscendo dunque a fungere «da postino per conto dei capi della cosca Piromalli», per i quali «veicolava informazioni all’interno e all’esterno del carcere tra i capi della cosca detenuti in regime di 41 bis».

C’è chi dice no: l’esercito di disertori in Russia e Ucraina

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Sono centinaia di migliaia, giovani, vecchi, russi e ucraini, sulle divise stemmi diversi, ma un’unica, identica promessa: non vogliono uccidere, e non vogliono morire, per una guerra in cui non credono. Eccolo, l’esercito dei disertori, una marea di uomini che sta mettendo in crisi gli Stati di Putin e Zelensky, da entrambi i fronti di quella guerra che sempre più cittadini non vogliono combattere. La linea del fronte divide le almeno 335mila persone che dal febbraio 2022 a oggi hanno rifiutato di imbracciare le armi o sono fuggite dalle caserme; ma le conseguenze, in Ucraina e in Russia, per...

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Epstein file, pubblicati nuovi documenti: individuate oltre 1.200 vittime

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A ridosso della scadenza fissata dal Congresso, il Dipartimento di Giustizia USA ha pubblicato migliaia di documenti sul caso di Jeffrey Epstein, imprenditore condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori e morto in carcere nel 2019. I file comprendono centinaia di foto e video, una rubrica telefonica di quasi 100 pagine e i nomi – oscurati – di 1.200 giovani donne abusate. La documentazione risulta ampiamente censurata per tutelare le vittime. Dalle carte emergono foto di Epstein con volti noti, tra cui Bill Clinton, Noam Chomsky e Bill Gates; i riferimenti a Donald Trump sono limitati a una denuncia del 2020 su presunti fatti avvenuti negli anni Novanta.

La parola e l’icona: considerazioni sulla cultura russa

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Tutto comincia forse con una particolare accezione dell’invisibile che si presenta come prosecuzione di quella visione medievale per cui le cose sensibili sono immagini delle cose invisibili. Viene così messa in campo una speciale percezione, una speciale consapevolezza di realtà che sono simultanee. Si tratta di una concezione di stampo neoplatonico che quasi trasforma il guardare in una visione, con una sua forza creativa capace di orientare la comprensione umana: nella convinzione che tanto gli esseri incorporei quanto gli oggetti inanimati rispecchiavano gli eventi umani e potevano influenzarli.

Su questa base si viene ad affermare uno speciale statuto delle forme espressive, per cui si può dire che le parole si vedono, le icone (cioè le immagini sacre) si ascoltano. Nella versione romanzesca del film di Andrej Tarkovskij sul pittore di icone Andrej Rublëv (1992)  si incontra la battuta di un monaco il quale, contemplando l’icona resa scintillante dall’olio di lino, afferma estasiato che osservandola si possono ascoltare i pensieri di quei divini personaggi.

Nella cultura russa dell’Otto e del Novecento, erede intramontabile di una concezione arcaica, fondamentale è cogliere lo speciale statuto della realtà a cominciare dalla dimensione concreta della parola. Quella parola che, ad esempio in Pavel Florenskij, è paragonata a un organismo vivente; essa non trasferisce soltanto pensieri, non raffigura soltanto oggetti e stati di cose. Nella parola, secondo Florenskij, si condensa l’energia della volontà, dell’attenzione, in generale della vita interiore dell’uomo. Lo stesso Majakowskij nella sua poesia fa rivivere l’idea che nella parola si nasconda l’atto creativo: e dunque la parola è insieme tradizione e rivoluzione, ordine e disordine, concretezza e fantasia: di conseguenza i miti e le fiabe si perpetuano nei testi e nei racconti accanto alle nuove invenzioni artistiche.

La svolta cruciale della rivoluzione bolscevica porterà molti esponenti della intelligencija ad aderire anche entusiasti ma poi a tentennare, a retrocedere per finire poi con Stalin vent’anni dopo a essere perseguitati e soccombere nei gulag.

I contributi al riguardo nella cultura russa sono innumerevoli e soltanto apparentemente contrastanti. Lo stesso Nikolaj Berdjaev, esponente di punta del cosiddetto anarchismo cristiano, sostiene, ad esempio, che in Dostoevskij le idee si incarnano in parole come «destini dell’essere, come elementari energie infuocate» e che, sul piano storico, si confrontano incessantemente un tempo divino e un tempo terreno, il dominio di Dio e quello di Cesare.

La cultura russa, insomma, come forza che gestisce conflitti e contraddizioni e che Michail Bachtin, sorprendeva nel Rinascimento a colmare e far esplodere questo conflitto di valori con il grottesco, con la irrisione del potere, che nell’opera di Rabelais, a suo parere, aveva trovato il proprio apice. Il retaggio umanistico neoplatonico va dunque ad urtare contro il realismo corporeo delle rivolte linguistiche popolaresche. Il grande linguista Roman Jakobson, con il suo collega etnografo Pëtr Bogatyrëv giravano curiosi ed entusiasti nei mercati popolari, ai tempi della Rivoluzione, per cogliere le urla dei mercanti ma poi Jakobson si gettava ad analizzare con passione e competenza i grandi poeti.

In ultima analisi, la parola va sottratta ai suoi automatismi, al suo essenziale ma riduttivo compito di comunicare e deve diventare una dea alata, come quelle didascalie che nelle icone contrassegnavano i santi, la Madonna e il Signore non come figure di una composizione ma come parvenze espressive, parole della Parola, immagini libere da qualsiasi destino predeterminato.

Maxi-operazione antidroga in diverse province: 384 arresti

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Una maxi operazione della Polizia di Stato contro la criminalità diffusa e lo spaccio di droga è stata condotta nelle scorse ore in diverse province con il coordinamento del Servizio centrale operativo e il coinvolgimento delle Squadre mobili. Il bilancio è di 384 arresti e 655 denunce, con il sequestro complessivo di circa 1.400 chili di sostanze stupefacenti: 35 chili di cocaina, 1.370 di cannabinoidi e un chilo di eroina. Identificate oltre 95mila persone, tra cui più di 10.800 minorenni. Sequestrate anche 41 armi da fuoco, 80 armi bianche e oltre 300mila euro in contanti. Effettuati controlli su oltre 300 cannabis shop, con cinque sequestri, tre arresti e 141 denunce.

Manovra, il governo nel caos conferma la norma sull’oro di Bankitalia e il bonus alle paritarie

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Dopo ore di caos parlamentare, con la maggioranza che ha sfiorato la crisi per lo scontro sulle pensioni, la commissione Bilancio del Senato ha dato il via libera a due misure simbolo: la dichiarazione che l’oro della Banca d’Italia «appartiene al popolo» e un nuovo contributo per le famiglie che scelgono le scuole paritarie. Mentre il maxi-emendamento governativo viene smembrato e la stretta previdenziale stralciata, queste due norme trovano spazio nella Manovra, insieme ad altre misure su difesa, tassazione e affitti brevi, a testimonianza delle priorità che l’esecutivo ha voluto difendere nell’intenso vortice delle trattative. Le quali, in realtà, hanno mostrato una maggioranza molto meno coesa di quanto si voglia far apparire.

Il clima in commissione è teso, dopo il braccio di ferro che ha portato al ritiro dell’intero pacchetto pensioni. In questo contesto, l’approvazione della norma sull’oro assume un valore politico e simbolico, celebrata con enfasi dai relatori di maggioranza. Il testo, riformulato dal governo, sancisce che «le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al Popolo italiano», inserendo tuttavia riferimenti al rispetto dei trattati europei. Il senatore Claudio Borghi (Lega) definisce il passaggio «un momento molto importante, una mia battaglia di 11 anni», mentre il collega di Fratelli d’Italia Guido Liris parla di «una grande vittoria di una battaglia storica portata avanti da Giorgia Meloni». Accanto alla questione aurea, trova conferma il contributo per le scuole paritarie. La misura stabilisce un sostegno fino a 1.500 euro per le famiglie con Isee entro i 30mila euro, i cui figli frequentino una scuola paritaria secondaria di primo grado o il primo biennio delle superiori. Il beneficio, determinato con scaglioni inversamente proporzionali al reddito, avrà un tetto di spesa di 20 milioni di euro per il 2026. I dettagli operativi saranno definiti con un decreto del ministro dell’Istruzione.

Il via libera in Commissione ha riguardato una moltitudine di altri emendamenti. Tra i più significativi spicca quello a sostegno dell’industria della difesa, che autorizza i ministeri competenti a individuare con decreto «attività, aree e relative opere e progetti infrastrutturali» per «l’ampliamento, conversione, gestione e sviluppo delle capacità industriali della difesa», finalizzate alla produzione di materiale bellico. Sul fronte fiscale, il pacchetto include misure variegate: il testo prevede aumenti delle aliquote della cosiddetta Tobin tax sulle transazioni finanziarie — con incrementi che, per alcune categorie di operazioni, portano ad esempio dallo 0,2% allo 0,4% — l’introduzione di una tassa fissa di 2 euro sui piccoli pacchi extra-Ue di valore fino a 150 euro e un incremento del prelievo sulle banche pari a 605 milioni per i prossimi due anni. Passa inoltre una revisione sulle affitti brevi: la cedolare secca resta prevista per gli affitti di breve durata sui primi immobili destinati a tale attività, mentre dal terzo immobile scatterà la presunzione di attività d’impresa; in alcuni passaggi del dibattito si è fatto riferimento a aliquote diverse per le unità ulteriori, fino a un livello indicativo del 26%.

Tra le misure ridimensionate o escluse figurano i tagli previsti al Piano Casa per il 2026, l’ipotesi di adesione automatica alla previdenza complementare per i nuovi assunti e il contributo di 1,3 miliardi chiesto inizialmente alle compagnie assicurative, che è saltato. L’iperammortamento viene stabilizzato su un orizzonte triennale, Transizione 4.0/5.0 è rimodulata e condizionata a investimenti su beni «Made in Italy», mentre la rimodulazione delle norme su banche, deducibilità e dividendi rimane una partita tecnica aperta. A ogni modo, giorno dopo giorno, la tenuta della maggioranza si fa evidentemente sempre più sfilacciata, a causa di evidenti differenze di vedute che sembrano già anticipare il clima della prossima campagna elettorale.

Quello approvato in commissione è il punto di arrivo di un percorso segnato da tensioni e contestazioni. La norma sull’oro era stata presentata a fine novembre e criticata dalla Banca centrale europea all’inizio di dicembre, quando la BCE ha espresso un parere formale che richiamava Roma al rispetto dei Trattati e alla necessità di non mettere in discussione l’indipendenza della banca centrale: di qui la riscrittura del testo governativo per inserire i caveat richiesti. Allo stesso modo, il contributo per le paritarie — proposto come sostegno alle famiglie «di ceto medio» — aveva sin da subito suscitato le critiche delle opposizioni, che lo hanno definito un «regalo» agli istituti privati e hanno rilanciato il tema della tutela del sistema scolastico pubblico. L’approvazione di entrambe le misure, nonostante le obiezioni tecniche e politiche, segna la volontà dell’esecutivo di chiudere due battaglie simboliche.