Difficoltà economiche e crollo della valuta hanno portato centinaia di cittadini iraniani a scendere in piazza da ormai quattro giorni, tra lavoratori e studenti, per protestare contro le politiche del governo. Media statali, citati da Al Jazeera, hanno riferito che oggi i manifestanti hanno cercato di fare irruzione in un edificio governativo a Fasa, nella provincia meridionale di Fars, ma sono stati bloccati dalle forze di sicurezza. Secondo i media, la organizzatrice della protesta, una donna di 28 anni, sarebbe stata arrestata.
Torino, continua la repressione dei movimenti per la Palestina: sei arresti
Hanno tra i 16 e i 17 anni, ma sono comunque finiti tutti ai domiciliari, indagati a vario titolo per resistenza aggravata e lesioni a pubblico ufficiale. Si tratta di sei studenti, la maggior parte dei quali del liceo Einstein di Torino, che negli ultimi mesi avrebbero preso parte a numerose iniziative contro il governo e per la Palestina. L’episodio è solamente l’ultimo di una lunga serie di atti repressivi avvenuti a Torino (e non solo) contro i movimenti che esprimono dissenso nei confronti del governo e per la Palestina, culminati lo scorso 18 dicembre nello sgombero dello storico centro sociale Askatasuna.
Tra le iniziative contestate dalla Questura vi è la protesta contro il volantinaggio di Gioventù Nazionale (organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia) dello scorso 27 ottobre. Una decina di studenti afferenti al Kollettivo Einstein avrebbero infatti cercato di impedire la propaganda politica del gruppo e la situazione si sarebbe scaldata al punto da far intevenire la Digos (che non spiega quali sarebbero state le circostanze per le quali è stato necessario il suo intervento). I poliziotti, che sarebbero stati accolti con calci e spinte, hanno fermato uno degli studenti dell’Einstein. Mentre veniva portato in Questura, i compagni avrebbero cercato di fermare gli agenti e, nei tafferugli che sarebbero seguiti, un paio di questi avrebbero riportato lievissime contusioni. Pochi giorni dopo, in una lettera inviata al manifesto, gli insegnanti del liceo avevano apertamente preso le parti degli studenti, denunciando un uso eccessivo della forza da parte della polizia. Nella lettera gli insegnanti denunciavano il tono razzista del volantinaggio di Gioventù Nazionale, che se la prendeva con i ragazzi immigrati (molti dei quali frequentano il liceo), e negano che si fossero mai creati disordini tali da richiedere l’intervento della polizia. Gli insegnanti hanno poi denunciato come gli agenti avessero immediatamente usato la forza su ragazzi privi di armi o oggetti contundenti di qualsiasi tipo. Dal canto loro, i genitori avevano denunciato il fatto che nessuno avesse provato a mediare la situazione, prima di passare alla forza.
Vi è poi quanto accaduto il successivo 14 novembre, nel corso di una manifestazione del No Meloni Day, durante il quale gli studenti italiani hanno riempito oltre cinquanta piazze per protestare contro tagli alla scuola, alternanza scuola-lavoro, precarietà dei ricercatori e genocidio in Palestina. A Torino, quando il corteo ha cercato di superare gli agenti del Reparto Mobile ed entrare nella sede della Città Metropolitana, gli studenti sono stati respinti a colpi di manganello: anche in questa occasione, riporta la Questura, nove agenti hanno riportato lievissime contusioni.
Il comunicato della Questura, poi, riferisce che gli studenti si sono resi protagonisti di ulterirori “episodi criminosi”, quali l’occupazione dei binari della stazione ferroviaria di Porta Nuova durante lo sciopero nazionale per la palestina (che ha visto coinvolte centinaia di migliaia di persone in tutto il Paese) del 22 settembre e di quelli di Porta Nuova il 24 settembre, oltre che della protesta presso la sede del quotidiano La Stampa – quando, nel corso dello sciopero per la Palestina e contro il riarmo, un gruppo di manifestanti si staccò dal corteo principale ed entrò nella redazione vuota del giornale, dopo aver lanciato letame all’ingresso. Per quell’azione, che ha scatenato la reazione della politica sino al Quirinale, sono state denunciate 36 persone.
ChatGPT si prepara a dar spazio alle opinioni degli inserzionisti
Secondo le grandi aziende promotrici dell’intelligenza artificiale, i chatbot avrebbero dovuto offrire agli utenti un accesso imparziale e universale al sapere, una sorta di verità assoluta capace di inglobare l’intero scibile umano. Nella realtà, però, questi sistemi continuano a riflettere i bias presenti nei dati con cui vengono addestrati e risentono degli interessi di chi li sviluppa e li controlla. Tuttavia, il quadro potrebbe presto peggiorare: OpenAI starebbe valutando di calibrare ChatGPT affinché dia maggiore priorità alle opinioni e ai messaggi degli inserzionisti.
L’indiscrezione è emersa grazie a The Information, testata che ha rivelato come all’interno dell’azienda sia in corso un dibattito su come introdurre un vero e proprio “trattamento preferenziale” per i contenuti sponsorizzati. Considerando quante persone si rivolgono impropriamente all’IA per ottenere pareri medici, politici o psicologici, è facile intuire quanto sia rischioso permettere al miglior offerente di influenzare la forma e la sostanza delle risposte fornite da questi sistemi.
Nonostante i rischi, il report descrive un clima aziendale in cui la discussione ruota attorno a come introdurre contenuti a pagamento senza però alienare gli utenti. OpenAI ha modellato il suo chatbot come il simulacro di un cicisbeo, come una presenza compiacente e accondiscendente, capace di avviluppare gli utenti in fitti scambi testuali; proprio per questo, l’azienda teme che un’integrazione troppo invasiva della pubblicità possa compromettere l’esperienza costruita finora, spingendo gli utenti a voltare le spalle al servizio.
Che OpenAI intendesse introdurre inserzioni nei risultati di ChatGPT era già emerso a inizio dicembre, quando alcuni osservatori hanno iniziato a notare nell’app Android del servizio la comparsa di nuove linee di codice che facevano riferimento a una funzione pubblicitaria in fase di test. Le ragioni di questa svolta sono piuttosto evidenti: pur cercando con ogni mezzo di trasformarsi da organizzazione no‑profit a realtà pienamente commerciale, il modello di business dell’azienda rimane profondamente in perdita. Secondo documenti finanziari citati da The Register, OpenAI avrebbe bruciato almeno 11,5 miliardi di dollari nel solo trimestre luglio‑settembre del 2025. La strategia aziendale punta d’altronde a una crescita estremamente aggressiva che, nelle previsioni più rosee della dirigenza, continuerà a generare perdite almeno fino al 2028.
Si tratta di una strategia ormai consolidata nel settore tech: ampliare rapidamente la base dei propri utenti offrendo prodotti e servizi digitali sottocosto e, una volta conquistata una posizione dominante, iniziare a ridimensionare la qualità o la convenienza dell’offerta. È accaduto con il motore di ricerca Google, sempre più saturo di contenuti “sponsorizzati”, e con i principali servizi di streaming, i quali si proponevano originariamente come alternativa economica e priva di pubblicità alla TV via cavo, salvo poi abbandonare completamente quella promessa in favore di abbonamenti più costosi e dell’introduzione di inserzioni. Si tratta di un decorso tanto comune da essersi meritato un neologismo: “enshittification”, ovvero la “merdificazione” dei servizi.
OpenAI si trova però davanti a un ostacolo evidente: pur godendo oggi di un vantaggio competitivo, non ha ancora raggiunto quel livello di potere che le permetterebbe di trattare con leggerezza i propri utenti. Al contrario, la dirigenza avrebbe persino diramato un “codice rosso” per i rischi posti dalla concorrenza. Un’analisi opinionistica del Wall Street Journal diventata rapidamente virale sostiene che la strategia dell’azienda consista nel diversificare massicciamente i propri investimenti fino a diventare un ingranaggio essenziale dell’economia statunitense. Che l’obiettivo sia il raggiungimento del “too big to fail”, del diventare troppo importante per essere lasciata fallire.. A quel punto, in caso di crisi, OpenAI potrebbe chiedere una mano ai governi per evitare il collasso, ricalcando quanto avvenuto nel 2008 con il salvataggio degli istituti finanziari.
Presunto attacco contro residenza Putin: Mosca mostra video, Kiev smentisce
Il ministero della Difesa russo ha diffuso un video di un drone abbattuto, riferisce Tass: si tratterebbe, secondo quanto dichiarato da Mosca, di uno di quelli diretti verso la residenza del presidente Putin, nella regione di Novgorod. Nella giornata di ieri, infatti, la Russia ha accusato Kiev di aver tentato un attacco a lungo raggio nei confronti del presidente tra il 28 e il 29 dicembre. Il governo russo ha definito quello ucraino un attacco terroristico, ma dal canto suo Kiev ha respinto tutte le accuse.
L’Ex Ilva a un fondo USA in cambio di un euro: avviata la trattativa
La società statunitense Flacks Group ha reso noto, attraverso un post pubblicato su LinkedIn, di aver avviato una trattativa esclusiva con il governo italiano per l’acquisizione dell’acciaieria ex Ilva, il più grande impianto siderurgico integrato d’Europa. Per l’acquisto il gruppo americano ha offerto un solo euro, sebbene dichiari di essere pronto a investire fino a cinque miliardi di euro per la modernizzazione degli impianti «inclusa l’elettrificazione e l’ammodernamento dei forni». Sul fronte dell’occupazione, il fondo USA prevede l’assunzione di soli 8500 lavoratori rispetto ai 9.741 attuali, con un esubero, dunque, di 1241 operai. Il che ha suscitato la preoccupazione dei sindacati: «È inaccettabile che le trattative avvengano con fondi speculativi alle spalle dei lavoratori», ha detto Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil. Il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, invece, ha posto l’accento sul ruolo dello Stato nel rilancio dell’impianto: «Non lasceremo il destino di 20mila lavoratori (compreso l’indotto, N.d.R) nelle mani di un fondo di investimento. È fondamentale un ruolo centrale dello Stato nella futura società, con poteri effettivi e vincolanti per garantire la decarbonizzazione, il risanamento ambientale e la piena tutela occupazionale».
L’annuncio della trattativa esclusiva con i commissari straordinari di Acciaierie d’Italia da parte del gruppo americano arriva proprio nel giorno in cui la procura di Taranto, come riferito dalla Gazzetta del Mezzogiorno, ha nuovamente respinto la richiesta di dissequestro dell’altoforno 1 avanzata da Acciaierie d’Italia. L’altoforno era stato messo sotto sequestro lo scorso maggio in seguito a un incendio che aveva danneggiato l’impianto. La coincidenza temporale tra l’annuncio del fondo statunitense e la decisione della procura di Taranto ha suscitato il disappunto del governo: «Il no della Procura al dissequestro dell’altoforno 1 dell’ex Ilva è l’ennesima prova di una giustizia che ha scelto di distruggere gli impianti e impedire ogni rilancio produttivo. Una giustizia ad orologeria che fa filtrare la notizia proprio in una giornata cruciale per sabotare il processo di aggiudicazione», ha dichiarato in aula il senatore di Fratelli d’Italia Matteo Gelmetti. Per quanto riguarda il controllo dell’acciaieria, nell’eventuale nuova società lo Stato italiano manterrebbe una partecipazione del 40%, ma Flacks Group avrebbe un’opzione per acquisire in futuro un ulteriore 40%.
A causa del devastante impatto ambientale dell’impianto, degli alti costi per la bonifica del territorio e per la ristrutturazione degli impianti e dell’inefficienza nella gestione della struttura, il governo ha trovato pochissimi acquirenti e, soprattutto, non vi sono state offerte da parte di soggetti siderurgici. Oltre a quella di Flacks Group, secondo il ministero delle Imprese e del Made in Italy, l’offerta d’acquisto migliore finora era quella presentata da un altro fondo di investimento statunitense, Bedrock, che però prevedeva maggiori licenziamenti. Tradotto, il governo è costretto a liquidare quello che è un impianto ormai sulla via del fallimento, facile preda di compagnie specializzate a investire e speculare nei cosiddetti distressed assets (asset in difficoltà), comprandoli a basso costo o quasi a costo zero, per poi ristrutturarli e rivenderli lucrando sulla differenza di prezzo.
Flacks Group è una società dedita proprio a questo tipo di investimenti: l’amministratore delegato, Michael Flacks, infatti, «è specializzato nell’acquisizione e nel risanamento operativo di aziende di medie e grandi dimensioni in situazioni complesse in cui una soluzione rapida è di fondamentale importanza», come si legge sul sito. Tuttavia, la reputazione dell’amministratore delegato – miliardario e autodefinitosi filantropo – non è delle migliori: secondo un approfondimento del quotidiano tedesco di economia e finanza Handelsblatt, infatti, l’imprenditore sarebbe «il terrore di tutte le aziende di medie dimensioni». In Germania, infatti, avrebbe portato al definitivo fallimento di diverse imprese, tra cui un’azienda bavarese di tecnologie per la pulizia industriale e OGRO Beschlagtechnik, un’azienda che produce maniglie e altre parti in ferramenta per le porte.
Intanto i sindacati sono preoccupati per gli aspetti occupazionali e hanno chiesto «ai commissari e al governo un incontro urgente a Palazzo Chigi, alla presenza della presidente Meloni, per conoscere tutti gli aspetti occupazionali, ambientali e industriali dell’offerta e le ragioni che hanno portato a questa decisione». Qualora l’accordo venisse ratificato, è probabile che il governo completi l’assegnazione nei primi mesi del 2026.
No a Bassetti a capo dei bandi sulla ricerca: i ricercatori denunciano il conflitto d’interessi
Conflitti di interesse, credibilità scientifica contestata, ombre sulla gestione della formazione specialistica e sul ruolo pubblico. È su questi punti che si concentra la richiesta di un incontro urgente avanzata dal Comitato per la Tutela della Salute Pubblica alla ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini. Al centro della contestazione c’è la nomina di Matteo Bassetti alla guida della commissione del MUR (Ministero dell’Università e della Ricerca) che decide la distribuzione dei fondi pubblici per la ricerca. Una scelta che, denunciano ricercatori, medici e oltre settanta associazioni tra cui la Commissione Medico-Scientifica Indipendente, non garantirebbe i criteri di terzietà e trasparenza richiesti.
Non è una polemica personale, sostengono i promotori, ma una questione istituzionale: chi assegna risorse pubbliche deve essere indipendente e inattaccabile. «Nessun incarico pubblico» spiegano, «può essere affidato in presenza di conflitti di interesse dichiarati o di condotte comunque discutibili». Il caso emerge fuori dai riflettori, ma la mobilitazione cresce rapidamente: in pochi giorni le firme della petizione hanno superato quota quattordicimila. Al centro della contestazione c’è quanto dichiarato dallo stesso Bassetti nell’audizione presso la Commissione Parlamentare COVID del 17 novembre 2025, quando ha ammesso che la «collaborazione economica continuativa» con aziende farmaceutiche costituisce «una delle parti del mio lavoro». Una dichiarazione che, secondo i firmatari dell’istanza inviata alla ministra Anna Maria Bernini, configura un conflitto d’interessi incompatibile con un ruolo che comporta la valutazione e la destinazione di fondi pubblici alla ricerca. La normativa è chiara, ricordano i ricercatori, dall’obbligo di astensione in caso di conflitto anche potenziale fino alle linee guida sulla terzietà dei valutatori. Affidare la guida dei bandi a chi intrattiene rapporti economici con soggetti potenzialmente beneficiari dei finanziamenti mina la credibilità dell’intero sistema.
C’è poi la questione della credibilità scientifica. Secondo quanto riportato nel comunicato della Commissione Medico-Scientifica Indipendente, nel solo 2025 Bassetti risulta firmatario di oltre ottanta pubblicazioni scientifiche: «È davvero possibile per un singolo ricercatore contribuire con rigore, supervisione e approfondimento scientifico a un numero tanto alto di studi in così poco tempo?», si chiedono i promotori dell’appello. Il numero così elevato di pubblicazioni suscita perplessità sulla qualità del contributo scientifico e richiama una delle distorsioni più discusse della ricerca contemporanea: l’iperproduttività come valore in sé. Non un merito, ma un sintomo di un sistema che privilegia la quantità alla solidità dei risultati, moltiplicando lavori poco riproducibili e pratiche opache. I firmatari avvertono che istituzionalizzare questo modello attraverso i criteri dei bandi pubblici significherebbe aggravare una crisi già evidente.
A completare il quadro arrivano le segnalazioni sulla gestione della formazione specialistica e le questioni etiche legate al ruolo pubblico. L’Associazione Liberi Specializzandi ha denunciato criticità nella scuola diretta da Bassetti (insufficienza del tutoraggio, turni non supervisionati, carenze formative incompatibili con gli standard richiesti dalla normativa europea), mentre la condanna civile per aver definito il Premio Nobel Luc Montagnier “demente” e “rincoglionito” viene richiamata come elemento incompatibile con il decoro richiesto a un rappresentante istituzionale. Per questo, il Comitato per la Tutela della Salute Pubblica chiede un incontro urgente con il ministro e la revoca della nomina. La richiesta è netta: trasparenza totale sui conflitti d’interesse, criteri rigorosi e automatici di esclusione dai ruoli valutativi, restituzione di credibilità alla ricerca pubblica. La posta in gioco, concludono i promotori, non è un nome ma il futuro stesso dell’indipendenza scientifica nel Paese.
Cina: concluse esercitazioni militari attorno a Taiwan
La Cina ha annunciato di aver completato con successo le esercitazioni militari attorno a Taiwan, comprendenti anche esercitazioni con fuoco vivo e simulazioni di blocco dei porti e attacchi marittimi da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione. Il portavoce del Comando del Teatro Orientale ha dichiarato che le truppe proseguiranno l’addestramento per «contrastare i tentativi separatisti di indipendenza di Taiwan e interventi esterni». L’operazione rappresenta l’ennesima dimostrazione di forza di Pechino nella regione.
Vietato aiutare i palestinesi: Israele mette al bando 25 organizzazioni umanitarie
Israele ha annunciato che dal 1° gennaio 2026 sospenderà l’attività di oltre 25 organizzazioni umanitarie e caritatevoli internazionali, tra cui Medici senza frontiere, CARE, Oxfam e Caritas, nella Striscia di Gaza. La decisione, ufficialmente motivata dal mancato rispetto di nuove regole di registrazione e trasparenza imposte da Tel Aviv, rischia di ridurre significativamente l’assistenza in un territorio già devastato da una prolungata crisi umanitaria, con gravi carenze di cure mediche, cibo, acqua ed elettricità. Le ONG denunciano l’arbitrarietà delle nuove disposizioni e l’effetto devastante sulla popolazione civile.
Il Ministero degli Affari della Diaspora ha reso pubbliche nuove norme per la registrazione e il funzionamento delle organizzazioni non governative straniere che operano a Gaza. Secondo le autorità di Tel Aviv, le regole – che richiedono dettagliate informazioni su personale, finanziamenti e attività – mirano a evitare che elementi collegati a gruppi armati, come Hamas, possano sfruttare i canali umanitari per fini militari o logistici. Israele ha affermato che le organizzazioni che non ottemperano a questi requisiti non potranno più operare nella Striscia, e che l’impatto complessivo sul flusso di aiuti sarà contenuto grazie all’impiego di ONG “autorizzate”. Le nuove regole implicano anche l’uscita delle ONG dai territori di Israele e Gerusalemme entro marzo 2026, un passo che alcune organizzazioni definiscono “esproprio burocratico” della loro presenza storica nella regione.
Tel Aviv ha anche accusato Medici senza frontiere (MSF), una delle più grandi organizzazioni sanitarie che operano a Gaza, di non aver chiarito i ruoli di due membri del personale che, secondo Israele, avrebbero avuto «legami con organizzazioni terroristiche». MSF ha respinto tali accuse, dichiarando che «non assumerebbe mai consapevolmente persone impegnate in attività militari». Non è la prima volta che Israele cerca di reprimere i gruppi umanitari internazionali. In passato ha accusato – senza fornire alcuna prova – l’Agenzia delle Nazioni unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) di collusioni con Hamas – accuse respinte dall’ONU – fino a vietarne l’operatività a gennaio e favorendo il taglio dei fondi statunitensi nel 2024.
La decisione israeliana arriva in un contesto in cui Gaza affronta condizioni di vita estremamente difficili. Dopo anni di conflitto e blocchi che hanno colpito infrastrutture vitali, la popolazione civile dipende in larga misura dall’assistenza internazionale per l’accesso a servizi sanitari, acqua potabile, cibo e beni di prima necessità. Medici senza frontiere, ad esempio, ha messo in guardia che la revoca della registrazione rischia di privare centinaia di migliaia di persone di cure mediche salvavita, in un sistema sanitario già distrutto: «Se le organizzazioni umanitarie indipendenti ed esperte perdessero la possibilità di operare, ne conseguirebbe un disastro per i palestinesi». Le ONG definiscono arbitrarie le nuove regole israeliane e avvertono che la richiesta di dati sul personale può mettere a rischio la sicurezza degli operatori; respingono ogni accusa di legami armati e, insieme a osservatori internazionali, interpretano la misura come un tentativo di colpire chi documenta la crisi di Gaza e le violazioni dei diritti umani legate all’occupazione.
La decisione di sospendere le attività delle ONG umanitarie non è passata inosservata sulla scena internazionale. Ministri degli Esteri di diversi Paesi, tra cui Regno Unito, Francia e Canada, hanno espresso profonda preoccupazione per le conseguenze che la messa al bando delle organizzazioni potrebbe avere sui civili e hanno sollecitato Israele a favorire l’accesso umanitario e a rivedere i criteri che regolano l’assistenza, ribadendo l’importanza di un flusso ininterrotto di aiuti verso Gaza. Alcune nazioni hanno richiamato l’attenzione sulla definizione di “beni a duplice uso” – spesso utilizzata da Israele per limitare l’ingresso di materiali – e sull’irrigidimento delle procedure doganali che rallentano l’arrivo dei rifornimenti. Le organizzazioni umanitarie avvertono che l’esclusione delle ONG indipendenti rischia di compromettere in modo irreversibile l’assistenza e di ridurre la visibilità internazionale della crisi, affidando gli aiuti a canali sempre più opachi e politicizzati.
Chico Forti ottiene il permesso per lavorare fuori dal carcere
Il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha concesso a Chico Forti il permesso di lavorare fuori dal carcere di Verona, applicando l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Forti potrà uscire per frequentare un corso di formazione professionale per pizzaioli, svolgere attività di volontariato con anziani e insegnare windsurf a persone con disabilità. La decisione arriva dopo che una precedente richiesta di liberazione condizionale era stata respinta a settembre. Già nei mesi scorsi aveva ottenuto permessi per frequentare le aule studio e visitare la madre a Trento.









