Gli Stati Uniti starebbero conducendo una nuova operazione contro una petroliera venezuelana, secondo quanto riferito da alcuni funzionari di governo all’agenzia di stampa Reuters. La Guardia Costiera USA starebbe inseguendo la nave nelle acque internazionali vicino al Venezuela, in quella che sarebbe la terza operazione di questo genere in meno di una settimana. Negli scorsi giorni, Trump aveva annunciato il blocco di tutte le petroliere in entrata e uscita dal Venezuela come forma di pressione sul governo Maduro.
In Bolivia i lavoratori hanno proclamato lo sciopero a oltranza contro il governo
«Annunciamo lo sciopero generale a oltranza e chiediamo al popolo boliviano di unirsi alla protesta». Queste le parole di Andrés Paye, segretario della Federazione Sindacale dei Minatori della Bolivia (FSTMB), con cui ha dato inizio alla mobilitazione del settore. Poco dopo si è aggiunta anche la Centrale Operaia Boliviana (COB), il principale sindacato del Paese, che riunisce al suo interno diverse sigle, tra cui la FSTMB. I lavoratori si sono schierati contro il presidente Rodrigo Paz Pereira, la cui elezione, avvenuta lo scorso ottobre, ha interrotto 20 anni di socialismo boliviano, segnando la svolta a destra per il Paese. A finire nel mirino dei lavoratori sono state le misure approvate dal nuovo governo — in particolare il decreto supremo 5503 — accusate di favorire gruppi privilegiati e lobby a discapito della maggioranza della popolazione.
«Vogliamo dire alla comunità internazionale che tutto ciò che accadrà a partire da ora sarà responsabilità del governo», ha dichiarato Andrés Paye al culmine del discorso che ha dato inizio allo sciopero dei minatori boliviani, un settore chiave per l’economia del Paese. Poche ore dopo, la protesta è stata rilanciata anche dalla Centrale Operaia Boliviana, rinsaldando il carattere generale dello sciopero. Tra giovedì e venerdì scorso si sono registrati i primi disservizi, con diverse città boliviane rimaste senza trasporto pubblico. Contestualmente, i lavoratori hanno effettuato dei blocchi autostradali. Contromisure che i sindacati minacciano di riproporre fino all’abrogazione delle ultime leggi approvate in materia economica dal governo di Rodrigo Paz Pereira. La Federazione Sindacale dei Minatori della Bolivia rilancia, facendo sapere che il suo sciopero continuerà fino alle dimissioni del nuovo presidente.
Per ridurre il deficit fiscale, il decreto supremo 5503 ha eliminato la sovvenzione statale sui carburanti, facendone raddoppiare il prezzo per i consumatori finali. Ciò avrà conseguenze sul lungo termine, riguardando soprattutto trasporti e beni di prima necessità, per un generale aumento del costo della vita. Nella capitale La Paz, i costi del trasporto pubblico dovrebbero ad esempio crescere del 100% nei prossimi giorni.
I sindacati hanno bollato la riforma economica come un attacco alla classe lavoratrice, a tutto vantaggio di poche oligarchie industriali, a partire da quelle del carburante. Il risentimento popolare è alimentato dall’eliminazione delle tasse ai grandi patrimoni e alle transazioni finanziarie, decisa dal governo pochi giorni fa. Lo schema realizzato dal neopresidente boliviano Paz si inquadra nei canoni neoliberisti: di fronte alle crisi economiche si procede con i tagli alla spesa sociale, non curandosi delle conseguenze per le classi meno abbienti — lavoratori, contadini, poveri — su cui viene anzi fatto ricadere tutto il peso della crisi.
Sudafrica, 9 uccisi e 10 feriti in una sparatoria
Al-Mughayyir, famiglie sgomberate e attivisti espulsi: così Israele crea gli avamposti illegali
AL-MUGHAYYIR, CISGIORDANIA OCCUPATA – Sono state rimpatriate pochi giorni fa due cittadine americane, dopo una settimana di detenzione nel carcere di Givon, in Israele. Avevano rifiutato di lasciare una famiglia palestinese alla mercé di coloni e militari, dopo una settimana di aggressioni che quotidianamente la comunità alla periferia di Al-Mughayyir stava subendo. Irene Cho e Trudi Frost sono state arrestate il 12 dicembre; poco prima, i soldati avevano presentato un ordine militare della durata di un mese che sigillava l’area, impedendo di fatto a ogni persona esterna alla famiglia di poter attraversare quel luogo.
Una mossa esplicitamente fatta per impedire agli attivisti internazionali di essere presenti tra quelle colline, un luogo strategico per i coloni, che vogliono creare una linea di insediamenti da Ramallah alla zona sud di Nablus e da lì fino alla Valle del Giordano. L’obbiettivo dei settlers, è la continuità territoriale per connettere i loro avamposti illegali che vanno moltiplicandosi dal 7 di ottobre. E la casa della famiglia di Abu Hamam, nella zona di al-Khalaye, si trova proprio sulla linea di fuoco.

«I coloni vengono ogni giorno» racconta la padrona di casa, Fadda Abu Naim, 59 anni. «Ci rubano le pecore, ci minacciano, cercano di spaventarci. Vogliono mandarci via, così questa terra rimane a loro», dice a L’Indipendente. La sua famiglia vive lì da cinque anni. Dalla casa dove abitava prima, nella Valle del Giordano, erano stati mandati via dai militari, che avevano decretato che quell’area era una “zona vietata” ai civili. Per qualche mese si erano stanziati ad Al-Qaboun, ma poi avevano dovuto spostarsi nuovamente a causa della loro vicinanza a una colonia. Approdati a Turmus Ayya, dopo tre anni avevano deciso di trasferirsi ad al-Mughayyir a seguito dell’escalation delle aggressioni da parte dei coloni nel Paese.
Ora, rischiano nuovamente di essere mandati via. Coloni e militari sono uniti nel comune intento di sfollamento forzato: a volte sono i settlers a disturbare la tranquillità di quel manipolo di case dove abita anche la famiglia Hamam; altre volte, sono i militari in divisa. Ma, ultimamente, la coordinazione tra le due forze israeliane è così esplicita che è difficile da negare.
Fino a due anni fa in tutta la zona vi erano almeno sei famiglie. Gli attacchi dei coloni hanno iniziato a intensificarsi, grazie anche alla costruzione di un nuovo avamposto dall’altra parte della collina. Piano piano, varie famiglie hanno scelto di andarsene, estenuate dalla paura delle aggressioni e delle molestie sistematiche, mentre una è stata sgomberata dall’esercito. L’ultima ha lasciato la casa circa due mesi fa, dopo che uno dei figli, un bambino di 12 anni, era stato quasi strangolato da un colono. Ora ne rimangono solo due.

Fadda Abu Naim, detta Umm Hamam (“Mamma Hamam”), è diventata famosa sui social per un video in cui tiene testa a un colono che cerca di spaventarla. Nel video, la donna non abbassa lo sguardo e non si allontana dal giovane israeliano, forse uno degli stessi coloni che meno di due settimane fa si è introdotto nella sua abitazione di notte e l’ha picchiata insieme al nipote di tredici anni e a quattro attivisti internazionali di ISM (International Solidarity Movment).
Era la notte del 7 dicembre quando 8 coloni mascherati armati di bastoni e mazze si sono introdotti nella tenda dove dormiva insieme ai nipoti. «Hanno iniziato a colpirmi sulla testa, sulle gambe, sulle braccia. È la prima volta che picchiano una donna», racconta, mentre il nipote Riziq, 13 anni, ci mostra dove l’hanno colpito sulla nuca. I coloni hanno poi minacciato la famiglia, dicendo che sarebbero tornati a bruciare le case con loro dentro se non se ne fossero andati entro due giorni. L’attacco dei coloni è avvenuto in coordinamento con un raid militare sul villaggio, che ha impedito ai residenti e ai medici di soccorrere la famiglia.
L’attivista britannica Phoebe Smith, anche lei ferita nell’aggressione e trasportata insieme agli altri all’ospedale di Ramallah, ha dichiarato: «L’attacco fa parte del tentativo in corso da parte delle autorità israeliane e dei coloni di allontanare le famiglie palestinesi dalle loro terre. I coloni e l’esercito lavorano in tandem per creare una realtà che costringerà la famiglia Abu Hamam ad abbandonare la propria terra, e lo fanno con totale impunità e con ogni mezzo necessario».

Ma la storia, non è finita qui. Il giorno seguente, lunedì 8 dicembre, i coloni, sotto la protezione dell’esercito, hanno smantellato dei capannoni di lamiera ondulata appartenenti a una famiglia che da poco aveva lasciato il territorio nella stessa zona. Mercoledì 10 dicembre, coloni e militari insieme hanno cercato di intimidire i solidali e i palestinesi residenti ad al-Mughayyir giunti in soccorso alla famiglia, sparandole contro pallottole vere. Nelle ore successive una ventina di militari ha fatto irruzione nella proprietà dei Hamam, presentando un ordine di zona militare di 24 ore, e ha detenuto per qualche ora un cittadino statunitense e uno australiano.
Due giorni dopo, i soldati si sono ripresentati alla casa della famiglia per notificare un nuovo ordine di installazione di una zona militare “chiusa”, questa volta per un mese. Gli agenti della polizia di frontiera hanno informato i residenti che agli attivisti solidali è vietato rimanere lì perché “causano problemi”. È in quel momento che l’esercito ha arrestato le cittadine americane Cho e Frost, poi rimpatriate.
Se rimanesse sola, la famiglia se ne andrebbe. I solidali internazionali sono presenti da un anno e mezzo nella casa Hamam. Già dopo l’ultima aggressione Fathma, una donna incinta di otto mesi ha lasciato la famiglia e non vive più lì. A resistere, rimangono i genitori, che non vorrebbero andarsene di nuovo dalla propria terra. I solidali internazionali di ISM li accompagnano, così come alcuni ragazzi del paese che vengono a dormire insieme alla famiglia per proteggerla da eventuali attacchi notturni.

La zona in cui si situa al-Mughayyir è strategica. Gli avamposti si stanno allargando, e gli israeliani vogliono costruire una linea di colonie che dividerà la Cisgiordania orizzontalmente, isolando molte comunità palestinesi e rendendo ancora più difficili gli spostamenti. Insieme al villaggio di Turmus Ayya, poco lontano, le due comunità palestinesi hanno subito ripetuti attacchi negli ultimi mesi: oltre a danneggiamenti alle proprietà e aggressioni fisiche, ad agosto è stato l’esercito a sradicare migliaia di ulivi nella parte orientale di al- Mughayyir, su ordine diretto del maggiore generale Avi Bluth, capo del Comando Centrale israeliano. A Turmus Ayya invece sono stati i coloni a tagliare altre migliaia di piante, nella stessa logica di eliminare ogni forma di sostentamento delle famiglie palestinesi per costringerle ad andarsene.
La storia della famiglia di Abu Hamam è solo una tra tante. Ma un buon esempio che racconta la vita di una comunità palestinese che cerca di resistere allo sfollamento forzato nonostante le pressioni di coloni ed esercito, mentre vive sulla propria pelle la velocizzazione del processo di annessione territoriale della Cisgiordania.
Cambogia-Thailandia, ancora scontri: 500mila sfollati
Non si arrestano gli scontri lungo il confine tra Cambogia e Thailandia, ricominciati la prima settimana di dicembre a due mesi dalla pace annunciata da Trump a Kuala Lumpur. Secondo il ministero dell’interno di Phnom Penh, citato dai media, sono almeno mezzo milione le persone costrette ad abbandonare le loro case «per sfuggire ai bombardamenti di artiglieria, razzi e bombardamenti aerei effettuati dagli aerei F16 thailandesi».
Sgombero Askatasuna, Torino come la Valsusa: la polizia blinda il quartiere e carica il corteo
TORINO – Almeno quattrocento poliziotti mobilitati solamente per la giornata di oggi, un intero quartiere militarizzato, il traffico di una grossa parte della città interdetto. Così si presenta Torino a 48 ore dallo sgombero del centro sociale Askatasuna, avvenuto nella mattina del 18 dicembre scorso. Le scuole in zona sono chiuse da tre giorni e anche i negozi oggi hanno le saracinesche abbassate. Per impedire l’avvicinarsi al centro sociale, le forze dell’ordine hanno installato barriere in cemento armato e ferro. Le stesse utilizzate in Val di Susa, per proteggere i cantieri della TAV, per lo più pieni solamente di agenti. Un intero quartiere stretto nella morsa di un’operazione di polizia, culminata nelle cariche alla manifestazione di oggi. Alle 15 circa, infatti, migliaia di cittadini si sono messi in marcia a partire dall’università di Palazzo Nuovo per protestare contro la decisione del governo. Mentre l’amministrazione comunale sembra ancora indecisa sulla direzione da prendere, col sindaco Lorusso che prima ha dichiarato nullo il patto tra il centro e il Comune ma che in un video messaggio diffuso stamattina ha detto di “guardare al futuro di corso Regina 47”, la cittadinanza è scesa in piazza per far sentire il proprio dissenso. Incontrando, durante il percorso, i lacrimogeni e i manganelli della polizia.
“Stanno facendo controlli a manetta” mi racconta un militante, mentre seguiamo il percorso del corteo tra giovani, anziani e famiglie. “All’altezza di Porta Palazzo [il mercato centrale di Torino, a pochi km dal centro sociale, ndr] gli agenti in borghese sono saliti sui tram, hanno fatto chiudere le porte e hanno chiesto i documenti a tutti, indiscriminatamente. Stessa cosa con le persone in arrivo alla stazione di Porta Nuova”. Ogni accesso alle vie del quartiere Vanchiglia è bloccato da due camionette e da qualche decina di agenti in tenuta antisommossa. Le principali arterie di questa zona della città – corso Regina, corso San Maurizio, via Vanchiglia e tutte le strade circostanti – sono bloccate da agenti, camionette e, in qualche punto, anche camion-idranti. Molta è la rabbia tra gli esercenti: “Questore, viene lei a distribuire tutti i pacchi che ho da consegnare in negozio?” chiede qualcuno sui social.

“Quello che non dicono è che Meloni ha avuto paura delle milioni di persone in piazza per la Palestina” urla l’altoparlante che anticipa il corteo. E del movimento per la Palestina, Askatasuna è stato un punto di riferimento, a Torino e non solo. Tanto che dopo lo sgombero del 18 dicembre, rivendicato con orgoglio dal ministro dell’Interno Piantedosi sui social, nei confronti del centro sociale si è sollevata un’ondata di solidarietà da tutta Italia. L’amministrazione comunale, invece, sembra non saper bene che direzione prendere. Solamente due giorni fa, il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, aveva annullato il patto di collaborazione tra Askatasuna e Comune, che trasformava il centro sociale in bene comune in cambio di un profondo lavoro di riqualificazione e ristrutturazione, tutto a carico dei militanti. Questa mattina, in un video messaggio, il sindaco ha rivendicato il percorso costruito con Askatasuna: “La nostra amministrazione, sul patto di collaborazione di corso Regina, si è fatta interprete di una linea di dialogo con la società e con i movimenti sociali che da sempre è nelle corde di una città come la nostra, profondamente democratica e antifascista” ha dichiarato. Definendo il centro uno spazio “importante, non solo per il quartiere di Vanchiglia”, il sindaco ha dichiarato che “i procedimenti giudiziari faranno sempre comunque il loro corso”, mentre “la tutela di un bene comune risponde ad altre logiche: politiche e amministrative”. Le responsabilità penali, sottolinea il sindaco, “sono e restano sempre personali: questo è un principio cardine dello Stato di diritto”. Come a dire: i problemi con la giustizia di alcuni non possono determinare la cancellazione di un’intera realtà. “Non intendiamo cambiare approccio”, conclude il sindaco, “neanche nei confronti di corso Regina 47”. Un messaggio che ha lasciato l’amaro in bocca a molti tra i membri di Askatasuna, che ritengono che l’ambiguità politica del sindaco altro non sia se non una strategia in vista delle elezioni del 2026.
Il percorso del corteo è breve. Non appena svolta in corso Regina, percorse le poche centinaia di metri che separano via Vanchiglia dal civico 47 (dove ha sede l’Askatasuna), la polizia carica: manganelli, idranti e una pioggia di lacrimogeni sparati ad altezza uomo, che colpiscono la parte anteriore e posteriore del corteo, oltre alle vie laterali. L’aria si fa irrespirabile, ma il corteo non si disperde e in pochi minuti erge barricate che rallentano l’avanzata della polizia. Per fermare l’avanzata delle camionette, i manifestanti danno fuoco ad alcuni bidoni della spazzatura. Poi il percorso del corteo devia, allontanandosi dalla sede dell’Askatasuna e la polizia non si avvicina più.
Il fatto ha immediatamente scatenato la reazione delle destre, da Salvini che invoca le “ruspe sui centri sociali” a Tajani che definisce i manifestanti “figli di papà che se la prendono con i figli del popolo”. Come se quelle migliaia di persone in corteo oggi a Torino non costituissero una fetta sostanziosa del popolo stesso. D’altronde, la politica del governo segue una linea ben precisa: dall’attacco al Forte Prenestino allo sgombero di Leoncavallo, passando per le richieste di sgomberi dell’ex OPG occupato di Napoli e di altre realtà, i partiti di governo hanno fatto della crociata contro i centri sociali un perno della propria politica.
“Saremo dove siamo sempre stati: nelle università, nelle scuole, in Val di Susa, coi popoli che lottano” urla il megafono ai presenti che sfilano per le vie del centro. E convoca, per il 31 gennaio prossimo, una grande manifestazione nazionale.
Manovra, via libera dalla commissione Bilancio
La manovra è stata approvata in Senato dalla commissione Bilancio, che ha dato mandato al relatore per la discussione in aula, la quale culminerà nel voto in programma martedì prossimo. Il disegno di legge passerà poi alla Camera per l’approvazione finale, entro il 31 dicembre. Nelle scorse ore, la maggioranza ha sciolto gli ultimi nodi, trasformando ad esempio l’emendamento sulla riapertura del condono del 2001 in un ordine del giorno, di natura dunque non vincolante.
Emanuela Orlandi: a 42 anni dalla scomparsa le indagini su un’amica riaprono il caso
L’ultima speranza di ritrovare il filo giusto che porta a Emanuela Orlandi, o perlomeno a cercare di capire quello che le è successo, è legata a una donna che è stata ragazzina insieme a lei, nella sua stessa scuola, e che il giorno della sua scomparsa è stata probabilmente l’ultima persona a vederla, prima che sparisse per sempre, come inghiottita da un muro di nebbia che dopo 42 anni continua a restare impenetrabile. Si chiama Laura Casagrande, ha 56 anni ed è stata iscritta nel registro degli indagati per “false informazioni date ai pm” dalla Procura di Roma. Quest’ultima sta ancora cercando di scavare sotto a cumuli di carte e indizi. L’ennesimo colpo di scena in questa storiaccia senza fine, nella quale si sono affacciati periodicamente con le loro ombre lunghe i servizi segreti e alti prelati del Vaticano, ma anche funzionari di Stato, boss della criminalità organizzata e terroristi, un mix micidiale nel quale si è persa la verità sul destino di quella cittadina della Santa Sede che aveva 15 anni, quando sparì.
Quell’ormai molto lontano 22 giugno 1983, all’uscita serale dalla scuola di musica “Tommaso Ludovico da Victoria”, di fronte a Sant’Apollinare, Emanuela è con un’amica. Si tratta di Raffaella Monzi, alla quale racconta di aver ricevuto una proposta lavorativa per conto della Avon: distribuire volantini durante una sfilata di moda per la ragguardevole somma di 375mila lire. La ragazza telefona per informare la famiglia della cosa mentre in Corso Rinascimento attende l’autobus che la dovrebbe riportare appunto a casa. Quando passa quello di Raffaella, l’amica ci sale, non rivedendo mai più Emanuela. Mentre è in attesa sul marciapiede, si avvicina a lei un’altra ragazza, mora e bassina, mai identificata, che viene notata però anche da un’altra amica di Emanuela, Maria Grazia Casini, mentre passava da lì. Casini racconterà il particolare ai magistrati nell’interrogatorio del 29 luglio 1983.
“L’ho vista dietro di me sul marciapiede, poi non c’era più”
Laura Casagrande faceva già parte della lunga lista di persone informate o coinvolte in questo giallo che è tra i più oscuri e complicati della storia italiana, perlomeno dal Dopoguerra, anche per le implicazioni politiche e diplomatiche ad esso collegate. Un’interminabile odissea giudiziaria che nel 2016, non senza il frastuono di polemiche e critiche anche personali, il procuratore Pignatone aveva archiviato. Laura non era propriamente amica di Emanuela, le separava tra l’altro una differenza di età. Erano entrambe allieve alla scuola di musica, anche se in classi diverse: Emanuela iscritta a quella di flauto traverso, mentre Laura a quella di pianoforte. Si conoscevano comunque bene e si vedevano con la frequenza imposta dalle lezioni.
Il giorno fatidico della scomparsa, entrambe avevano partecipato a una lezione di canto corale alla quale, aveva ricordato inizialmente Casagrande, la Orlandi si era presentata in ritardo. In quell’estate del 1983, tuttavia, davanti ai magistrati, la sua testimonianza era andata oltre: camminando sullo stesso marciapiede dove si trovava la fermata del bus atteso da Emanuela, Laura Casagrande ha raccontato di averla vista dietro di sé e poi di non averla più vista, come appunto si fosse volatilizzata. Anche per questo motivo, gli inquirenti ritenevano che proprio lei fosse l’ultima persona ad aver avvistato la ragazzina scomparsa.
Quel “buio totale” davanti alla Commissione
Con un salto temporale che ha scavalcato il secolo, il 20 giugno 2024 Laura è stata convocata dalla commissione di inchiesta bicamerale sul caso Orlandi, un’audizione nella quale l’ormai signora Casagrande – 41 anni dopo quel pomeriggio – ha praticamente smantellato tutto quello che aveva riferito inizialmente ai magistrati. Una lunga serie di “non so”, “non ricordo”, fino ad ammettere di avere “un buio totale” su quello che è successo quel 22 giugno dopo l’uscita dalla scuola di musica. Non ricordava la presenza di un’amica di cui aveva inizialmente parlato, e soprattutto non ricordava più di aver visto Emanuela prima della sua scomparsa. Non ricordava nemmeno di aver lasciato il proprio numero di telefono scritto sulla copertina di uno spartito musicale di Emanuela, completo dell’indirizzo di casa.
«Non ricordo di averla vista, non ricordo nulla della mia deposizione, ho il vuoto totale» ha detto Laura Casagrande. Secondo Andrea De Priamo, presidente della Commissione, la testimone «apparve molto contraddittoria, come se la audita volesse togliersi dalla scena. Successivi accertamenti ci fanno tutt’ora ritenere che possa essere stata una delle ultimissime, se non l’ultima persona ad aver visto Emanuela a corso Rinascimento. L’ufficio di presidenza aveva già inserito il suo nome tra le persone da risentire, non escludendo di farlo attraverso la forma dell’esame testimoniale e non quella della libera audizione».
La telefonata con una voce mediorientale
In quella stessa occasione, nella prima convocazione da parte della commissione, Laura Casagrande ha anche raccontato della telefonata ricevuta a casa il pomeriggio dell’8 luglio 1983. Dall’altro capo del filo una voce maschile araba o mediorientale, che in modo concitato ha dettato un comunicato da mandare all’Ansa. La mamma di Laura era al telefono, mentre la figlia prendeva appunti. Fu poi intervistata dalla trasmissione “Telefono Giallo”, nel corso della quale la ragazzina ha raccontato che lo sconosciuto al telefono aveva motivato il rapimento di Emanuela col fatto che fosse una cittadina del Vaticano, chiedendo la liberazione entro 20 giorni di Alì Agca, il turco che il 13 maggio 1983 fu protagonista dell’attentato a Papa Giovanni Paolo I in San Pietro. Da quel momento, la scomparsa della ragazza ha preso i connotati di una spy-story sullo sfondo di intrecci oscuri e in ambito internazionale.
Seconda audizione
Un mese dopo l’audizione davanti alla Commissione, Laura Casagrande è stata convocata una seconda volta dai parlamentari che indagano sulla vicenda, per approfondire la vicenda della telefonata anonima e sul presunto rapitore: “La voce aveva un timbro tra l’arabo, l’orientale e il mediorientale, anche se non so distinguere l’arabo dal turco” ha ricordato la testimone, confermando tuttavia di aver perso la memoria per quanto attiene ai fatti del giorno della scomparsa: “Il ricordo che ho impresso di quel giorno è che non venne alla lezione di coro. La aspettavo, perché era una delle ragazze con le quali avevo più legato. Non la vidi arrivare o arrivò molto tardi, a lezione cominciata: questo ora mi sfugge. Non ho memoria alcuna. Non ricordo nulla di tutto quello che ha riletto della mia deposizione dell’epoca. Ho un vuoto totale”.
A Piazzale Clodio con l’avvocato
Secondo il presidente della Commissione, Andrea De Priamo, «tutto questo è oggettivamente molto strano», mentre l’avvocato della famiglia Orlandi, Laura Sgrò, ha sottolineato che «le incongruenze nelle sue dichiarazioni ci sono da sempre ed è molto sensato fare un approfondimento come spunto investigativo delle prime ore della scomparsa di Emanuela». Anche per questo, molto probabilmente, la Procura di Roma ha deciso di scrivere il suo nome nell’elenco degli indagati e di sottoporla ad interrogatorio, accompagnata dal suo avvocato, a Piazzale Clodio, dove è stata sentita dal sostituto Stefano Luciani.
Il magistrato vuole sicuramente cercare di fare luce sulle incongruenze, sulle amnesie, sui cambi di versione e sulle incertezze di quella che è quasi certamente l’ultima persona ad aver visto Emanuela Orlandi. “Molto contento” il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro che da anni si batte in direzione ostinata e contraria per fare luce su quello che è accaduto alla sorella: “È una notizia importante perché lei potrebbe essere stata una delle ultime persone a vedere Emanuela, quindi potrebbe aver visto in quali mani eventualmente fosse andata e chi eventualmente fosse stato il gancio di un’eventuale rapimento”. Soddisfazione condivisa anche dall’avvocato Sgrò: «Questa notizia è molto positiva, perché la Casagrande delle cose strane le ha dette, ci sono molte discrasie e lei è importante per ricostruire tutto dall’inizio», ponendo anche l’accento sul fatto che dopo aver ricevuto quella telefonata anonima, sia lei che la madre si recarono alla redazione dell’Ansa, senza avvisare o coinvolgere minimamente le forze dell’ordine: una delle tante stranezze che hanno punteggiato – e continuano a farlo – il mistero triste e cupo della scomparsa di Emanuela Orlandi.
Pakistan: ex premier Khan condannato a 17 anni di carcere
Imran Khan, ex primo ministro del Pakistan, è stato condannato da un tribunale speciale a 17 anni di carcere. Il processo, che ha coinvolto Khan insieme alla moglie Bushra Bibi, è legato a un presunto caso di corruzione: i due avrebbero infatti ricevuto e gestito in modo improprio regali di Stato dal valore di 140 milioni di rupie pakistane (circa 430mila euro). La sentenza è stata criticata dal PTI, il partito guidato da Khan, che continua a mobilitarsi nelle strade e sui social nonostante le ondate di arresti.








