venerdì 12 Dicembre 2025
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Riarmo in Italia, più armi e più soldati: programmi per 4 miliardi e 160mila uomini

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La corsa al riarmo in Italia procede a passo spedito. Il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legislativo che prevede un ampliamento del personale militare con lo scopo di raggiungere i 160.000 soldati entro il 2033. Parallelamente, come riporta l’osservatorio Mil€x contro la militarizzazione, il ministero della Difesa ha mandato alle commissioni Difesa e Bilancio del Parlamento altri 7 programmi di riarmo dal valore complessivo di 4,3 miliardi di euro, di cui 1,2 nel prossimo triennio. Cinque progetti riguardano la marina militare, e sono relativi a programmi di ammodernamento di mezzi e fregate; gli altri due sono destinati all’Aeronautica militare e all’esercito terrestre. L’aumento del personale militare e il rilancio delle spese nel settore bellico in Italia sono in linea con l’agenda che il governo Meloni – e quello dei suoi predecessori – porta avanti sin dal suo insediamento, e con le richieste di UE e NATO, che hanno spinto diversi Paesi europei a prendere decisioni analoghe.

Il progetto di decreto legislativo è stato approvato dal CdM ieri, 11 dicembre. Esso, spiega il comunicato del governo, prevede di raggiungere progressivamente le 160.000 unità militari distribuite tra Aeronautica, Marina ed Esercito entro il 2033. Il provvedimento, inoltre, modifica il Codice dell’ordinamento militare sul sistema di reclutamento e sulle progressioni di carriera, anticipando l’avanzamento delle carriere e il riconoscimento degli stipendi in Accademia: se nel sistema attuale, l’allievo delle Accademie diventa “Aspirante Ufficiale” al terzo anno, il dl prevede che lo diventi al secondo, e che gli venga garantita una retribuzione – che attualmente non ha; analogamente, si diventerebbe “Sottoufficiale”, primo grado attualmente pagato, al terzo anno invece che, come funziona ora, al quarto. Il dl, inoltre, introduce la ferma (il periodo minimo di servizio obbligatorio) anche per i Marescialli reclutati tramite concorso pubblico, e permette ai Volontari in ferma prefissata (militari che prestano servizio con contratti temporanei) di partecipare ai concorsi per diventare Sergente.

Lo schema, infine, alza l’età per accedere ai concorsi per Ufficiali, e apre alla possibilità di indire concorsi aperti ai civili per il ruolo di Sergenti fino al 2030, «in presenza di specifiche esigenze funzionali». Il progetto del governo, insomma, è quello di arruolare più persone, garantire che svolgano un servizio più lungo, e incentivare l’entrata nelle varie divisioni militari con stipendi e possibilità rapide di carriera. Il tema è stato più volte discusso pubblicamente da Crosetto, che ha spesso rimarcato la presunta necessità di aumentare il personale militare che avrebbe l’Italia; l’annuncio del CdM e arriva mentre nell’UE diversi Paesi – prime fra tutti Germania e Francia – stanno reintroducendo la leva militare, iniziativa, che nonostante le vecchie dichiarazioni sul tema, inizia a interessare anche il governo italiano.

Ad aumentare, tuttavia, non è solo il numero di militari (e il denaro loro destinato), ma anche armi e veicoli. Il governo ha infatti trasmesso nuovi programmi di riarmo al Parlamento. Il più oneroso riguarda le otto fregate Fremm, navi relativamente nuove, osserva Mil€x, entrate in servizio tra il 2013 e il 2019; lo schema ne prevede l’ammodernamento e il potenziamento tecnologico, per interventi dal valore complessivo di 2,44 miliardi di euro fino al 2039. Vi sono poi due programmi relativi alle unità subacquee: il primo, da 658 milioni fino al 2039, coinvolge Power4Future, joint venture tra Fincantieri e la britannica  Faist Electronics, ed è una modifica alla costruzione di quattro nuovi sottomarini U212NFS, su cui verranno installate batterie al litio; il secondo, da 361 milioni fino al 2034, coinvolge Fincantieri e Leonardo, e riguarda l’ammodernamento di due sottomarini U212A e di due sottomarini classe Sauro.

Gli ultimi due programmi per la marina riguardano la flotta navale e sono prosecuzioni di programmi già avviati da questa stessa legislatura: il primo, da 122 milioni, è portato avanti da Fincantieri e Leonardo, e prevede un adeguamento della portaerei Trieste per consentirle di imbarcare caccia F-35 a decollo verticale; il secondo, da 100 milioni, prevede «l’istallazione sulle navi della Marina dei radar e cannoni elettronici anti-droni prodotti dal consorzio britannico Blighter/Chess Dynamics/Enterprise Control Systems». Vi sono infine, un programma di acquisizione di droni destinato all’Aeronautica militare (578 milioni), e uno di acquisizione di veicoli e robot terrestri per l’esercito (158 milioni). Dall’inizio della legislatura, rimarca Mil€x, sono 67 i programmi presentati dal governo al Parlamento, per un impegno finanziario pluriennale di quasi 24 miliardi di euro.

Iran, arrestata Nobel per la Pace Narges Mohammadi

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L’attivista iraniana Narges Mohammadi, vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2023, è stata arrestata oggi dalle forze di sicurezza iraniane durante una cerimonia commemorativa nella città di Mashhad, secondo quanto riferito dai gruppi per i diritti umani e dalla sua fondazione. Con lei sono stati arrestati altri attivisti. Mohammadi, 53 anni, già condannata a 13 anni e nove mesi di carcere con accuse legate alla sicurezza nazionale, si trovava in congedo per motivi di salute dal carcere di Evin a Teheran. L’arresto sarebbe avvenuto mentre partecipava al rito funebre per un noto avvocato per i diritti umani, Khosrow Alikordi.

Gli USA aumentano la pressione sul Venezuela: sequestri e sanzioni per le navi petroliere

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All’indomani del sequestro della petroliera “Skipper” al largo delle coste venezuelane, Washington ha annunciato nuove sanzioni che colpiscono direttamente il cuore del sistema di esportazione del greggio di Caracas. Nel mirino sono finite sei petroliere e tre nipoti della First Lady Cilia Flores, accusati di essere parte di una rete che avrebbe permesso al governo di Nicolás Maduro di aggirare le restrizioni internazionali. Un’azione che segna un’ulteriore escalation nella strategia americana di isolamento economico e politico del Venezuela, mentre il petrolio torna a essere lo strumento centrale di uno scontro che va ben oltre la dimensione bilaterale.

Secondo alcune fonti riportate dai media, gli Stati Uniti si starebbero inoltre preparando a intercettare altre navi che trasportano il greggio venezuelano, dopo il sequestro della petroliera annunciato pubblicamente dall’amministrazione statunitense. In un post su X, la Procuratrice Generale degli Stati Uniti Pam Bondi ha pubblicato un video dell’operazione congiunta portata avanti da FBI, dipartimento per la Sicurezza nazionale e Guardia Costiera, supportati dal Pentagono, spiegando che la nave cisterna faceva parte di un sistema clandestino utilizzato per esportare petrolio in Iran, in violazione delle sanzioni comminate nel 2022. Il sequestro si inserisce in una più ampia attività di monitoraggio navale e finanziario, volta a individuare e bloccare le cosiddette “flotte ombra”: reti di navi che cambiano bandiera, tracciano rotte opache e utilizzano intermediari per eludere i controlli. Caracas ha reagito duramente, denunciando un atto di aggressione e di espropriazione illegale delle proprie risorse sovrane. Maduro, ha attaccato gli Stati Uniti definendoli i “Pirati dei Caraibi” e ha confermato il sostegno ricevuto da Mosca in una telefonata con Vladimir Putin avvenuta giovedì, in cui il leader russo ha espresso la sua solidarietà al popolo venezuelano e ha ribadito il sostegno alle politiche del governo di Caracas. Martedì, anche l’Iran aveva espresso il proprio sostegno “incondizionato” al Venezuela. Da Oslo, intanto, María Corina Machado, in Norvegia per la cerimonia del premio Nobel per la Pace, ha preso una posizione chiara a favore di Trump e della sua politica aggressiva degli ultimi mesi nei confronti del Venezuela.

Parallelamente al sequestro, il Dipartimento del Tesoro statunitense ha annunciato nuove sanzioni contro altre sei petroliere venezuelane accusate di trasportare petrolio fuori dai canali ufficiali, che opererebbero come parte integrante di una flotta ombra. Le misure colpiscono anche tre nipoti della First Lady Cilia Flores, indicati come beneficiari o facilitatori di queste operazioni. Due di questi, Franqui Flores ed Efrain Antonio Campo Flores, sono stati rilasciati in uno scambio di prigionieri nel 2022 tra Washington e Caracas. Il terzo nipote sanzionato è Carlos Erik Malpica Flores che, secondo gli Stati Uniti, sarebbe coinvolto in un complotto di corruzione presso la compagnia petrolifera statale. Le sanzioni prevedono il congelamento di eventuali beni sotto giurisdizione statunitense e il divieto di intrattenere rapporti economici con soggetti americani, rafforzando il quadro di isolamento finanziario del Venezuela. Il governo venezuelano ha respinto le accuse, definendo le sanzioni un’ulteriore prova di quella che considera una guerra economica contro il Paese. Secondo Caracas, gli Stati Uniti utilizzano il pretesto del contrasto ai traffici illeciti per colpire un settore vitale dell’economia nazionale e indebolire il governo.

Intanto, giovedì, il parlamento venezuelano ha approvato il ritiro del Paese dallo Statuto di Roma, il trattato che ha creato la Corte penale internazionale (CPI), sostenendo che l’istituzione agisce con pregiudizi e “vassallaggio” a interessi politici esterni. La decisione arriva poco dopo che Caracas ha accusato la Corte penale internazionale di non essersi pronunciata su quelli che ha definito “massacri”, in riferimento ai bombardamenti statunitensi di imbarcazioni nel Mar dei Caraibi per sospetto traffico di droga. Ad alimentare un clima già incandescente ha contribuito il presidente degli Stati Uniti Donald Trump,che in un’intervista a Politico ha dichiarato che Maduro sta vivendo “i suoi ultimi giorni” al potere. Nell’intervista, il tycoon ha anche affermato che prenderà in considerazione l’uso della forza contro obiettivi in ​​altri Paesi in cui il traffico di droga è molto attivo, tra cui Messico e Colombia.

Freddo e crolli a Gaza: almeno 11 morti, tra loro 3 bambini

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La tempesta invernale Byron ha travolto la Striscia di Gaza, causando almeno 11 morti tra crolli di edifici già danneggiati e per ipotermia tra sfollati costretti a vivere in tende allagate e senza riscaldamento. Tra le vittime ci sono due bambini, una neonata di 8 mesi e una bimba di 9 anni, morti per il freddo nelle loro tende, e un altro neonato deceduto questa mattina per assideramento nel campo profughi di Shati. Le piogge torrenziali e le basse temperature stanno aggravando la già drammatica crisi umanitaria nella Striscia, dove centinaia di migliaia di persone vivono in rifugi precari a causa dei danni da guerra e della carenza di aiuti.

La strada europea per la cannabis legale

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Sono passati esattamente 100 anni da quando, nel 1925, la Convenzione dell’oppio di Ginevra divenne il primo trattato a mettere la cannabis sotto controllo internazionale. L’Italia la ratifica nel 1928 sotto il regime fascista e rende per la prima volta la cannabis illegale con l’emanazione del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza nel 1931. Il regime considerava l’hashish – diffuso nelle colonie – come un ostacolo alla disciplina militare e al lavoro forzato mentre la propaganda razzista presentava spesso cannabis e derivati come “droga dei negri”, “vizio delle razze inferiori”, ident...

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Milano, sostanza urticante a scuola: 100 evacuati e 5 intossicati

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Un centinaio di persone tra studenti, docenti e personale scolastico dell’istituto Cardano di via Giulio Natta, a Milano, sono state evacuate intorno alle 10.30 per una probabile intossicazione causata da una sostanza urticante presente nell’aria. Il secondo piano è stato sgomberato per consentire i controlli dei vigili del fuoco, supportati dal nucleo NBCR. Cinque persone sono state leggermente intossicate e assistite dal 118. Le verifiche e la bonifica si sono concluse senza ulteriori criticità. Un episodio simile si era verificato anche ieri, con alcuni studenti costretti a ricorrere alle cure mediche.

Emilia, 900mila tonnellate di scorie abusive interrate: contaminate le falde acquifere

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Una maxi-discarica abusiva contenente circa 900mila tonnellate di scorie di acciaieria è stata scoperta e sequestrata nella Bassa reggiana, alle porte di Brescello, dove avrebbe operato per quasi un decennio compromettendo gravemente le falde acquifere. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dalla Procura di Reggio Emilia, hanno portato all’iscrizione nel registro degli indagati di nove persone, tra cui imprenditori, professionisti e cinque tecnici di Arpae, accusati di aver coperto il disastro ambientale. I valori di ferro e arsenico nelle acque sotterranee risultano ampiamente oltre i limiti di legge, delineando quello che potrebbe rappresentare uno dei più gravi episodi di inquinamento del territorio emiliano.

L’operazione investigativa ha coinvolto perquisizioni nelle sedi societarie, negli studi professionali e nelle abitazioni degli indagati, con sequestri di materiale informatico e documentale destinato a ricostruire la filiera dello smaltimento illecito. I reati ipotizzati contro gli indagati, in concorso tra loro, sono di particolare gravità: si va dalla realizzazione e gestione di una discarica non autorizzata, all’inquinamento ambientale, fino al falso ideologico in atti pubblici. Quest’ultima accusa riguarda specificamente i cinque dipendenti Arpae, i quali avrebbero redatto relazioni tecniche falsate. «Avrebbero attestato il falso in rapporti conclusivi di controllo, al fine di ricondurre il superamento dei limiti di inquinamento alle caratteristiche geochimiche dei terreni e non alle condotte di smaltimento», evidenziano gli inquirenti. «Le persone fisiche raggiunte dai provvedimenti sono in totale nove fra i 34 e gli 82 anni, di cui sette residenti nella bassa reggiana, uno a Parma e uno in provincia di Modena» hanno specificato i Carabinieri.

Le indagini hanno in particolare fatto luce sull’area denominata Dugara, alle porte di Brescello. Secondo gli inquirenti, dal 2016 in poi sarebbero state interrate in modo illegale oltre 900mila tonnellate di scorie non trattate e residui di fusione. L’accumulo di questi rifiuti metallici, raccontano le carte, «avrebbe compromesso e deteriorato le acque sotterranee, con valori limite di ferro e arsenico superati, e il tentativo di coprire il disastro attraverso il falso ideologico in atti pubblici da parte di funzionari dell’ente di controllo». Reagendo alle novità d’indagine, Arpae ha pubblicato un comunicato in cui ha manifestato «la piena disponibilità a collaborare con l’autorità giudiziaria, sul cui operato ripone la massima fiducia», auspicando che l’iter giudiziario «possa accertare il corretto operato del proprio personale, che ha ricondotto i superamenti dei valori di metalli riscontrati a valori di fondo naturale, come riportato nei documenti tecnici redatti in proposito». «Si tratta quindi – conclude la nota – di aspetti tecnici su cui peraltro le strutture dell’Agenzia hanno già da tempo disposto di proseguire i monitoraggi dell’area, in un’ottica di prevenzione ambientale».

La vicenda si snoda in oltre vent’anni di atti amministrativi e proroghe non completate. Tutto parte nel 2003, quando la Mingori & Bacchi (oggi in mano a Dugara Spa) firmò una convenzione urbanistica con il Comune per un polo logistico, annunciando l’impiego del “tenax”, materiale derivato da scorie d’acciaieria provenienti dall’impianto di Boretto. Nel 2008 la Provincia autorizzò l’attivazione di un impianto di recupero direttamente a Brescello, con un limite annuale di 303.000 tonnellate; tra il 2008 e il 2015 si stimano circa 30.000 camion di rifiuti conferiti nell’area. Scaduti i termini per l’urbanizzazione, la società ottenne proroghe e nel luglio 2015 ricevette un’autorizzazione integrata che però vincolava l’area al monitoraggio delle acque per cinque anni, non più alla ricezione illimitata di rifiuti. Dal 2017 il Comune sollecitò un nuovo piano; solo nel 2022 arrivò un parere negativo e nel febbraio 2024 un’ordinanza dirigenziale ha bloccato i lavori. Secondo la Procura, questo iter ha favorito l’accumulo di centinaia di migliaia di tonnellate di scorie non recuperate e la contaminazione delle falde.

La moda a basso costo sta uccidendo la beneficenza di vestiti usati

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In molte città, organizzazioni come la Caritas hanno dovuto sospendere o ridurre drasticamente la raccolta di abiti usati perché l’80% dei capi raccolti non è più utilizzabile per essere donato: scarsa qualità e quantità eccessiva di abiti hanno saturato gli enti, rendendo impossibile fare beneficenza come si deve. Un problema che si è acutizzato sensibilmente dall’inizio del 2025, quando la raccolta differenziata del tessile è diventata obbligatoria in tutta Italia (senza avere le strutture adeguate per gestire la mole dei rifiuti). Ma soprattutto un problema diventato insostenibile dovuto alla qualità dei vestiti “donati”: abiti scadenti, sfibrati e danneggiati anche se usati pochissimo, spesso con forme e modelli totalmente inutili, realizzati con materiali non in grado di tenere caldo o sopperire alle necessità reali di chi ne avrebbe realmente bisogno. Così la “beneficenza” è diventata un rifiuto da smaltire.

Dopo 51 anni, la Caritas ha preso la difficile decisione di interrompere la raccolta di indumenti usati in Alto Adige e in diversi altri Comuni sparsi sul territorio. Una scelta sofferta, visto il bisogno costante di indumenti per alcune famiglie in difficoltà, ma reso sempre più difficile dal tipo di materiale ricevuto. 

Fast Fashion e Ultra Fast Fashion hanno dato vita ad un sistema di produzione massiccia di scarsa qualità e a rotazione rapida. I materiali scadenti utilizzati si usurano rapidamente, perdendo colore, forma o danneggiandosi in tempi brevi. Anche il confezionamento lascia a desiderare, provocando buchi, cuciture che saltano o strappi. Danni che potrebbero essere facilmente aggiustati ma che, proprio per i prezzi bassi di questi capi, rendono più facile lo “smaltimento” e l’acquisto di qualcosa di nuovo piuttosto che ingegnarsi in una riparazione. Dopotutto, il valore affettivo che lega a questi oggetti è quasi del tutto assente, per cui disfarsi di un capo di poco valore non è una tragedia. Anzi, è diventata la norma di una cultura usa&getta ormai dilagante ed interiorizzata su più livelli.

Peccato che, quando buttiamo via qualcosa, non la stiamo buttando via: il “via” non esiste, la stiamo solo spostando da qualche altra parte. Spesso con l’idea di fare una buona azione, ma altrettanto spesso facendola nel modo sbagliato (o non così utile come pensiamo). E così, una filiera nata per valorizzare l’usato e dargli una seconda vita in maniera degna e contribuendo al benessere delle vite altrui, si ritrova di fatto a gestire rifiuti.

La raccolta degli abiti usati in Italia è un’operazione fatta in maniera spesso fuorviante. Di base esistono due modalità: la donazione diretta presso enti caritatevoli e la raccolta stradale tramite cassonetti, gestiti da cooperative sociali spesso convenzionate con comuni e aziende di igiene urbana. Proprio questi ultimi, che raccolgono rifiuti tessili, sono soggetti a rigide normative e devono registrare i quantitativi raccolti. Molto spesso i cittadini credono di donare vestiti a chi ne ha bisogno proprio tramite questi cassonetti, ma la verità è ben diversa. 

Le scritte sui cassonetti che invitano a lasciare solo “abbigliamento in buono stato” non sono un invito alla beneficenza, ma una strategia per ridurre i costi di smaltimento e aumentare i profitti dalla ri-vendita degli abiti usati raccolti. In realtà, per legge, i vestiti messi nei cassonetti non sono più donazioni, ma rifiuti! 

Perché un capo sia davvero donato a persone in difficoltà, deve essere consegnato direttamente a un’associazione o parrocchia; solo così mantiene il suo status di bene. Passando dai cassonetti, invece, si trasforma in rifiuto e non può essere donato. Ma che ne succede di questi rifiuti tessili? Le cooperative, raramente attrezzate per selezionare e trattare il materiale, vendono tutto “così com’è” a operatori specializzati, che dopo un processo di igienizzazione (End of Waste) trasformano i rifiuti in beni riutilizzabili. Ma di tutto quello che viene raccolto, solo il 50% trova una nuova vita.

Ecco perché, per donare abiti usati in maniera sensata, è importante prima di tutto selezionare un destinatario diretto, anche locale, che gestisce le cose in maniera trasparente e onesta (ci sono organizzazioni, centri sociali, associazioni di beneficenza, ma anche brand e hub creativi dedicati al riciclo e all’upcycling). In secondo luogo selezionare bene ciò che si decide di donare, in modo che possa essere utile e rispettoso della dignità di chi lo riceve. Abiti senza macchie, integri, senza strappi e non eccessivamente lisi (che il tessuto dopo un po’ di usuri è normale, ma se il capo è finito meglio farlo diventare uno strofinaccio per la polvere o una coperta per la cuccia del cane); scarpe e calzini appaiati ed il tutto  meglio se lavato prima. Con queste piccole indicazioni la donazione diventa un gesto di valore, solidarietà e rispetto. Per un gesto ancora più impattante, uscire dalle dinamiche di consumo compulsivo sarebbe un regalo ancora più grande.

Giappone, terremoto di magnitudo 6.7 al largo della costa nord

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Un terremoto di magnitudo 6.7 ha colpito oggi il Giappone al largo della costa settentrionale, spingendo le autorità a diramare un allarme tsunami poi revocato. L’Agenzia meteorologica giapponese aveva previsto onde fino a un metro, ma sono stati registrati solo due piccoli tsunami di 20 centimetri in località diverse. La scossa arriva pochi giorni dopo un sisma di magnitudo 7.5 che aveva causato almeno 50 feriti nella stessa area. L’epicentro odierno è stato localizzato a 130 km da Kuji, nella prefettura di Iwate. L’Autorità per l’energia nucleare ha confermato l’assenza di anomalie negli impianti della regione.

GEDI in vendita: redazioni di Repubblica e Stampa in rivolta

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Dopo l’annuncio ufficiale dell’avvio delle trattative per la vendita dell’intero gruppo Gedi, il comitato di redazione di Repubblica ha lanciato lo stato di agitazione, mentre La Stampa ha annunciato di trovarsi in assemblea permanente per decidere i prossimi passi da compiere. Ieri mattina, i siti dei due quotidiani non sono stati aggiornati per protesta contro l’azienda. Il governo, intanto, ha convocato i vertici aziendali, mentre il PD ha suggerito l’utilizzo del Golden Power per fermare la cessione. Il gruppo GEDI è di proprietà di Exor, la società della famiglia Agnelli-Elkann, e riunisce anche il sito di informazione HuffPost e le radio Deejay, Capital e M2o. La notizia di una possibile vendita del gruppo era nell’aria da tempo, ma è stata ufficializzata solo mercoledì in una mail interna. Le trattative in corso sono con il gruppo greco Antenna e si trovano ormai in fase avanzata: la vendita è prevista a gennaio.

I giornalisti delle due testate storiche hanno appreso i dettagli dai rappresentanti dei gruppi editoriali in occasione di incontri che hanno definito «sconcertanti, sconfortanti e umilianti». La trattativa in esclusiva con il gruppo Antenna, di proprietà della famiglia greca Kyriakou, è stata prolungata fino a fine gennaio. Tuttavia, è emerso che l’acquirente sarebbe interessato principalmente a Repubblica e alle radio (Deejay, Capital, m2o), mentre per La Stampa si cercano altri compratori, con la trattativa più avanzata con il gruppo veneto NEM. Questo scenario prospetta una frammentazione del gruppo, con gravi incognite operative: per La Stampa, ad esempio, significherebbe essere separata dalle infrastrutture digitali e tecniche comuni a tutto il GEDI.

Di qui la decisione della protesta. I giornalisti torinesi de La Stampa hanno proclamato lo stato di agitazione permanente e hanno già incrociato le braccia, lasciando il giornale fuori edicola. I colleghi di Repubblica hanno seguito l’esempio, proclamando lo sciopero per venerdì 11 novembre, con il sito non aggiornato per 24 ore e il giornale assente in edicola sabato. «L’obiettivo sarebbe di chiudere in parallelo le due operazioni di vendita nel giro di due mesi. Rispetto alle nostre richieste non è stata data alcuna garanzia sul futuro della testata, sui livelli occupazionali, sulla solidità del potenziale compratore, sui destini delle attività messe in comune a livello di gruppo, dalle infrastrutture digitali alla produzione dei video, e quindi senza nessuna garanzia di poter continuare a svolgere il nostro lavoro così come abbiamo fatto fino a oggi», ha commentato la rappresentanza sindacale dei giornalisti de La Stampa. L’assemblea di Repubblica si è dichiarata pronta a una «stagione di lotta dura a tutela del perimetro delle lavoratrici e dei lavoratori e dell’identità del nostro giornale a fronte della cessione ad un gruppo straniero, senza alcuna esperienza nel già difficile panorama editoriale italiano e il cui progetto industriale è al momento sconosciuto».

La vicenda ha immediatamente travalicato i confini aziendali, investendo il mondo politico in maniera trasversale. Il presidente dei senatori del PD, Francesco Boccia, ha lanciato un appello forte al governo, evocando persino lo strumento del Golden Power. Anche la segretaria dem, Elly Schlein, ha espresso forte allarme, chiedendo «garanzie occupazionali per il futuro dei dipendenti del gruppo» e affermando la necessità di assicurare «principi costituzionali di pluralismo dell’informazione e di libertà di stampa». Ribadendo vicinanza ai giornalisti coinvolti, il M5S, AVS, Azione e il PD hanno chiesto un’informativa urgente al governo sulla vendita del gruppo, mentre rappresentanti sindacali e delegazioni interne chiedono l’inserimento di clausole vincolanti che garantiscano posti di lavoro e la continuità produttiva. La palla passa ora all’esecutivo. L’incontro convocato dal sottosegretario Barachini con i vertici GEDI e i Cdr, che andrà in scena la prossima settimana, sarà il primo banco di prova per capire che piega potrà assumere la vicenda.

A spingere verso la cessione sono i conti in rosso del gruppo. I dati sono infatti eloquenti: Repubblica, il giornale fondato da Eugenio Scalfari, ha perso, solo nel 2024, oltre 191.000 lettori (-6 per cento), scendendo a 98.400 copie cartacee con una perdita del 10,7 per cento. La Stampa ne ha salutati quasi 313.000 (-15,8 per cento), precipitando a 60.300 copie. Il digitale non offre sollievo: Repubblica ha quasi dimezzato le copie (da 36.975 a poco più di 20.000). Il gruppo Gedi nel 2024 ha chiuso con 224 milioni di fatturato e 15 milioni di perdite.