sabato 20 Dicembre 2025
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In Bangladesh riesplode la rivolta della Gen Z: assaltate le sedi dei quotidiani

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Migliaia di persone sono scese in piazza in Bangladesh, dopo l’annuncio della morte di Sharif Osman Hadi, trentaduenne leader giovanile della cosiddetta “Gen Z“, ferito gravemente in un attentato a Dhaka e deceduto giovedì in un ospedale di Singapore, dove era stato trasferito per le cure. La notizia della sua morte ha riacceso le proteste e ha scatenato la violenza nella capitale e in altre città, con centinaia di manifestanti che hanno preso d’assalto le sedi dei principali quotidiani del Paese, Prothom Alo e The Daily Star, considerate espressione di interessi politici contrari alla causa rivendicata dai dimostranti. La polizia e le truppe paramilitari sono intervenute per cercare di ristabilire l’ordine.

La morte di Hadi, noto come il “combattente di luglio”, ha agito da detonatore in un contesto politico già instabile. Hadi non era un attivista qualunque: portavoce della piattaforma Inquilab Moncho, o Piattaforma per la Rivoluzione, una realtà politica e culturale emersa dal movimento studentesco che l’anno scorso aveva contribuito alla caduta dell’ex primo ministro Sheikh Hasina, era divenuto la figura di riferimento per la mobilitazione giovanile e la richiesta di riforme democratiche. Il 4 agosto 2024, una violenta repressione lasciò circa 100 morti e scatenò una ondata di rabbia che costrinse Hasina a dimettersi e fuggire dal Paese il 5 agosto, ponendo fine alla sua lunga permanenza al potere e segnando una svolta nella politica del Bangladesh. Sotto l’Anti-Terrorism Act, la Commissione elettorale ha sospeso la registrazione del suo partito, la Awami League, impedendogli di partecipare alle elezioni del 2026.

Il 12 dicembre, il giorno dopo l’annuncio del calendario delle elezioni nazionali che si terranno il 12 febbraio, Hadi è stato colpito con un colpo di pistola alla testa sulla Box Culvert Road a Purana Paltan, a Dhaka. Gli investigatori hanno identificato come autore dell’omicidio un membro della Chhatra League, Lega studentesca del Bangladesh Awami League, cioè l’organizzazione giovanile e universitaria del partito ora fuorilegge. Secondo alcune fonti, il sospettato sarebbe fuggito in India. Molti dei manifestanti interpretano l’uccisione di Hadi come un atto deliberato per fermare il suo crescente sostegno popolare, e la sua figura è stata rapidamente trasformata in un simbolo di resistenza. La mobilitazione, iniziata come espressione di lutto e richiesta di giustizia, si è rapidamente radicalizzata nella notte, assumendo caratteristiche di una vera e propria rivolta urbana con slogan, blocchi stradali e attacchi vandalici. A Dhaka e in città come Chittagong, gruppi di dimostranti hanno assaltato non solo le maggiori testate giornalistiche, ma anche uffici politici e istituzioni collegate all’ex regime. Le sedi degli influenti quotidiani Prothom Alo e Daily Star, storicamente centrali nell’informazione nazionale, sono finite nel mirino perché accusate dai manifestanti di essere vicini all’India – che ha offerto ospitalità all’ex premier Hasina – e ostili alla causa della rivoluzione studentesca. Le redazioni sono state vandalizzate e date alle fiamme, con i giornalisti chiusi nelle redazioni, costretti a chiedere aiuto mentre il fumo avvolgeva gli edifici.

Il primo ministro ad interim, il premio Nobel per la Pace, Muhammad Yunus ha condannato le rivolte e sta cercando di contenere l’escalation. In un discorso alla nazione, il premier ha definito la morte di Hadi come «una perdita irreparabile per la nazione», ha dichiarato una giornata nazionale di lutto e ha invitato la popolazione a resistere alla violenza di massa attribuendo gli atti più estremi a «pochi elementi marginali» che cercano di sabotare il processo democratico. L’esecutivo ha promesso un’indagine trasparente sull’omicidio e ha fatto appello alla calma, mentre accusa forze esterne e interne di tentare di sfruttare il momento di debolezza per destabilizzare ulteriormente il Paese alla vigilia delle elezioni.

Intanto, la salma di Hadi è tornata in Bangladesh per i funerali che si terranno sabato pomeriggio. Il clima resta teso: nelle strade si alternano cortei pacifici e scontri con la polizia, mentre la retorica anti-India fra i manifestanti rischia di complicare i già fragili rapporti diplomatici nella regione. Con le elezioni di febbraio all’orizzonte, il Bangladesh si trova a un bivio: la capacità delle autorità di mediare e garantire un clima di partecipazione pacifica potrebbe definire non solo l’esito elettorale, ma la direzione futura di una nazione dove il desiderio di cambiamento democratico convive con il rischio di nuovi cicli di violenza.

A Gaza si tirano le somme dell’alluvione, mentre Israele continua a bombardare

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Mentre Israele continua a violare gli accordi sparando sui civili, il popolo gazawi inizia a raccogliere i cocci causati dell’ultimo disastro autunnale. Nell’ultima settimana, tra bombardamenti e colpi di mortaio, la Striscia è stata colpita da una forte ondata di piogge che ha provocato ingenti danni alle strutture e alle tende dei palestinesi: il ciclone Byron – questo il nome della tempesta – ha allagato interi campi, distrutto migliaia di tende, e causato danni a strade, edifici, sistemi idrico ed elettrico, e campi agricoli, mandando al contempo in tilt il settore ospedaliero. Il ciclone ha causato la morte di 17 persone; tra questi, 4 bambini, deceduti a causa dell’abbassamento delle temperature. Intanto Israele continua a lasciare dall’altra parte del confine quelle medicine, quelle tende, e quelle coperte di cui in questo momento il popolo gazawi necessita, mentre i negoziati per le fasi successive della tregua procedono a rilento; oggi negli USA si terrà un incontro tra i mediatori.

Il ciclone Byron ha iniziato ad abbattersi su Gaza circa due settimane fa. I danni causati dalle piogge sono stati ingenti: l’ultimo bilancio ministeriale parla di ripercussioni in diversi settori, da quello degli sfollati e delle tende, a quello sanitario, quello agricolo, e quelli infrastrutturale e dei servizi. In totale, riporta l’ufficio stampa governativo, sono crollate 13 case già indebolite dai bombardamenti degli ultimi due anni in diverse località della Striscia; 27.000 tende sono state completamente allagate e risultano ora impossibili da abitare, mentre altre 26.000 sono danneggiate almeno parzialmente; con esse, sono stati allagati gli stessi campi – «trasformati in pozze di acqua e di fango», e diversi arredi e materiali quali teli di plastica, materiali isolanti, materassi, cuscini, coperte, e utensili da cucina sono diventati di fatto inutilizzabili. Le strade sterrate e quelle temporanee sono state completamente allagate, così come i sistemi fognari; danni anche alle scorte di cibo, alle serre agricole, ai pannelli solari – da mesi principale fonte di energia della Striscia – e ai generatori. La tempesta, inoltre, ha creato diversi disagi al settore sanitario, impedendo ai punti medici mobili di spostarsi, e di fornire cure a chi ne aveva bisogno. In totale, riporta la protezione civile, le piogge hanno colpito circa 250.000 famiglie e hanno fatto circa 4 milioni di dollari di danni.

Nonostante la tempesta, l’esercito israeliano non ha mai smesso di sparare sui civili con armi da fuoco e colpi di cannone. Secondo una analisi di Al Jazeera, Israele ha condotto attacchi in 58 dei 69 giorni di tregua. L’ufficio stampa governativo, invece, riporta che dal cessate il fuoco, si sono registrate 738 violazioni: le forze israeliane hanno sparato contro i civili 205 volte, effettuato 37 incursioni oltre la cosiddetta “linea gialla” – la linea dietro cui i soldati israeliani dovrebbero rimanere temporaneamente stanziati, bombardato Gaza 358 volte, demolito proprietà in 138 occasioni e arrestato 43 palestinesi. In totale, dalla tregua dell’11 ottobre, Israele ha ucciso quasi 400 persone. Dal 7 ottobre 2023, invece, il bilancio delle uccisioni dirette da parte di Israele è pari a 70.667, anche se secondo diversi studi l’esercito israeliano avrebbe ucciso persone nell’ordine delle centinaia di migliaia.

Intanto i colloqui per la seconda fase della tregua sembrano procedere a rilento. Oggi, a Miami, riporta Axios, dovrebbe tenersi un incontro tra Steve Witkoff, braccio destro diplomatico di Trump, e alti funzionari di Qatar, Egitto e Turchia – i Paesi mediatori; si tratta del maggiore incontro diplomatico dalla ratifica di cessate il fuoco. In parallelo, a Tel Aviv si terrà un vertice tra i politici israeliani. Nonostante ciò, l’inizio della seconda fase di cessate il fuoco sembra ancora lontano. Quotidiani israeliani riportano che Israele avrebbe intenzione di aprire il valico di Rafah solo in uscita, soluzione che di fatto finirebbe a cacciare i palestinesi dalla Striscia fino a data da destinarsi; per tale motivo, starebbe incontrando resistenza dai mediatori. A ciò si aggiunge il fatto che l’istituzione del corpo di pace – che inizialmente doveva avere tra i propri membri anche l’ex premier britannico Tony Blair – pare ancora lontana, mentre quella della cosiddetta “forza internazionale per Gaza” – corpo di polizia internazionale che monitorerebbe la Striscia – è stata solo annunciata dai giornali. Secondo Axios, inoltre, le continue violazioni israeliane, e specialmente l’uccisione di Raed Saad – numero 2 delle Brigate di Al Qassam, il ramo armato di Hamas – starebbero spazientendo gli USA. In questo scenario di incertezza e sostanziale immobilismo, l’esercito israeliano non nasconde che ormai considera la linea gialla la nuova linea di confine del fronte.

Pfas, sentenza Vicenza: “Miteni sapeva dell’inquinamento”

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La Miteni era a conoscenza dell’inquinamento da Pfas prodotto dallo stabilimento di Trissino e dei relativi rischi, ma non ne ha mai informato le autorità. È quanto emerge dalle 2.062 pagine di motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Vicenza, che il 26 giugno ha condannato 11 manager a 141 anni di carcere complessivi. Secondo i giudici, l’azienda ha agito per profitto, ignorando gravi conseguenze ambientali e sanitarie su 350mila persone tra Vicenza, Padova e Verona. Disposti risarcimenti a oltre 300 parti civili: 58 milioni al ministero dell’Ambiente, 6,5 milioni alla Regione Veneto, 800mila euro ad Arpav, oltre a Comuni ed enti. Gli imputati possono fare ricorso in Appello.

Lo sgombero più grande della storia della Catalogna lascia senza casa 400 persone

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BARCELLONA – A pochi giorni dalle festività natalizie quattrocento persone sono state sgomberate senza alcuna alternativa da un’ex scuola di proprietà comunale in disuso da diversi anni. Alle prime luci dell’alba di mercoledì 17 dicembre si è prodotto quello che a tutti gli effetti è stato definito come «lo sgombero più grande della storia della Catalogna». Intorno alle 7 del mattino, decine di camionette delle forze dell’ordine hanno circondato l’area intorno all’Antic Institut d’Educaciò Secundaria B9, situato nel comune di Badalona, a pochi chilometri a nord da Barcellona.

Da alcuni anni centinaia di persone avevano trovato rifugio all’interno dell’edificio, in special modo quando, nel dicembre del 2020, un’altra struttura pubblica in stato di abbandono istituzionale prese fuoco e causò la morte di cinque persone residenti. Secondo quanto denunciato dagli attivisti del sindacato, le operazioni di soccorso e di spegnimento dell’incendio messe in moto dal corpo dei vigili del fuoco furono ostacolate dalla decisione presa mesi prima dal sindaco e rappresentante del Partido Popular della città, Xavier García Albiol, di interrompere l’accesso all’acqua all’interno dell’edificio. A cinque anni di distanza, lo stesso sindaco Albiol (al suo terzo mandato) ha minacciato lo sgombero dell’Istituto B9 senza offrire però alcuna alternativa né soluzione alle persone, di fatto, lasciate in mezzo alla strada.

Foto di Armando Negro

Al contrario, nei suoi profili social e in varie interviste rilasciate alla stampa locale, il popolare ha indurito la sua posizione, affermando che «il comune di Badalona non spenderà nemmeno un euro per le persone sgomberate». A motivare la brutalità di queste misure, secondo il sindaco, risiederebbe la necessità di risolvere un presunto conflitto tra la comunità che abitava lo stabile e una parte del vicinato. «Pedro e i suoi soci dicono che dobbiamo accogliere tutti, adesso tocca a lui cercar loro una casa» ha affermato Albiol alla stampa, facendo riferimento al presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez. In tutto questo, la Generalitat della Catalogna, sotto la guida del Partito Socialista Catalano (PSC), si è girata dall’altra parte, pronunciandosi con poca incisività sulla questione.

«Nonostante il tempo inclemente, nonostante le mediazioni, nonostante tutto, sembra essere più importante l’opinione di un singolo, il sindaco in questo caso, che ha criminalizzato la maggioranza delle persone» mi spiega una persona che vive nel quartiere. «Hanno strumentalizzato i vicini, ma qui si può vedere quanti siamo davvero». Fin dalla prime ore del mattino, infatti, decine di persone sono accorse per donare sostegno alla causa. Residenti del vicinato, collettivi impegnati nella lotta per il diritto alla casa e sindacati antirazzisti situati di fronte al cordone della polizia hanno espresso la loro solidarietà con cori e urla mentre osservavano le persone uscire dalla struttura con i propri averi. Solo mezz’ora dopo l’inizio dello sgombero si sono verificati momenti di tensione: gli agenti della Àrea de Brigada Mòbil (BRIMO), schierati in assetto antisommossa per impedire l’accesso ai manifestanti, hanno iniziato a caricare le persone, tra cui chi è accorso per protestare e chi aveva appena subito lo sgombero, con spintoni e manganellate.

Il macrodispiegamento delle forze dell’ordine previsto per l’operazione ha incluso non solo gli agenti della Guardia Urbana e dei Mossos d’Esquadra, generalmente impiegati per questo tipo di attuazioni, ma anche di più di cinquanta agenti del Cuerpo Nacional de Policia, dei quali molti appartenenti alla Brigada Provincial de Extranjeria y Fronteras de Barcelona. Questo corpo si occupa della detenzione e la deportazione delle persone senza permesso di soggiorno all’interno dei Centri di Internamento di Stranieri (CIE), strutture detentive equivalenti ai CPR italiani. 

Foto di Armando Negro

«Non vogliono e non hanno mai avuto l’intenzione di voler gestire tutto questo» mi spiega un attivista del sindacato per la casa di Badalona. «Loro spostano povertà da una parte all’altra; siamo in un periodo di crisi politica e loro sanno chiaramente chi dovrà pagare il prezzo di questo: la classe lavoratrice e in questo caso il proletariato migrante».

L’operazione di polizia, che si è conclusa intorno alle 11 del mattino, ha prodotto varie centinaia di identificazioni e la detenzione e la deportazione di quindici persone verso il CIE della Zona Franca di Barcellona. 

Nonostante lo sgombero fosse stato annunciato da svariate settimane e la situazione, grazie anche alle denunce dei sindacati attivi sul territorio, fosse risultata evidentemente drammatica, durante tutta la mattina si sono recati sul posto solo due persone impiegate nei Servizi Sociali della città. Alcune persone volontarie nei collettivi presenti allo sgombero hanno provato a offrire sostegno davanti alla grave inadempienza istituzionale, provando a raccogliere dati e fare un conteggio reale delle persone sgomberate.

Foto di Armando Negro

Intorno alle 18, varie persone si sono radunate dinanzi alla piazza del Comune (pattugliata e chiusa dalle forze dell’ordine) per protestare contro le misure promosse dal sindaco. Varie centinaia di manifestanti hanno sfilato per le strade della città raggiungendo il recinto della scuola B9. Qui molte delle persone senza più una casa si sono organizzate per trascorrere la notte, ricevendo da un lato il sostegno delle persone manifestanti che hanno portato vivande e coperte, dall’altro un’ulteriore umiliazione da parte del sindaco Albiol che ha deciso di staccare la corrente in tutta l’area.

Secondo il Centre d’Estudis d’Opinió (CEO), l’accesso alla casa è la principale preoccupazione per le persone residenti in Catalogna. La gestione di questo problema da parte del Governo centrale e regionale sta mettendo in evidenza la poca efficacia di misure che risultano spesso inutili. L’ambiguità politica di fronte alla speculazione economica portata avanti dai fondi d’investimento crea confusione e non permette di identificare chi realmente ha generato questa situazione. Mentre vengono attuate politiche tiepide, parallelamente si affermano politici come Albiol, che per salvaguardare gli interessi dei giganti economici, instaurano la guerra dei penultimi contro gli ultimi.

TikTok accontenta Trump: negli USA una nuova società con controllo nazionale dell’algoritmo

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Dopo mesi di ambiguità, indiscrezioni e comunicazioni frammentarie, la vicenda della compravendita di TikTok sembra aver finalmente compiuto passi concreti: la piattaforma ha sottoscritto un accordo vincolante che prevede la creazione di una nuova società destinata a essere controllata in larga parte da un gruppo di investitori statunitensi. L’operazione punta a scongiurare la censura minacciata da Washington, ma di fatto consegna agli Stati Uniti il controllo di un servizio digitale di enorme influenza e di un business che è in rapida espansione.

La notizia è emersa da una nota interna firmata dall’amministratore delegato Shou Zi Chew e intercettata da diverse testate, tra cui CNN e Bloomberg. Nel comunicato, il dirigente informa i dipendenti che la società madre di TikTok, ByteDance, si è impegnata ufficialmente a costituire una nuova entità denominata TikTok USDS Joint Venture LLC, incaricata di gestire le operazioni dell’app negli Stati Uniti. La nuova struttura sarà controllata in larga parte da una cordata di investitori già nota dalle indiscrezioni precedenti, ma con alcune notevoli variazioni: oltre alla confermata e discussa presenza di Oracle e Silver Lake, entra in gioco anche MGX, fondo di investimento con sede negli Emirati Arabi Uniti.

L’obiettivo è completare la transazione entro il 22 gennaio 2026, attribuendo al triumvirato di investitori il 45% delle quote della nuova joint venture. Una quota consistente resterà invece agli azionisti già presenti nel capitale, mentre ByteDance potrà mantenere una partecipazione minoritaria inferiore al 20%, limite massimo stabilito dalle normative statunitensi per ridurre l’influenza cinese sul panorama social americano. Questa soluzione è concepita per rispettare i requisiti delle leggi introdotte dal Congresso nel 2024, le quali hanno imposto a ByteDance di cedere il controllo delle attività di TikTok negli Stati Uniti o, in alternativa, affrontare un divieto totale di operare sul mercato americano.

L’aspetto più sensibile dell’accordo riguarda però l’algoritmo di raccomandazione, vero cuore del successo della piattaforma e principale fonte di preoccupazione per le autorità statunitensi, timorose che potesse essere usato come strumento di influenza o di raccolta dati a favore del governo cinese. L’intesa prevede che l’algoritmo venga concesso in licenza e che la nuova TikTok USDS sviluppi e addestri un sistema separato, basato esclusivamente sui dati degli utenti statunitensi, con Oracle nel ruolo di garante tecnologico e custode dell’infrastruttura cloud e dei protocolli di sicurezza. In pratica, per gli utenti USA, TikTok continuerà ad apparire come la stessa app, ma dietro le quinte funzionerà con un motore di raccomandazione supervisionato localmente.

Gli estremi finanziari dell’accordo commerciale non sono ancora stati resi pubblici, tuttavia le condizioni di base hanno lasciato a ByteDance margini di contrattazione estremamente ridotti, con diversi osservatori che arrivano a descrivere il contesto come una forma di atteggiamento estorsivo. Sul piano politico, l’intesa consente all’Amministrazione Trump di rivendicare una vittoria in materia di sicurezza nazionale e sovranità digitale, rafforzando il concetto di una frammentazione di Internet lungo confini nazionali. Una prospettiva paradossale, se si considera che negli ultimi mesi gli Stati Uniti si sono impegnati attivamente a contestare le normative europee, ritenute discriminatorie nei confronti delle Big Tech americane. Sarebbe a questo punto interessante immaginare quale sarebbe la reazione di Washington se Bruxelles imponesse a Meta di cedere parte delle proprie quote per tutelare i dati dei cittadini europei, soprattutto alla luce del fatto che gli accordi di trasferimento dei dati tra alleati atlantici continuano a poggiare su basi giuridiche fragili e contestate.

Famiglia nel bosco, ricorso respinto: i bambini restano in comunità

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La Corte di Appello dell’Aquila ha rigettato il ricorso presentato dai legali della famiglia che viveva nel bosco di Palmoli contro la sospensione della potestà genitoriale nei confronti di Nathan e Catherine e l’allontanamento dei loro tre figli minori. Resta, quindi, in vigore l’ordinanza del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila che, il 20 novembre scorso, ha disposto il trasferimento dei bambini da Palmoli a Vasto, in una struttura protetta, dove attualmente possono vedere la madre per alcune ore al giorno, mentre al padre sono concesse visite programmate.

Gli USA sanzionano altri due giudici della Corte Penale per le indagini su Israele

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Gli Stati Uniti hanno deciso di sanzionare due giudici della Corte Penale Internazionale (CPI) dopo che questi ultimi hanno respinto il ricorso, presentato da Israele, per archiviare l’indagine sulla condotta dell’esercito e dei vertici politici israeliani durante l’offensiva nella Striscia di Gaza a partire dal 2023. Il respingimento del ricorso conferma anche la validità dei mandati di arresto emessi lo scorso anno nei confronti del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e dell’allora ministro della Difesa Yoav Gallant. Ad annunciare l’imposizione delle sanzioni contro i due giudici della Corte è stato il segretario di Stato statunitense Marco Rubio, secondo cui i due giudici «hanno partecipato direttamente alle iniziative della CPI volte a indagare, arrestare, detenere o perseguire cittadini israeliani senza il consenso di Israele». Lo stesso ha anche accusato la Corte di aver «continuato a intraprendere azioni politicizzate contro Israele» e di aver «creato un pericoloso precedente per tutte le nazioni». Non si è fatta attendere la replica del Tribunale internazionale secondo il quale le sanzioni «costituiscono un flagrante attacco all’indipendenza di un’istituzione giudiziaria imparziale che opera in base al mandato conferitole dai suoi Stati Parte da tutte le regioni» e «compromettono lo stato di diritto».

I giudici colpiti dalle misure USA sono Gocha Lordkipanidze di nazionalità georgiana e Erdenebalsuren Damdin di nazionalità mongola: entrambi hanno votato a favore del rigetto dell’appello presentato da Israele contro le decisioni della Corte. Nello specifico, il tribunale dell’Aia ha respinto la richiesta israeliana di annullare una precedente decisione di primo grado che stabiliva che l’indagine sui crimini rientranti nella giurisdizione della CPI non poteva essere circoscritta al periodo precedente al 7 ottobre, ma doveva valutare anche quanto accaduto dopo tale data, durante l’offensiva lanciata da Israele su Gaza. Per i giudici d’appello, le argomentazioni presentate da Tel Aviv sarebbero troppo deboli per limitare l’ambito dell’inchiesta e per sospenderne gli effetti. Le indagini della CPI sulla situazione in Palestina, infatti, sono in corso già dal 2021, in quanto la Corte ritiene di avere giurisdizione sui Territori palestinesi occupati, sulla base dell’adesione dello Stato di Palestina allo Statuto di Roma. Da allora, Israele ha presentato una serie di ricorsi e contestazioni.

Il numero dei magistrati sanzionati da Washington arriva così a undici: gli USA, infatti, avevano già emesso sanzioni contro il Procuratore capo della CPI Karim Khan e la scorsa estate hanno preso di mira otto giudici del Tribunale, alcuni dei quali per avere permesso alla CPI di indagare sui crimini statunitensi in Afghanistan, mentre altri per avere autorizzato o legittimato l’emissione di mandati d’arresto contro Netanyahu e il suo ex ministro Gallant. Lo stesso presidente statunitense Donald Trump a febbraio aveva firmato un ordine esecutivo che includeva sanzioni contro la Corte penale internazionale, per avere intrapreso «azioni illegali e infondate contro l’America e il nostro stretto alleato Israele». Washington pretende che la CPI chiuda definitivamente ogni processo a carico di individui israeliani e che faccia la stessa cosa con una precedente indagine sulle truppe statunitensi in Afghanistan. Rubio ha anche sottolineato che Stati Uniti e Israele non sono parti dello Statuto di Roma e quindi rifiutano la giurisdizione della Corte penale internazionale.  Nel frattempo, i giudici sanzionati non potranno entrare negli USA, aprire conti ed effettuare transazioni finanziarie né avere rapporti con realtà statunitensi ai fini delle indagini o di altri lavori.

Sanzionare chi si oppone alla politica e ai piani statunitensi è un modus operandi ormai tipico degli Stati Uniti che non riguarda solo i giudici della CPI o le nazioni ostili a Washington, ma qualunque figura che si oppone alle azioni statunitensi e dei suoi alleati. Per questa ragione, la potenza a stelle e strisce ha sanzionato anche la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, rea di avere contribuito direttamente ai tentativi della CPI di indagare, arrestare o perseguire cittadini israeliani e statunitensi, attraverso il suo ultimo rapporto, “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”, in cui smaschera le aziende che fiancheggiano Israele nel suo progetto genocidario, traendone profitto. Le sanzioni contro di lei comportano non solo il divieto di entrare negli USA ma anche il congelamento dei suoi beni. La stessa Albanese ha spiegato di non poter avere un conto in banca, né negli Stati Uniti né in Italia, che il suo attuale conto italiano è stato congelato e, quando ha cercato di aprirne uno nuovo presso Banca Etica, l’istituto ha dovuto rifiutare la richiesta.

Le sanzioni sono, dunque, un potente strumento per mezzo del quale Washington cerca di esercitare e mantenere la sua egemonia. Tuttavia, la CPI non si è piegata alle intimidazioni della Casa Bianca confermando i mandati di cattura per il primo ministro israeliano Netanyahu e il suo ex ministro della Gallant, ma soprattutto ha stabilito la continuità della condotta di Israele prima e dopo il 7 ottobre. Si tratta di una decisione cruciale, perché priva Tel Aviv di una delle sue principali linee difensive: quella secondo cui l’operazione a Gaza costituirebbe una situazione giuridica distinta dal quadro investigativo precedente, risalente al 2021. La Corte ha inoltre dichiarato che continuerà a lavorare per garantire l’attuazione efficace e indipendente del suo mandato.

 

Giappone: tassi di interesse ai valori più alti dal 1995

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La Banca del Giappone ha alzato i tassi d’interesse dallo 0,5 allo 0,75%, il livello più alto mai raggiunto dal 1995, sebbene ancora inferiore a quello delle principali economie globali. L’aumento mira a contenere l’inflazione, che da oltre tre anni supera l’obiettivo del 2 per cento fissato dalla Banca centrale. Per stimolare la crescita e i consumi, il governo giapponese ha stanziato circa 100 miliardi di euro in settori strategici come difesa, semiconduttori e costruzione navale, affermando che più della metà di questi investimenti saranno finanziati con la vendita di titoli di stato.

Nuovi OGM: in un rapporto tutti i pericoli della deregolamentazione

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Alterazioni genetiche non previste, instabilità cromosomiche, effetti metabolici sconosciuti, contaminazioni transgeniche, rischi ecologici e nuove forme di controllo corporativo, fino alla biopirateria. È questo il bilancio che accompagna la corsa alla deregolamentazione dei nuovi OGM e delle “Nuove Tecniche Genomiche” (NTG), comunemente note come gene editing e in Italia come TEA (“Tecniche di Evoluzione Assistita”), che emerge dal rapporto “Semi di resistenza. Deregolamentazione degli OGM e mobilitazione popolare”, lanciato in questi giorni dal Navdanya International, l’organizzazione fondata 30 anni fa in India dall’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva in difesa della sovranità alimentare e dei semi. Il rapporto smonta la narrazione dell’inevitabilità tecnologica e mostra come la deregolamentazione sia una scelta politica, non una necessità scientifica, che indebolisce l’agrobiodiversità e la sicurezza alimentare, cancella la tracciabilità e trasferisce i rischi dall’industria ai cittadini, ridefinendo in modo opaco e senza mandato democratico il controllo sul cibo.

America Latina: il laboratorio della deregolamentazione

In Colombia, nel 2019 la superficie OGM ha superato i 100.000 ettari, soprattutto per mais e cotone

Il rapporto descrive l’America Latina come il primo banco di prova della deregolamentazione. Il cosiddetto “modello argentino”, operativo dal 2015, ha escluso dal quadro OGM molte piante ottenute con gene editing prive di DNA esogeno, consentendo così una rapida immissione in commercio senza adeguate valutazioni di biosicurezza. Questo approccio si è esteso a più Paesi della regione, segnando una svolta normativa che ha ridotto controlli e trasparenza. In Colombia, nel 2019 la superficie OGM ha superato i 100.000 ettari, soprattutto per mais e cotone. Le conseguenze sono già note: in Messico, culla del mais e pilastro identitario oltre che agricolo, uno studio indipendente del 2003 aveva rilevato fino al 33 per cento di contaminazione transgenica in varietà autoctone, dimostrando come il flusso genico renda illusoria ogni distinzione formale tra colture. Non a caso, negli ultimi anni, diversi Paesi latinoamericani hanno reagito rafforzando divieti e moratorie, fino alla riforma costituzionale messicana a tutela del mais nativo.

Africa: adozione forzata e dipendenza

In Africa la deregolamentazione procede sotto la spinta di programmi internazionali che presentano OGM e NGT come soluzioni alla fame e al cambiamento climatico. Il rapporto segnala come il risultato sia, al contrario, una crescente dipendenza dalle sementi geneticamente modificate. In Sudafrica, oltre 3 milioni di ettari sono coltivati a OGM, con percentuali che superano l’85 per cento per il mais, il 95 per cento per la soia e arrivano quasi al 100 per cento per il cotone. Questo modello ha favorito monocolture, pacchetti tecnologici brevettati e una forte erosione dei sistemi sementieri locali.  

Asia: tra accelerazione e resistenze

In Bangladesh, nel 2025, oltre 65 mila agricoltori coltivavano melanzana BT (OGM)

Il continente asiatico mostra un quadro frammentato. In Bangladesh, nel 2025, oltre 65 mila agricoltori coltivavano melanzana BT (OGM), mentre in altri Paesi il dibattito resta acceso. Il rapporto evidenzia come l’introduzione di tecnologie come CRISPR abbia acuito i conflitti tra governi orientati alla deregolamentazione e società civili che chiedono precauzione e trasparenza. Le promesse di benefici nutrizionali e agronomici risultano spesso ridimensionate rispetto alla narrazione “salvifica”: è il caso del Golden Rice, una varietà di riso prodotta attraverso una modifica genetica, i cui livelli di beta-carotene risultano molto bassi e variabili (3,57–22 µg/g) e si degradano rapidamente dopo il raccolto, limitandone l’efficacia nutrizionale.

Europa: il bivio normativo

In Europa la traiettoria globale arriva oggi a un punto critico. Sotto una pressione delle lobby, il 4 dicembre il Trilogo europeo ha approvato la deregolamentazione delle nuove tecniche genomiche, distinguendo tra piante NGT1, equiparate alle convenzionali, e NGT-2, caratterizzate da modifiche più complesse. In Italia la deregolamentazione dei nuovi OGM entra in contraddizione con il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, nato per tutelare biodiversità e produzioni locali. Secondo il rapporto, la scelta europea apre la strada alla rimozione di valutazioni del rischio, etichettatura e tracciabilità, riducendo drasticamente la trasparenza istituzionale.  

Oceania: dalla precauzione alla deregulation

In Oceania, Australia e Nuova Zelanda hanno a lungo rappresentato un riferimento internazionale per l’approccio prudente agli OGM, fondato su valutazioni preventive, consultazioni pubbliche e attenzione ai diritti delle popolazioni indigene e agli equilibri ecologici. Il rapporto segnala, però, una svolta netta negli ultimi anni: le normative sono state modificate per escludere dal regime OGM molte piante ottenute con gene editing, in particolare attraverso CRISPR-Cas, facilitandone l’ingresso sul mercato senza valutazioni di rischio comparabili a quelle precedenti. Una deregolamentazione che riduce la trasparenza, indebolisce il principio di precauzione e subordina la tutela degli ecosistemi a interessi industriali, mettendo in discussione processi decisionali che erano stati costruiti proprio per garantire partecipazione democratica e protezione della biodiversità.  

Disaccordo scientifico e rischi

Nonostante vengano presentate come più precise e sicure delle biotecnologie del passato, le nuove tecniche genomiche continuano a dividere la comunità scientifica. Numerosi ricercatori segnalano i rischi legati alle mutazioni off-target, modifiche genetiche non intenzionali generate da strumenti come CRISPR-Cas, in grado di produrre alterazioni impreviste del genoma e dei processi biologici. La letteratura scientifica evidenzia come, in assenza di protocolli e standard condivisi a livello globale per individuare e misurare questi effetti, i risultati degli studi siano spesso disomogenei, rendendo fragili le valutazioni di rischio. Da qui, il mancato consenso internazionale sulla sicurezza di OGM e prodotti di gene editing, soprattutto rispetto agli impatti ecologici a lungo termine e alle interazioni con ecosistemi complessi, come il suolo e i microbi.  

Il controllo corporativo

La deregolamentazione apre anche un fronte meno visibile, ma altrettanto decisivo: quello del controllo corporativo. I semi ottenuti con gene editing, pur presentati come “naturali”, finiscono nei regimi brevettuali più stringenti. Attraverso l’uso della Digital Sequence Information (DSI) – dati genetici digitalizzati – le multinazionali come Corteva, Bayer o Syngenta possono appropriarsi di tratti genetici presenti in varietà coltivate o spontanee, aggirando lo spirito del Protocollo di Nagoya. Le aziende come Bayer stanno brevettando sementi abbinate all’uso dei loro pesticidi e agenti chimici, privatizzando il cibo e la vita stessa. I sistemi di licenza restringono l’accesso alle sementi, marginalizzano piccoli selezionatori e agricoltori, indeboliscono la ricerca pubblica. Sul piano ecologico, la diffusione di colture resistenti agli erbicidi accelera la comparsa di infestanti super resistenti, mentre il flusso genico minaccia la biodiversità autoctona.

Mobilitazione e resistenza dal basso

Non ovunque, però, la partita è già chiusa. Il rapporto documenta una resistenza dal basso che attraversa continenti e sistemi giuridici in tutti i continenti. In Guatemala, le mobilitazioni popolari sono riuscite a ribaltare la “Legge Monsanto”, Ecuador e Venezuela hanno inserito divieti costituzionali, il Perù ha prorogato la moratoria fino al 2035, il Messico ha vietato la coltivazione del mais OGM, Sudafrica e Colombia hanno adottato nuovi stop nel biennio 2024-2025. In Asia e in Europa, tribunali e mobilitazioni hanno rallentato l’espansione incontrollata. Recenti vittorie legali nelle Filippine hanno bloccato alcune colture geneticamente modificate e i movimenti asiatici continuano ad affermare che il futuro alimentare deve dare priorità alla scelta democratica, al patrimonio culturale e alla resilienza ecologica.  

Che fare?

La posta in gioco va oltre l’agronomia e tocca cultura e democrazia: per molte comunità i semi sono un vero e proprio patrimonio vivente e base della sovranità alimentare. La deregolamentazione dei nuovi OGM segna un cambio di paradigma che concentra potere e opacità, riducendo tutele e tracciabilità a favore della logica della mercificazione. La risposta che cresce dal basso indica un’alternativa fondata su agrobiodiversità, ricerca pubblica e principio di precauzione, per difendere il diritto collettivo a decidere sul cibo.

Auto elettriche, Antitrust UE: accordo sulla trasparenza con le case

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Si è conclusa con un accordo l’istruttoria dell’Antitrust Ue nei confronti di Stellantis, Tesla, BYD e Volkswagen su possibili pratiche commerciali sleali legate alle auto elettriche. Le case si sono impegnate a fornire informazioni più chiare e complete su autonomia reale, degrado delle batterie e condizioni di garanzia. Entro 120 giorni dovranno aggiornare i siti web con dati dettagliati, inserire simulatori di autonomia e indicazioni sui fattori che incidono sulle prestazioni. Previsto anche un miglioramento delle soglie di garanzia sullo stato di salute delle batterie.