Il Parlamento europeo ha revocato l’immunità alla eurodeputata del PD Alessandra Moretti nell’ambito dell’inchiesta Qatargate. La votazione si è tenuta oggi, 16 dicembre, e ha visto 497 voti a favore della revoca, 139 contrari e 15 astenuti. Nell’ambito della stessa richiesta, è stata confermata l’immunità per l’eurodeputata Elisabetta Gualmini, sempre del PD, con 382 voti a favore, 254 contrari e 19 astenuti. Moretti è accusata dalla procura belga di fare parte di una rete di parlamentari europei che hanno lavorato portando avanti gli interessi di Paesi extra-UE, come il Qatar, in cambio di denaro. I deputati sono accusati di corruzione.
La persecuzione del governo contro le lezioni di Francesca Albanese: ispettori anche a Bologna
Il governo non ferma le ispezioni verso gli istituti scolastici che hanno ospitato le lezioni di Francesca Albanese. Dopo l’invio di ispettori in due scuole toscane toccherà ad altri due istituti emiliani, rei di avere lasciato svolgere una presentazione alla Relatrice ONU, connessa in videoconferenza. Secondo la versione ripresa dai media, gli istituti coinvolti hanno permesso agli studenti di partecipare all’iniziativa senza avvertire i genitori; il seminario via internet, coordinato dalla rete Docenti per Gaza, consisteva in una presentazione dell’ultimo libro di Albanese, Quando il mondo dorme, che racconta «storie di persone comuni – rifugiati, attivisti, intellettuali, bambini – che hanno in qualche modo segnato il personale cammino professionale e soprattutto umano» della Relatrice. Contro di esso, si legge in un comunicato del sindacato FLC CGIL, il ministro avrebbe invocato una recente nota ministeriale che chiede che sia assicurata la par condicio anche all’interno delle iniziative scolastiche extracurricolari.
Le scuole interessate dalla vicenda sono l’Istituto Mattei di San Lazzaro – in provincia di Bologna, e l’Istituto Cattaneo di Castelnovo dei Monti – in provincia di Reggio Emilia. Valditara ha affermato che «bisognerà accertare il contenuto di questi corsi, bisognerà capire se queste lezioni hanno, come qualche giornale ha scritto, accusato il governo di essere fascista, complice di genocidio, se è vero o non è vero che sono stati invitati gli studenti a occupare le scuole», affermando inoltre di volere verificare che i dirigenti scolastici fossero stati avvertiti delle lezioni. «La scuola democratica e costituzionale deve prevedere il pluralismo e non l’indottrinamento» ha commentato il ministro.
A proposito delle parole del ministro, il sindacato FLC CGIL ha menzionato la circolare n. 6545 del Ministero dell’Istruzione, che invita le scuole ad «organizzare attività su temi politici e sociali scegliendo relatori “con contraddittorio”», affermando che «alla luce di questi ultimi accadimenti sembra agita di proposito contro la relatrice dell’ONU Francesca Albanese. Come se questo fosse possibile sempre su temi sui quali la storia si è già pronunciata». La circolare fa riferimento a un’altra nota ministeriale, la n. 5836, che, nelle righe finali, invita le scuole a «promuovere iniziative che siano coerenti con gli obiettivi formativi della scuola e che contribuiscano, attraverso il libero confronto di posizioni diverse, a favorire una approfondita e il più possibile oggettiva conoscenza dei temi proposti, consentendo in tal modo a ciascuno studente di sviluppare una propria autonoma e non condizionata opinione».
La scelta di mandare gli ispettori nelle scuole emiliane segue un analogo avvio di ispezioni in due istituti toscani per gli stessi motivi. Valditara ha dichiarato «di aver letto su organi di stampa che la relatrice avrebbe rilasciato dichiarazioni che, se comprovate, potrebbero costituire ipotesi di reato». A chiedere l’intervento del ministro era stata un’interrogazione parlamentare del deputato di Fratelli d’Italia, Alessandro Amorese, secondo cui «iniziative scolastiche di questo tipo, se svolte in assenza di un adeguato contraddittorio, rischiano di assumere il carattere di un indottrinamento ideologico, lontano dai principi di pluralismo, equilibrio formativo e imparzialità che devono guidare l’attività educativa nelle scuole italiane». Anche nel caso delle scuole toscane, insomma, il richiamo era alla mancata presenza di un “contradditorio”. Resta tuttavia da comprendere che cosa potrebbe garantire la par condicio in quello che risulta un seminario di stampo storico e culturale nel quale è stato presentato l’ultimo libro di una esperta internazionale; forse le scuole avrebbero dovuto invitare un soldato dell’IDF o, meglio ancora, un esponente del governo Netanyahu.
Repubblica Democratica del Congo: i ribelli si ritireranno da Uvira
I ribelli congolesi dell’M23 hanno annunciato che si ritireranno dalla città di confine Uvira, conquistata qualche giorno fa. L’annuncio risponde a una richiesta degli Stati Uniti, che hanno chiesto al movimento di lasciare la città. Uvira era stata conquistata poco dopo la ratifica dell’accordo di cessate il fuoco tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, accusato di sostenere il movimento ribelle; l’amministrazione Trump aveva definito la presa della città una violazione del cessate il fuoco. Dopo la conquista di Uvira, i ribelli hanno annunciato di avere rapito centinaia di soldati del Burundi, Paese confinante con l’area della città.
Molti media dominanti stanno usando la strage australiana per riabilitare Israele
«Le marce dei pro-Pal alimentano l’odio. La stessa follia può colpire in Italia» (Fausto Biloslavo, Il Giornale), «Il rischio di questa Shoah diffusa ora è in tutto il mondo, ma la si traveste da politica e da critica a Israele» (Fiamma Nirenstein , Il Giornale); «La strage nell’Australia Pro Pal. E adesso chi sarà il prossimo?» (Franco Lodige per Nicolaporro.it). Come era già avvenuto per l’attentato a Washington davanti al Museo ebraico lo scorso maggio, i media italiani stanno strumentalizzando in maniera trasversale la strage di Bondi Beach del 14 dicembre 2025, presentando l’attacco come il culmine delle proteste pacifiste contro la guerra a Gaza, insinuando che le manifestazioni pro-Palestina abbiano fomentato un clima ostile agli ebrei, portando a una Intifada globale.
Questa lettura, pur non sempre esplicita, appare chiaramente in testate conservatrici come Il Giornale (in cui si parla addirittura di “Shoah diffusa”) e Il Foglio, che amplificano episodi post-7 ottobre per dipingere un clima di antisemitismo generalizzato, descritto come «il prodotto di un odio normalizzato che l’Occidente continua a sottovalutare». L’articolo “La scia di sangue dal 7 ottobre a Bondi Beach” pubblicato sul Giornale, collega l’attentato a un’escalation post-7 ottobre, evocando un contesto di odio che include le proteste pro-Pal. Sulle colonne dello stesso quotidiano, Fiamma Nirenstein scrive che l’attentato «Doveva essere previsto: a partire dal 7 di ottobre la bestia famelica, l’antisemitismo che si annida da secoli nelle più diverse pieghe della cultura soprattutto islamica, ma anche cristiana e di sinistra e che è capace di prendere le più svariate forme, è stata nutrita dalla politica». Analogamente, Il Foglio in “Oltre l’attacco di Sydney. Gli episodi di odio antisemita nel mondo dal 7 ottobre a oggi” elenca una serie di attacchi globali per insinuare una continuità tra terrorismo jihadista e le manifestazioni pro-Pal. Un altro articolo di Giulio Meotti, “Il pogrom sulla spiaggia. La strage di Sydney era questione di tempo”, denuncia un «antisemitismo fuori controllo» in Australia, citando sinagoghe incendiate e assalti, spesso attribuiti in contesti simili alla tolleranza verso cortei pro-Pal. Dello stesso avviso Lodige sul sito di Nicola Porro, secondo cui, «L’idea che il riconoscimento dello Stato palestinese possa funzionare da argine alla violenza antisemita si è infranta domenica pomeriggio sulla sabbia di Bondi Beach» e anzi, avrebbe funto da “via libera” per i fanatici.
Non mancano interpretazioni simili anche sui media di area progressista. Su la Repubblica, troviamo una intervista a Joel Burnie, uno dei leader della comunità ebraica australiana, che descrive l’attacco come una “tragedia annunciata” a causa delle manifestazioni pro-Palestina, accusate di incitare all’odio. Anche Domani si allinea, seppur con toni più soffusi, ospitando un editoriale sul tema, firmato dal filosofo ebraico Davide Assael che, associando antisionismo e antisemitismo, afferma che la “retorica incendiaria” e una certa propaganda antisionista armano gli estremisti. È la posizione condivisa da Andrea Molle di HuffPost, secondo cui l’attentato di Sydney «è l’ultimo anello di una catena che attraversa l’Occidente da almeno dieci anni»; la sua origine risiede «nell’idea che il sionismo è un crimine ontologico» e nella «normalizzazione, anche lessicale, dell’antisemitismo». Su La Stampa campeggiano due interviste senza contraddittorio in cui si dà per scontato che l’attentato australiano sia frutto della criminalizzazione di Israele (per Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, «È il risultato di troppa propaganda»). Poco più avanti, troviamo un editoriale a firma di Guido Corso, “Quella confusione sull’antisemitismo”, in cui il Professore Emerito di Diritto amministrativo dell’Università RomaTre spiega che gli omicidi di Sydney «richiedono discussioni serie ed urgenti sulla materia», rilanciando la necessità di un dibattito a favore del DDL Delrio, la proposta di legge che ha suscitato la mobilitazione del mondo accademico per le sue ripercussioni liberticide. Dal salotto televisivo de La7, Paolo Mieli lancia un accorato appello, chiedendo di «non parlare contro Netanyahu per un giorno», per concentrarsi invece sulla condanna dell’antisemitismo.
Il nesso tracciato da una parte dei media tra la strage di Bondi Beach e le mobilitazioni pro-Palestina piega e distorce i fatti per delegittimare il dissenso e per riabilitare Israele, proiettando su manifestazioni pacifiche l’ombra della violenza e dell’estremismo. Confondere deliberatamente i piani significa spostare l’attenzione dalle responsabilità reali e trasformare una tragedia in un’arma retorica. È un’operazione politica, non informativa, che serve a restringere lo spazio del dibattito pubblico, usando i morti come argomento.
GB, 8 attivisti di Palestine Action in sciopero della fame in carcere: «rischiano di morire»
Alcuni membri di Palestine Action, il gruppo che in Gran Bretagna promuove azioni dirette non violente contro le aziende complici di Israele e dichiarato dal governo organizzazione terroristica, stanno portando avanti il più grosso sciopero della fame nelle carceri del Paese da quarant’anni a questa parte. Sono otto gli attivisti coinvolti, rinchiusi in cinque prigioni sul territorio britannico in attesa di processo. Nonostante l’aggravarsi delle loro condizioni di salute, hanno dichiarato che proseguiranno fino a che il governo non prenderà alcune iniziative, tra le quali la revoca della messa al bando dell’organizzazione e la fine delle operazioni nel Regno Unito di Elbit System, azienda israeliana produttrice di armi.
Due attivisti sono entrati oggi nel loro 45° giorno di protesta – iniziata il 2 novembre, nel 108° anniversario della Dichiarazione Balfour. La settimana successiva si sono aggiunte altre cinque persone, mentre l’ultimo rifiuta il cibo da 12 giorni. Cinque scioperanti sono già stati ricoverati in ospedale. Gli avvocati e i familiari avvertono che gli attivisti potrebbero morire in carcere, accusando le autorità britanniche di mancanza di assistenza e comunicazione e il ministro della Giustizia di ignorare le loro richieste di incontro. Tutti hanno perso molti chili e le loro condizioni di salute si stanno aggravando velocemente. Anche Amnesty International UK ha denunciato il momento critico e ha chiesto ai pubblici ministeri di ritirare le loro accuse di terrorismo e porre fine alle lunghe detenzioni preventive, sottolineando come «l’uso delle leggi antiterrorismo per aggirare il giusto processo e imporre pene più severe ai manifestanti che intraprendono azioni dirette costituisce una minaccia ai diritti di espressione e di riunione di tutti».
Questo gruppo di detenuti è in attesa di processo per il presunto coinvolgimento in due azioni organizzate da Palestine Action, entrambe avvenute prima della messa al bando dell’organizzazione, quest’estate. Nella prima azione, gli attivisti sono accusati di aver danneggiato attrezzature e proprietà della fabbrica di armi Elbit Systems (il più grande produttore di armi israeliano) di Filston, nell’agosto 2024. Nella seconda azione, nel giugno 2025, gli imputati detenuti sarebbero entrati nella base aerea RAF Brize Norton e avrebbero spruzzato vernice rossa sui motori degli aerei cisterna utilizzati negli attacchi aerei britannici in Medio Oriente. Nessuno degli imputati ha accettato le accuse a loro carico. Sono 29 in totale gli attivisti di Palestine Action rinchiusi nelle prigioni britanniche, tutti accusati a vario titolo di azioni volte a sabotare Elbit System o i partner con i quali questa collabora. Non è escluso che altri si uniranno allo sciopero in corso.
Gli attivisti hanno dichiarato che continueranno a rifiutare il cibo fino a quando il governo britannico non soddisferà le loro cinque richieste. Alcune sono richieste legate alla propria carcerazione, quali lafine della censura delle loro comunicazioni, il rilascio immediato su cauzione e la divulgazione dei documenti relativi all’influenza dello Stato israeliano e delle aziende nei loro casi, al fine di garantire un processo equo. Altre riguardano il più ampio movimento di solidarietà con la Palestina: gli scioperanti chiedono la revoca della messa al bando di Palestine Action: da quando il gruppo è stato classificato come organizzazione terroristica, nel mese di luglio, oltre 2.350 persone sono state arrestate ai sensi della legge sul terrorismo, per aver esposto cartelli che indicavano il loro sostegno al gruppo. L’ultima richiesta va oltre i confini della Gran Bretagna: gli scioperanti chiedono la fine delle operazioni nel Regno Unito di Elbit Systems, la quale produce l’85% della flotta di droni utilizzati per perpetrare il genocidio in Palestina.
Quello in corso rappresenta il più grande sciopero della fame coordinato nelle carceri britanniche dalla protesta del 1981 dei prigionieri repubblicani irlandesi dell’H-Block, che contestavano il rifiuto dello Stato britannico a riconoscerli come prigionieri politici. Durante i sette mesi di quella protesta, il governo Thatcher assistette alla morte di dieci giovani uomini prima di accogliere silenziosamente quasi tutte le loro richieste. Oggi come ieri, uno sciopero della fame collettivo dei detenuti viene accolto con un silenzio di tomba da parte dello Stato britannico. Ha fatto il giro dei social la risposta di David Lammy, ministro della Giustizia, quando è stato avvicinato dalla sorella di Kamran Ahmed, Shahmina Alam, al venticinquesimo giorno dello sciopero: «è davvero un peccato», ha commentato, «non ne sapevo niente».
Palestine Action, prima della sua prescrizione, aveva accusato il governo britannico di complicità nei crimini di guerra israeliani a Gaza e aveva dichiarato di essere «impegnata a porre fine alla partecipazione globale al regime genocida e di apartheid di Israele». Tuttora, le manifestazioni di disobbedienza civile a sostegno del gruppo stanno venendo fortemente represse dal governo britannico, che continua a non rilasciare dichiarazioni sullo sciopero della fame in corso nonostante le richieste formali anche da parte degli avvocati degli imputati. La solidarietà invece è arrivata da prigionieri di tutto il mondo: per un breve periodo, anche Jakhi McCray, Luca Dolce (detto Stecco) e Dimitris Chatzivasileiadis, detenuti negli Stati Uniti, in Italia e in Grecia, si sono uniti allo sciopero degli attivisti britannici.
Consulta: bocciata parte della legge sarda sulle aree idonee
La Corte Costituzionale ha bocciato parte della legge sarda che individua le aree idonee e non idonee per la costruzione di impianti da energia rinnovabile. Nel farlo, la Consulta accoglie in parte una impugnazione del governo, stabilendo che «la qualifica di non idoneità di un’area non può tradursi in un aprioristico divieto di installazione» degli impianti. La Corte ha bocciato anche la disposizione regionale che avrebbe bloccato parte dei progetti già avviati, il fermo ai progetti in parte su aree idonee e in parte su aree non idonee, e l’ipotesi di istituire, su richiesta dei Comuni, misure di semplificazione per costruire impianti nelle aree non idonee.
A Palermo si pagano mazzette anche per la riconsegna delle salme: chiesti 15 arresti
Un sistema criminale organizzato per speculare sul dolore dei familiari in lutto. È quanto avrebbero gestito, secondo la Procura di Palermo, quattro dipendenti della camera mortuaria del Policlinico cittadino, in combutta con undici imprenditori e dipendenti di aziende funebri locali. Per accelerare il rilascio di una salma, per vederla una volta ancora, persino per far togliere un pacemaker prima della cremazione, era infatti necessario pagare. Un tariffario preciso, da 50 a diverse centinaia di euro, regolava servizi che sarebbero invece dovuti essere gratuiti o già compresi nel “pacchetto”. I magistrati, guidati dal procuratore Maurizio de Lucia, hanno chiesto al giudice delle indagini preliminari l’arresto dei quindici indagati, accusati a vario titolo di associazione a delinquere, concussione e corruzione.
I magistrati, nella richiesta di misure cautelari, hanno parlato di una «rete di anomali e patologici rapporti e relazioni che quotidianamente caratterizzavano l’attività degli operatori della camera mortuaria». Sottolineando come, «con cadenza sistematica e quotidiana, gli impiegati praticavano il mercimonio della propria pubblica funzione». L’indagine avrebbe documentato quasi cinquanta episodi corruttivi in poco più di un anno, compresa la pratica relativa alla salma di Francesco Bacchi, il giovane ucciso a Balestrate nel gennaio 2024.
L’inchiesta ha preso il via a gennaio dello scorso anno, scattando in modo quasi fortuito nella cornice di un’indagine a Milano. Intercettando una telefonata tra un’impresa funebre lombarda e una palermitana, gli investigatori hanno sentito il titolare di quest’ultima, Francesco Trinca, spiegare al collega che per il trasferimento di una salma in Lombardia occorreva sostenere una spesa aggiuntiva di 100 euro da versare a un impiegato dell’obitorio. «Perché qua funziona così», avrebbe detto Trinca, che non sapeva di essere ascoltato. Una frase che ha spinto i pm del capoluogo siciliano ad approfondire la questione, attivando una serie di intercettazioni telefoniche e videoriprese che hanno confermato l’esistenza di un meccanismo assai rodato.
Secondo la ricostruzione della Procura, attorno a questo business si sarebbe creata una vera e propria rete illecita. Come evidenziano le intercettazioni, il sistema prevedeva un mercimonio quotidiano e spartizioni dei guadagni anche in caso di assenze. Uno dei dipendenti, in una conversazione, diceva: «Noi siamo abituati che tutti quelli delle ditte lasciano dei soldi… E li dobbiamo dividere». Un altro, parlando dei proventi, dichiarava: «Solo giugno, dal primo fino all’ultimo, ho messo da parte 400 euro». In un dialogo particolarmente emblematico, un addetto parlava così a un nuovo operatore funebre: «Qua buono mangiamo», e subito dopo precisava: «Qua devi fare quello che ti diciamo noialtri».
Le richieste di pagamento erano standardizzate e spaziavano a seconda della prestazione illecita richiesta. Cinquanta euro era la tariffa per consentire a un uomo di vedere la salma della moglie nei sotterranei dell’ospedale, prima del trasferimento in obitorio. Cento euro servivano per “olire” le pratiche burocratiche e accelerare il rilascio del defunto. In alcuni casi si arrivava a chiedere 200 euro per operazioni come l’espianto di un pacemaker, necessario prima della cremazione. Le imprese funebri, a loro volta accusate di corruzione, erano complici nel presentare queste richieste come normali e inevitabili, trasferendo il costo aggiuntivo sulle famiglie già provate dal lutto.
La richiesta di arresto dovrà ora essere valutata dal giudice per le indagini preliminari, che disporrà gli interrogatori prima di decidere sull’applicazione delle misure cautelari. Nel frattempo, i quattro dipendenti coinvolti nell’inchiesta sono stati trasferiti dalla direzione del Policlinico ad altri incarichi.
Trump cita in giudizio la BBC: vuole un risarcimento di 10 miliardi
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha citato in giudizio la BBC per diffamazione e pratiche commerciali scorrette, chiedendo un risarcimento di 5 miliardi di dollari per ciascuna accusa. La causa riguarda un documentario trasmesso prima delle elezioni del 2024, nel quale un suo discorso sarebbe stato manipolato, facendo apparire Trump come un sostenitore diretto dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. A novembre la BBC aveva ammesso l’errore, rettificato il contenuto e registrato le dimissioni di due dirigenti, ma rifiutato di risarcire Trump. «Come abbiamo già chiarito in precedenza, ci difenderemo in questo caso», ha dichiarato un portavoce della tv di Stato.
A Ravenna i manifestanti contro le armi a Israele rischiano 2 anni di carcere
Hanno bloccato l’accesso al porto per due ore per protestare contro l’invio di armi e merci dirette a Israele e ora rischiano fino a due anni di carcere per il reato di “blocco stradale”. È l’effetto della stretta voluta dal Governo con il Decreto Sicurezza, che ora colpisce anche gli attivisti di Ravenna che lo scorso 28 novembre si erano ritrovati nei pressi dello scalo cittadino per manifestare “contro la finanziaria di guerra del governo Meloni”.
«Un nutrito gruppo di manifestanti – si legge nel comunicato della Polizia – dopo essersi radunato presso il TCR per contestare il transito delle navi dirette a Israele, ha occupato la sede stradale, bloccando per circa due ore l’accesso al Terminal e impedendo ai mezzi pesanti di entrare e uscire per completare le attività di carico e scarico della merce, causando problemi all’ordinaria circolazione». Il risultato è che 32 persone sono state denunciate.
Il reato di blocco stradale è stato reintrodotto dal Decreto Sicurezza lo scorso 5 giugno e prevede una pena fino a 30 giorni di carcere per chiunque, agendo singolarmente, ostacoli anche in maniera pacifica la circolazione o il transito dei mezzi. La condanna diventa invece molto più severa per chi agisce in gruppo, con una multa fino a 4.000 euro e la detenzione da sei mesi a due anni.
Una norma che ha immediatamente suscitato polemiche e critiche da parte di associazioni, sindacati e forze politiche di opposizione, che denunciano un restringimento degli spazi di dissenso e una criminalizzazione delle forme di protesta non violenta. Secondo gli attivisti, l’iniziativa di Ravenna aveva l’obiettivo di richiamare l’attenzione sull’utilizzo dei porti italiani per il transito di materiali bellici e sul coinvolgimento dell’Italia nei conflitti internazionali.
Il tema era tornato al centro del dibattito cittadino in occasione della manifestazione del 17 settembre scorso, quando migliaia di persone avevano partecipato a un grande corteo con lo slogan «La città si ribella, basta armi a Israele». Una mobilitazione ampia e trasversale, che aveva visto insieme portuali, studenti, associazioni pacifiste, realtà sindacali e cittadini, uniti dalla richiesta di fermare il transito di carichi militari attraverso lo scalo ravennate. Una protesta che, secondo gli organizzatori, aveva dimostrato come l’opposizione all’uso del porto per fini bellici fosse condivisa e diffusa nella città. Un concetto ribadito anche dopo le denunce, in un comunicato diffuso dagli attivisti, in cui si respinge ogni tentativo di individuare singoli responsabili: «A bloccare il container il 28 novembre c’eravamo tutti e tutte», si legge nel testo, che rivendica il carattere collettivo dell’azione.
Le denunce, quindi, non riguardano soltanto le 32 persone coinvolte, ma sembrano inserirsi in un contesto più ampio che potrebbe avere effetti sull’intero movimento che a Ravenna, e in tutta Italia, continua a mobilitarsi contro la guerra, il traffico di armi e a sostegno del diritto di manifestare. Una vertenza che, nata attorno al porto, rischia ora di trovare un prolungamento soprattutto nelle aule dei tribunali.














