L’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato una risoluzione in cui chiede a Israele di smantellare le proprie colonie in Cisgiordania e di ritirarsi da tutti i territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est. La risoluzione è stata votata il 2 novembre, e ha ottenuto 151 voti favorevoli, 11 astenuti, e 11 contrari tra cui USA, Argentina e Israele; contrariamente a quanto fatto in occasione delle ultime risoluzioni sul tema, anche l’Italia ha votato a favore. La mozione chiede esplicitamente a Israele, in quanto potenza occupante, di porre fine alla propria presenza in Palestina, cessare la costruzione di nuovi insediamenti, ed evacuare i coloni dai territori palestinesi; con essa, inoltre, l’Assemblea chiede a Israele di abrogare le leggi «discriminatorie» nei confronti dei palestinesi. È stata approvata assieme a un’altra risoluzione che chiede a Israele di ritirarsi anche dalle alture del Golan, in Siria.
Con la risoluzione A/RES/80/72, l’Assemblea Generale dell’ONU chiede a Israele di rispettare i propri obblighi ai sensi del diritto internazionale, ponendo «fine alla sua presenza illegale nel Territorio Palestinese Occupato il più rapidamente possibile», cessando «immediatamente tutte le nuove attività di insediamento», ed evacuando «tutti i coloni dal Territorio Palestinese Occupato»; sempre a tal proposito, essa chiede a Israele di cessare tutte le attività relative agli insediamenti, quali la confisca dei terreni e la demolizione delle abitazioni, e di rilasciare le persone arrestate nell’ambito del proprio piano coloniale. La risoluzione, inoltre, «chiede di abrogare tutte le leggi e le misure che creano o mantengono una situazione illegale, tra cui quelle che discriminano il popolo palestinese, così come tutte le misure volte a modificare la composizione demografica di qualsiasi parte del Territorio Palestinese Occupato, compresa Gerusalemme Est».
La risoluzione parla anche della situazione a Gaza, respingendo «qualsiasi tentativo di cambiamento demografico o territoriale nella Striscia di Gaza, comprese qualsiasi azioni che riducano il territorio di Gaza». Essa si rivolge anche agli Stati membri dell’ONU, a cui chiede di non riconoscere modifiche ai confini precedenti al 1967 anche per quanto riguarda Gerusalemme, e di distinguere nei propri rapporti «tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967», evitando di fornire assistenza alle attività di insediamento coloniali, che vengono giudicate «illegali». Parallelamente, è stata approvata anche la risoluzione A/RES/80/74, relativa alle alture siriane del Golan. Questa è stata adottata con 123 voti favorevoli, 7 contrari (Stati Federati di Micronesia, Israele, Palau, Papua Nuova Guinea, Paraguay, Tonga, Stati Uniti), e 41 astenuti; anche in questo caso, l’Italia ha votato a favore. La risoluzione dichiara nulla la legge israeliana del 1981 con cui Israele riconobbe il proprio diritto di imporre le proprie leggi, giurisdizione e amministrazione sul Golan siriano occupato, chiedendone la rescissione; l’Assemblea ha inoltre chiesto a Israele di ritirarsi dall’area.
Entrambe le questioni state oggetto di numerose altre risoluzioni. L’ultima sulla questione palestinese risale allo scorso anno, ma la richiesta di ritirarsi dai territori palestinesi occupati e di ristabilire i confini pre-1967 va avanti sin da quello stesso anno, a partire dalla risoluzione 242. Essa, emanata dal Consiglio di Sicurezza dopo la Guerra dei sei giorni, chiedeva il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati durante il conflitto, e il riconoscimento della sovranità di entrambi gli Stati.
A Genova i lavoratori dell’ex Ilva hanno lanciato una ingente protesta contro il piano del governo per l’azienda, che prevede una riduzione del personale dello stabilimento ligure. La protesta, organizzata dai sindacati FIOM, FIM, e USB, ha visto la partecipazione di almeno 5.000 persone, che si sono mosse in corteo guidate dai mezzi pesanti per lo spostamento dell’acciaio in direzione Cornigliano, località dello stabilimento. Giunti vicino alla prefettura, sono iniziati degli scontri con la polizia, che ha lanciato lacrimogeni sui presenti; i manifestanti hanno risposto con uova e petardi, e hanno divelto alcune delle inferriate utilizzate per blindare la prefettura. Sono inoltre arrivati presso la stazione di Brignole, bloccandola.
Un brindisi con l’amaro in bocca. L’ultimo test del mensile Il Salvagente su una delle bollicine più amate dagli italiani, il Prosecco, ha recentemente svelato la presenza di contaminanti indesiderati in tutti i campioni sottoposti ad analisi. Il laboratorio ha cercato residui di pesticidi e, soprattutto, le insidiose sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) nei prodotti di 15 diversi marchi, rivelando un quadro di contaminazione diffusa, seppur entro i limiti di legge per i fitofarmaci. A destare maggiore preoccupazione è il ritrovamento, in ogni bottiglia, di acido trifluoroacetico (Tfa), un derivato dei Pfas, in quantità che superano abbondantemente l’obiettivo di qualità avanzato dall’Istituto superiore di sanità per l’acqua potabile e recepito con un decreto dal nostro Paese, che diventerà vincolante per l’acqua potabile dall’inizio del 2027.
L’indagine ha passato al setaccio 15 etichette tra le più comuni sugli scaffali: Mionetto, Bolla, Cinzano, Martini, Bortolomiol, Casa Sant’Orsola, Villa Sandi, Allini di Lidl, Maschio, Valdo, Bernabei, La Gioiosa, Meolo di Eurospin, Astoria e Carpenè Malvolti. Nessuna è risultata totalmente esente. Riguardo ai pesticidi, «tutti i residui riscontrati sono ampiamente al di sotto dei limiti di legge», ma è stata riscontrata la presenza fino a 10 principi attivi diversi in una singola bottiglia, quella del Prosecco Superiore Valdobbiadene Docg della Cantina Viticoltori Meolo per Eurospin. Tra le sostanze individuate, il metalaxyl (un fungicida sistemico) e il boscalid, i cui potenziali effetti sulla salute sono oggetto di studi.
La vera novità riguarda i Pfas. I valori riscontrati di acido trifluoroacetico – sottoprodotto di processi industriali e della degradazione di una serie di sostanze fluorurate usate nei gas refrigeranti, nei pesticidi e nei prodotti farmaceutici – vanno infatti da un minimo di 30mila ng/l nel Bortolomiol a un massimo di 59mila ng/l nel Bolla, etichetta molto popolare. Numeri che, se paragonati alle possibili future regole sull’acqua, appaiono assai elevati. L’inchiesta sottolinea come «più aumenta l’utilizzo dei pesticidi fluorurati, più aumenta la presenza di residui». Non a caso, dal 2010 la frequenza delle rilevazioni di questi metaboliti si è impennata, con i vini delle vendemmie dal 2021 al 2024 che presentano livelli medi di 122mila nanogrammi/litro, ma anche picchi di oltre 300mila. Rispetto a questi numeri, i valori nel prosecco sono inferiori, ma non trascurabili.
Le aziende coinvolte replicano puntando sul rispetto delle normative attuali. Alcune, come Carpenè Malvolti, mettono in discussione i dati analitici. Altre, come il Gruppo Italiano Vini (proprietario di Bolla) e Lidl, osservano che i livelli riscontrati nel Prosecco sono comunque «nella fascia bassa di contaminazione» se confrontati con picchi riscontrati in altri vini. Il nodo cruciale è l’assenza di una legge specifica che regolamenti i Pfas nel vino. Il test, infatti, prende come metro di paragone proprio i limiti futuri per l’acqua potabile Le Cantine Maschio fanno notare che l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) stabilisce una dose giornaliera accettabile per il Tfa di gran lunga superiore rispetto ai numeri rilevati dall’inchiesta, affermando non sia corretto assumere come riferimento il limite previsto per l’acqua, dal momento che il vino viene normalmente consumato quantità differenti.
Carlo Foresta, tra i massimi esperti di Pfas, invita però alla cautela: «I livelli di Tfa riscontrati nei campioni di prosecco, compresi tra 38mila e 60mila nanogrammi per litro risultano elevati e superiori ai valori di riferimento indicativi. Si tratta di concentrazioni che eccedono l’obiettivo di qualità proposto dall’Istituto superiore di sanità nel 2024 (10mila ng/l) e recepito dal D.Lgs. 102/2025». Tale soglia diventerà vincolante per l’acqua potabile in Italia a partire dal 12 gennaio 2027. «I valori citati sono 3,8–6 volte (o più) sopra quel valore nazionale di riferimento – ha concluso –. Assunzioni occasionali di una bottiglia non costituiscono automaticamente una prova di danno acuto, ma l’esposizione ripetuta aumenta la preoccupazione per effetti cronici».
La Procura di Milano ha chiuso le indagini e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per sette carabinieri in relazione al caso della morte del diciannovenne Ramy Elgaml, avvenuta la notte del 24 novembre 2024 al termine di un rocambolesco inseguimento. Oltre ai militari, risulta indagato anche Fares Bouzidi, l’amico della vittima che guidava lo scooter su cui viaggiava il ragazzo. Le accuse spaziano dall’omicidio stradale, contestato sia al conducente civile che a un carabiniere, a una serie gravissima di reati contro la pubblica amministrazione, come depistaggio, falsità ideologica e frode processuale, per aver nascosto prove e alterato documenti. Un caso che ha scosso la città e che ora potrebbe sfociare in un vero e proprio dibattimento.
Ramy Elgaml perse la vita dopo che lo scooter Yamaha TMax, guidato da Fares Bouzidi, si schiantò contro un palo del semaforo all’incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta, a Milano. L’incidente fu l’epilogo di una fuga lunga otto chilometri, nella quale i due furono tallonati da un’autovettura della compagnia Radiomobile dell’Arma. Secondo la ricostruzione dei magistrati, lo scooter avanzava «con picchi di velocità superiori ai 120 km/h», spesso in «contromano». All’altezza dell’incrocio fatale, il motorino tentò una svolta a sinistra, compiendo poi una «repentina ed improvvisa manovra a destra». In quel momento avvenne l’urto tra il lato posteriore destro del TMax e la «fascia anteriore del paraurti» dell’Alfa Romeo Giulietta dei militari. L’impatto fece slittare lo scooter, sbalzando Ramy contro il palo del semaforo; il ragazzo fu inoltre investito dalla stessa vettura dei carabinieri, che nella collisione deviò in quella direzione.
Fares Bouzidi, già condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi per resistenza a pubblico ufficiale, è accusato di omicidio stradale, aggravato dalla guida senza patente e in contromano. L’omicidio stradale viene contestato dai pm anche al carabiniere Antonio Lenoci, che era alla guida dell’automobile che inseguiva lo scooter. I magistrati affermano infatti che il militare si tenesse «ad una distanza estremamente ravvicinata», quasi «affiancando» il TMax, arrivando a una distanza «laterale» di appena 80 centimetri, senza riuscire così a evitare «l’urto» quando il mezzo su cui viaggiavano i due ragazzi sterzò. Allo stesso militare viene inoltre contestato il reato di lesioni personali per i danni riportati da Bouzidi (40 giorni di prognosi).
Il quadro accusatorio, delineato in un nuovo avviso di chiusura indagini notificato agli otto indagati, si è progressivamente aggravato ed esteso nel corso dei mesi, portando a un atto complessivo che unifica tre precedenti chiusure parziali. Oltre a Lenoci, altri sei militari devono rispondere di reati collegati alla gestione del post-incidente e delle prove. Si tratta dei carabinieri Mario Di Micco, Luigi Paternuosto, Federico Botteghin e Bruno Zanotto, a cui si contestano i reati di frode e depistaggio per aver fatto cancellare i video ripresi con un cellulare da due testimoni oculari. Secondo gli atti, due di loro avrebbero detto a un testimone: «cancella immediatamente il video (…) adesso ti becchi una denuncia». Il testimone fu individuato dagli investigatori solo grazie ad una «trasmissione televisiva».
Un secondo e più articolato filone di accuse concerne la compilazione del verbale d’arresto per resistenza a carico di Fares Bouzidi e la reticenza sull’esistenza di riprese video. Quattro militari – Antonio Lenoci, Luigi Paternuosto, Ilario Castello e Nicola Ignazio Zuddas – sono accusati di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Nel verbale, infatti, avrebbero omesso di «menzionare l’urto tra i mezzi coinvolti», mettendo semplicemente nero su bianco che lo scooter era «scivolato». Nello stesso atto non avrebbero indicato «la presenza del testimone oculare», né segnalato la presenza «di una dashcam personale» e di una «bodycam», «dispositivi che riprendevano l’intera fase dell’inseguimento». Castello e Zuddas sono inoltre accusati di falso per le dichiarazioni rese ai pubblici ministeri.
La Procura, in corso d’indagine, aveva tentato di ottenere una perizia tecnica “terza” in incidente probatorio per chiarire la dinamica, data la divergenza tra le consulenze, ma il giudice per le indagini preliminari ha respinto per due volte la richiesta. Ora la palla passa all’ufficio del procuratore capo Marcello Viola, che sarà chiamato a formalizzare la richiesta di rinvio a giudizio per tutti gli otto indagati.
«Noi vecchietti siamo stanchi degli abusi e dei ricatti». Finisce così una mail che ci ha scritto una lettrice, lamentando i disagi che ha passato per poter tornare in Italia, via aereo, dalle Canarie. La signora, ignara delle nuove regole varate dalla compagnia low cost Ryanair, che dal 12 novembre obbliga gli utenti a viaggiare con biglietto digitale scaricabile dall’applicazione dedicata – pena una multa che arriva a 55 euro – ha dovuto farsi assistere dal figlio, al telefono, per riuscire nel completare tutta la procedura. Perché, se per i nativi digitali possono sembrare passaggi semplici, anche scaricare una applicazione dedicata e validare le proprie credenziali, prima di fare il check in online, può essere complicato. Figuriamoci quando il problema diventa quello di usare lo SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale), ad esempio per accedere al proprio fascicolo sanitario elettronico, inserendo codici di verifica come gli OTP (One-Time Password) precedentemente impostati, o il riconoscimento facciale. Quelle che possono sembrare operazioni banali, per chi non ha le conoscenze digitali necessarie, possono diventare epopee senza fine, che, tra frustrazione e incomprensioni, spesso non portano al risultato desiderato.
Tornando ai biglietti d’aereo la signora scrive: «Considero questa “novità” un ricatto vergognoso: dover installare una app per fruire di un titolo di viaggio». E si domanda: «E gli altri vecchietti? E chi non ha nessuno che li assiste? E chi non ha un telefonino “moderno”? E se si scarica? Queste “novità” diventano sempre più escludenti nei confronti dei più deboli e discriminatorie. A mio parere anche illegali». Ed è proprio questo il punto: il rischio che, nella progressiva digitalizzazione di pratiche e servizi, i più anziani restino esclusi da un sistema che sembra essersi dimenticato della loro esistenza.
Anziani e digitale: i dati
Il problema viene evidenziato innanzitutto dai dati. Secondo l’Istat i problemi iniziano già dall’accesso a internet, visto che, tra le famiglie composte solo da anziani (65+), solo il 60% ha una connessione: in 4 su 10 nemmeno possono accedere al web. Nella fascia sopra i 75 anni solo il 31,4% usa internet. Secondo una ricerca portata avanti dall’Università Bocconi sul digital divide, riportata anche su EPALE (European Platform for Adult Learning), in Italia solo il 33% degli over 65 usa internet “regolarmente”, collocando il Paese tra quelli con maggiore esclusione digitale nella fascia anziana.
Ma il vero collo di bottiglia sono le competenze digitali. Sempre secondo i dati Istat, risalenti però al 2023, tra chi ha usato internet in un’indagine dai 16 ai 74 anni, solo il 45,7% ha competenze digitali almeno di base. Percentuale che crolla mano a mano che l’età si alza: tra i 20 e 24 anni le possiedono il 61,7%, ma tra i 65 e i 74 è appena il 19,3%. La ricerca spiega che in Italia il 68% delle persone con più di 65 anni dichiara di non avere le competenze digitali di base per usare smartphone, computer o tablet. E quindi, anche quando c’è accesso a Internet, 2 anziani su 3 si auto-percepiscono privi delle competenze minime necessarie.
Quali difficoltà emergono
Un articolo sul digital divide e l’alfabetizzazione digitale per la salute pubblicato sulla Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione sottolinea 3 punti principali. Il primo è che il divario digitale non è solo mancanza di dispositivi, ma un intreccio di fattori economici, culturali, relazionali (isolamento, mobilità ridotta, basso reddito); il secondo è che per gli anziani, l’uso di tecnologie sanitarie (telemedicina, fascicolo sanitario elettronico) richiede competenze cognitive e digitali complesse, spesso non supportate; e infine che servono strategie differenziate: formazione continua, supporto di reti associative, ma anche mantenimento di soluzioni non digitali per chi, anche dopo la formazione, resta in difficoltà. Lo stesso studio della Bocconi sui programmi di alfabetizzazione digitale per over 67 spiega che la partecipazione a corsi mirati aumenta non solo le abilità pratiche, ma anche la fiducia nell’uso di servizi comehome banking, telemedicina e PA online. Gli ostacoli principali sono scarsa consapevolezza dell’offerta formativa e bisogno di percorsi lenti, personalizzati, con formatori specializzati nella fascia anziana.
Analizzando insieme dati quantitativi e studi qualitativi, le difficoltà degli anziani nell’uso della tecnologia – e in particolare di SPID e dei servizi pubblici digitali – si possono sintetizzare così: accesso a internet, dove il problema non è solo la connessione, ma in molti casi riguarda la mancanza di smartphone o PC aggiornati, o connessi in modo stabile; le scarse competenze digitali; le procedure complesse per accedere a servizi come lo SPID (email, password complesse, OTP via SMS o app, riconoscimento facciale o video, che si trasforma in una barriera aggiuntiva; portali poco intuitivi, con interfacce affollate, linguaggio burocratico, passaggi ridondanti; e infine la dipendenza da familiari o amici con rischi per la privacy e l’impossibilità di agire da soli in caso di urgenza.
Come intervenire
Queste sono le principali raccomandazioni che emergono da rapporti ufficiali e studi:
Centri di facilitazione digitale e sportelli di prossimità: luoghi fisici dove operatori aiutino gli anziani a usare SPID, CIE, fascicolo sanitario ecc., non solo una volta ma in modo continuativo.
Corsi di alfabetizzazione digitale “su misura” per over 65/70 (ritmi lenti, piccoli gruppi, linguaggio semplice, ripetizioni frequenti), come nei programmi studiati dalla Bocconi.
Semplificazione radicale di SPID e dei portali PA, con design universale, testato con utenti anziani e persone fragili, come suggerito sia dalla Commissione europea che da studi sociologici.
Mantenere canali non digitali equivalenti, per evitare che la digitalizzazione diventi una nuova forma di discriminazione (telefono, sportello, possibilità di delega strutturata e tutelata).
E quindi implementare corsi ad hoc, per rendere gli anziani più indipendenti, e semplificare le interfacce dei portali, come confermato dall’indagine Doxa commissionata dal comune di Bologna nel 2021, dal quale risulta che il 38,3% degli anziani intervistati ritiene necessario disporre di strumenti più semplici, progettati specificamente per loro.
Uno studio pubblicato quest’anno su Science, si è occupato di analizzare come l’Unione Europea stia affrontando la duplice sfida dell’invecchiamento della popolazione e della rapida trasformazione digitale. I risultati principali indicano che «l’uso dei servizi di e-government in età avanzata è tutt’altro che universale: solo una minoranza degli anziani utilizza tali servizi. Il coinvolgimento è più frequente tra individui con specifiche risorse personali e posizionali – come un più alto livello di istruzione e una maggiore padronanza digitale – ed è fortemente influenzato dalla qualità dei servizi pubblici digitali, che varia considerevolmente da un Paese all’altro».
Non solo, perché i ricercatori mettono l’accento sul fatto che: «I risultati confermano che le competenze digitali comunicative costituiscono una risorsa chiave per gli adulti più anziani che accedono ai servizi di e-government […] sottolineando come le competenze rappresentino un prerequisito per un coinvolgimento digitale significativo». L’iniziativa deve essere lasciata ai singoli Stati, data la grande eterogeneità nelle infrastrutture e nelle competenze digitali tra le popolazioni anziane, mentre l’Unione Europea potrebbe svolgere un ruolo strategico facilitando linee guida condivise, coordinando iniziative transnazionali e sostenendo la diffusione delle pratiche efficaci. Con una conclusione chiara: «Affrontare queste limitazioni in future ricerche è fondamentale per costruire un e-government realmente inclusivo e capace di ridurre – anziché aggravare – le disuguaglianze sociali e il rischio di esclusione nella terza età».
Mabel Bocchi, tra le più grandi cestiste italiane, è morta a 72 anni. Centro dal talento fisico e tecnico raro per l’epoca, negli anni Settanta vinse otto scudetti con la GEAS di Sesto San Giovanni, conquistando nel 1978 anche la Coppa dei Campioni, prima volta per un club italiano. Con la Nazionale ottenne il terzo posto agli Europei 1974 e il quarto ai Mondiali 1975, dove fu capocannoniera e premiata miglior giocatrice al mondo. Figura simbolo dello sport femminile, lottò per migliori condizioni per le atlete. Dopo il ritiro fu opinionista e giornalista per vari media.
Dopo mesi di negoziati serrati, l’Unione Europea ha varato un accordo che prevede lo stop definitivo a tutte le importazioni di gas naturale russo entro l’autunno del 2027. La misura – prima graduale, poi totale – sancisce la fine della dipendenza energetica dal Cremlino, con l’obiettivo annunciato di tagliare i finanziamenti che Mosca trae dalle esportazioni. La Russia è stata per anni il principale fornitore di gas per i Paesi europei, arrivando a coprire fino al 40% della domanda dell’intera Unione Europea. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha definito la giornata «storica», a riprova che l’UE «ha spezzato una dipendenza che molti credevano insuperabile». Non tutti però condividono l’entusiasmo: l’Ungheria ha annunciato un ricorso alla Corte di giustizia, affermando che lo stop imposto da Bruxelles minaccia la sicurezza energetica e la stabilità economica del Paese.
Da Mosca, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha accusato l’Europa di “auto-sabotaggio” e ha previsto costi energetici più alti e perdita di competitività. Da quando è iniziata la guerra in Ucraina l’importazione di gas russo è stata notevolmente ridotta, anche se non del tutto interrotta. Secondo l’intesa, fra Consiglio dell’UE e Parlamento europeo, il bando interesserà prima il gas naturale liquefatto (GNL), con divieto totale già a fine 2026, poi il gas via gasdotto, con blocco definitivo entro il 30 settembre 2027 (o al più tardi entro il 1° novembre 2027, condizionato però al livello di riempimento degli stoccaggi). Per i contratti già in essere, la tempistica prevede scadenze differenziate: i contratti a breve termine dovranno cessare dal 25 aprile 2026 (per il GNL) e dal 17 giugno 2026 (per il gas da gasdotto); quelli a lungo termine – almeno per il GNL – si chiuderanno dal 1° gennaio 2027. A queste misure si affiancherà anche un percorso per eliminare progressivamente le importazioni di petrolio russo, in base a una proposta legislativa che la Commissione si è impegnata a presentare nei primi mesi del 2026.
Per l’UE si tratta di un traguardo “storico” per mettere fine al cosiddetto “ricatto energetico” di Mosca e alleggerire la vulnerabilità europea a future manovre di pressione. Secondo la Commissione, l’accordo rappresenta un passo cruciale verso l’indipendenza energetica e un ritorno a un’Europa meno dipendente da forniture esterne ostili. Non tutti, però, condividono l’ottimismo: nei corridoi delle istituzioni alcune delegazioni guardano con preoccupazione alle conseguenze economiche e sociali del divieto. Paesi con bassa diversificazione energetica temono un aumento dei costi per famiglie e imprese e un deterioramento della loro competitività. In particolare, Ungheria e Slovacchia restano gli unici Paesi UE a dipendere in misura maggioritaria dal greggio russo. Per entrambi, la Commissione dovrà predisporre una deroga su misura, costruendo una road map separata che tenga conto delle loro vulnerabilità. Il governo di Viktor Orbán accusa l’UE di oltrepassare i limiti delle proprie competenze, invadendo un ambito che ritiene parte della sua autonomia energetica nazionale. «Avvieremo immediatamente un procedimento legale. Abbiamo già iniziato il necessario lavoro giuridico, è in corso», ha annunciato il ministro degli esteri ungherese Peter Szijjartó, definendo il piano dell’UE una “dittatura di Bruxelles” e “una frode”.
Il piano dell’UE presume che nel frattempo i Paesi membri siano in grado di rimpiazzare le forniture russe con altri fornitori e che lo facciano senza effetto collaterale sui prezzi o sulla sicurezza energetica. L’offerta di GNL sul mercato internazionale è molto alta, soprattutto dagli Stati Uniti, con cui l’UE ha già incrementato i contratti di acquisto. C’è poi il nodo dei costi: per cittadini e imprese, la transizione potrebbe tradursi in bollette più care, investimenti supplementari, incertezze. Al di là dei toni trionfali, l’accordo appare come un compromesso tecnico con scadenze diluite, un segnale di intenti forti ma non di risolutezza quotidiana. L’Europa sceglie di “chiudere il rubinetto”, ma stabilisce il cronoprogramma con estrema cautela. Resta da vedere se, nel frattempo, riuscirà davvero a costruire un’alternativa energetica solida, sostenibile e conveniente per tutti o se la scelta finirà per trasformarsi in una forma di “autosabotaggio”, come insinua Mosca.
Un elicottero impegnato nelle operazioni di disgaggio a Lanzada, in località Le Prese, è precipitato questa mattina dopo aver urtato un ramo. Il velivolo, pilotato dall’esperto Maurizio Folini, è andato in rotazione ma il pilota è riuscito ad attenuare l’impatto, limitando le conseguenze per gli occupanti. Due persone hanno riportato ferite serie, tra cui la perdita di una falange, mentre gli altri passeggeri e il pilota hanno lesioni lievi; nessuno è in pericolo di vita. Il Sagf della Guardia di Finanza sta mettendo in sicurezza l’area e procedendo al sequestro della zona dell’incidente.
Aggiornamento delle 14:23: Secondo quanto comunicato dall’agenzia di stampa Ansa, uno dei passeggeri portati all’ospedale di Sondrio sarebbe deceduto poco dopo il ricovero.
La dieta vegetariana, e ancor di più quella vegana, devono essere gestite con grande accuratezza, attraverso una ottimale consapevolezza e conoscenza del cibo e di come funziona la nutrizione. Questo perché si tratta di diete che restringono il campo degli alimenti che si possono assumere e dunque potrebbero – se mal gestite – determinare anche degli scompensi e disequilibri nella nutrizione corretta dell’organismo. La dieta vegetariana prevede l’esclusione di carne e pesce, ma può includere prodotti di origine animale come uova, latticini e miele, al contrario della dieta vegana che esclude qualsiasi prodotto di origine animale. Quest’ultima si può considerare una dieta completamente a base di cibo vegetale, mentre quella vegetariana no.
Dieta vegetale non è sinonimo di “dimagrante”
Nel caso si segua una dieta vegetariana o vegana, occorre fare attenzione alla tipologia di alimenti che si scelgono, alle quantità e alle combinazioni. È necessario mantenere un equilibrio tra i nutrienti ed è fondamentale sottrarsi alle insidie ingrassanti. Molte persone, infatti, immaginano che una dieta vegetariana o vegana portino automaticamente a dimagrire. Di fatto, non è così: la denominazione “Veg” non è sinonimo di dimagrimento. Chi ha necessità di perdere peso o vuole seguire una dieta in tal senso dovrebbe guardarsi dalle diete vegetali improvvisate: un’alimentazione che limita i derivati animali e non li sostituisce in maniera adeguata con le alternative vegetali, infatti, può nascondere non poche trappole per la linea.
Vegetariani, insomma, non ci si improvvisa: è fondamentale mantenere un equilibrio fra i vari nutrienti, ponendo grande attenzione a non eccedere con zuccheri, farine, cibi troppo processati ed elaborati, tipici della dieta 100% vegetale proposta dall’industria alimentare. In caso contrario, senza prestare attenzioni particolari, si incorrerà in aumento di peso e carenze nutrizionali. I ritmi di vita odierni, tuttavia, rendono difficile per molti ricavare il tempo necessario alla preparazione di pasti in casa, equilibrati dal punto di vista nutrizionale, motivo per cui spesso ci si affida a prodotti pronti che si trovano in commercio (burger vegetali, salse vegane, piatti pronti, affettati e formaggi vegani ecc.). Vediamo quindi quali sono le insidie più comuni che possono rendere problematica la scelta di seguire una dieta vegetariana o vegana.
Primo errore: carboidrati e zuccheri dominano la tavola
L’eccesso di carboidrati e zuccheri è un rischio molto concreto, se si affrontano i pasti senza una pianificazione precisa – nella dieta vegetariana come in tutte le altre. Spesso, nella fretta quotidiana, i pasti principali (pranzo e cena) sono composti da soluzioni pratiche quali panini, focacce, pizzette, piatti a base di sola pasta, frutta, formaggi e dolcetti. Se è vero che questi alimenti non contengono carne, è anche vero che sono carichi di zuccheri, carboidrati e grassi, che spesso vengono inseriti tutti nello stesso pasto. E se questi pasti sono acquistati come cibi pronti al supermercato o al bar, ci può essere un’insidia aggiuntiva: ciò che è prodotto da forno dolce o salato confezionato, contiene solitamente anche conservanti, additivi, sale, amidi o zuccheri, per renderlo più buono e conservarlo. Tutte sostanze che possono avere ripercussioni negative sulla salute, specie se questo tipo di pasti viene consumato con frequenza. Un suggerimento, dunque, è quello di evitare alternative comode ma insidiose acquistate al bar o al supermercato e preferire il più possibile pasti preparati a casa con un occhio di riguardo a condimenti e bilanciamento dei nutrienti.
Secondo errore: poche fonti proteiche
Riducendo le fonti proteiche l’errore che si commette è quello di scadere nella monotonia e nella noia ed è facile ritrovarsi a consumare abitualmente legumi, che non sono una fonte proteica pura come il pesce e la carne, ma sono alimenti a prevalenza di carboidrati
Per quanto possa sembrare banale, uno dei rischi in cui si incorre una volta che si eliminano carne e pesce come fonti proteiche è la noia: spesso, infatti, ci si ritrova a consumare solamente legumi, considerati (a torto) una fonte proteica alternativa alla carne. I legumi infatti sono alimenti a prevalenza di carboidrati e non proteine pure, motivo per il quale, affinchè possano costituire un’alternativa alle fonti proteiche animali, vanno consumati in quantità adeguate. Altrimenti, si tenderà a favorire cibi più appaganti, come i carboidrati, con ripercussioni negative su metabolismo e girovita oltre che sulla salute in generale. Nemmeno eccedere nel consumo di formaggi e latticini va bene: si tratta infatti di cibi ricchi di grassi e calorie, che non possono essere assunti in eccesso pena ripercussioni anche qui negative sulla salute.
Per evitare di incorrere in questo tipo di problematiche (assunzione di una quantità non adeguata di proteine e di un eccessivo quantitativo di calorie) è bene assumere a rotazione formaggi, latte, yogurt, legumi e anche alternative come il tofu, derivato della soia, preferendo un’alimentazione varia. Ricordiamo, ancora una volta, che per un corretto bilanciamento la soluzione migliore è affidarsi a professionisti della nutrizione ed evitare il fai da te.
Terzo errore: fare pasti di sole verdure o frutta
Quanti vegetariani principianti puntano a fare pasti di sola verdura e frutta? Nei social se ne vedono tantissimi. In questo caso si tratta di scelte dietetiche del tutto sconsiderate che, se diventano una regola, possono essere molto dannose per la salute. Se nel pasto scarseggiano i carboidrati complessi, ma soprattutto le proteine e i grassi, il prezzo da pagare è fatto di carenze nutrizionali, cali di energie e attacchi di fame nervosa. Anche il metabolismo, oltre che il sistema immunitario, subisce un brusco rallentamento e perde di funzionalità.
Quarto errore: gli alimenti industriali
Il seitan è un cibo frutto dell’ingegneria alimentare dell’industra che inventa cibi adatti per chi non vuole le proteine del cibo animale
Un’attenzione particolare va prestata anche ai sostituti vegetali della carne che affollano i reparti “naturali” e “vegetali” del banco frigo al supermercato: polpette, veg burger, cotolette vegetali già pronte a base di tofu o seitan (confezionati di norma in modo molto rassicurante e “green”), prosciutti e formaggi vegetali, tanto per citarne solo alcuni, sono spesso un vero e proprio concentrato di sodio, additivi e grassi della peggiore qualità (grassi idrogenati, oli vegetali raffinati, mono e digliceridi ecc.). Il seitan, in particolare, è glutine puro concentrato, un cibo artificiale che non esiste in natura, frutto dell’ingegneria alimentare dell’industria che cerca di inventare alternative accattivanti per chi preferisce evitare le proteine animali. In natura il glutine si può trovare in una piccola quantità dentro il frumento, ma non come bistecca concentrata di glutine come il seitan. Questi non-cibi possono nuocere all’intestino: più è artefatto e stravolto un alimento, più è lontano dalla sua forma naturale, e più avrà effetti infiammatori per il nostro organismo. E spesso infatti questi sono i cibi responsabili della disbiosi intestinale, cioè del disequilibrio della flora batterica. Si tratta di alimenti da inserire nella dieta solo una volta ogni tanto, al limite. Bisogna prestare attenzione anche alle salse e maionese vegetali di condimento, come quelle di soia (Shoyu o Tamari), quelle ketchup o le maionesi e il pesto vegano, come anche i ragù vegetali (di seitan): contengono sempre molto sale, troppo, per sopperire al sapore dei grassi e delle sostanze animali. L’eccesso di sale, è noto, favorisce la pressione alta e il gonfiore in tutto il corpo (il sale trattiene liquidi).
L’industria della guerra a stelle e strisce sta allungando sempre più i suoi tentacoli in Italia. Nel cuore delle Marche, nel piccolo borgo di Porto Sant’Elpidio, l’azienda Civitanavi System da un anno e mezzo è stata acquistata da Honeywell, gigante americano che produce armi nucleari, sistemi di puntamento, guida e rilevamento per missili e droni, i cui componenti sono stati ritrovati nelle macerie di una scuola di Gaza. In occasione dello sciopero generale contro la finanziaria di guerra del 28 novembre scorso, l’azienda è stata contestata dagli attivisti del Coordinamento Marche per la Palestina, in presidio dall’alba fino al primo pomeriggio, denunciando la complicità nel genocidio della casa “madre” Honeywell. In realtà, l’azienda marchigiana da anni sta investendo nel settore della difesa e l’acquisizione del 100% delle quote di Civitanavi da Honeywell Italia, (filiale italiana della compagnia statunitense) al costo di 200 milioni di euro, le permette di coronare un sogno: entrare a far parte della catena di approvvigionamento mondiale dei giganti della guerra.
Il fiuto di Civitanavi per la guerra
L’azienda è nata nel 2012 e si è specializzata fin da subito nella ricerca, progettazione e produzione di sistemi e sensori inerziali. Nel 2018 ha ottenuto la certificazione per produrre componenti per l’industria civile e militare (droni, carri armati, jet da combattimento) e ha via via ampliato le sue dimensioni, con sedi secondarie a Torino (in corso Francia), a Casoria (NA) e con un’unità produttiva anche nel Regno Unito, a Filton (Bristol). Conta circa 200 dipendenti e un fatturato di 40,72 milioni nel 2024.
Il quartier generale di Honeywell a Charlotte, in North Carolina
Già nel 2022 Civitanavi ha iniziato a collaborare con Honeywell, in particolare nella progettazione e creazione dei sistemi di navigazione inerziale HG2800, utilizzati nell’industria mineraria e nei velivoli militari. L’attuale presidente del CdA e co-fondatore di Civitanavi, Andrea Pizzarulli, fino al 2012 è stato direttore di ricerca in GEM Elettronica, altra azienda marchigiana controllata da Leonardo (al 65%) che produce radar e sistemi «utilizzati nel dominio navale militare e nella sorveglianza costiera». Civitanavi ben presto (2021) è diventata fornitore pluripremiato di Leonardo ed è così entrata nella supply chain del Global Combat Air Programm (GCAP), provvedendo a fornire i sistemi inerziali per i caccia da combattimento di sesta generazione (ex Tempest) prodotti dal consorzio di Bae System (Regno Unito), Leonardo (Italia) e Jaiec (Giappone).
Nel 2023 ha acquisito una partecipazione del 30% in PV-Labs, società canadese dual use dI imaging aereo per la sicurezza e la sorveglianza, sulla quale ha investito 10 milioni di dollari anche Lockheed Martin, per sistemi di guida necessari all’aereo da trasporto militare CC-130J. Per Andrea Pizzarulli l’interesse di Lockheed Martin è stato motivo di vanto: «Apprendere che Lockheed Martin, un punto di riferimento nel settore, abbia investito in PV-Labs, mostra la valenza strategica del nostro investimento» ha dichiarato in una nota stampa.
Sistemi di puntamento inerziali e il genocidio a Gaza
Frammenti del missile che ha colpito la scuola Onu a Nuseirat il 6 giugno 2024. [Sanad/Al Jazeera]
Con l’acquisizione totale di Civitanavi da parte di Honeywell, sono state integrate la tecnologia dei giroscopi a fibre ottiche (FOG) e MEMS (Micro Electro-Mechanical Systems) di Civitanavi nel portafoglio di Honeywell, «per espandere l’offerta di sistemi di navigazione e stabilizzazione nei settori aerospaziale, della difesa e industriale».
Honeywell Civitanavi (questo il nome attuale) attualmente produce e commercializza unità di navigazione e puntamento inerziale (ins) a scopo militare, tra cui il sistema Petra per carri armati e veicoli militari terrestri, il sistema Argo 500 per elicotteri e jet civili e militari e il sistema Argo destinato a «jet da combattimento (fighters), e adattabile a nuove produzioni di aerei militari».
Come già ricordato sopra, frammenti di tecnologie Honeywell, sono state trovate a Gaza, tra le macerie della scuola al-Sardi, distrutta da un bombardamento israeliano nel giugno 2024 che uccise 40 palestinesi, di cui la maggior parte bambini. Nello specifico, secondo le analisi di Sanad/Al Jazeera, è stato trovato un frammento di unità di misurazione inerziale di guida del missile, della categoria numero HG1930. Un tipo molto simile a quello che Honeywell e Civitanavi hanno prodotto insieme, il sistema HG 2800, fin dal 2022. Anche nel bombardamento di un’altra scuola palestinese a Gaza nel 2014 furono ritrovati frammenti di queste unità.
Honeywell e Israel Aerospace Industries (IAI) d’altra parte hanno stretto una solida collaborazione nel settore aerospaziale, sullo sviluppo di sistemi di navigazione per droni Heron, resistenti al jamming (disturbi) del GPS. La collaborazione integra il sistema anti-jamming di IAI con i sistemi GPS/INS integrati di Honeywell. Il sistema è adatto per applicazioni di navigazione militare e ha appena ottenuto la codifica M-Code dall’autorità governativa statunitense. «L’accordo rafforza le relazioni tra le due aziende, che vedono il mercato fiorente e il potenziale di un’attività in crescita» dichiarava nel 2018 Joseph Waiss amministratore delegato di Iai.
Honeywell e le bombe atomiche
Un presidio di BDS (Movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) Marche a favore del boicottaggio di Civitanavi Honeywell
Come riporta il dossierAt great cost: the companies building nuclear weapons and their financiers (A caro prezzo: le aziende che costruiscono armi nucleari e i loro finanziatori), del progetto Don’t Bank on the Bomb, Honeywell è anche una delle aziende statunitensi più coinvolte nella fabbricazione e sperimentazione delle armi nucleari. Recentemente, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ordinato al Dipartimento della Difesa di iniziare i test sulle armi nucleari (pratica che gli Stati Uniti non conducono dal 1992) e, secondo gli analisti della Difesa, l’investimento porterà molti profitti a Honeywell International, BWX Technologies, Chugach Alaska Corp, Jacobs Solutions, Inc., Mele Associates, General Atomic Technologies Corporation. Queste aziende infatti sono specializzate nella costruzione, gestione, supporto e servizi di ingegneria correlati ai siti di test nucleari (Kansas City National Security Campus, Nevada National Security Site e Sandia National Laboratory). Honeywell in particolare, gestisce un sito di test, conduce prove e contribuisce al monitoraggio delle scorte nucleari statunitensi. Honeywell lavora inoltre su strumenti di guida e controllo per l’LGM-35A Sentinel, (prodotto da Northrop Grumman), il nuovo missile balistico intercontinentale statunitense (ICBM), che può trasportare testate nucleari fino alla distanza di circa 11000 chilometri. Honeywell produce anche sistemi per i missili balistici lanciati dal sottomarino Trident II, e sistemi per la nuova bomba a gravità nucleare B61-12. L’Indipendente ha chiesto ad Honeywell Civitanavi se può escludere che i loro prodotti, una volta che finiscono nelle sedi di Honeywell negli USA, non siano poi utilizzati in mezzi di guerra esportati verso Israele o altri Paesi che violano i diritti umani e come si concilia con il codice etico aziendale produrre sistemi utilizzabili in jet militari, carri armati, missili. L’azienda ha preferito non commentare.
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