domenica 14 Dicembre 2025
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La competizione tra USA e Cina si gioca (anche) sulle biotecnologie

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La National Security Commission on Emerging Biotechology (NSCEB) del Senato statunitense ha pubblicato un rapporto dedicato alla biotecnologia applicata al settore militare che svela l’intenzione di utilizzare la tecnologia biologica nel quadro della competizione strategica globale nei confronti della Cina. Il rapporto definisce la biotecnologia come «il prossimo campo di battaglia» della «competizione di grande potenza». Oltre alla sua possibile applicazione in ogni campo, specie in quello medico e agricolo, il suo utilizzo nel settore militare permetterebbe - insieme all’utilizzo dell’intell...

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Australia, attentato a Sydney: 12 morti

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Dodici persone sono state uccise e altre ventinove sono rimaste ferite in un attentato con armi da fuoco nei pressi di Bondi Beach, spiaggia australiana vicino a Sydney. La polizia ha comunicato di avere individuato e fermato due sospettati; uno dei due è morto, mentre l’altro si trova in condizioni gravi; da quanto comunicano i media, potrebbe esserci stato un terzo attentatore. Pare inoltre siano stati trovati esplosivi in un’auto della zona, sui quali stanno lavorando gli artificieri. Secondo il primo ministro del New South Wales, lo Stato di Bondi Beach, l’attentato mirava a colpire la comunità ebraica locale, che stava celebrando il primo giorno di Hanukkah, festività ebraica.

Ostaggi anche da morti: i corpi dei palestinesi trattenuti da Israele

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RAMALLAH, PALESTINA OCCUPATA – Sono almeno 2200 i corpi palestinesi che sono trattenuti da Israele: 762 cadaveri rubati all’interno della Cisgiordania occupata, circa 1500 sottratti alle famiglie di Gaza. Nelle politiche brutali condotte da Israele anche i corpi dei palestinesi morti diventano e il loro sequestro si trasforma in una ulteriore forma di tortura e di “punizione collettiva” per le famiglie palestinesi. Molti sono tenuti nei famosi “cimiteri dei numeri”, distese di terra senza lapide e senza nome. Solo una placca di metallo con un numero sopra, piantata nella nuda terra. Questi cimiteri sono zone militari, nessuno vi può accedere. Distribuiti tra i dintorni di Gerico, il deserto del Negev e le alture del Golan, sono sei quelli di cui si è a conoscenza. Gli altri cadaveri sono trattenuti in celle frigorifere nell’Abu Kabir Forense Institute di Tel Aviv, altri ancora in container refrigerati fuori dal centro di detenzione di Sde Teiman. «È dal 1967 che Israele sequestra sistematicamente i corpi di palestinesi che ha ucciso» dice a L’Indipendente il dott. Hussein Shejaeya, membro di Jlac, una organizzazione umanitaria palestinese che dal 2008 ha attivato una campagna per la restituzione dei corpi trattenuti dalle autorità israeliane.

«Una pratica che utilizzano dall’inizio dell’occupazione, gradualmente istituzionalizzata e integrata nella legislazione israeliana». Jlac si occupa dei 762 corpi dei palestinesi uccisi in Cisgiordania; di tutti gli altri non ha, di fatto, nessuna notizia. Il sequestro dei corpi è una pratica coloniale antica, che i palestinesi hanno sofferto anche durante l’occupazione britannica. La campagna di Jlac, attiva da 18 anni, è riuscita a liberare 121 corpi dai cimiteri dei numeri e circa 300 dalle celle frigo. «La prima vittoria è stata il ritorno del corpo di Mashhoor Al-Arouri, il cui corpo era trattenuto da 34 anni da Israele», specifica Shaiaeya. Dei cadaveri trattenuti su cui Jlac ha informazioni, 75 sono corpi di bambini, 89 di prigionieri morti in carcere, e 10 di donne.

La necropolitica israeliana, uno strumento di oppressione

Il dott. Hussein Shejaeya nel suo ufficio. Foto di Moira Amargi

Il sequestro dei corpi fa parte di ciò che gli studiosi descrivono come necropolitica: l’uso della morte come mezzo di potere e dominio. Negando ai palestinesi il diritto di piangere apertamente i propri morti, l’occupazione israeliana controlla anche le espressioni più intime del lutto. Il rifiuto di Israele di restituire i corpi è un’estensione sistematica del dominio coloniale, che punisce i palestinesi due volte: nella vita e nella morte. Trasformando i cadaveri in merce di scambio e negando alle famiglie il diritto di piangere i propri cari, Israele cerca di cancellare la memoria e controllare i rituali sacri.

Sebbene una direttiva del 2004 abbia limitato brevemente questa politica, essa è stata ripristinata nel 2015 con il pretesto del regolamento 133(3) del Mandato britannico. Nel 2017, la Corte Suprema ha stabilito che gli organismi di trattenuta non avevano base giuridica, ma ha sospeso la sua decisione, dando al governo il tempo di legiferare. La Knesset ha risposto con un emendamento del 2018 alla cosiddetta “legge antiterrorismo”, autorizzando esplicitamente la pratica. Nel 2019, la Corte ha ribaltato la propria decisione, consentendo la trattenuta per “negoziazione” – ossia come merce di scambio – se il defunto era affiliato ad Hamas o aveva commesso un’“operazione significativa”. Nel 2020 la politica è stata estesa a tutti i palestinesi accusati di presunti attacchi. Queste condizioni, comunque – conferma Shajaeya – non si applicano a molti dei martiri i cui corpi rimangono trattenuti. «Dal 2019», dice, «sembra semplicemente che prelevino i cadaveri di quasi tutti quelli che riescono.»

Bacheca con tutte le informazioni riguardo i corpi dei palestinesi tenuti in ostaggio da Israele. Foto di Moira Amargi

«Il sequestro dei corpi è un ulteriore forma per controllarci, oltre i cancelli, i muri, le prigioni, le demolizioni delle case etc. Il messaggio, è chiaro: chiunque faccia qualcosa contro Israele verrà ucciso e il suo corpo diventerà un numero, diventerà nulla», continua Shajaeya. Sono almeno 470 i corpi trattenuti dal 2015, dati che mostrano un incremento della pratica negli ultimi anni. In alcuni casi, l’esercito israeliano ha anche fatto irruzione negli ospedali in Cisgiordania dove i cadaveri dei martiri erano tenuti in attesa del funerale e li ha portati via. «Inoltre, seppelliscono i corpi contro ogni diritto umano», dice ancora Shejaeya. «Nei cimiteri li sotterrano a pochi centimetri sotto la superficie, facilmente prede di animali o delle piogge invernali. Nei frighi li mettono a temperature bassissime: se normalmente un corpo dovrebbe stare a – 6/10°, nelle celle frigo d’Israele i palestinesi sono tenuti a -30°». Quando le famiglie ottengono di recuperare i resti dei propri cari, i cadaveri sono in condizioni terribili, o congelati così solidamente che bisogna aspettare giorni per farli scongelare; in molti casi le autopsie sono impossibili da fare, rendendo difficile perfino la determinazione della causa di morte.

«Anche quando le famiglie ottengono indietro il corpo del proprio caro, Israele impone delle condizioni punitive per il funerale. Il rituale funebre deve avvenire di notte, in meno di 22/25 persone. Non sono ammesse foto né video. E la famiglia deve pagare una tassa agli stessi israeliani». A Gerusalemme, specifica, «vengono dati dei braccialetti per le 22 persone a cui è permesso di partecipare al funerale, affinché il numero possa essere tenuto sotto controllo sia dai droni – spesso utilizzati in queste occasioni – sia dalle guardie all’ingesso del cimitero». Una ulteriore forma di vendetta verso le famiglie che dopo anni di attesa non possono nemmeno celebrare il rito funebre come impone la tradizione. «I corpi dei palestinesi sono come degli ostaggi. Vengono utilizzati negli scambi. Ad oggi, tutta l’attenzione è focalizzata sul corpo dell’ultimo israeliano a Gaza, ma nessuno parla degli almeno 2000 corpi dei palestinesi trattenuti da Israele.» I quali, sottolinea, potrebbero essere molti di più. Non si hanno numeri precisi dei cadaveri rubati nella Striscia: le uniche informazioni arrivano dai canali israeliani, che parlano di 1500 corpi trattenuti a Sde Teiman. Anche i corpi di almeno un canadese, un americano-marocchino, un giordano e due libanesi risultano trattenuti in Israele.

Le famiglie dei martiri sono state in prima linea, protestando nelle strade e insistendo sul diritto di seppellire i propri figli. Le loro voci mettono in luce la posta in gioco personale e collettiva di questa lotta: la pace per i familiari in lutto, la dignità per i defunti e la conservazione della memoria per la comunità. La campagna di Jlac insiste sul fatto che questa questione non è marginale, ma centrale per la resistenza palestinese contro la pulizia etnica.

La paura del furto di organi dai corpi-ostaggio

Un’altra delle questioni che affligge le famiglie dei martiri riguarda gli organi rubati: non ci sono prove forensi che negli ultimi due decenni Israele abbia sottratto organi o pelle dai corpi dei palestinesi in Cisgiordania, ma la questione rimane aperta, anche proprio per la difficoltà a volte di effettuare autopsie. È provato che il furto di pelle, cornee, e organi interni fosse una pratica consolidata nell’Abu Kabir Forense Institute di Tel Aviv almeno fino quando è esploso il caso mediatico che metteva la luce sul traffico di organi in Israele. Erano decenni che le famiglie palestinesi denunciavano chiari segni di espiantazione di organi dai corpi di alcuni martiri restituiti, ma i casi sono rimasti inascoltati fino all’inchiesta portata avanti dall’antropologa americana Scheper-Hughes e poi dal giornalista svedese Donald Boström. Fu lo stesso direttore dell’istituto di Abu Kabir, il Dr. Yehuda Hiss, ad ammettere i furti sistematici di organi in un’intervista con l’antropologa nel 2000, e poi nel 2005 nell’inchiesta successivamente aperta dalla polizia. I furti ai corpi – le cui parti venivano rivendute in istituti di ricerca, all’esercito, e ad acquirenti in tutto il mondo – venivano effettuati anche su israeliani deceduti, ma probabilmente in misura minore, data la facilità di accesso ai corpi dei palestinesi e al fatto che nessuno avrebbe creduto alle loro denunce. «Bisogna ricordare che Israele detiene la banca di pelle più grande al mondo», ricorda Hussein Shejaeya.

A causa dei gravi segni di tortura, delle mutilazioni causate dai carri armati e del furto di organi da parte delle forze di occupazione israeliane, la maggior parte delle volte le famiglie e le équipe mediche non sono in grado di identificare le vittime

Oggi è il chirurgo britannico-palestinese Dr. Ghassan Abu Sitta, insieme ad altri medici, a denunciare la rimozione sistematica di organi dai corpi restituiti recentemente dei palestinesi uccisi a Gaza. Abu Sitta descrive «prove di un furto sistematico di organi», indicando come molti dei cadaveri presentano cuori, polmoni, reni e cornee mancanti, con tagli chirurgici e punti di sutura dal torace all’addome, incisioni realizzate con seghe mediche e tracce di sostanze chimiche conservanti sulla pelle. Per Abu Sitta si tratta di segni inequivocabili di estrazioni professionali per trapianti avvenuti sotto la supervisione di medici israeliani.

A seguito dei rapporti di professionisti medici che a Gaza hanno esaminato alcuni corpi, il gruppo per i diritti umani Euro-Med Human Rights Monitor ha chiesto l’apertura di una indagine internazionale indipendente. L’ONG ha anche documentato le forze israeliane mentre riesumano e confiscano decine di cadaveri dagli ospedali della Striscia di Gaza, tra cui quello di Al-Shifa. Il problema, confermato dagli stessi medici palestinesi, è che il furto di organi non può essere dimostrato o confutato esclusivamente da visite mediche forensi, poiché più corpi sono stati sottoposti a procedure chirurgiche prima della morte e molti di quelli restituiti sono in pessime condizioni. Ma sono diversi i segni che portano a pensare a un possibile furto di organi da parte dell’esercito israeliano, per la quale è necessario indagare più a fondo.

Questi dati non fanno che aumentare le paure delle famiglie palestinesi, che temono che i corpi dei loro cari vengano abusati per gli interessi economici d’Israele. Contro, ancora una volta, tutti i trattati internazionali sui diritti umani. E contro l’umanità stessa.

Milano, blackout in carcere: 250 detenuti trasferiti

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Nella notte tra ieri e oggi, 14 dicembre, presso il carcere di San Vittore, a Milano, c’è stato un grosso cortocircuito elettrico che ha costretto a trasferire circa 250 detenuti in un’altra struttura. Di preciso, il blackout ha interessato il III Raggio, ed è arrivato qualche ora dopo lo spegnimento di alcuni incendi scoppiati nei seminterrati che non hanno fatto feriti, ma hanno danneggiato il quadro elettrico. Non sono note le cause degli incendi, ma sono state escluse ipotesi dolose. I detenuti sono stati trasferiti nel carcere di Bollate.

Il Portogallo è stato paralizzato dal primo sciopero generale dopo 12 anni

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Era da 12 anni, dai piani di austerità imposti dall’Unione europea per superare la crisi economica, che i portoghesi non organizzavano uno sciopero generale. A farli tornare in piazza giovedì scorso è stata la riforma del lavoro presentata dal governo di centrodestra,  che renderà più semplici i licenziamenti e aumenterà la precarietà. Il progetto è stato descritto dai sindacati come «un’offensiva contro tutti i lavoratori, portoghesi e non». La classe lavoratrice ha così risposto in modo compatto e 3 milioni di persone non si sono presentate sul posto di lavoro, affiancate in piazza da una folta schiera di studenti, disoccupati e pensionati. Per 24 ore, il Portogallo è stato paralizzato dallo sciopero generale: si sono fermati i trasporti, le scuole sono rimaste chiuse, così come gli uffici pubblici, e diverse fabbriche hanno interrotto la produzione. I sindacati rilanciano, minacciando ulteriori mobilitazioni fino al ritiro del progetto di riforma.

In Portogallo, in occasione del primo sciopero generale degli ultimi 12 anni, più della metà della forza-lavoro ha incrociato le braccia. Come dichiarato dai sindacati promotori, CGTP e UGT, 3 milioni di persone (su un totale di circa 5,5 milioni tra occupati e disoccupati) non si sono presentate sul posto di lavoro, aderendo invece alle varie manifestazioni sparse per il Paese. La più partecipata è stata quella della capitale, Lisbona, dove si sono registrati anche degli scontri tra la polizia e un gruppo di manifestanti arrivati davanti al Parlamento. Nonostante questo episodio, il decorso della mobilitazione è stato sostanzialmente pacifico. Non sono mancati però i disagi, tra trasporti locali in tilt, uffici pubblici chiusi, corse di treni e voli cancellati. Questi ultimi hanno interessato molti italiani che si sono visti cancellare il rientro dopo la partita di calcio tra Benfica e Napoli disputatasi a Lisbona.

«Lo sciopero generale che si tiene oggi è uno dei più grandi di tutti i tempi, se non il più grande di tutti i tempi», ha dichiarato Tiago Oliveira, segretario di CGTP, il maggiore sindacato del Portogallo. Di fronte alla massiccia partecipazione, Oliveira ha parlato di una «forza inequivocabile che chiede salari più alti e maggiori diritti», schieratasi contro la riforma del lavoro presentata dal governo di Luís Montenegro. Rispolverando la retorica neoliberista dello «stimolare la crescita economica», l’esecutivo di centrodestra ha messo a punto una riforma che colpisce la stabilità lavorativa. Il tutto in un Paese dove già attualmente 1,3 milioni di lavoratori si trovano in una condizione di precarietà, alle prese, tra le altre cose, con un mercato immobiliare impazzito. Tra il primo trimestre del 2024 e quello del 2025, i prezzi delle case sono ad esempio aumentate del 16,3 per cento, registrando la crescita più marcata tra i membri dell’Unione europea.

Uno dei punti della riforma presentata dal governo colpisce il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, rendendolo facoltativo; un altro amplia invece i termini per i contratti a tempo determinato e altre situazioni di precarietà. Dopo la bocciatura popolare, il governo guidato da Luís Montenegro è atteso in Parlamento, dove la proposta di riforma dovrà essere discussa. Il rischio di bocciatura è alto; quello di Montenegro è infatti un governo di minoranza che al momento si regge sull’astensione del Partito Socialista. Sarà dunque da vedere se la mossa dell’esecutivo rafforzerà la deregolamentazione in Portogallo o, spinta dalla mobilitazione popolare, sarà il passo falso che porterà a una nuova crisi di governo, la quarta dal 2022 ad oggi.

Palmira, attentato a soldati siriani e USA: 3 morti

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Mentre erano impegnati in un pattugliamento congiunto a Palmira, città della Siria centrale, dei militari statunitensi e siriani sono caduti in un’imboscata. Dalle prime ricostruzioni, ad aprire il fuoco sarebbe stato un miliziano dell’ISIS. Attualmente si contano due soldati e un interprete statunitensi uccisi, oltre a diversi feriti. Lo riferisce l’agenzia di stampa statale siriana Sana, spiegando che l’aggressore è stato ucciso.

IA generativa: anche Walt Disney sale a bordo del grande business

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Nonostante sia famosa per difendere le proprie proprietà intellettuali con le unghie e con i denti, The Walt Disney Company ha scelto di stringere un’alleanza strategica con OpenAI. Il colosso dell’intrattenimento ha concesso in licenza all’azienda di intelligenza artificiale 200 dei suoi personaggi più iconici e, al tempo stesso, ha investito un miliardo di dollari nella società guidata da Sam Altman attraverso un’operazione di equity investment. La mossa, descritta dal CEO Bob Iger come un modo per “salire a bordo” di una tecnologia in grado di “stravolgere il modello di business” della casa di Topolino, segna un cambio di passo rilevante, evidenziando la necessità per Disney di presidiare un settore in rapida evoluzione, trasformando l’intelligenza artificiale generativa da potenziale minaccia a leva di innovazione.

La notizia è stata diffusa giovedì 11 dicembre attraverso due comunicati congiunti che annunciano l’avvio di un accordo triennale. L’intesa prevede la concessione in licenza una lista di personaggi che è ancora argomento di trattativa, tuttavia sono già stati nominati esplicitamente Topolino, Stitch, Simba, Elsa di Frozen, ma anche figure provenienti dai franchise Marvel e Star Wars quali Deadpool, Capitan America, Darth Vader e Yoda. Queste IP saranno messe a disposizione dell’intelligenza artificiale generativa di OpenAI, con particolare attenzione a Sora, la piattaforma capace di produrre clip video di 30 secondi. Iger, intervistato da CNBC, ha però chiarito che OpenAI potrà utilizzare le proprietà intellettuali in esclusiva per un anno, precisando con una certa enfasi che l’accordo non comprende le voci originali dei personaggi.

Disney ha imposto una serie di paletti rilevanti, riservandosi il diritto di limitare l’uso del proprio brand per “prevenire la generazione di contenuti illegali o dannosi”. L’azienda si è inoltre garantita la facoltà di selezionare alcune delle clip prodotte da Sora, con l’intento di distribuirle sulla piattaforma di streaming Disney+. Restano poco chiari gli oneri che OpenAI dovrà sostenere per la licenza, tuttavia quel che è certo è che il miliardo di dollari versato da Disney rappresenta una boccata d’ossigeno per Altman, il quale è alla guida di un’impresa perennemente in perdita e che, di recente, avrebbe lanciato un “codice rosso” per la paura di perdere la propria posizione dominante nel settore dell’intelligenza artificiale. 

Curiosamente, sempre ieri, Disney ha inviato a Google una lettera di diffida, accusando la Big Tech di una “violazione volontaria particolarmente allarmante” delle sue proprietà intellettuali, “perché sta sfruttando il suo dominio nell’IA generativa e in molti altri mercati per rendere i suoi servizi di IA illeciti il più disponibili possibile”. La mossa ricalca quanto già visto nella causa intentata contro Midjourney e conferma l’approccio protezionista che da sempre contraddistingue il gigante dell’animazione. Nel corso della sua storia, il ramo statunitense di Disney ha infatti esercitato un’influenza diretta sulla stesura di leggi volte ad ampliare la durata dei suoi diritti d’autore e perseguito con minuziosa petulanza chiunque abbia rappresentato i suoi personaggi senza autorizzazione, arrivando persino a colpire gli asili nido.

Perché, allora, adottare un approccio tanto diverso nei confronti di OpenAI? Non esiste una spiegazione ufficiale che chiarisca questa dissonanza, tuttavia la scelta sembra dettata da esigenze pragmatiche: l’accordo consente a Disney di partecipare finanziariamente a una possibile rivoluzione tecnologica e di non rischiare di restare indietro rispetto a nuovi attori emergenti. Considerando che una parte consistente delle produzioni di IA generativa si muove in aperta violazione dei diritti d’autore, la compagnia potrebbe aver dunque deciso di monetizzare, indirizzare e governare un fenomeno di cui, altrimenti, avrebbe subito passivamente. Da qui la decisione di concentrare le proprie risorse su un interlocutore riconoscibile come OpenAI, il quale ha certamente un suo pedigree, ma è meno dotato della forza e della complessità contrattuale di altri giganti del settore. Quali Google, per esempio. Si tratta in ogni caso di un approccio che appare più prudenziale che entusiastico, con Bob Iger convinto che l’intelligenza artificiale non sia (ancora) in grado di sostituire i creativi della sua scuderia, tuttavia, nel dubbio, l’azienda ha annunciato che diventerà cliente di OpenAI, così da mettere gli strumenti di IA a disposizione dei propri dipendenti.

Bielorussia, Lukashenko grazia 123 prigionieri

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Il presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko ha graziato 123 prigionieri, tra cui l’esponente dell’opposizione Maria Kolesnikova e Ales Bialiatski, l’attivista per i diritti umani vincitore del premio Nobel per la Pace nel 2022. La scarcerazione è avvenuta nell’ambito di un più ampio accordo raggiunto col presidente USA Donald Trump per revocare le sanzioni americane alla Bielorussia. Liberati anche 5 cittadini ucraini, come riferito dal presidente Volodymyr Zelensky, che ha lodato «gli sforzi congiunti con gli Stati Uniti».

La Catalogna dichiara lo stato di emergenza a causa della peste suina

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BARCELLONA – La Generalitat della Catalogna ha diramato lo stato d’emergenza per contenere la diffusione di un nuovo focolaio della peste porcina africana. Il virus, per il momento, la situazione sembra essere sotto controllo, ma il rischio epidemico è tale da mettere gravemente in pericolo il settore della carne di suino, uno dei mercati essenziali dell’economia catalana e spagnola. I primi casi sono datati 26 novembre, quando a Bellaterra, in un’area limitrofa del Parco Naturale della Collserola (alla periferia di Barcellona), sono stati rivenuti i cadaveri di due cinghiali. Nel corso delle due settimane successive, fin quando è stata approvata l’applicazione dello stato di emergenza, i casi di cinghiali infetti sono saliti a tredici, spingendo le autorità a dichiarare l’emergenza e il blocco delle esportazioni di carne.

Immediatamente la Generalitat, in accordo con la Commissione Europea, ha adottato misure di contenimento per evitare che il virus possa diffondersi fuori dal perimetro nel quale sono stati ritrovati i vari cinghiali infetti. Per 91 municipi dell’area sono state imposte alla popolazione restrizioni d’accesso ai parchi naturali, alle zone boschive, ai prati, ai campi coltivati e ai sentieri di campagna esterni alle aree urbane, fatta eccezione per le aree di accesso delle case. Inoltre si proibisce il trasporto di mandrie fuori dall’area d’alto rischio e l’introduzione di maiali domestici e prodotti d’origine suina all’interno del territorio. A questo si aggiunge il divieto di caccia, escludendo l’attività necessaria per contrastare il virus.

Intanto nel perimetro circostante al rinvenimento dei due primi casi è stata definita una fascia di controllo di venti chilometri, che include il Parco Naturale della Collserola, nel quale è stata messa in moto una ricerca approfondita di eventuali altri cinghiali infetti o resti di cibo contaminato.

Il virus, che non rappresenta rischi per gli esseri umani, né per le specie animali che non siano suine, può presentare una carica virale molto alta e, in alcuni casi, la mortalità dovuta all’infezione raggiunge il 100% delle probabilità. Le vie di trasmissione possono essere oronasali, cutanee, subcutanee ed endovenose e il periodo di incubazione oscilla tra i tre e i ventuno giorni. Nonostante al momento non sia stato riscontrato alcun tipo di infezione in maiali, né d’allevamento, né domestici, la diffusione del virus può avvenire attraverso contatto tra animali, ingestione d’alimenti, trasporto, contatto con abbigliamento e parassiti. 

Nonostante il virus non rischi di compiere il salto di specie e risultare così pericoloso per la salute degli umani, la diffusione tra i cinghiali si sta ripercuotendo rapidamente sull’economia legata al settore. La crisi ha portato alla sospensione delle esportazioni di prodotti derivati dal suino a più di quaranta paesi nel mondo, tra i quali si annoverano Russia, Brasile, Stati Uniti, Messico e Giappone. La Cina, invece, principale importatore di prodotti spagnoli derivati dal suino, continua a mantenere gli accordi commerciali, applicando delle restrizioni esclusivamente ai prodotti provenienti dalla provincia di Barcellona. Soltanto lo scorso novembre, in occasione della visite dei reali di Spagna a Pechino e dell’incontro tra Felipe VI e Xi Jinping, il colosso asiatico aveva approvato tre nuovi protocolli destinati a beneficiare il settore della pesca e della carne di suino. Nel 2024 le esportazioni spagnole verso la Cina hanno raggiunto le 540.000 tonnellate con un valore superiore al miliardo di euro. 

Il blocco delle destinazioni d’esportazione si è riflesso rapidamente anche nel mercato interno: in poco più di due settimane il valore della carne di maiale all’ingrosso ha subito un calo drastico per tre volte, raggiungendo in queste ultime ore la cifra di 1,04 euro al chilo. La conseguenza diretta colpisce violentemente il settore dell’allevamento, che già per la prossima settimana stimano una perdita economica media di 31 milioni di euro, che si sommano ai 30 milioni persi dal ritrovamento dei cinghiali infetti. Inoltre, la crisi sta colpendo anche le persone che lavorano nel settore; negli ultimi giorni 458 persone impiegate nei macelli dell’area hanno subito una sospensione del contratto di lavoro da parte di Grupo Jorge, azienda aragonesa di prodotti carnici.

Resta da capire l’origine del virus: nonostante non sia ancora stata data una spiegazione ufficiale, il Ministero dell’Agricoltura ha annunciato l’apertura di un’investigazione. Difatti, il primo cadavere di cinghiale sarebbe stato rinvenuto a cento metri dal centro di ricerca IRTA CreSA che negli ultimi giorni stava lavorando sul virus. Nonostante ciò non si scartano altre ipotesi, tra le quali la possibilità che il virus provenga da resti di salumi infetti provenienti dall’estero gettati nella spazzatura in un’area vicina al parco naturale della Collserola.

Se da un lato questa situazione mette in evidenza il disastro economico che potrebbe esplodere in caso di epidemia tra gli allevamenti, dall’altro gli effetti e le responsabilità della crisi non sono da limitare alla diffusione del virus. Negli ultimi anni la Catalogna ha visto un incremento senza eguali della produzione di prodotti derivati dal suino attraverso un processo che ricalca le caratteristiche delle monocolture intensive. Come affermato da Javier Guzmán, direttore della ONG Justicia Alimentaria, il collasso scaturito dalla crisi è il risultato di un mercato gestito da poche aziende ma che fa sì che un intero territorio, tanto umanamente, quanto ambientalmente, sia organizzato verso un’unica attività economica. Questo processo, monopolizza la forza lavoro e si fonda su un paradossale circolo vizioso nel quale, a volte,  due impostazioni economiche fondate su questo principio sono relazionate, come nel caso delle monocolture intensive di soia e mais che diventano il mangime destinato all’allevamento dei maiali. 

Il settore della carne di maiale, motivo d’orgoglio per le istituzioni nazionali e comunitarie, si è dimostrato fragile. Nonostante la situazione non sia ancora divenuta tragica, l’affidabilità economica di questo colosso leader nel settore alimentare in Europa e nel mondo ha già iniziato a vacillare.

Cortina ’26: gli sprechi e i costi reali delle olimpiadi

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Il conto alla rovescia è quasi terminato: il 6 febbraio 2026 iniziano le Olimpiadi invernali Milano Cortina, appuntamento che è stato presentato attraverso un’unica parola d’ordine: sostenibilità. Come spesso accade i grandi eventi fanno però rima con costi elevati in termini economici, sociali e ambientali e le “nostre” Olimpiadi non fanno eccezione, a cominciare dalla pista da bob di Cortina la cui spesa da 47 milioni è lievitata a un totale di 124 milioni di euro. Quello dello Sliding Center “Eugenio Monti” – luogo dove si disputeranno le gare di bob, skeleton e slittino – è un caso così pa...

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