sabato 6 Dicembre 2025
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Sudafrica, sparatoria in un ostello a Pretoria: almeno 11 morti

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Uomini armati hanno fatto irruzione nel Saulsville Hostel di Atteridgeville, a ovest di Pretoria, uccidendo almeno 11 persone, tra cui un bambino di tre anni, e ferendone 25. La sparatoria, scoppiata intorno alle 4 di questa mattina, è ora sotto indagine, con il maggior generale Thine sul posto. La polizia è attualmente sulle tracce di tre sospettati, ma non sono stati resi noti altri dettagli. L’attacco è l’ultima di una serie di sparatorie di massa registrate nel Paese e riaccende l’allarme sulla diffusa violenza armata in Sudafrica, alimentata da armi illegali e attività criminali.

 

Il mondo è tutto ciò che accade

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Dobbiamo abbracciare il mondo, non le cose. Scriveva Wittgenstein che il mondo è tutto ciò che accade. Esistono dunque le relazioni non gli oggetti. 

Gli oggetti, anche splendidi e ricercati sono cose, non meritano un linguaggio, non accolgono parole che durano. Sono destinati all’uso, anche un uso speciale ma hanno una vita circoscritta, contengono la loro fine, la loro parziale utilità. È il loro consumo, il loro riflettersi in qualcuno che le rappresenta a dare loro espressione, come un buon cibo, come un dono.

Le cose hanno un destino. Le persone no, dipendono dal divenire e da una volontà, si definiscono per quello che desiderano. Le persone sì, si riflettono nel linguaggio che le accoglie, che li custodisce e le fa esprimere.

Dobbiamo dunque avere un tesoro di sguardi, di cenni, di ascolto che accolga, che apra gli occhi davanti al bisogno, che favorisca la risposta dell’altro. Gli altri sono infatti il nostro linguaggio, le nostre parole, il senso di un giorno o di sempre.

Lasciamo spazio alla risposta, accettiamo, cioè ascoltiamo.

Arriverà la vittoria. Scopriremo che avverrà proprio quello aspettavamo. Avevamo bisogno di sentirci ospiti generosi ma non sapevamo ancora come. Ogni giorno, se ascoltiamo bene, ci viene detto perché.

Nuovi scontri al confine tra Afghanistan e Pakistan: almeno 4 morti

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Tra venerdì e sabato si sono verificati nuovi scontri armati al confine tra Afghanistan e Pakistan, vicino a Spin Boldak: secondo le autorità afghane almeno quattro persone sono morte. I combattimenti, durati diverse ore, restano di origine incerta, con i due paesi che si accusano reciprocamente di aver aperto il fuoco per primi. Le tensioni tra i governi sono elevate da tempo: il Pakistan accusa i talebani afghani di proteggere i talebani pakistani (TPP), mentre Kabul denuncia bombardamenti pakistani nel sud del paese. A ottobre c’erano già stati scontri, seguiti da un cessate il fuoco mai evoluto in un accordo stabile.

Dentro Tubas: cosa rimane di una città palestinese dopo sei giorni di assedio israeliano

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TUBAS, PALESTINA OCCUPATA – È finita (per ora) l’aggressione militare israeliana nel governatorato di Tubas. I soldati dell’IDF hanno lasciato la città dopo un totale di sei giorni di assedio e uno di pausa. Tubas, Aqaba, al-Faraa, Tayasir e Tamoun sono tornate a vivere. Il coprifuoco è finito, i bambini possono tornare a scuola, i negozi sono aperti, le strade brulicano di gente. Ma i danni, le ferite e le conseguenze che l’ennesimo raid israeliano hanno lasciato sono difficili da cancellare. «Era venerdì 28 quando ci sono entrati in casa», racconta Mohammad a L’Indipendente. «I soldati hanno messo in una stanza le donne, nell’altra gli uomini. Poi hanno picchiato i miei due figli», racconta. Siamo ad Al-Faraa, il campo profughi a 5 km da Tubas. Uno dei territori sistematicamente attaccati attraverso incursioni, assedi, danneggiamenti alle infrastrutture, di cui quest’ultimo raid è solo un esempio.

Uno dei due figli siede con noi, il braccio rotto al collo. Glielo hanno spaccato i soldati. Tutti e due sono finiti all’ospedale. L’altro figlio ancora non riesce a dormire per il dolore. I militari l’hanno colpito ripetutamente con gli stivali rinforzati sul ginocchio, dove gli avevano sparato un anno fa. Il ragazzo, trentenne, non vuole foto, teme ripercussioni. «Uno dei soldati ha preso anche me, mi ha messo al muro. Ma un altro ha detto “no, lui no”. Perché sono vecchio», sorride Mohammad. Gli chiedo che cosa volevano i soldati, che domande facevano. Scuote la testa: «Questa operazione l’hanno fatta solo per picchiarci, per dirci che dobbiamo stare zitti. Che questa terra è loro. Non chiedevano niente. Qui, ci trattano come animali».

La sua casa testimonia le numerose incursioni subite. Molte delle finestre sono rotte, i vetri sostituiti da pezzi di cartone. Il muro del salotto presenta vari fori di proiettili. Anche l’armadio della camera da letto è stato rotto dalle fucilate dei soldati. «Qui, puoi morire mentre stai tranquillamente dormendo a casa tua!» dice, indicando la finestra accanto al comodino dove sono entrati i proiettili.

L’intero campo profughi mostra le ferite lasciate dai raid militari; la strada principale del campo, è stata scavata dai D9, i bulldozer israeliani con la quale letteralmente arano le strade e rompono l’asfalto. Una parte delle infrastrutture idriche ed elettriche sono state rovinate in questi due anni di ripetuti assedi. «Questa casa l’hanno bruciata», prosegue Mohammed, avvicinandoci a un edificio tutto nero e chiuso con una rete. «Quest’altra l’hanno danneggiata con i bulldozer. Anche quella, e quella» dice, mostrando le evidenti riparazioni effettuate. Camminiamo osservando i buchi dei proiettili sulle case, le finestre rotte, i muretti abbattuti. Arriviamo davanti alla sede dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi. Una grossa struttura con molte vetrate. «Questo posto viene sistematicamente preso di mira», spiega. «Spesso sparano contro le finestre per rompere i vetri. Per mandare via l’UNRWA». Anche le scuole lì accanto sono state danneggiate. I muretti esterni mostrano segni di riparazioni recenti e alcuni tratti sono tuttora a pezzi. Accanto, su un palo della luce, il manifesto di un ragazzino ucciso. Fanno così, qui, per ricordare i martiri. «L’hanno ucciso due settimane fa», dice. «Si chiamava Jad Jihad Jadallah. Aveva 15 anni. È stato ucciso il 16 novembre 2025, mentre giocava a pallone, proprio qui. Hanno impedito all’ambulanza di soccorrerlo, poi hanno sequestrato il corpo». Jad è la 29esima vittima nel campo profughi di al-Faraa uccisa dai soldati d’Israele. 12 di essi, erano ragazzini come lui.

«Ci attaccano perché vogliono mandarci via da tutta quest’area. Siamo all’ingresso della Valle del Giordano, quello che era “il granaio di tutta la Palestina”, dove in passato si produceva la maggior parte della frutta e della verdura. Questa zona è piena di fonti idriche». E aggiunge: «Vogliono prendersi tutta l’area. Anche perché se controllano Tubas, controllano Jenin e Nablus».

Conclude: «c’è una grande sofferenza qui. Ma resistiamo. Dobbiamo essere pazienti. Non lasceremo la nostra madre terra. Saremo come gli alberi: anche se ci uccidono, resteremo qui, non ce ne andremo».

Il sindaco di Tamoun, Samir Bisharat. Foto di Moira Amargi

Il sindaco di Tamoun ci accoglie con la solita gentilezza palestinese. Samir Bisharat, una quarantina d’anni, è una delle oltre 200 persone che sono state detenute durante l’ultima operazione Cinque Pietre. Tamoun è una cittadina di circa 14mila persone presa particolarmente di mira dall’esercito israeliano in questi ultimi due anni e l’ultimo raid lo dimostra: solo nel paesino 25 case sono state occupate e rese caserme per interrogatori; 170 le abitazioni perquisite, 100 persone detenute e interrogate. Cinque gli uomini arrestati.

«Tamun ha circa 40 martiri, molti dei quali bambini. Tutti uccisi dopo il 7 di ottobre,» dichiara Bisharat a L’Indipendente. «Stiamo anche soffrendo per gli ingenti danni economici causati dalle continue incursioni. Questa è una terra di agricoltori. L’obiettivo israeliano è prenderci le terre, distruggere la nostra sussistenza per mandarci via», conferma. «Solo le perdite economiche legate al commercio ammontano a circa 5 milioni di shekel [1,3 milioni di euro, ndr]. Più almeno 3 milioni per i danni alle infrastrutture soprattutto idriche, e 1 milione per quelle private. Ma stiamo ancora contando le perdite economiche». Bisharat denuncia anche che molti cittadini hanno riportato furti di soldi e gioielli durante le perquisizioni e le occupazioni delle proprie abitazioni.

Secondo il sindaco, la retorica con la quale Tel Aviv giustifica gli attacchi è una semplice scusa. «Non abbiamo armi qui», dice. «Vogliono prendersi la terra per costruire una strada di decine di km che dividerà le zone abitate dalle terre coltivate. Il loro principale obiettivo è questo. Stanno anche distribuendo ordini di lasciare dei terreni agricoli con questo scopo». Anche lui conferma che l’area è un territorio strategico, per la sua vicinanza al confine con la Giordania e per la ricchezza delle fonti idriche.

«L’ultima incursione è stata particolarmente violenta. Non si era mai vista una quantità così grande di soldati invadere Tamoun. Sono venuti con gli elicotteri Apache, con armi pesanti», riferisce. «Hanno chiuso le strade con quintali di terra, nessuno poteva entrare o uscire. Quando fanno i raid, la vita, si ferma. Non lasciano nemmeno i giornalisti e le ambulanze avvicinarsi». Gli chiedo della sua detenzione. «Mi hanno detenuto mentre stavo andando in giro per Tamoun a portare medicine a chi aveva bisogno. Mi hanno ammanettato e bendato. Gli ho detto che ero il sindaco, ma non gli è importato». Mi offre una sigaretta, prima di farmi accompagnare a vedere la distruzione lasciata dai bulldozer di Tel Aviv la settimana scorsa. Cinque chilometri della strada che connette Tamoun e Atuf sono stati distrutti. Macchinari del comune stanno ancora lavorando per togliere i pezzi di asfalto lacerati e ai margini delle strade ci sono tuttora detriti. Le macchine avanzano lentamente sulla strada disconnessa.

«Qui vorremmo solo quello che sono i diritti basici di ogni persona: il diritto di vivere, di stare in pace e in sicurezza. Diritti che ci vengono negati dall’occupazione,» conclude il sindaco.

Russia-Ucraina, attacchi incrociati nella notte

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Un attacco russo con missili e droni ha colpito nelle ore notturne alcune città dell’Ucraina. Lo hanno riferito autorità locali, rendendo noto che nella regione di Kiev sarebbero state ferite almeno tre persone. L’attacco ha colpito le infrastrutture ferroviarie, rendendo necessaria la riprogrammazione dei collegamenti passeggeri. Contestualmente, droni ucraini hanno preso di mira le regioni russe di Ryazan e Voronezh, provocando danni ma nessuna vittima. Lo hanno dichiarato stamane i governatori locali. Gli attacchi hanno causato un incendio sul tetto di un edificio residenziale a più piani e i detriti dei droni sono caduti sul terreno di una struttura industriale.

Germania: il Parlamento approva il ritorno alla leva militare obbligatoria

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Il Bundestag tedesco ha approvato oggi il testo di legge noto come Wehrdienst‑Modernisierungsgesetz, che introduce un nuovo modello di servizio militare su base volontaria, sostenuto da una procedura di registrazione obbligatoria per gli uomini e facoltativa per le donne. Dopo 14 anni dalla sospensione della leva obbligatoria, il Parlamento – con 323 voti a favore, 272 contrari e un astenuto – ha detto sì a un sistema che unisce volontariato incentivato e la possibilità, previa nuova legge, di introdurre una coscrizione selettiva qualora i volontari non bastassero o «in caso di necessità». Nella pratica, tuttavia, ciò non entrerà in vigore prima di Natale.

«Il servizio militare è volontario e rimarrà tale se tutto andrà come speriamo… Se la situazione minacciosa continua a peggiorare o peggiora, non potremo evitare il servizio militare parziale obbligatorio per poter proteggere questo Paese», ha dichiarato il ministro della Difesa Boris Pistorius durante i dibattiti parlamentari. La legge vigente prevede, infatti, che la coscrizione obbligatoria per gli uomini venga ripristinata se il Bundestag dovesse dichiarare lo stato di tensione e difesa. Tuttavia, non sono state ancora previste disposizioni concrete per questa eventualità. Il nuovo impianto prevede che ogni diciottenne maschio, nato dal 1° gennaio 2008, riceva un questionario di valutazione a partire dal 2026, seguito da una visita di idoneità dal 2027. Una volta finalizzata la registrazione, chi vorrà potrà arruolarsi per un servizio militare volontario della durata minima di sei mesi, rinnovabili fino a 23. Durante il periodo di servizio sarà prevista una retribuzione di 2.600 euro lordi e sussidi per la patente di guida per chi si impegna per più di un anno. Se il numero di volontari non sarà sufficiente, scatterà un meccanismo di selezione coatta attraverso un sorteggio, la cosiddetta “coscrizione obbligatoria in base alle necessità“. Una soluzione ibrida che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe rafforzare la Bundeswehr, alle prese con carenze strutturali di personale. Alla fine di ottobre, le Forze Armate tedesche contavano 184.242 soldati attivi, di cui 12.062 volontari. Tuttavia, secondo i nuovi obiettivi della NATO, la Germania ha bisogno di 460.000 soldati in caso di crisi, di cui 260.000 uomini e donne in servizio attivo.

Le opposizioni hanno respinto la riforma, sostenendo che l’obbligo di compilare un questionario o di sottoporsi a un esame di leva non ha nulla a che fare con la volontarietà. Il ministro Pistorius aveva giustificato la legge spiegando che la libertà e lo Stato «non si proteggono da soli». Il cancelliere Friedrich Merz, invece, aveva sancito la svolta militare parlando di una «una nuova era di minacce» e della necessità di rendere la Bundeswehr «l’esercito convenzionale più forte dell’Unione Europea». La reintroduzione della leva ha innescato una massiccia mobilitazione studentesca: in concomitanza con il voto al Bundestag, migliaia di giovani hanno scioperato in oltre 60 città in tutto il Paese. «Non vogliamo diventare carne da cannone» è lo slogan scelto dagli studenti che chiedono di non tornare a una logica di coscrizione automatica contro la loro volontà. Dietro questo rifiuto si avverte un malessere tra i giovani e la percezione della strumentalizzazione dell’attuale crisi geopolitica per imporre uno stato di emergenza permanente in modo da giustificare misure liberticide.

La scelta del Bundestag rappresenta una trasformazione profonda della funzione delle forze armate nella società tedesca e apre alla possibilità di tornare a una mobilitazione di massa. A ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, Berlino archivia i tabù del passato e prepara un riarmo senza precedenti volto a riaffermare la centralità strategica tedesca. La Germania, con questo provvedimento, intende rafforzare la propria capacità difensiva, ma allo stesso tempo ridefinisce il rapporto tra Stato e cittadino, mettendo a nudo una spaccatura: da un lato la necessità – secondo il governo – di garantire la sicurezza nazionale, dall’altro il timore diffuso che la reintroduzione della leva possa aprire la porta a un nuovo clima di militarizzazione permanente. In questo scenario, la scelta tedesca potrebbe trasformarsi in un precedente pericoloso per l’Europa, incoraggiando altri governi a seguire la riforma e a riportare il Vecchio continente verso logiche che molti consideravano definitivamente archiviate.

Francia: droni su base nucleare, militari aprono il fuoco

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Cinque droni non identificati hanno sorvolato giovedì sera la Île Longue, la base della marina francese che ospita sottomarini nucleari della forza di deterrenza. I militari hanno attivato i sistemi di difesa e hanno aperto il fuoco nel tentativo di neutralizzare i velivoli. È stata aperta un’inchiesta per chiarire l’origine e le finalità dell’incursione.

Una manovra per il Paese reale: la contro-finanziaria di Sbilanciamoci!

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Mentre il Parlamento discute il Disegno di Legge di Bilancio 2025-27 del Governo Meloni, la società civile risponde presentando la propria legge di bilancio alternativa. Si tratta, nello specifico, del Rapporto 2025 della campagna Sbilanciamoci!, la “contro-finanziaria” che ogni anno viene pubblicata dalla rete di organizzazioni che vi partecipano e sottoposta all’attenzione del Parlamento. Quest’anno, il documento – presentato nella sala stampa di Camera e Senato – racchiude 102 proposte concrete per una manovra da «oltre 54 miliardi di euro, a saldo zero». Un piano che rovescia le priorità, ponendo al centro la giustizia sociale, la transizione ecologica e i servizi pubblici, finanziati attraverso una radicale revisione della spesa e del prelievo fiscale.

Cuore della proposta è un nuovo indirizzo per un fisco equo. Il rapporto chiede una netta sterzata verso la progressività, a partire da «un’imposta progressiva sulle grandi ricchezze per chi detiene patrimoni superiori al milione di euro», misura che varrebbe 24 miliardi. A questa si affiancano l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie, una riduzione della franchigia sulla tassa di successione e «una vera tassa sulle transazioni finanziarie applicabile a tutte le azioni e a tutti i derivati». Sul fronte Irpef, si propongono tre nuovi scaglioni per i redditi più alti (45%, 50% e 55%) per un gettito aggiuntivo di 2,8 miliardi. Parte di queste risorse, 4 miliardi, andrebbero ai Comuni per «lo sblocco dei vincoli ad assunzioni e investimenti».

La sezione più simbolica per la fase storica che si sta vivendo è sicuramente quella su pace e disarmo. Di fronte a una spesa militare record, Sbilanciamoci! propone «una netta diminuzione delle spese militari, con un risparmio di 7,5 miliardi», ottenuto tagliando programmi d’arma, riducendo gli effettivi e tassando gli extraprofitti del settore. Queste risorse finanzierebbero la cooperazione internazionale, le attività coinvolte nella risoluzione dei conflitti armati e la «riconversione a fini civili dell’industria a produzione militare». Istruzione e cultura riceverebbero un investimento di oltre 10 miliardi, con interventi che vanno dalla sicurezza degli edifici scolastici all’aumento dei fondi ordinari per università e scuola. Specifiche risorse sono destinate al diritto allo studio: più borse, più posti letto negli studentati, abbonamenti agevolati ai trasporti e «l’abbattimento del numero chiuso nelle facoltà». Per la cultura, si propone l’istituzione di un «Sistema Culturale Nazionale» e il potenziamento degli organici del Ministero.

Il capitolo lavoro e industria denuncia l’assenza da trent’anni di una politica industriale orientata alla sostenibilità. La ricetta prevede l’istituzione di «un’Agenzia nazionale per le politiche industriali e il lavoro» (6 miliardi) per guidare la riconversione ecologica, insieme a fondi per le nuove competenze e missioni industriali green. Si chiede il «superamento del Jobs Act», la riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore a parità di salario e una misura strutturale di «sostegno al reddito ispirata a un principio di universalità» da 5,6 miliardi. Per la mobilità, si invoca il ripristino del Fondo automotive e un aumento da 1,7 miliardi del Fondo per il trasporto pubblico locale.

La svolta ambientale, secondo Sbilanciamoci!, non è più rinviabile. La proposta chiave è la «cancellazione dei Sussidi Ambientalmente Dannosi destinati alle fonti fossili» (7 miliardi risparmiati) e l’istituzione di fondi dedicati alla riconversione energetica, al ripristino della natura e all’adattamento climatico. Viene chiesta anche la cancellazione del «progetto del Ponte sullo Stretto di Messina» (oltre 1 miliardo risparmiato). Il welfare viene trattato come investimento: si chiedono 9 miliardi in più per la sanità pubblica e oltre 1,5 miliardi per fondi sociali a sostegno di disabilità, non autosufficienza e diritto alla casa. Sul fronte migrazioni, si propone l’abolizione dei CPR e del protocollo Italia-Albania, e l’avvio di una «missione pubblica di ricerca e soccorso in mare». Sul fronte della gestione dell’universo penitenziario, si destinano inoltre 1,5 miliardi per misure alternative al carcere. Completano il quadro proposte per sostenere le economie trasformative nei territori, con fondi per comunità energetiche, cooperative di riconversione ecologica gestite dai lavoratori e biodistretti.

«Il Disegno di Legge per il Bilancio dello Stato 2025-27 del Governo Meloni attualmente in discussione alle Camere è una manovra economico-finanziaria modesta, di galleggiamento, iniqua socialmente e, dal punto di vista fiscale e ambientale, regressiva», scrivono nel documento illustrativo della “contro-finanziaria” i membri di Sbilanciamoci!, che affermano come la legge di Bilancio concepita dall’esecutivo sia «sostanzialmente dedicata al rifinanziamento delle misure dello scorso anno – a partire dal taglio del cuneo fiscale –, centrata sulle priorità della Difesa e dell’industria militare, collocata all’interno dei vincoli ristretti delle compatibilità finanziarie e del nuovo Patto di Stabilità». Secondo l’organizzazione, essa «non offre prospettive di sviluppo – il suo effetto sulla crescita è dello “zero virgola” – e non affronta i grandi problemi del Paese: le crescenti disuguaglianze e povertà, gli effetti del cambiamento climatico, la deindustrializzazione, il progressivo indebolimento del welfare e dei servizi pubblici». Tutti nodi che, invece, costituiscono il cuore della contro-proposta di Sbilanciamoci!.

UE multa X, Musk dovrà pagare 120 milioni di euro

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La Commissione Europea ha comminato una sanzione di 120 milioni di euro alla piattaforma X (ex Twitter), di proprietà di Elon Musk, per violazioni del Digital Services Act. L’inchiesta, iniziata nel 2023, ha rilevato tre gravi mancanze: la “spunta blu” a pagamento, che può ingannare gli utenti sull’identità reale degli account; l’opacità sull’archivio pubblicitario e il rifiuto di concedere ai ricercatori l’accesso ai dati pubblici necessari a studiare fenomeni come disinformazione e algoritmi. Altre due indagini contro X sono ancora in corso: una riguarda il modo in cui la piattaforma tratta i contenuti illegali, l’altra si concentra sui suggerimenti degli algoritmi.

RD Congo e Ruanda firmano la pace dopo tre anni di guerra e 15mila morti

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È stato firmato ieri un importante accordo di pace tra la Repubblica democratica del Congo (RDC) e il Ruanda – al centro di una cruenta guerra che solo negli ultimi tre anni ha causato circa 15.000 morti – con la mediazione del presidente statunitense Donald Trump. I presidenti dei tre Paesi hanno firmato un documento che formalizza il precedente accordo raggiunto a giugno tra le due nazioni africane sempre con la mediazione Usa e la cerimonia della firma si è svolta all’Istituto per la pace a Washington. Secondo il capo della Casa Bianca, l’intesa segna «una grande giornata per l’Africa, per il mondo e per questi due Paesi», risolvendo «una guerra che andava avanti da decenni» e che ha ucciso «milioni e milioni di persone». Il documento firmato ieri formalizza i termini dell’accordo di pace concordati lo scorso giugno che includono un cessate il fuoco permanente, il disarmo delle forze non statali, misure per consentire ai rifugiati di tornare a casa e giustizia contro chi ha commesso atrocità. La Casa Bianca ha definito l’accordo «storico» e Trump ha affermato che la sua amministrazione ha «avuto successo dove altri hanno fallito».

Entusiasti anche i due protagonisti dell’accordo di pace: secondo il Presidente della Repubblica democratica del Congo, Felix Tshisekedi, gli accordi firmati a Washington «non sono un documento come un altro, ma un punto di svolta: si tratta di un’architettura coerente per una dichiarazione di principio a favore di un accordo di pace e dell’integrazione economica regionale». Il presidente del Ruanda, Paul Kagame, invece, ha detto che i patti firmati garantiscono «tutto il necessario per mettere fine al conflitto una volta per tutte», e la presenza di diversi capi alla cerimonia organizzata nella capitale statunitense «conferma che questi sforzi godono del sostegno necessario per avere successo». Lo stesso ha asserito che in trent’anni di conflitto ci sono stati «innumerevoli sforzi di mediazione, ma nessuno ha avuto successo nel risolvere le questioni alla base» della guerra.

Nel dettaglio, il testo dell’accordo tra Congo e Ruanda comprende cinque punti principali: rispetto dell’integrità territoriale della RDC; cessazione delle ostilità; disimpegno e disarmo dei gruppi armati non statali; integrazione condizionata di tali gruppi; creazione di un quadro di cooperazione economica regionale tra Kinshasa e Kigali (rispettivamente capitali della RDC e del Ruanda). L’accordo prevede poi che entrambi i Paesi si impegnino a non fornire alcun supporto ai gruppi armati attivi nella regione, tra cui le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr) e l’Alleanza del fiume Congo (Afc)-Movimento 23 marzo (M23). Inoltre, l’intesa comprende l’istituzione di un meccanismo congiunto di coordinamento della sicurezza, che include il Concetto operativo (Conops), un quadro di condivisione di intelligence negoziato a Luanda nell’ottobre 2024.

Tuttavia, nonostante i presupposti favorevoli, le tensioni sul campo permangono e un completo cessate il fuoco potrebbe essere più lontano di quanto si possa sperare: anche dopo la firma dell’accordo, infatti, i combattimenti proseguono in diversi punti della linea del fronte nella provincia del Sud Kivu (RDC), dove l’M23 (principale gruppo armato ribelle sostenuto dal Ruanda) sta guadagnando terreno da diverse settimane. Altri combattimenti sono in corso anche nella pianura di Ruzizi (al confine meridionale tra la Repubblica Democratica del Congo ed il Ruanda), dove le parti in conflitto si contendono il controllo della città di Katogota, secondo diverse fonti locali. Migliaia di soldati burundesi sono schierati nel Sud Kivu e combattono contro l’M23 al fianco delle forze congolesi. Secondo alcuni analisti è improbabile che il patto di giovedì ponga fine immediata ai combattimenti, in quanto un accordo separato tra Congo e M23 rimane inapplicato sul campo.

Oltre agli aspetti militari e diplomatici, ci sono poi anche quelli economici: la grande ricchezza di risorse minerarie del Congo, infatti, non è solo una delle cause di uno dei conflitti più cruenti degli ultimi decenni, ma è anche uno dei motivi che ha spinto l’amministrazione statunitense a mediare la pace. L’intesa raggiunta a Washington crea «un nuovo quadro per la prosperità economica», ha affermato il presidente Usa, aggiungendo che «In questa terra bellissima, anche se macchiata da enormi quantità di sangue, c’è una ricchezza incredibile: i due Paesi hanno accettato di integrare maggiormente le rispettive economie invece di combattere, e lo faranno. Sono sicuro che avranno successo e che andranno molto d’accordo». Il capo della Casa Bianca ha quindi annunciato che gli Stati Uniti hanno firmato accordi bilaterali sia con il Congo che con il Ruanda per ampliare l’accesso americano a minerali essenziali, un interesse strategico per Washington nel tentativo di ridurre la dipendenza dalla Cina. «Manderemo alcune delle nostre più grandi e prestigiose aziende statunitensi nei due Paesi» ha detto Trump.

La crisi nel Congo orientale risale alle conseguenze del genocidio ruandese del 1994 (uno dei più sanguinosi episodi del Novecento), dovuto a conflitti etnici locali e in seguito al quale quasi due milioni di rifugiati hutu fuggirono in Congo. Il Ruanda accusa alcune milizie hutu di aver partecipato al genocidio e sostiene che elementi dell’esercito congolese abbiano offerto loro protezione. Da parte sua, il Congo insiste sul fatto che una pace duratura non è possibile se il Ruanda non ritira il suo sostegno ai ribelli dell’M23. Oltre ad aver provocato milioni di morti, il conflitto ha causato milioni di sfollati, creando una gravissima crisi umanitaria. Per questo, l’accordo raggiunto a Washington, per quanto fragile, rappresenta pur sempre un punto di svolta per l’emergenza in questa regione.