venerdì 19 Dicembre 2025
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La Puglia sarà la prima regione ad avere un salario minimo nei lavori pubblici

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In Puglia il salario minimo nei lavori pubblici diventa legge. Con la sentenza n. 188 del 16 dicembre, la Corte costituzionale ha respinto il ricorso del governo contro la legge regionale che fissa a nove euro lordi l’ora la soglia minima di retribuzione negli appalti pubblici. Le censure sollevate da Palazzo Chigi sono state dichiarate inammissibili, consentendo l’entrata in vigore di una norma che lega l’accesso alle gare al rispetto di un livello salariale minimo. Un passaggio che assegna alla Puglia un primato nazionale e riporta al centro il tema del lavoro povero, sullo sfondo di un vuoto legislativo statale che continua a pesare come una frattura politica e istituzionale.

La legge regionale n. 30 del 2024 entra così a pieno titolo tra le misure di contrasto al lavoro sottopagato, stabilendo che le imprese aggiudicatarie di appalti regionali debbano garantire ai lavoratori una retribuzione minima tabellare non inferiore a nove euro l’ora. Il cuore della decisione della Consulta sta proprio qui: la Regione non interviene sulla disciplina generale dei rapporti di lavoro, materia riservata allo Stato, ma fissa criteri di qualità sociale per l’uso di risorse pubbliche. In altre parole, la Puglia decide come spendere i propri fondi e a quali condizioni, legando l’accesso agli appalti al rispetto di una soglia salariale ritenuta dignitosa. Una scelta che, secondo i giudici, non viola la contrattazione collettiva né l’assetto costituzionale delle competenze.

Dal punto di vista politico, la sentenza viene rivendicata come una vittoria simbolica e sostanziale. Il presidente uscente della Regione Puglia, Michele Emiliano ha definito la sentenza una “vittoria importantissima”. Per la giunta regionale è la conferma di una linea che punta a contrastare il lavoro povero, particolarmente diffuso proprio nel settore degli appalti, dove la competizione al ribasso sui costi spesso si traduce in salari insufficienti. La Puglia si presenta in tal modo come laboratorio di una politica del lavoro alternativa all’inerzia nazionale, dimostrando che esistono margini di intervento anche senza una legge statale sul salario minimo, tema da anni al centro del dibattito ma sistematicamente rinviato.

Nei Paesi dell’Unione Europea la maggior parte degli Stati membri dispone di un salario minimo nazionale, mentre in Italia la materia è rimasta appannaggio della contrattazione collettiva tra parti sociali e non vi è una soglia minima generale stabilita per legge. La scelta pugliese mostra una strada possibile: usare la leva degli appalti pubblici per fissare standard minimi e impedire il dumping salariale. Nei prossimi mesi la sfida sarà l’applicazione concreta della norma, tra controlli, adeguamenti contrattuali e resistenze del mondo imprenditoriale. Intanto, il segnale è stato lanciato: se lo Stato non decide, le Regioni possono cominciare a farlo.

BCE mantiene tassi di interesse invariati

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La Banca Centrale Europea ha mantenuto invariati i tassi di interesse per la quarta volta di fila dopo otto riduzioni consecutive. «I tassi di interesse sui depositi presso la banca centrale, sulle operazioni di rifinanziamento principali e sulle operazioni di rifinanziamento marginale rimarranno invariati al 2,00%, al 2,15% e al 2,40%, rispettivamente», si legge in un comunicato della Banca. La BCE ha inoltre valutato che l’inflazione dovrebbe stabilizzarsi sull’obiettivo del 2% a medio termine.

I trattori contro la Commissione UE: in diecimila bloccano Bruxelles

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Le proteste degli agricoltori sono tornate a Bruxelles. Oggi in occasione dell’avvio dell’ultimo consiglio europeo dell’anno, migliaia di lavoratori hanno invaso le strade della capitale belga e si sono scontrati con la polizia, per contestare le politiche agricole comunitarie e l’accordo dell’UE con Mercosur, l’unione economica degli Stati sudamericani, a ora in fase di discussione per la ratifica finale. La Francia guida il fronte contrario all’accordo, e ha raccolto il sostegno della presidente Meloni che ha affermato che firmarlo così come scritto ora sarebbe «prematuro». La manifestazione è stata organizzata da Copa-Cogeca, un’alleanza tra le maggiori associazioni di categoria europee, e ha radunato circa diecimila agricoltori, oltre 1.000 dei quali arrivati a Bruxelles a bordo degli ormai simbolici trattori con cui da tre anni sfilano per le strade di tutta Europa. Giunti nel quartiere europeo, dove si trovano le istituzioni comunitarie, gli agricoltori hanno paralizzato le strade, incendiato copertoni, e ingaggiato scontri con le forze dell’ordine.

I trattori sono iniziati ad arrivare a Bruxelles da tutta Europa sin dall’alba. Da quanto comunicano i maggiori giornali belgi diverse linee di trasporto urbano su superficie sono state interrotte, mentre la polizia ha chiuso altrettante strade, specialmente quelle che circondano le sedi istituzionali nel quartiere europeo. I manifestanti si sono radunati in presidio alla Gare du Nord (la stazione ferroviaria); sin dalla mattina gruppi di agricoltori hanno provato a sfondare cordoni delle forze di polizia, che hanno fatto ricorso agli idranti; attorno alle 12:30, i manifestanti si sono mossi in corteo in direzione del quartiere europeo. Un folto gruppo si è fermato a Piazza Lussemburgo, piazza centrale nel quartiere, dove ha stabilito una sorta di centro di raduno permanente: qui i presenti hanno incendiato copertoni, danneggiato vetrine e ingaggiato scontri con la polizia provando ad avvicinarsi ai palazzi europei. I manifestanti hanno lanciato pietre, petardi e patate alla polizia che ha risposto con i gas lacrimogeni. Dopo ore di presidio, la polizia è entrata in piazza caricando i manifestanti.

La protesta di oggi è stata una delle maggiori manifestazioni di categorie degli ultimi anni. Gli agricoltori e gli allevatori contestano i tagli alla politica agricola comune previsti nel nuovo bilancio UE (stimati al 20%/25%), il suo programmato accorpamento con i fondi di coesione, i vincoli burocratici giudicati eccessivi e l’accordo con il blocco Mercosur. Quest’ultimo prevedrebbe una drastica riduzione dei dazi reciproci per diverse categorie di prodotti, tra cui proprio quelli del settore agricolo: secondo gli agricoltori l’accordo non contiene abbastanza tutele per i lavoratori del settore europeo, e finirebbe per avvantaggiare i prodotti esteri – soggetti a norme e controlli meno rigidi – sul mercato. Gli agricoltori chiedono maggiori finanziamenti al settore agricolo, una revisione degli accordi commerciali in vigore con gli altri Paesi e una riduzione delle importazioni dall’Ucraina, e deroghe alle norme ambientali; per quanto riguarda l’accordo con il blocco Mercosur, gli agricoltori chiedono maggiori tutele al settore con l’istituzione di meccanismi di salvaguardia in caso il mercato finisca per favorire i prodotti sudamericani, e l’istituzione di un meccanismo di reciprocità che permetta di importare solo i beni che seguono le medesime norme che si seguono in Europa.

La manifestazione di Copa-Cogeca non è l’unica che ha interessato l’Europa e le istituzioni europee nell’ultimo periodo. Ieri, gli agricoltori della Via Campesina, movimento dal basso che punta a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità e sovranità alimentare, hanno organizzato una protesta presso l’aeroporto di Liegi per analoghi motivi. Gli agricoltori della Via Campesina, contrariamente alle corporazioni come Copa-Cogeca o l’italiana Coldiretti, chiedono uno stop alle deregolamentazioni dei meccanismi che regolano i mercati agricoli e gli standard di qualità, tracciabilità e sostenibilità, ritenendo che lo smantellamento di questo sistema sia un pretesto per promuovere nuovi accordi di libero scambio. Piuttosto che una riduzione dei vincoli, chiedono norme per regolamentare il mercato e maggiori sussidi e investimenti per i piccoli e medi imprenditori.

“Prepara la pace”: 500 organizzazioni lanciano la mobilitazione contro il riarmo

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Una vasta coalizione composta da 500 organizzazioni sociali, sindacali e politiche si unisce per opporsi alla «deriva bellicista» dell’Unione Europea e ai suoi piani di riarmo. La campagna «Stop ReArm Europe – Italia» tiene oggi, giovedì 18 dicembre, un’assemblea online dal titolo emblematico “Se vuoi la Pace, prepara la Pace“, prima tappa di un percorso che culminerà in un’assemblea nazionale a Bologna i prossimi 24 e 25 gennaio. Finalità dei promotori – tra cui Sbilanciamoci, Rete Italiana Pace e Disarmo, Greenpeace e Arci – è creare una convergenza per fermare quella che definiscono una pericolosa spirale di militarizzazione, che sottrae risorse allo stato sociale e minaccia la pace stessa. Al centro della protesta c’è il piano europeo “Rearm Europe” (ribattezzato “Readiness 2030”), che prevede di mobilitare circa 800 miliardi di euro per gli armamenti.

L’assemblea odierna, in partenza alle ore 17, sarà articolata in sessioni tematiche, affrontando i diversi fronti della militarizzazione. Si parlerà del conflitto in Ucraina, del piano di riarmo europeo, della militarizzazione dei territori e delle produzioni, con interventi di rappresentanti di Acli, Movimento 5 Stelle, Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, Fiom Cgil e comitati locali come quelli di Colleferro e i No Tav. Una sezione specifica sarà dedicata alla «militarizzazione del sapere», con la partecipazione di Rete Studenti Medi e Unione degli Universitari, nell’ambito della quale nascerà un gruppo di lavoro permanente sui giovani e le scuole.

La preoccupazione dei promotori è che l’Europa, avviluppata nel conflitto ucraino e nonostante i massacri ai danni dei palestinesi a Gaza, abbia puntato esclusivamente sulla logica militare. «Non c’è tempo da perdere: convergiamo per fermare guerra, riarmo, genocidio, autoritarismo», ha dichiarato Raffaella Bollini di Arci nazionale, spiegando che l’iniziativa si inserisce in un autunno di forte mobilitazione. «Lo diciamo dall’inizio: la guerra non è ineluttabile», ha aggiunto.

Il cuore della contestazione è il piano “ReArm Europe”, oggi “Readiness 2030”, che la Commissione Europea intende finanziare attivando flessibilità fiscali e un nuovo strumento di prestiti (SAFE). Secondo le organizzazioni promotrici, si tratta di una scelta miope e pericolosa. «Ci opponiamo al piano dell’UE di spendere 800 miliardi di euro in armi. Saranno 800 miliardi rubati. Rubati alle spese sociali, alla salute, all’educazione, al lavoro, alla costruzione della pace, alla cooperazione internazionale, alla transizione giusta e alla giustizia climatica», si legge nella piattaforma dedicata all’iniziativa.

La campagna sostiene che questi fondi andranno a beneficio esclusivo dei produttori di armi, renderanno la guerra più probabile e genereranno «più debito, più austerità, più frontiere», approfondendo il razzismo e alimentando la crisi climatica. Al contrario, la mobilitazione chiede un cambio di paradigma verso una «sicurezza reale, sociale, ecologica e comune». La petizione lanciata a livello europeo invita i parlamentari a fermare l’aumento dei bilanci militari e a dirottare le risorse verso welfare, sanità, educazione e giustizia climatica.

Il network di organizzazioni coinvolte sta costruendo collegamenti con movimenti analoghi in altri Paesi europei, dove la protesta sta crescendo. «Già in Germania c’è stata una poderosa manifestazione contro la reintroduzione della leva e sciopereranno di nuovo il 5 marzo», ricorda Bollini, evidenziando la dimensione transnazionale della resistenza al riarmo. L’appuntamento di Bologna di fine gennaio si prospetta quindi come il primo grande momento di convergenza nazionale di questa ampia e composita opposizione civile, che punta tutto su una strategia di costruzione della pace dal basso, contrapponendosi frontalmente e senza esitazioni alla logica degli investimenti militari.

Nel frattempo, però, in Commissione Europea tira tutt’altra aria. Secondo la presidente dell’organo, Ursula von der Leyen, l’Europa deve infatti prepararsi alla guerra ibrida e deve farlo in fretta. «L’Europa deve essere responsabile per la propria sicurezza: non è più un’opzione, ma un dovere – ha detto di fronte ai parlamentari europei -. Conosciamo le minacce che dobbiamo affrontare e le affronteremo. Dobbiamo sviluppare e dispiegare nuove capacità per poter combattere una guerra ibrida moderna». La minaccia è sempre la stessa: la Russia. L’unico modo per difendersi da un ipotetico attacco: più armi, più investimenti nella difesa. I famosi 800 miliardi del piano “Rearm”.

Accordo India-Oman: zero dazi su quasi tutti i beni

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India e Oman hanno firmato un accordo di partenariato economico per rilanciare il commercio bilaterale e gli investimenti, fronteggiando al contempo le tariffe statunitensi. L’Oman ha offerto all’India l’accesso a zero dazi su quasi tutti i prodotti in entrata, tra cui gemme, gioielli, prodotti tessili, farmaceutici e automobili. L’India taglierà a sua volta le tariffe su circa l’80% delle categorie di prodotti, in una mossa che interesserà il 95% dei beni provenienti dall’Oman. L’accordo è il primo patto commerciale dell’Oman dal 2006 e rafforza i rapporti tra l’India e il Golfo Persico.

Assange denuncia la Fondazione Nobel: da simbolo di pace a strumento di guerra

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Il Premio Nobel per la Pace non è più un simbolo di riconciliazione, ma una leva di potere. A sostenerlo è Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, che ha denunciato la Fondazione Nobel accusandola di aver trasformato uno dei riconoscimenti più prestigiosi al mondo in uno strumento di legittimazione geopolitica. Secondo Assange il fatto che il premio nell’ultima edizione sia stato assegnato a María Corina Machado – ritenuta responsabile di aver incoraggiato l’escalation militare degli Stati Uniti contro il Venezuela – significa che il Nobel non celebra più la fine delle guerre, ma ne diventa uno strumento di legittimazione.

«Il fondo di dotazione per la pace di Alfred Nobel non può essere speso per promuovere la guerra. Né può essere utilizzato come strumento per un intervento militare straniero. Il Venezuela, qualunque sia lo status del suo sistema politico, non fa eccezione», scrive infatti nella denuncia evidenziando che il testamento di Nobel, vincolante per la legge svedese, «stabilisce chiaramente che ogni anno il denaro del premio per la pace sarà assegnato alla persona che durante l’anno precedente “ha apportato il massimo beneficio all’umanità” svolgendo “il maggior o il migliore lavoro per la fratellanza tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti e per l’organizzazione e la promozione di congressi per la pace”». E quindi, siccome «qualsiasi esborso in contrasto con questo mandato costituisce un’appropriazione indebita del fondo di dotazione, il trasferimento in sospeso di 11 milioni di corone svedesi (circa 1 milione di euro) e l’attuale consegna, il 10 dicembre 2025, della medaglia del premio a María Corina Machado, in violazione di questa restrizione all’erogazione, sembrano costituire atti di grave criminalità».

Secondo l’esposto: «Esistono numerose dichiarazioni pubbliche, accessibili ai sospettati, che dimostrano che il governo degli Stati Uniti e María Corina Machado hanno sfruttato l’autorità del premio per fornire loro un casus moralis per la guerra con l’obiettivo di insediarla con la forza al fine di saccheggiare 1,7 trilioni di dollari in petrolio venezuelano e altre risorse». E, per Assange, non si può prescindere «dall’enorme accumulo di forze militari statunitensi al largo delle coste del Venezuela, iniziato ad agosto e che ora conta oltre 15mila effettivi, e ha già commesso innegabili crimini di guerra, tra cui l’attacco letale a imbarcazioni civili e sopravvissuti in mare, che ha ucciso almeno 95 persone». A sostegno della tesi riporta anche la dichiarazione dell’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, che ha definito gli attacchi statunitensi contro imbarcazioni civili come «esecuzioni extragiudiziali».

L’accusa di Assange ha lo scopo di bloccare immediatamente i fondi rimanenti e di avviare un’indagine penale, in un quadro condiviso da 21 organizzazioni pacifiste norvegesi che avevano boicottato la cerimonia di assegnazione. La denuncia penale, rivolta a 30 persone legate alla Fondazione Nobel, inclusi i vertici come la presidentessa Astrid Söderbergh Widding e la direttrice esecutiva Hanna Stjärne, è stata depositata presso le autorità svedesi competenti, in particolare l’Autorità Svedese per i Reati Economici e l’Unità Svedese per i Crimini di Guerra, con richieste che includono il congelamento dei fondi del Premio Nobel per la Pace assegnato a Machado e un’indagine penale completa sui dirigenti coinvolti.

UE: sanzionate 41 presunte navi russe

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L’Unione Europea ha imposto nuove sanzioni alle navi che farebbero parte della cosiddetta “flotta ombra” russa, la flotta di navi che Mosca utilizzerebbe per eludere le sanzioni europee sugli idrocarburi. Le nuove sanzioni colpiranno 41 navi, che vanno ad aggiungersi alle oltre 500 già designate. Sarà loro vietato l’ingresso nei porti UE e l’accesso ai servizi legati di trasporto marittimo. Finora l’UE ha imposto 19 pacchetti di sanzioni contro la Russia, coinvolgendo tra gli altri proprio il settore petrolifero.

Torino, Askatasuna sotto sgombero: militarizzato il quartiere, chiuse le scuole

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Foto di Valeria Casolaro

TORINO – All’Askatasuna è in corso lo sgombero. O almeno, così scrive il ministro dell’Interno Piantedosi su Instagram. Dagli agenti presenti sul posto, per ora, arrivano solo no comment: “saprete poi dal comunicato stampa”. Intanto, una ventina di camionette sono schierate tutto intorno al perimetro del centro sociale, oltre ad almeno tre camion-idranti. Un cordone di agenti antisommossa blocca l’accesso all’edificio dalle prime ore di questa mattina. Ufficialmente, sono entrati per effettuare una perquisizione. Ufficiosamente, l’intenzione è evidentemente quella di sgomberare. Nel frattempo, la circolazione nel quartiere è stata bloccata e le scuole sono state chiuse.

L’operazione è iniziata nelle prime ore di questa mattina. Decine di agenti di polizia, carabinieri e guardia di finanza si sono presentati al centro sociale, ufficialmente per una perquisizione. “Hanno chiuso per tre giorni anche le due scuole adiacenti all’edificio, ma alle famiglie lo hanno detto solamente stamattina alle 7.30, mentre portavano i bambini a scuola” riferisce a L’Indipendente un militante del centro sociale. I residenti ci descrivono una situazione “mai vista” nel quartiere. Il dispiegamento di polizia e forze di sicurezza non è evidentemente giustificato da quanto accade all’esterno dell’edificio, dove i presenti non arrivano al centinaio di persone. Qualcuno ha in mano un megafono, qualcuno prepara degli striscioni, altri distribuiscono caffè, mentre tutti aspettano che arrivi qualche informazione. “Guarda qui, stanno distruggendo tutto” mi dice un ragazzo, mostrandomi una foto che dovrebbe essere di uno dei lavandini dei bagni interni, completamente spaccato. Dentro, mi dicono altri, stanno iniziando a murare gli accessi e a chiudere l’acqua, segno che lo sgombero è a tutti gli effetti in corso.

Il sindaco di Torino Stefano Lo Russo ha fatto sapere questa mattina che il patto tra Comune e Askatasuna – che prevedeva la trasformazione graduale del centro sociale in bene comune attraverso lavori di riqualificazione, in cambio della possibilità di continuare le attività ed evitare lo sgombero – è definitivamente saltato. Ufficialmente, perché durante le perquisizioni di oggi sono state trovate sei persone che dormivano all’interno, in “violazione delle prescrizioni relative all’interdizione all’accesso ai locali di corso Regina 47”. Tuttavia, spiega a L’Indipendente Martina dell’Askatasuna, che vi sia effettivamente una violazione è tutto da verificare. “Probabilmente è vero che c’erano persone all’interno, ma le condizioni del patto prevedono la guardiania al piano terra, quindi il fatto che la loro eventuale presenza fosse illecita è tutto da dimostrare”.

Dal cosiddetto “assalto” a La Stampa avvenuto lo scorso 28 novembre, le opposizioni hanno fatto pressing continuo sul sindaco affinché si decidesse a ordinare lo sgombero. L’azione non violenta era avvenuta nell’ambito dello sciopero nazionale indetto contro il riarmo e per la Palestina: decine di persone si erano staccate dal corteo di Torino per avvicinarsi alla sede del quotidiano La Stampa e lanciare letame contro i muri. Qualcuno era poi entrato nella redazione (vuota, perchè era in corso anche lo sciopero dei giornalisti), lanciato qualche foglio in terra e lasciato scritte poco lusinghiere sui muri. L’intero sistema di informazione mainstream ha fatto muro compatto con il quotidiano contro quella che molti hanno definito una “azione squadrista” e in città poco ci è voluto prima che il dito venisse puntato proprio contro l’Askatasuna. Fino ad ora, però, il sindaco si era rifiutato di procedere, dichiarando di non avere motivo per farlo. “Proceda o si dimetta” aveva tuonato Fratelli d’Italia. Ma nel calderone delle accuse contro il centro sociale ci erano finite un po’ tutte le proteste degli ultimi mesi, dal blocco dei binari del treno alle azioni contro Leonardo spa alla protesta alle Officine Grandi Riparazioni in occasione della visita a Torino di Jeff Bezos. Per i militanti del centro sociale, mi spiega Martina, è ipotizzabile che il sindaco abbia subito pressioni direttamente dal governo, fattore che “avrebbe spianato la strada alla perquisizione di oggi”.

“Per noi, c’è una volontà del governo di reprimere il movimento per la Palestina – continua – l’azione di oggi si inserisce in un più ampio attacco del governo in questo senso, si colpisce Askatasuna cercando di distruggere la possibilità di un percorso di bene comune. Bisognerà ora vedere che posizione prenderanno il Comune e il sindaco: se questa rimane su un piano puramente tecnico e non si esprime da un punto di vista politico, allora per noi equivale a uno schierarsi con il governo Meloni“. Governo che “agisce in questo modo perché movimento per la Palestina ha effettivamente creato timore rispetto a quello che la popolazione vuole e può fare quando ha capito di poter contare”. Con la chiusura di Askatasuna, “si attacca l’idea non solo di uno spazio, ma di un progetto, di un mondo e una città diversa. Chi abbia a cuore questi temi si schiererà dalla parte di chi lotta. Per questo, la risposta deve essere trasversale, a livello cittadino e non solo”.

“Domenica scorsa eravamo qui ad addobbare i giardini per Natale con i bambini e l’Askatasuna, domani avrebbe dovuto esserci un pranzo natalizio condiviso anche per le famiglie” ha dichiarato una mamma del Comitato del quartiere Vanchiglia, presente al presidio di stamattina. “Siamo una comunità, l’Aska è casa nostra, è casa di tutto il quartiere e continuerà ad esserlo perchè non molliamo. La cosa importante sono le relazioni che abbiamo costruito, insieme. Il pranzo di domani si farà lo stesso, anche se non sarà all’interno”. L’Askatasuna è infatti un punto di riferimento per le lotte sociali cittadine da ormai trent’anni. L’attivismo sul territorio nell’ambito di varie realtà, dal movimento per la Palestina alla lotta No TAV, passando per la liberazione dell’imam Mohamed Shahin e altre questioni territoriali, insieme alla presenza radicata sul territorio, ne hanno ripetutamente fatto un obiettivo di perquisizioni, sgomberi e repressione da parte delle autorità. L’ultimo atto degno di nota si è concluso questa primavera, quando i 16 attivisti del centro imputati per il reato di associazione a delinquere per varie azioni di protesta avvenute nel contesto torinese della Val di Susa, sono stati assolti per non sussistenza dei fatti. Il portavoce del centro sociale lo dice chiaramente: “la volontà è quella di criminalizzare il dissenso e tutto il movimento per la Palestina”.

A fare l’annuncio ufficiale ci ha pensato il ministro dell’Interno su Instagram, di certo un canale di comunicazione istituzionale non usuale. “Sgomberato il centro sociale Askatasuna di Torino. Dallo Stato un segnale chiaro: non ci deve essere spazio per la violenza nel nostro Paese”. Una violenza che, al momento, è oggetto di discussione su social media e nei salotti, della quale la giustizia ancora deve dimostrare l’esistenza e le eventuali responsabilità.  Nel frattempo, messaggi di solidarietà sono arrivati da svariati contesti di lotta e resistenza del contesto nazionale. Dall’ex OPG occupato Je So Pazz (Napoli) al Collettivo di fabbrica GKN (Firenze) al Quarticciolo Ribelle (Roma), in molti hanno criticato l’operazione di polizia: “giù le mani dall’Aska” è il grido corale che si è sollevato.

Fa freddo su corso Regina, davanti al civico 47. Nemmeno il sole che è uscito negli ultimi minuti riscalda l’inverno torinese. Il presidio, però, è sempre più numeroso: sono stati allestiti tavoli, qualcuno ha portato cibo da condividere, è stato montato un gazebo. Su un lato è stato appeso uno striscione, una scritta in rosso: “Giù le mani dall’Askatasuna”. Per questo pomeriggio alle 18 è prevista poi un corteo di solidarietà, che partirà proprio da qui. È la protesta pacifica di un quartiere che, ancora una volta, vuole far sentire la sua presenza e manda un messaggio chiaro: “noi non ci pieghiamo”.

Cipro diventerà il primo paese europeo a comprare gas da Israele

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L’isola di Cipro, un tempo nota solo per le spiagge e per il conflitto congelato dai tempi della guerra fredda, sta assumendo oggi un ruolo chiave nel Mediterraneo orientale. Il governo riconosciuto a livello internazionale, quello della metà greco-cipriota dell’isola, si sta consolidando come hub diplomatico-energetico regionale grazie alla vicinanza con Libano, Israele e Palestina. Il presidente cipriota Nikos Christodoulides ha siglato pochi giorni fa a Beirut uno storico accordo con il Libano sulla delimitazione della Zona Economica Esclusiva (ZEE). L’accordo, definito dal presidente «un traguardo di importanza strategica», mette fine a vent’anni di negoziati e apre la strada a progetti di cooperazione energetica, inclusa la possibile interconnessione elettrica tra i due Paesi. Ma a questo si aggiunge anche il recente accordo che l’isola ha siglato con Israele, che rifornirà Cipro di gas naturale.

La questione del gas, che coinvolge anche l’ENI e prosegue da oltre un quarto di secolo, è tornata al centro dell’attenzione a causa delle tensioni regionali e delle iniziative promosse dagli Stati Uniti per rompere l’isolamento relativo di Israele. In questo contesto, due accordi assumono un ruolo chiave: quello già citato tra Cipro e Libano e un altro, quello tra Cipro e Israele. Non è un caso che l’accordo sulla ZEE con Beirut arrivi ora: parallelamente al negoziato ventennale con il Libano, Cipro ha gettato le basi per l’accordo con Israele attraverso il gasdotto di Energean, un progetto destinato a collegare giacimenti già operativi come Karish e Karish North. Questi due elementi renderebbero possibile una “triangolazione” per evitare di accendere tensioni tra Israele e Libano, in un momento delicato come quello attuale. Anche se, va detto, nel 2022 Beirut e Tel Aviv avevano siglato un’intesa mediata dagli USA che definiva le rispettive zone marittime e la ripartizione dei giacimenti, sebbene Israele avesse ottenuto condizioni più favorevoli.

Il progetto del gasdotto di Energean rappresenta oggi l’opzione più rapida e concreta per fornire gas naturale all’isola, dice il CEO, Mathios Rigas, alla stampa cipriota: l’infrastruttura potrebbe essere completata entro 12 mesi dal rilascio delle licenze governative necessarie, con un costo stimato tra 350 e 400 milioni di dollari. Il progetto è interamente privato, potenzialmente finanziato da Energean stessa, con possibilità di coinvolgere partner in futuro.

In un contesto geopolitico complesso come questo, l’incognita principale rimane la Turchia: Ankara e il governo della Repubblica turco-cipriota non hanno un ruolo nei progetti siglati dalla Nicosia greco-cipriota e hanno sottolineato come le due iniziative unilaterali rappresentino una violazione degli accordi tra le due comunità, garantiti dall’ONU. Per dirla in breve: cosa tornerebbe ai turco-ciprioti dell’iniziativa del presidente del sud, Nikos Christodoulides? La repubblica secessionista considera sotto la sua giurisdizione gran parte della ZEE della Repubblica di Cipro. E questo è tutt’altro che un problema da poco.

Gli USA non sono rimasti a guardare e, per evitare un’escalation improvvisa, hanno aperto un negoziato con la Turchia, sperando di trovare anche una combinazione per affrontare la divisione dell’isola che perdura da oltre 50 anni. Gli incentivi europei non hanno convinto Erdoğan e, se le voci di collegare il ritiro delle truppe turche dall’isola ad accordi energetici fossero fondate, il compromesso sarebbe complesso: le linee tracciate dalla Turchia su sovranità, diritti territoriali e diritto internazionale non sono negoziabili per i greco-ciprioti, ma Ankara non vuole correre il rischio di essere esclusa dai progetti energetici del Mediterraneo orientale.

Per ora, l’accordo in vista tra Nicosia (sud) e Tel Aviv sul gasdotto viene denunciato dai turchi come una violazione, collegata alla crescente presenza di cittadini israeliani a Cipro. Intanto, Energean ha firmato una lettera di intenti con il gruppo industriale ed energetico cipriota Cyfield, per fornire gas alla futura centrale elettrica del gruppo. Il gasdotto avrebbe una capacità di 1 miliardo di metri cubi all’anno, sufficiente a coprire il fabbisogno della centrale e a fornire ulteriori volumi al mercato cipriota. Rigas ha sottolineato che il progetto è immediatamente realizzabile, basandosi su giacimenti già operativi in Israele, Karish e Karish North, attivi da oltre tre anni e che coprono circa il 50% della domanda israeliana. Dal 2027, la produzione aumenterà ulteriormente grazie al nuovo giacimento Katlan.

La proposta non sostituisce ma integra la strategia energetica di Cipro: terminale di Vasilikos, progetto FSRU e sviluppo dei giacimenti ciprioti sono tutti elementi necessari per trasformare l’isola in un hub energetico regionale, come vorrebbe il suo governo in carica. In questo modo, Cipro diventerebbe il primo Stato dell’UE a importare gas israeliano tramite gasdotto, all’interno di un piano sostenuto dagli USA volto a rafforzare l’asse Cipro–Grecia–Israele e la cooperazione strategica “3+1”. Lasciando in sospeso, tuttavia , mille questioni politiche e giuridiche,

Taiwan, armi dagli USA per 11 miliardi di dollari

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L’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha autorizzato una nuova vendita di armi a Taiwan per un valore complessivo di 11 miliardi di dollari, la seconda dall’inizio del suo secondo mandato. Il pacchetto, annunciato da Taipei, include sistemi missilistici Himars, obici semoventi, missili Atacms, armi anticarro, droni, software militari e componenti per elicotteri e missili Harpoon. Si tratta di un salto di scala rispetto al primo lotto da 330 milioni di dollari approvato a novembre. La Cina ha reagito duramente, chiedendo agli Stati Uniti di interrompere l’armamento di Taiwan.