mercoledì 17 Dicembre 2025
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Volkswagen chiude una fabbrica in Germania: è la prima volta in 88 anni

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La data del 16 dicembre 2025 ha segnato un momento storico per la Volkswagen e per la Germania. Nel pomeriggio di ieri, infatti, i cancelli della Gläserne Manufaktur di Dresda si sono chiusi definitivamente, sancendo la fine della produzione automobilistica all’interno dello stabilimento. Si tratta della prima chiusura di una fabbrica del gruppo Volkswagen in territorio tedesco negli ultimi 88 anni, un evento emblematico che riflette le profonde trasformazioni e le difficoltà del settore. L’impianto, inaugurato nel 2001 come fiore all’occhiello tecnologico e architettonico voluto da Ferdinand Piëch, cessa così la sua attività dopo aver assemblato l’ultima ID.3, lasciando un’eredità complessa fatta di ambizioni, innovazione e, infine, contrazione della domanda.

La decisione, maturata nel quadro di un accordo siglato con i sindacati un anno fa, giunge in un momento di forti pressioni per il colosso di Wolfsburg. Pur restando il più grande costruttore europeo, l’azienda deve infatti affrontare la debolezza delle vendite nel Vecchio Continente, l’aggressiva concorrenza dei veicoli elettrici cinesi e l’incertezza legata ai dazi commerciali negli Stati Uniti. La chiusura dello stabilimento di Dresda, che aveva una capacità produttiva limitata, è stata una scelta considerata obbligata dal punto di vista economico. Il responsabile del marchio VW, Thomas Schafer, ha spiegato infatti che la decisione non è stata presa «alla leggera», ma che «da una prospettiva economica era essenziale».

Concepita e nata per diventare la vetrina della supremazia ingegneristica del gruppo, la “fabbrica di vetro” fu inizialmente dedicata alla produzione della lussuosa berlina Phaeton, sogno personale di Piëch che però non incontrò il successo commerciale sperato. Dopo la fine di quel modello nel 2016, lo stabilimento si riconvertì a simbolo della svolta elettrica, diventando nel 2017 il primo sito in Germania dedicato esclusivamente alla mobilità a batteria, con l’assemblaggio prima della e-Golf e poi della ID.3. In totale, dalla sua apertura nel 2002, l’impianto ha prodotto circa 200mila veicoli, cifra assai modesta se paragonata ai volumi degli altri siti del gruppo.

Per i circa 230 dipendenti coinvolti, Volkswagen ha predisposto un piano di ricollocamento in altri stabilimenti del gruppo, accompagnato da un incentivo economico di 30mila euro per chi accetterà il trasferimento. La chiusura della linea di produzione a Dresda rientra in un più ampio piano di riassetto che porterà, nei prossimi anni, a una riduzione di circa 35mila posti di lavoro in Germania attraverso il pensionamento naturale e un blocco delle assunzioni. La Volkswagen non abbandonerà completamente l’iconico sito, la cui area – in collaborazione con il Land della Sassonia e l’Università Tecnica di Dresda – sarà trasformata in un polo di innovazione tecnologica. Presto saranno infatti avviati lavori di ristrutturazione al fine di realizzare un centro di ricerca focalizzato su intelligenza artificiale, robotica e microelettronica. Il progetto, della durata di sette anni, vedrà un investimento complessivo di 50 milioni di euro. L’ultima ID.3 prodotta, una vettura di colore rosso, rimarrà esposta all’interno della struttura come testimonianza del passato industriale del luogo.

Già alla fine del 2024, il comitato aziendale del colosso automobilistico aveva confermato l’intenzione di chiudere tre stabilimenti Volkswagen in Germania, annunciando la previsione di forti ridimensionamenti su larga scala. La decisione era stata motivata dagli elevati costi dell’energia e della manodopera, dalla forte concorrenza asiatica, dall’indebolimento della domanda in Europa e Cina e da una transizione elettrica che si è rivelata più lenta del previsto. In seguito al fallimento delle trattative sui salari e all’intenzione di licenziare migliaia di lavoratori, in Germania era subito stato avviato lo sciopero dei dipendenti della Volkswagen, indetto dal sindacato dei metalmeccanici tedeschi IG Metall. La crisi di VW e, più in generale, dell’industria dell’auto in Europa, va inserita nel contesto più ampio del declino dell’industria europea, dovuta a politiche poco lungimiranti dell’UE, in particolare per quanto attiene la cosiddetta transizione energetica, e all’interruzione dei rapporti commerciali e energetici con la Russia, in seguito allo scoppio del conflitto in Ucraina. In particolare, la Germania, che importava la metà del suo fabbisogno energetico da Mosca, è stata la Nazione che più ha risentito della perdita del gas russo a basso costo, sostituito dal ben più caro GNL americano.

Trump congela l’accordo tech da 40 miliardi con Londra per ottenere condizioni più favorevoli

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Gli Stati Uniti hanno deciso di sospendere unilateralmente un patto transatlantico tecnologico e multimiliardario con il Regno Unito. Secondo fonti diplomatiche, la battuta d’arresto sarebbe motivata dall’insoddisfazione dell’amministrazione Trump rispetto alle normative britanniche in materia digitale e alimentare. La mossa non solo segna un raffreddamento significativo nei rapporti bilaterali, ma è stata anche interpretata come un tentativo concreto di esercitare pressione sugli alleati per influenzarne le scelte politiche e amministrative.

Il “Tech Prosperity Deal”, annunciato lo scorso settembre e oggi già in stallo, prevedeva un pacchetto da circa 40 miliardi di dollari destinato a settori strategici quali l’intelligenza artificiale, il calcolo quantistico e l’energia nucleare. Presentato come pilastro della cooperazione economica post‑Brexit, l’accordo mirava esplicitamente a rafforzare gli investimenti congiunti tra UK e USA e avrebbe dovuto tradursi per il governo britannico guidato da Keir Starmer una svolta decisiva, attraendo capitali statunitensi per creare posti di lavoro altamente qualificati e consolidare il ruolo del Regno Unito come hub tecnologico globale.

Ufficialmente, i negoziati diplomatici si sono arenati a causa dell’insoddisfazione di Washington in proposito di questioni politiche e commerciali che vanno ben oltre allo scoglio rappresentato da dazi e tariffe. Secondo quanto riportato dal The New York Times, l’amministrazione Trump ha deciso di sospendere temporaneamente l’accordo in attesa di “progressi concreti” da parte britannica su temi ritenuti prioritari per gli Stati Uniti. Al centro delle tensioni figurano in particolare la Digital Services Tax introdotta dal Regno Unito, la quale colpisce i grandi gruppi tecnologici statunitensi, e le normative britanniche in materia di sicurezza alimentare e standard regolatori, giudicate dagli USA eccessivamente restrittive e penalizzanti per gli esportatori americani. La Casa Bianca ha fatto sapere di considerare queste misure come ostacoli significativi a un reale accesso al mercato britannico e ha chiesto a Londra un allineamento più deciso alle sue richieste. 

Il governo britannico sostiene che il Tech Prosperity Deal non sia affatto morto e che il dialogo con gli Stati Uniti resti aperto, tuttavia rifiuta di smantellare o indebolire norme ritenute essenziali per la tutela dei consumatori e per la sovranità regolatoria del Paese, sottolineando come l’accordo tecnologico non possa essere subordinato a concessioni che avrebbero un forte impatto politico interno. Questa divergenza ha trasformato un progetto di cooperazione strategica in un terreno di scontro diplomatico, mettendo in luce le difficoltà strutturali nel conciliare interessi economici, pressioni politiche e visioni divergenti sul commercio globale. La situazione è inoltre complicata dall’assenza di un ambasciatore permanente a Washington, una mancanza che il governo guidato da Keir Starmer sta cercando di colmare con urgenza.

La vicenda si inserisce in un contesto internazionale più ampio, segnato da un irrigidimento della politica commerciale statunitense non solo verso il Regno Unito ma anche nei confronti dell’intera Unione Europea. In concomitanza con la sospensione del Tech Prosperity Deal e con le sanzioni imposte dalla Commissione europea a X, l’Amministrazione Trump ha intensificato le critiche alle normative europee sul digitale e ha minacciato misure contro diverse grandi aziende europee, citando per nome realtà quali Accenture, DHL, Siemens e Spotify.  “Se l’UE e gli Stati Membri insisteranno nel continuare a soffocare, limitare e scoraggiare con mezzi discriminatori la competitività dei fornitori di servizi statunitensi, gli Stati Uniti non avranno altra scelta che iniziare a utilizzare ogni strumento a loro disposizione per contrastare queste misure irragionevoli”, sostiene Jamieson Greer, Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America. Poco sorprendentemente, la reazione ventilata prevede l’imposizione di nuovi dazi e di restrizioni alle imprese europee.

Nigeria assalto a una chiesa: rapite 13 persone

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Un gruppo armato ha lanciato un attacco all’interno di una chiesta nello Stato di Kogi, situato nella Nigeria centrale, rapendo almeno 13 fedeli. L’assalto è avvenuto domenica, ma è stato reso noto oggi da fonti locali; il gruppo ha avviato una sparatoria con un gruppo di cacciatori del posto impegnati nella sicurezza dell’area; da quanto comunicano le medesime fonti, quattro membri della banda armata sono morti e altri dieci sono rimasti feriti, per poi fuggire dalla zona. Quello di questo fine settimana è solo l’ultimo attacco che si verifica nelle aree della Nigeria centrale, presa di mira da uomini armati che effettuano rapimenti in scuole e villaggi della regione.

Chi è la nostra corrispondente che rischia ogni giorno per raccontare la Palestina

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I grandi media italiani, anche quando provano a raccontare ciò che accade nella Palestina occupata, scrivono osservando la realtà attraverso il monitor di un computer. Il risultato è che quasi mai possiamo avere informazioni di prima mano, verificate sul campo. E mentre sui media, addomesticati da una tregua falsa che fa credere che non ci sia più niente da raccontare, si spengono i riflettori sulla Palestina, L’Indipendente, pur con mezzi molto inferiori ai grandi giornali, ha scelto di andare ancora una volta controcorrente e di cercare di fare vero giornalismo: da alcune settimane una nostra inviata si trova all’interno della Cisgiordania occupata. Si muove tra città e villaggi palestinesi – Tulkarem, Nablus, Jenin, Al-Khalil, Masafer Yatta – condividendo quotidianità, restrizioni e rischi con la popolazione e con i pochi volontari internazionali rimasti. I pericoli non vengono dai palestinesi, che l’hanno accolta, ma dai coloni e dai soldati israeliani: è entrata fingendosi turista perché “l’unica democrazia del Medio Oriente” non vuole giornalisti che documentino come si comporta, è spesso costretta a indossare il giubbotto antiproiettile perché nelle città palestinesi i raid dell’esercito di occupazione sono costanti e i soldati non si fanno remore a premere il grilletto. I suoi articoli sono firmati con uno pseudonimo, Moira Amargi: una precauzione obbligata perché, se la sua identità fosse pubblica, il rischio di arresto ed espulsione da parte delle autorità di Tel Aviv sarebbe concreto, come avviene nei peggiori regimi dittatoriali.

Grazie al suo lavoro i lettori de L’Indipendente hanno potuto apprendere una realtà che non trova spazio sui media, ottenendo racconti e immagini di prima mano che hanno testimoniato, ad esempio, la condizione dei 40.000 abitanti di Tulkarem a cui da mesi è impedito il ritorno a casa, i raid dell’esercito israeliano che assediano città come Tubas e Aqaba, le incursioni armate nei campi profughi dove interi isolati vengono rasi al suolo e i civili giustiziati sul posto. Attraverso i suoi reportage abbiamo visto la violenza dei coloni che incendiano una moschea, attaccano contadini e volontari internazionali, fino al pestaggio di tre volontari italiani; abbiamo ascoltato, dall’interno di Hebron, i festeggiamenti dei coloni che incitano all’uccisione degli arabi mettendo a nudo la realtà più brutale dell’apartheid; abbiamo compreso come persino la raccolta delle olive sia diventata un atto di resistenza quotidiana per chi vuole semplicemente vivere e lavorare la propria terra.

Questi racconti non arrivano da un ufficio stampa o da un’agenzia, ma dal confronto diretto con chi subisce occupazione, sfratti, arresti e violenze armate: voci che, senza una presenza giornalistica stabile in Palestina, resterebbero inascoltate. L’Indipendente è oggi l’unico media italiano ad avere una propria inviata che vive stabilmente all’interno della Cisgiordania occupata.

Si tratta di uno sforzo che comporta, come è facile intuire, anche costi economici ingenti per un media come L’Indipendente, che rifiuta ogni forma di inserzione pubblicitaria e non riceve fondi pubblici. Abbiamo scelto di rendere i reportage di Moira Amargi liberi per tutti i lettori, senza paywall, perché riteniamo sia doveroso fare in modo che informazioni di questo tipo possano girare il più possibile. Ma, se possiamo permetterci di raccontare quanto accade in Palestina avvalendoci non solo dei giornalisti in redazione ma anche di un inviato sul campo è grazie al sostegno dei nostri abbonati, che sono la nostra unica fonte di finanziamento. A tutti i lettori non abbonati va invece un piccolo appello: se consideri importante che questo tipo di giornalismo continui a esistere e possa rafforzarsi, l’abbonamento a L’Indipendente è lo strumento più concreto per renderlo possibile: è grazie a questo patto con i lettori che possiamo restare sul posto e continuare a raccontare, con onestà e rigore, ciò che altrove viene taciuto. Mentre chi è già abbonato, con il Natale che si avvicina, può pensare a un regalo utile: quello di una informazione verificata e senza padroni, anche dalla Palestina. 

India: convocato l’Alto Commissario del Bangladesh per sicurezza

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L’India ha convocato l’Alto Commissario del Bangladesh a Nuova Delhi per discutere di quello che ha definito un deterioramento della situazione della sicurezza in Bangladesh. La scelta segue un attentato a un attivista politico bengalese e arriva due giorni dopo che il Bangladesh aveva convocato l’Alto Commissario indiano a Dhaka accusando l’India di permettere alla deposta premier bengalese Sheikh Hasina di interferire con le prossime elezioni del Paese. Hasina è fuggita a Nuova Delhi dopo le proteste degli studenti dell’anno scorso, che hanno rovesciato il governo in carica e istituito un esecutivo ad interim. I rapporti tra Bangladesh e India si sono raffreddati dalla fuga di Hasina in India.

Europa: continua l’approvazione del Mercosur, i trattori rilanciano la protesta

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Mentre i trattori degli agricoltori, in arrivo da tutti i Paesi dell’Unione, convergono su Bruxelles in vista della manifestazione di giovedì 18 dicembre, a Strasburgo la Plenaria del Parlamento europeo ha dato il via libera con 431 voti a favore, 161 contrari e 70 astensioni alle clausole di salvaguardia proposte dalla Commissione per l’accordo commerciale di libero scambio tra UE e Mercosur (formato da Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay). Per le istituzioni comunitarie si tratta di un passaggio tecnico necessario per accompagnare l’intesa verso l’approvazione finale. In attesa del passaggio decisivo nei Consigli nazionali e delle ratifiche parlamentari, l’accordo rischia di acuire lo scontro tra Bruxelles e il settore agricolo, che rivendica un ruolo centrale nelle scelte strategiche dell’Unione.

Il voto a larga maggioranza dell’Europarlamento introduce un meccanismo di salvaguardia mirato per i prodotti agricoli sensibili compresi nell’accordo UE-Mercosur, confermando l’impostazione già adottata dalla Commissione Commercio internazionale e rafforzando gli strumenti previsti dal diritto commerciale europeo. Il testo modifica la proposta iniziale della Commissione europea, imponendo soglie più basse e tempi più rapidi per l’attivazione delle misure di protezione: Bruxelles sarà tenuta ad avviare un’indagine quando le importazioni di prodotti sensibili, come carne bovina e pollame, registrano un aumento del 5 per cento rispetto alla media triennale, anziché del 10 per cento su base annua come previsto in origine. Le verifiche dovranno concludersi entro tre mesi, ridotti a due per i settori più esposti.

Un altro capitolo centrale riguarda le clausole di reciprocità. Il trattato UE-Mercosur prevede l’abbattimento progressivo di oltre il 90 per cento dei dazi doganali, ma l’Unione ha inserito la possibilità di limitare i benefici tariffari per i prodotti che non rispettino standard equivalenti a quelli europei in materia sanitaria, ambientale e di benessere animale. Sul piano tecnico, ciò significa che Bruxelles potrà intervenire qualora vengano riscontrate violazioni su pesticidi vietati nell’UE, uso di antibiotici negli allevamenti o pratiche legate alla deforestazione. Resta, però, il nodo dell’applicazione concreta: i controlli dipendono dalla capacità ispettiva della Commissione e dalla cooperazione delle autorità dei Paesi Mercosur, un aspetto che alimenta lo scetticismo di parte del mondo agricolo e di alcuni governi nazionali. La clausola non è, infatti, bastata per ottenere l’approvazione del gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (ECR) – espressione di Fratelli d’Italia, che si è astenuto – e dei Patrioti per l’Europa, guidato dalla compagine del Rassemblement National francese e di cui fa parte anche la Lega.

È proprio questa distanza tra garanzie formali e timori reali che alimenta la protesta. Le organizzazioni agricole europee contestano un accordo che, a loro giudizio, scarica sull’agricoltura i costi dell’apertura commerciale. Secondo gli agricoltori europei, le misure di salvaguardia approvate non compensano la concorrenza sleale di produzioni ottenute con regole meno stringenti e costi inferiori. La critica è anche politica: mentre il Mercosur promette vantaggi per l’industria e l’export europeo, le campagne si sentono marginalizzate in un modello di libero scambio percepito come sbilanciato.

La grande manifestazione in programma a Bruxelles il 18 dicembre intende contestare anche le proposte di riforma della Politica Agricola Comune (PAC), la principale leva dell’Unione in ambito agricolo, chiamata a garantire sicurezza alimentare, redditi adeguati agli agricoltori e uno sviluppo sostenibile delle aree rurali. La mobilitazione è sostenuta da oltre 40 organizzazioni agricole dei 27 Stati membri, riunite nel Copa-Cogeca, e si prevede la partecipazione di circa 10.000 agricoltori e oltre 1.000 trattori, che sfileranno davanti all’Europarlamento, in concomitanza con l’ultimo Consiglio europeo dell’anno. Tra le delegazioni più numerose ci sarà quella italiana, con Confagricoltura. Tra le principali richieste c’è il mantenimento di una PAC forte e ben finanziata, senza i tagli di bilancio previsti dopo il 2027, una vera semplificazione amministrativa, meno burocrazia e regole commerciali più eque, con particolare riferimento agli accordi internazionali come il Mercosur. La protesta mira a inviare un messaggio chiaro alle istituzioni UE per una politica agricola che tuteli redditi, competitività e sicurezza alimentare nel lungo periodo. In gioco non c’è soltanto la ratifica di un trattato, ma il rapporto di fiducia tra le istituzioni comunitarie e uno dei settori fondanti del progetto europeo.

Olimpiadi Cortina: l’87% delle opere finanziate non c’entra niente con le gare

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Mancano ormai solo poche settimane all’accensione del braciere dei XXV Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali di Milano Cortina 2026. Mentre l’attenzione si concentra sulle gare e sugli atleti, un rapporto di monitoraggio promosso da Libera e altre organizzazioni civiche scatta una fotografia inquietante dello spaccato in atto. Nello specifico, si rileva come l’investimento per le opere ruoti attorno a 3,54 miliardi di euro, ma anche che, di questa cifra, solo una piccola frazione è direttamente legata allo svolgimento delle gare: appena il 13% della spesa complessiva finanzia infatti le opere essenziali per i Giochi. La parte preponderante, ben l’87%, è assorbita dalle infrastrutture di legacy, il lascito permanente per i territori. Un divario che si traduce in un rapporto emblematico: per ogni euro speso per le Olimpiadi, se ne destinano 6,6 alle opere di contorno.

Opere e costi

Come evidenziato dal rapporto, l’analisi degli aggiornamenti disponibili al 31 ottobre 2025 per le opere di competenza Simico S.p.A. restituisce questo quadro: «98 opere totali, per un investimento complessivo di 3.540.304.465 euro; 31 opere essenziali allo svolgimento dei Giochi; 67 opere legacy, ovvero infrastrutture permanenti destinate ai territori». In tale cornice, l’avanzamento dei lavori mostra importanti ritardi. Solo 42 opere su 98 vedranno infatti il termine dei cantieri prima del via dei Giochi. Il 57% degli interventi, infatti, sarà completato dopo la cerimonia di chiusura, con l’ultimo cantiere previsto addirittura nel 2033. Particolarmente critica è la situazione di 16 opere, tra cui 8 essenziali come il “Cortina Sliding Centre” e il villaggio olimpico di Cortina, classificate con la dicitura «fine ante-olimpiadi». L’assenza di metadati chiari, tuttavia, «non permette di sapere in quale stato reale si troveranno alla data di inaugurazione», si legge all’interno del report.

Analizzando le variazioni intervenute nei primi dieci mesi del 2025, si evidenzia un progressivo e sostanziale aumento dei costi. Il valore complessivo del Piano delle Opere è cresciuto di ben 157 milioni di euro, registrando un incremento del 4,6%. Le maggiori lievitazioni hanno interessato la Variante di Longarone (+43 milioni), la Circonvallazione di Perca (+31 milioni) e la Tangenziale sud di Sondrio (+13,3 milioni, +44,11%). Contestualmente, per il 73% delle opere la data di fine lavori è stata posticipata, con slittamenti che in alcuni casi arrivano a superare i tre anni. Resta però del tutto oscuro chi stia sostenendo questi oneri aggiuntivi, dal momento che il portale Open Milano Cortina «non riporta più le fonti di finanziamento».

I “non dati”

Oltre a ciò che i numeri rendono visibile, persiste un’ampia area di «non dati», informazioni cruciali rimaste inaccessibili. Tre sono i fronti di opacità. Il primo riguarda l’impatto ambientale, mancando completamente l’impronta di CO₂ per singola opera, fattore che impedisce una valutazione obiettiva della sostenibilità dell’evento. L’unica stima complessiva, fornita dalla Fondazione Milano Cortina, parla di circa 1.005.000 tonnellate di CO₂ equivalente per l’intero ciclo dei Giochi. Il secondo fronte opaco è rappresentato dalla trasparenza finanziaria, con l’assenza delle fonti di copertura degli aumenti di costo. Il terzo nodo su cui fa luce il rapporto concerne poi i subappalti. Infatti, sul portale ufficiale Open Milano Cortina sono visibili i nomi delle ditte (516 subappaltatrici e 101 aggiudicatarie), ma non i valori economici dei singoli affidamenti. «Mancano i CIG e gli importi, non è possibile incrociare i dati con la piattaforma ANAC né valutare la concentrazione del mercato», si spiega nel report.

Il portale di Simico S.p.A., tuttavia, è solo una parte di un mosaico molto più ampio e frammentato. La maggior parte dei «non dati» si annida infatti nelle responsabilità di altri soggetti chiave. In primis, nell’analisi ci si chiede quante siano realmente tutte le opere e quale sia il loro costo totale. Il portale ne elenca 98, ma ne esclude molte altre. Ad esempio, la sola Regione Lombardia, sulla sua piattaforma «Oltre i Giochi 2026», censisce ben 78 interventi per 5,17 miliardi di euro, di cui 44 opere per 3,82 miliardi non compaiono nel portale nazionale. Un’altra domanda aperta riguarda il reale costo di organizzazione e gestione dei Giochi, includendo anche sicurezza e sanità. Il «Budget Lifetime» dichiarato dalla Fondazione Milano Cortina ammonta a 1,7 miliardi di euro, ma il documento non è pubblico. Sul fronte sicurezza, una parte dei fondi (43 milioni) è stata sottratta al “Fondo per le vittime di mafia e usura”. Per la sanità, invece, non esiste un piano unitario e trasparente: «ogni Regione procede autonomamente», fa notare il report, senza una stima complessiva e pubblica delle risorse impiegate.

La terza grande incognita concerne il ruolo e la spesa del Commissario straordinario alle Paralimpiadi. Un decreto legge gli ha assegnato una cifra di 328 milioni di euro da spendere tra settembre e dicembre 2025. Confrontando tale quota con la stima iniziale dei costi paralimpici (71,5 milioni), si segnala un incremento del 359%. I poteri del Commissario sono ampi e interfacciano sia Simico S.p.A. che la Fondazione; eppure, i contorni del suo operato e la rendicontazione dettagliata delle spese non sono ancora di dominio pubblico.

Promesse tradite

Come abbiamo già raccontato su L’Indipendente, giova ricordare che, secondo Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, quelle di Milano Cortina sarebbero dovute essere le prime Olimpiadi «risparmiose e sostenibili economicamente e per l’ambiente»; per Giancarlo Giorgetti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il governo avrebbe garantito un sostegno morale ma non economico. Anche secondo il dossier di candidatura queste sarebbero state delle “Olimpiadi a costo zero”, ma, evidentemente, qualcosa è andato storto dato che a oggi il costo della manifestazione è lievitato. Inizialmente per la sola gestione dell’evento la Fondazione Milano Cortina – incaricata dell’organizzazione – aveva previsto circa 1 miliardo 350 milioni di dollari, che non arrivavano dalle tasche dello Stato, ma dal CIO, dal CONI, dagli enti pubblici territoriali e, infine, da sponsor, merchandising e biglietti. Oggi questa cifra è sensibilmente aumentata, arrivando a 2 miliardi di euro di cui circa 330 milioni stanziati attraverso il Decreto Sport, che ha visto l’istituzione del nuovo commissario per le Paralimpiadi. A questo occorre aggiungere uno stanziamento pubblico complessivo di 4 miliardi che vede coinvolti gli enti territoriali e il governo per la realizzazione o l’adeguamento degli impianti sportivi, delle infrastrutture stradali e ferroviarie.

Un lungo monitoraggio

Il rapporto di Libera, insieme alle tante inchieste che si stanno focalizzando sui punti di non ritorno delle Olimpiadi, sottolinea insomma a chiare lettere come, mentre si avvicina a lunghi passi il via ufficiale ai Giochi, il diritto di sapere dei cittadini si scontra con un muro di informazioni parziali e asimmetriche. Le organizzazioni che hanno redatto e promosso il dossier avvertono che il monitoraggio della società civile non si fermerà con le ultime medaglie: con il 57% delle opere da completare dopo la chiusura della manifestazione, infatti, l’attività vedrà un proseguimento fino alla chiusura dell’ultimo cantiere.

La Gran Bretagna rientra nel programma Erasmus

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Unione Europea e Regno Unito hanno concluso i negoziati per il rientro di Londra nel programma Erasmus+ a partire da settembre 2027. Lo annuncia un comunicato congiunto che evidenzia benefici condivisi nei settori di istruzione, formazione, sport e politiche giovanili, con un equilibrio ritenuto equo tra contributi finanziari e vantaggi. Le parti puntano ora a chiudere altri dossier entro il prossimo summit, tra cui il Programma di esperienza giovanile, un’area sanitaria e fitosanitaria comune e il collegamento dei sistemi di scambio delle emissioni. Parallelamente, sono terminati i colloqui preliminari per l’accesso del Regno Unito al mercato elettrico europeo.

Il nuovo piano israeliano per controllare i campi profughi palestinesi in Cisgiordania

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TULKAREM, PALESTINA OCCUPATA – Eliminare la denominazione di “campi profughi”, cancellando quella che è la radice storica dei refugee camp di Tulkarem e Jenin, e vietare l’accesso ai tre campi alle organizzazioni internazionali, con l’obbligo che sia l’Autorità Palestinese a fornire i servizi necessari e non più UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che dal 1948 si occupa dei profughi palestinesi. Sono queste le prime due condizioni sancite da Israele per il ritorno delle oltre 40mila persone sfollate dalle proprie case da 11 mesi. Imprescindibili, per Tel Aviv, che continua così nella sua lotta per cancellare il concetto di “profughi palestinesi” e quindi negare il “diritto al ritorno” che avrebbero alle terre dalla quale sono stati mandati via ormai 77 anni fa. Ma non solo. Israele pretende l’installazione di posti di blocco militari gestiti dall’Autorità Nazionale Palestinese all’ingresso degli “ex-refugee camp”, trasformati quindi in quartieri di Tulkarem e Jenin, e il dispiegamento della polizia palestinese al loro interno.

Tel Aviv ha inoltre dichiarato che il ritorno dei rifugiati nei campi sarà consentito solo dopo che l’esercito israeliano avrà completato la “riorganizzazione dell’area”, sottolineando che la ricostruzione delle strade deliberatamente distrutte durante le operazioni militari sarà effettuata in pieno coordinamento con l’esercito. La nuova data per la fine delle operazioni sarebbe il 31 gennaio. Ma è la terza volta che rimandano la ritirata dai territori di Jenin e Tulkarem, secondo gli accordi di Oslo classificati zona A, quindi sotto il completo controllo palestinese, dove teoricamente l’esercito israeliano non potrebbe nemmeno accedere. All’inizio l’esercito aveva detto che l’operazione Iron Wall – e la conseguente occupazione dei campi – sarebbe durava solo qualche giorno. Poi, avevano dichiarato che avrebbero lasciato il territorio il 31 agosto. Ad agosto la data è slittata il 31 ottobre, e i primi di novembre hanno rimandato ancora al 31 gennaio.

I campi profughi del nord della Cisgiordania occupata ricordano sempre di più Gaza. Interi quartieri sono stati distrutti, la geografia interna è stata modificata per adattarla alle esigenze dell’esercito di Tel Aviv. Centinaia di case sono state cancellate per lasciare il posto a grosse strade e ora i campi profughi del nord rischiano di diventare un terreno di sperimentazione militare e amministrativa per tutti i refugee camp palestinesi nei territori occupati da Israele. Le condizioni per porre fine all’operazione militare erano già state delineate dal coordinatore statunitense per gli affari di sicurezza in Cisgiordania, Michael R. Wenzel, e dai comandanti militari israeliani, nel corso di una serie di incontri tenutisi in estate ed esplicitate un paio di mesi fa, ma ora sono state riproposte con qualche modifica di contorno.

Le richieste israeliane di fine agosto includevano anche il reinsediamento di circa il 50% dei residenti dei campi profughi in alloggi dispersi lontano dal campo e restrizioni alla ricostruzione delle case distrutte da Israele. Gli abitanti di Tulkarem e Jenin denunciano che si tratta di un attacco all’esistenza dei campi profughi stessi, con lo sfollamento di quasi il 50% dei loro abitanti e la possibilità di tornare solo a coloro ai quali Tel Aviv concederà di farlo. Ossia uno sfollamento forzato definitivo per tutti coloro che sono sulle black-list israeliane, e per le loro famiglie. Una condizione che, anche se non approvata, vuole essere de facto, dato che le case delle famiglie dei martiri o di chiunque fosse identificato come membro della resistenza o suo solidale sono state sistematicamente distrutte, abbattute o bruciate durante questo quasi un anno di occupazione permanente. Insieme ad altre centinaia di altre. Una nuova, minore, seconda Nakba, nel silenzio della comunità internazionale. Si tratta infatti del più importante e lungo sfollamento della popolazione palestinese dal 1967.

Fino ad oggi l’Autorità Palestinese aveva limitati poteri sui campi profughi e la maggior parte dei servizi erano forniti da UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupava dei profughi palestinesi e che Israele sta da tempo cercando di eliminare. L’ANP non è benvoluta nei campi profughi del nord: accusata di collaborazionismo con Tel Aviv, molti dei rifugiati la considerano ormai una seconda forza di occupazione, specialmente dopo l’operazione durata 40 giorni contro il campo profughi di Jenin l’anno scorso. In quell’occasione la polizia palestinese ha circondato il campo rifugiati, ha distrutto infrastrutture civili e ha ucciso almeno 8 persone, dichiarando che l’operazione fosse fatta per proteggere la patria dai “fuorilegge”, ossia dai gruppi di resistenza palestinese che avevano la loro base a Jenin.

Per ora, tuttavia, l’ANP ha respinto la proposta di Tel Aviv, descrivendola come politicamente delicata e indicativa di un tentativo di “cancellare” la questione dei rifugiati.
Molti dei rifugiati credono comunque che le trattative in corso tra l’Autorità Palestinese e Israele non termineranno a loro favore. L’ANP ha interesse nel controllare i campi profughi, e vuole sradicare la resistenza armata che ha terreno fertile in quelle aree. Ma l’accordo con Israele deve ancora essere trovato.

Mohamed Shahin è vittima di una persecuzione politica: gli atti che lo dimostrano

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Nessun legame con i terroristi, nessuna apologia di terrorismo: solo semplici «espressioni di pensiero» che, anche quando non condivise, in uno Stato di diritto sono «pienamente lecite». Lo stabilisce la Costituzione stessa e anche la Convenzione sui diritti dell’uomo. Queste le motivazioni con le quali la Corte d’Appello di Torino ha disposto la liberazione di Mohamed Shahin, detenuto in un CPR di Caltanissetta. L’imam di una delle moschee di Torino era stato oggetto di un decreto di espulsione lo scorso 24 novembre per aver definito Hamas un movimento di resistenza e aver dichiarato che quanto accaduto il 7 ottobre va inserito in un contesto di violenze commesse da Israele contro il popolo palestinese dal 1948 ad oggi. Su queste frasi il tribunale di Torino aveva aperto un’indagine, archiviata una settimana dopo perchè evidentemente il fatto non costituisce reato. Il ministero dell’Interno ha tuttavia deciso di procedere lo stesso con il decreto di espulsione, commettendo una grave violazione, non motivata da ragioni oggettive ma meramente politiche, che il provvedimento della Corte d’Appello smonta pezzo per pezzo.

A portare all’attenzione le frasi di Shahin, pronunciate lo scorso 9 ottobre, erano stati alcuni post della deputata e vice capogruppo di FdI, Augusta Montaruli. Il tribunale di Torino aveva aperto un’indagine, poi archiviata lo scorso 16 ottobre: quanto detto da Shahin rappresenta infatti «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato». Lo sottolinea la Corte d’Appello stessa, che ricorda come le sue dichiarazioni siano «pienamente lecite» secondo quanto previsto dalla nostra stessa Costituzione, all’art. 21, e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 10. Giudicare la condivisibilità o meno delle sue affermazioni non è compito dei giudici, insomma. E, in uno Stato di diritto, queste non possono incidere da sole sul giudizio di pericolosità del soggetto. «Contrariamente rispetto a quanto sostenuto dalla Questura», quindi, il fatto che Shahin ritratti o meno quanto detto non costituisce elemento di interesse per decidere in merito alla convalida di trattenimento in CPR. In aggiunta a ciò, sottolinea la Corte, va ricordato che le frasi di Shahin comprendevano anche un esplicito e netto rifiuto di ogni forma di violenza.

Eppure, il 24 novembre (oltre un mese l’archiviazione del procedimento sulle frasi incriminate), alcuni agenti di polizia lo fermano mentre accompagna i figli a scuola e lo portano in Questura. Qui gli viene notificato il decreto di espulsione verso l’Egitto, firmato dal ministro dell’Interno Piantedosi. Al centro del decreto vi sono le frasi pronunciate da Shahin, ma non solo. Il ministro, infatti, cita anche quanto avvenuto lo scorso 17 maggio, quando l’imam, insieme a un gruppo di circa 300 persone, aveva bloccato per circa una mezz’ora il traffico sulla tangenziale di Torino. Fino al 5 giugno di quest’anno l’azione, evidentemente di carattere non violento, ha rappresentato un illecito amministrativo, punibile con una multa. Con l’entrata in vigore del dl Sicurezza, questo si è trasformato in un reato penale. Sulla base di ciò, «la competente Autorità Giudiziaria ha concesso il nulla osta all’esecuzione dell’espulsione», riporta il decreto del ministro. La Corte d’Appello di Torino, nel riesaminare la richiesta di trattenimento in CPR, sottolinea proprio la natura non violenta delle azioni di Shahin e che non vi fosse altro «fattore peculiare concreto e indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». L’uomo, insomma, si trovava «meramente presente» sulla tangenziale insieme ad altre decine di attivisti.

Nel decreto di espulsione, il ministero riporta poi come Shahin sia «emerso all’attenzione sotto il profilo della sicurezza dello Stato per aver intrapreso un percorso di radicalizzazione religiosa connotata da una spiccata ideologia antisemita e poichè risultato in contatto con soggetti noti per la loro visione fondamentalista e violenta dell’Islam». Eppure, sottolinea ancora la Corte di Torino, i contatti con i soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo sono «isolati e decisamente datati» (risalgono al 2012 e al 2018, in quest’ultima occasione peraltro si trattava di una conversazione tra terzi) e sono stati «ampiamente spiegati e giustificati» dall’uomo. «Gli unici elementi che la Digos aveva in mano – spiega a L’Indipendente Feirus Jama, una degli avvocati di Shahin – erano antecedenti al 2018 e riguardavano il fatto che lui fosse stato avvicinato da un certo soggetto convertitosi all’Islam, che poi è morto nel 2013».

A corredare l’istanza del ministero dell’Interno, inoltre, vi sono motivazioni la cui natura politica è esplicita. Tra queste, il fatto che Shahin sia «promotore delle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese» o che le sue affermazioni abbiano avuto una «vasta risonanza mediatica». Posizioni che sarebbero «del tutto incompatibili con i principi democratici e i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano», oltre ad «una totale mancanza di integrazione sociale e culturale nel Paese ospitante». Anche qui, la Corte d’Appello interviene smentendo il ministero. Shahin ha infatti «prodotto documentazione che denota un concreto e attivo impegno del trattenuto in ordine alla salvaguardia dei valori su cui si fonda l’ordinamento dello Stato italiano, circostanza che si pone in netto contrasto con il giudizio di pericolosità» nei suoi confronti. Shahin è infatti una figura di riferimento di spicco a Torino anche per il lavoro che svolge all’interno della comunità che rappresenta, nel quartiere di San Salvario. Come ricorda il magistrato Livio Pepino, l’uomo è impegnato nelle attività di integrazione della comunità musulmana anche tramite l’insegnamento della Costituzione, oltre che essere stato insegnante di arabo.

Sono tanti gli elementi critici di questa storia. Tra questi, il fatto che l’uomo, invece che essere portato nel CPR di Torino, sia stato mandato fino a Caltanissetta. «Non abbiamo una risposta alla domanda sul perchè di questa decisione» riferisce Feirus Jama. Non si tratta di certo, come da lei sottolineato, di una questione di mancanza di spazio. In questo modo, tuttavia, l’imam è stato tenuto lontano dal suo territorio, dove la cittadinanza ha organizzato manifestazioni continue per il suo rilascio, oltre che dai suoi avvocati e dalla sua famiglia. Certo è che quanto avvenuto nei suoi confronti segna una precisa linea politica del governo: i critici del discorso ufficiale, soprattutto se arabi musulmani e con un ruolo di riferimento nella comunità, rischiano di veder calpestati i propri diritti, sanciti dai documenti fondanti del nostro Stato, pur di essere silenziati.