venerdì 28 Novembre 2025
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Bulgaria, dopo le proteste il governo ritira la proposta di bilancio

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Dopo le proteste di ieri contro la manovra finanziaria bulgara, il governo del Paese ha deciso di ritirare la propria proposta di bilancio e di aprire un nuovo tavolo di negoziati con i datori di lavoro e i sindacati. Le proteste di ieri hanno interessato prevalentemente la capitale Sofia, e hanno visto la partecipazione di almeno 20.000 persone. Esse erano state lanciate per contestare il potenziale aumento dei contributi sociali e il raddoppio dell’imposta sui dividendi, contenuti nella legge di bilancio.

TSO, elettroshock, psicofarmaci: il lato oscuro della psichiatria in Italia

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Roma, 18 aprile 1938. Ugo Cerletti, psichiatra e neurologo, insieme al suo assistente Lucio Bini, riesce per la prima volta a provocare una crisi epilettica mediante la corrente elettrica su un uomo arrestato dalla polizia perché si aggirava sul treno senza biglietto. È lo stesso Cerletti a ricordare che, dopo avergli applicato due grandi elettrodi alla regione fronto-parietale e così avergli somministrato una scarica elettrica, l’uomo dice: «Non un’altra volta! È terribile». La richiesta non viene accolta e l’esperimento prosegue. È da questo episodio che prende piede nell’ambito psichiatrico l’elettroshock terapia, ora chiamata, nel tentativo di ammorbidire l’immaginario, terapia elettro convulsivante (TEC), che consiste nell’induzione di convulsioni nel paziente mediante passaggio di una corrente elettrica attraverso il cervello. Oggi in Italia è eseguita in almeno otto strutture sanitarie, sei pubbliche e due private accreditate. Una realtà poco nota e con ampi profili di discrezione e non del tutto chiari.

La TEC è proposta soprattutto nei casi di grave depressione, alcuni quadri maniacali, catatonia acuta e schizofrenia resistenti ai farmaci, ma non solo. Piero Cipriano, psichiatra di Roma e autore di diversi libri sulla salute mentale, ha spiegato a L’Indipendente che l’elettroshock è un’opzione proposta anche alle donne incinte impossibilitate ad assumere farmaci. Sebbene siano presenti molte ricerche pubblicate nella letteratura scientifica, non sono mai stati stabiliti con certezza i meccanismi di azione che determinano il risultato terapeutico della TEC, anche se Cipriano una risposta ce l’ha data. Uno degli effetti collaterali dell’elettroshock è la perdita temporanea della memoria a breve termine, controindicazione che porta con sé un apparente beneficio: con lo svanimento dei ricordi si possono affievolire anche i sintomi della depressione, ma appena la memoria torna, spariscono gli effetti positivi. Tesi avallata anche da una delle testimonianze raccolte nel libro Elettroshock del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud: «Come prima istanza mi fecero l’elettroshock per farmi dimenticare quello che avevo di rabbia dentro».

Da quel giorno di aprile del ’38 bisogna aspettare il finire degli anni ’50 per vedere diminuire l’uso dell’elettroshock, anche grazie all’introduzione di nuove e migliorate molecole farmacologiche. Con la chiusura dei manicomi, la TEC diventa un trattamento residuale, ma a metà degli anni ’80 subisce una nuova espansione prima negli Stati Uniti e poi anche, seppur in maniera molto più ridotta, in Italia. Nel 1996, Rosy Bindi, allora ministra della Salute, emette una direttiva ministeriale in cui viene rivalutata la terapia elettro convulsivante. La circolare, presentata in seguito al parere positivo del Comitato nazionale di bioetica, mira ad aggiornare e revisionare le linee guida sull’uso del trattamento. Questa ripresa si fa sentire anche nel decennio successivo quando, nell’ambito della Società italiana di psicopatologia, un gruppo di psichiatri fa girare una petizione indirizzata alla ministra della Salute Livia Turco per sdoganare l’elettroshock. Sebbene in Italia l’elettroshock sia una pratica tutto sommato poco usata, il dibattito intorno a esso è stato ridotto alle linee guida per l’utilizzo e confinato nei soli ambiti medici e politici, una scelta discutibile se si pensa che si tratta dell’unico trattamento che prevede una grave crisi organica dei pazienti indotta a scopo di “cura”. 

Una pillola per tutto 

Lo studio e la classificazione dei disturbi mentali si basa sul Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) dell’American Psychiatric Association e sull’International Classification Diseases (ICD) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nella quinta e ultima edizione del DSM sono classificati 370 disturbi mentali, numero tre volte maggiore rispetto alla prima edizione. Sebbene non direttamente redatto da case farmaceutiche, queste contribuiscono significativamente allo sviluppo e alla revisione del DSM: una parte consistente dei membri della commissione ha legami finanziari con l’industria farmaceutica, un conflitto d’interessi che contribuisce ad abbassare le soglie diagnostiche e, di conseguenza, aumentare il numero delle malattie e prescrivere più farmaci. Un esempio concreto di cosa significa questa relazione si può constatare osservando in che modo si sono ristretti i tempi per dichiarare una persona depressa. Nel DSM-III del 1989 se la tristezza superava l’anno, si parlava di depressione; nel DSM-IV del 1994 la tristezza doveva protrarsi per tre mesi; nel DSM-5 del 2013 il tempo necessario per dichiarare un fenomeno depressivo si è ridotto a due settimane.

Per quanto riguarda l’Italia, negli ultimi dieci anni il consumo di psicofarmaci ha subìto un progressivo aumento. L’anno che ha rappresentato il picco è stato il 2020: a seguito dell’emergenza Covid, i consumi tra la popolazione adulta e quella pediatrica hanno toccato livelli che non sono più tornati ai valori pre-pandemici. Per dare forma a queste informazioni, basti pensare che nel 2021 circa il 7% della popolazione italiana ha utilizzato antidepressivi. Nel 2023 questa tipologia di psicofarmaci è arrivata a registrare una spesa pubblica di oltre 432 milioni di euro (1,7% sul totale) con un numero di confezioni pari a quasi 38 milioni che equivale a 47 pillole al giorno ogni mille abitanti. Gli antidepressivi insieme alle benzodiazepine (ansiolitici) sono due tra gli psicofarmaci più utilizzati. Come denunciato da Cipriano, si assiste a una generale superficialità delle prescrizioni: in particolare per quanto riguarda le benzodiazepine vengono prescritte da medici di base e specialisti per le condizioni più varie tra cui stress o somatizzazioni, senza avvertire il paziente che il loro uso deve essere scalato e sospeso dopo qualche settimana a causa della rapidità con cui creano dipendenza. Può succedere dunque che per un mal di stomaco psicosomatico venga consigliato da un medico di base o da un gastroenterologo il consumo di ansiolitici, un approccio che non prevede l’ascolto ma la caccia alla diagnosi.

La ricerca di un giudizio clinico è una tendenza che abbraccia anche i più giovani. Secondo i dati ISTAT, nell’ultimo decennio, le certificazioni in ambito scolastico sono aumentate del 39,9% a fronte di una generale diminuzione di studenti, mentre per l’Associazione italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza circa 2 milioni di minori soffrono di disturbi mentali. Questo fenomeno dovrebbe spingerci a interrogarci su due aspetti: se da una parte esiste una tendenza a cercare cause neuropsichiatriche per ogni difficoltà, dall’altra si sta assistendo a un generale malessere. Interrogato sull’argomento, Cipriano trova una risposta sull’insicurezza nei confronti del futuro con cui i giovani devono fare i conti. La precarietà personale – la fine del percorso “obbligato” studio, lavoro, casa, famiglia ha restituito maggiore libertà da dover gestire – insieme a quella mondiale – come la costante minaccia di una guerra nucleare – generano un malessere esistenziale le cui cause devono essere trovate non tanto nel cervello dei giovani quanto nella società. Di simile avviso è anche il collettivo Artaud che ha ribadito a L’Indipendente come oramai ci sia una pillola per tutto: in una società performante come la nostra sembra non esserci spazio per chi esce dalla “norma”.

Psichiatrizzati a vita 

Uno degli aspetti più critici di come è gestita la salute mentale è la difficoltà di uscire dal sistema una volta che si è psichiatrizzati. Dopo le dimissioni dal Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC) – cioè i reparti presenti negli ospedali –, si viene seguiti dal Centro di Salute Mentale (CSM) per la somministrazione dei farmaci prescritti, medicinali che in molti casi vengono assunti per interi decenni se non il resto della vita. Come denunciato dal collettivo Artaud, nell’ambito della sanità pubblica è difficile trovare uno psichiatra intenzionato a scalare i farmaci portando l’utente verso la fine dell’obbligo terapeutico. Il ricorso a uno psichiatra privato è una possibilità ma non è sempre facile trovarne uno disposto a prendere in carico la persona in modo da sollevarla dall’obbligo di andare al CSM. Questa opzione, inoltre, porta con sé la questione economica. Il binomio condizione economica-cura non è sfuggito nemmeno a Piero Cipriano quando, nel suo La fabbrica della cura mentale, scrive: «Molti medici della mente continuano a usare, nella loro pratica, due misure, come facevano i loro colleghi di manicomio: la cura violenta, basata su farmaci e fasce, in SPDC e la cura tranquilla, argomentata, spiegata, nel silenzio costoso del proprio studio privato».

Come abbiamo appena visto, essere seguiti dal CSM significa anche essere costretti a prendere una terapia farmacologica, in caso contrario le opzioni sono generalmente due: l’iniezione dello psicofarmaco a rilascio prolungato che assicura una copertura per diverse settimane o il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) con il quale una persona è sottoposta a cure mediche a prescindere dalla sua volontà. In Italia vengono fatti circa 6000 TSO all’anno, ma è difficile ottenere dati precisi. Spesso i ricoveri volontari proseguono oltre l’intenzione del paziente con la minaccia di un TSO: il numero a nostra disposizione non include tutti i TSO mascherati. Oltre a essere l’unica disciplina medica che può obbligare alla cura, la psichiatria è anche la pratica che più attribuisce uno stigma. Con la psichiatrizzazione le persone rischiano di perdere credibilità e per questo motivo possono essere messe sempre in discussione. Nella pratica, significa che se una persona in precedenza ricoverata in SPDC va in ospedale perché le fa male la gamba rischia di essere prima visitata da uno psichiatra per capire la sua attendibilità.

Dall’alto, l’ex manicomio di Pergine Valsugana a Trento. Foto di Gianni Zotta

Quello di “malato mentale” è un marchio che può persistere per una vita intera e di questo ne sanno qualcosa gli utenti della Residenza sanitaria assistenziale Pandolfi di Pergine Valsugana (TN). Sorta in alcuni degli spazi dell’ex manicomio, è una RSA a esaurimento il che significa che una volta deceduto un utente il suo posto non viene occupato da un’altra persona. Un sanitario della RSA Pandolfi ci ha raccontato che i pazienti presenti – in totale ventidue – sono tutti ex ricoverati del manicomio i quali, dopo la chiusura definitiva dell’ospedale psichiatrico nel 2002, non hanno abbandonato la struttura. Si tratta dunque di persone che da oltre vent’anni vivono rinchiuse in quattro mura e gestite come pazienti psichiatrici, una situazione che, inevitabilmente, degrada la salute. È lo stesso sanitario a dirci che secondo lui, se non vissuti in quella condizione, alcuni degli utenti avrebbero potuto condurre una esistenza “normale”. Che quella dei “malati mentali” sia una vita considerata non degna di essere vissuta ce lo ricorda anche la storia. Il programma nazista “Aktion 4”, che prevedeva lo sterminio di malati tedeschi considerati improduttivi e dunque sacrificabili, coinvolse anche i ricoverati degli istituti psichiatrici su cui il governo di Hitler sperimentò per la prima volta le camere a gas poi usate nei campi di concentramento.

Un rapporto inchioda la Germania: è il centro europeo della censura digitale

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Una ragnatela fitta di enti governativi, ONG, fact-checker, aziende private e media, tutti collegati in un sistema industriale della censura digitale, rende la Germania un modello europeo di controllo dell’informazione online. È quanto emerge dallo studio più recente dell’organizzazione no-profit Liber-net, presentato a Berlino nei giorni scorsi dal CEO Andrew Lowenthal, ricercatore australiano e attivista per la libertà di espressione. Secondo la ricerca, più di 330 soggetti fra ministeri, agenzie federali, fondazioni e società di telecomunicazioni partecipano a un ecosistema in cui la linea tra lotta alla disinformazione e la limitazione della libertà di espressione è sempre più sottile.

Secondo lo studio di Liber-net, Berlino non è una “anomalia” democratica: rappresenta il centro nevralgico di una censura digitale su scala europea che, in nome dei valori occidentali, rischia di diventare un paradigma di controllo capillare sui contenuti. Liber-net ha applicato la metodologia precedentemente utilizzata nella collaborazione con il giornalista Matt Taibbi sui Twitter Files per mappare il Complesso Industriale della Censura focalizzato sugli Stati Uniti, per documentare questo “network di censura” tedesca. In oltre sei mesi di ricerca, è stata ricostruita la rete di questo sistema, che include centinaia di enti ministeri, agenzie governative come la Bundesnetzagentur e la Zentrale für politische Bildung, ONG, media pubblici e privati, think tank, fact-checker e grandi operatori di telecomunicazioni come O2, Vodafone e Telekom. L’azione è frammentata e non tutte le organizzazioni operano direttamente come censori: alcune si occupano di “fact-checking”, altre di moderazione, altre ancora collaborano con piattaforme digitali, ma insieme diventano gli ingranaggi di un meccanismo pervasivo. La repressione sarebbe giustificata dalla necessità di contrastare la disinformazione russa, l’estremismo, l’hate speech e il populismo.

Ciò che emerge dal lavoro configura la Germania come il «centro europeo della censura digitale», con un’influenza significativa sulle politiche di regolamentazione del discorso pubblico anche a livello UE. Il documento descrive un progressivo slittamento della Germania da modello liberale a sistema di sorveglianza digitale estesa. Le leggi come il NetzDG la legge tedesca sul “rafforzamento dell’applicazione del diritto nelle reti sociali”, entrata in vigore nel 2017) e la sua evoluzione attraverso il Digital Services Act europeo trasferiscono alle piattaforme private il potere di decidere cosa sia legale o meno, con forte pressione statale e rischio di censura preventiva. Un aspetto cruciale emerso dalla ricerca riguarda i finanziamenti: dal 2020 al 2024, i fondi statali destinati ad attività dichiarate di “lotta all’odio online” e “contrasto alla disinformazione” sarebbero passati da circa 5 milioni di euro a oltre 27 milioni. Molte ONG coinvolte – come la Fondazione Amadeu Antonio – ricevono consistenti finanziamenti non solo dallo Stato, ma anche da grandi piattaforme digitali, e agiscono come moderatori e “trusted flaggers”, ovvero segnalatori certificati di contenuti “illegali” o indesiderabili online. Dietro il paravento della battaglia contro odio e disinformazione, questa struttura servirebbe di fatto a marginalizzare opinioni critiche o sgradite all’establishment, minando la pluralità del dibattito pubblico e comprimendo il diritto alla libera espressione. Il rapporto indica un clima di autocensura sempre più diffusa: l’84% dei cittadini tedeschi riferisce di essersi trattenuto dal parlare per timore di conseguenze. Vengono citati esempi di perquisizioni domestiche, sequestri di dispositivi e azioni di polizia contro chi pubblica contenuti offensivi online, che erano già stati testimoniati all’inizio del 2025, da un’inchiesta del programma statunitense 60 Minutes.

La controversia non riguarda solo l’introduzione di leggi severe, ma la nascita in Germania di un apparato sistemico di controllo del discorso online: un intreccio stabile di ministeri, servizi di sicurezza, ONG, fondazioni e piattaforme private che opera come infrastruttura permanente di selezione del dicibile, trasformando eccezioni giuridiche in prassi ordinaria. Il modello si fonda su segnalazioni, monitoraggi e rimozioni preventive, spesso sottratti al controllo giudiziario e affidati a soggetti formalmente “indipendenti”, ma di fatto finanziati dallo Stato. Berlino diventa così laboratorio per l’Europa, esportando un paradigma in cui la sicurezza informativa prevale sulla libertà, in cui una censura burocratica sempre più diffusa erode il pluralismo e rende la libertà di espressione una concessione condizionata.

Birmania, liberati 3.000 prigionieri politici

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La giunta militare birmana ha approvato un’amnistia, liberando 3.085 prigionieri politici e archiviando le accuse contro 5.580 persone. La decisione del governo arriva in vista delle elezioni, in programma per il prossimo mese, per garantire l’eleggibilità dei candidati. Il rilascio dei prigionieri è iniziato oggi, ma non è chiaro quando terminerà. Non è la prima volta che la giunta approva amnistie in occasione di eventi o date importanti; in passato la liberazione dei detenuti in programma è andata avanti per giorni.

Come Trump usa l’antifascismo europeo per colpire l’opposizione sociale negli USA

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Nel silenzio assordante che spesso accompagna le trasformazioni giuridiche di rilievo, lo scorso 15 novembre l'amministrazione Trump ha deciso di inserire quattro gruppi antifascisti europei nella lista nera delle Organizzazioni Terroristich Straniere (FTO). Tra queste figurano realtà come il collettivo tedesco Antifa OST e formazioni italiane e greche. Ad una lettura superficiale, la mossa potrebbe sembrare una semplice estensione della dottrina "legge e ordine" di Donald Trump: una presa di posizione simbolica contro la violenza politica in Europa. Tuttavia, a un'analisi più approfondita dei...

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Il Venezuela revoca i permessi di volo a sei compagnie

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Il Venezuela ha ritirato i permessi di volo alle compagnie aeree Iberia, TAP, Avianca, Latam Colombia, Turkish Airlines e Gol. La scelta del Venezuela arriva in risposta alla decisione da parte delle compagnie di ritirare temporaneamente i voli commerciali dopo gli avvertimenti statunitensi: la scorsa settimana, l’autorità di regolamentazione dell’aviazione statunitense ha diramato un comunicato rivolto alle compagnie aeree avvertendole dei potenziali rischi che avrebbero corso sorvolando il Venezuela, a causa di un «peggioramento della situazione di sicurezza e di un’intensificata attività militare al suo interno». Il governo venezuelano aveva chiesto alle agenzie di riprendere i voli, dando loro un ultimatum di 48 ore per farlo, che tuttavia è scaduto.

Gaza: secondo uno studio i palestinesi uccisi sarebbero oltre 110mila

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Sarebbero almeno 110mila i palestinesi uccisi da Israele durante la guerra di Gaza, negli ultimi due anni, di cui il 27% bambini sotto i 15 anni. Secondo i calcoli del team di ricerca del Max Planck Institute for Demographic Research di Rostock, il numero delle vittime sarebbe stato finora sottostimato: «Non conosceremo mai il numero esatto dei morti», afferma Irena Chen, co-responsabile del progetto. «Stiamo solo cercando di stimare nel modo più accurato possibile quale potrebbe essere un ordine di grandezza realistico».

I ricercatori di Rostock hanno incrociato dati provenienti da fonti differenti e applicato una proiezione statistica per stimare il numero reale delle vittime palestinesi. Oltre alle cifre del Ministero della Salute della Striscia di Gaza, gestito da Hamas, hanno integrato un’indagine indipendente condotta sulle famiglie e segnalazioni di decessi emerse attraverso i social media. Finora, l’unico riferimento ufficiale restava quello del ministero locale, che nei primi due anni di guerra ha dichiarato 67.173 morti. Tuttavia, diversi gruppi di ricerca hanno già evidenziato come questo conteggio risulti prudenziale, poiché prende in considerazione esclusivamente i decessi formalmente certificati, ad esempio, quelli registrati da strutture ospedaliere. Con il progressivo collasso del sistema sanitario e la chiusura di molti ospedali, il Ministero ha iniziato a basarsi anche sulle notifiche fornite dai familiari, sottoposte a verifica da un apposito comitato. Resta, però, esclusa una quota rilevante di vittime, come quelle rimaste sepolte sotto le macerie dopo i bombardamenti, che non vengono mai ufficializzate. Lo studio di Rostock si inserisce in questo vuoto informativo: fondandosi anche su ricerche precedenti, il gruppo ha elaborato stime articolate della mortalità, analizzando separatamente sesso ed età delle vittime per restituire un quadro più realistico dell’impatto del conflitto sulla popolazione: tra il 7 ottobre 2023 e il 6 ottobre 2025, i morti nella Striscia di Gaza sarebbero compresi tra circa 99.997 e 125.915: la cifra mediana si attesta a 112.069. I calcoli degli scienziati mostrano, inoltre, che circa il 27% dei caduti in guerra sono probabilmente bambini sotto i 15 anni e circa il 24% donne.

Tra i dati utilizzati emerge un sondaggio condotto dal team guidato da Michael Spagat, professore al Royal Holloway College dell’Università di Londra. Il personale locale del Palestinian Center for Policy and Survey Research ha visitato circa 2.000 famiglie, rappresentative di una popolazione di circa 2 milioni nei cinque governatorati di Gaza, chiedendolo loro informazioni sul destino dei propri membri dall’inizio della guerra. Altri studi – come quello pubblicato all’inizio di quest’anno da un gruppo di ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine su The Lancet – avevano già suggerito che le vittime potessero essere molto più numerose di quelle ufficiali, stimando fino al 30-40 per cento in più rispetto ai conteggi del governo di Gaza controllato da Hamas. Gli scienziati del Max Planck Institute di Rostock hanno anche calcolato l’impatto della guerra sull’aspettativa di vita nella Striscia di Gaza. Prima della guerra, era di 77 anni per le donne e 74 anni per gli uomini. Per il 2024, i demografi prevedono una cifra di 46 anni per le donne e 36 per gli uomini. Ciò indica che se gli attacchi israeliani dovessero continuare, i palestinesi raggiungerebbero solo questa età media.

Lo studio rafforza le denunce su bombardamenti estesi e sproporzionati, operazioni condotte in contesti densamente abitati e mancata tutela della popolazione civile, temi già sollevati da ONG e organismi internazionali. Oltre il profilo giuridico e politico, emerge una frattura più profonda: l’impatto irreversibile sull’equilibrio sociale e demografico della Striscia. In un territorio che prima della guerra contava circa due milioni di abitanti, la perdita di decine di migliaia di vite rappresenta una devastazione strutturale, che si traduce in generazioni spezzate e in un tessuto comunitario lacerato.

Una settimana senza social riduce i sintomi di ansia e depressione

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Una pausa di soli sette giorni dai social media può bastare a migliorare sensibilmente il benessere mentale, riducendo ansia, depressione e insonnia, soprattutto nei giovani adulti. Lo rivela uno studio condotto da Maddalena Cipriani della Università di Bath, pubblicato su JAMA Network Open, che ha analizzato l’effetto della sospensione dell’utilizzo delle principali piattaforme social (Facebook, Instagram, Snapchat, TikTok e X) in un gruppo di 417 giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni.

La ricerca non si è limitata a monitorare semplici autovalutazioni: i ricercatori hanno integrato l’uso degli smartphone con una tecnica detta “digital phenotyping”, che cattura in tempo reale dati sull’attività del dispositivo, mobilità, tempo trascorso a casa, comunicazioni e stato emotivo mediante richieste quotidiane. Questo approccio consente di superare i limiti delle misure auto-segnalate, spesso imprecise o soggette a distorsione. Al termine delle due settimane iniziali, 19 (4,6%) volontari sono stati squalificati. Dei rimasti 398 partecipanti, 25 (6,3%) si sono ritirati. I 373 partecipanti rimasti hanno scelto di aderire al programma, di questi, 295 (79,1%) hanno completato la fase di “social media detox”. Al termine della settimana di disintossicazione digitale è stata registrata una riduzione del 16,1 per cento dei sintomi ansiosi e del 24,8 per cento di quelli depressivi, insieme a un miglioramento del 14,5 per cento nei disturbi del sonno. Parallelamente, sono aumentati i livelli di benessere soggettivo, lucidità mentale e capacità di concentrazione, con una diminuzione della ruminazione mentale e dell’irritabilità.

L’effetto si è rivelato particolarmente marcato nei soggetti con disagio psicologico moderato o elevato già presente all’inizio dello studio. In questi casi, l’interruzione del flusso continuo di notifiche e stimoli ha ridotto l’attivazione emotiva cronica e il senso di pressione derivante dal confronto sociale costante. La disconnessione ha favorito un riequilibrio dei ritmi circadiani, una maggiore stabilità dell’umore e una percezione di maggiore controllo sul proprio tempo. Dal punto di vista neuropsicologico, gli autori ipotizzano un calo dell’iperstimolazione dopaminergica legata allo scrolling compulsivo e una riduzione dell’attivazione dell’asse dello stress, con effetti diretti sulla regolazione emotiva. Curiosamente, lo studio non ha registrato un miglioramento significativo nei livelli di solitudine, un dato che gli autori leggono come una prova del ruolo “sociale” reale di queste piattaforme: per alcuni utenti, la sospensione può alleviare l’ansia e la depressione, ma anche ridurre le occasioni sociali. Dal punto di vista delle abitudini digitali, i cambiamenti osservati non sono stati radicali. Durante la settimana di sospensione dai social, il tempo totale trascorso sullo smartphone non ha subito un crollo significativo e, in alcuni casi, ha persino registrato un lieve aumento. Al contrario, è cresciuto il tempo medio passato in casa. Questo dato indica che i benefici psicologici non sono riconducibili semplicemente a una riduzione complessiva dell’uso dello schermo, ma piuttosto a una diminuzione delle dinamiche più nocive legate ai social, come l’iperstimolazione emotiva, il confronto costante e il coinvolgimento compulsivo.

Lo studio si inserisce in un filone sempre più solido che individua un nesso tra uso intensivo dei social media e l’aumento del rischio di disturbi ansioso-depressivi, insonnia e calo dell’autostima, soprattutto nelle fasce più giovani. I ricercatori precisano che non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di ridefinire modalità e tempi di utilizzo. Restano da chiarire la durata dei benefici osservati e l’efficacia di strategie di disconnessione ripetute, ma il dato è chiaro: anche una pausa breve può interrompere un circolo vizioso di dipendenza, iperstimolazione e logoramento psicologico, aprendo la strada a un rapporto più sano e consapevole con il digitale.

Cina, treno travolge operai sui binari a Kunming: 11 morti

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Nella mattinata di oggi, un treno adibito ai test di apparecchiature sismiche ha investito un gruppo di operai nella stazione di Luoyang, a Kunming, nella provincia cinese dello Yunnan, causando 11 morti e 2 feriti. Secondo i media statali, il convoglio stava percorrendo una curva quando ha travolto gli operai, entrati nell’area dei binari. Le autorità ferroviarie hanno dichiarato che le cause dell’incidente sono ancora in fase di accertamento. Il traffico ferroviario è stato temporaneamente sospeso per consentire i soccorsi, per poi tornare regolare.

Ahmad Salem: da 6 mesi in carcere in Italia per dei video su Gaza

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Ormai da sei mesi, il cittadino palestinese Ahmad Salem è detenuto in Italia per avere chiamato una mobilitazione contro il genocidio del proprio popolo. Ahmad, 24 anni di età, è detenuto presso il carcere di Rossano, in provincia di Cosenza, con le accuse di istigazione a delinquere e autoaddestramento con finalità di terrorismo. L’impianto accusatorio si reggerebbe «su un paio di frasi decontestualizzate estratte da un video di otto minuti pubblicato online», nel quale Ahmad «invitava alla mobilitazione contro il genocidio in corso a Gaza, alla sollevazione in Cisgiordania e a scendere nelle piazze in Libano», denunciano pagine di attivisti. A suo favore si è mobilitata anche una deputata del Movimento 5 Stelle, che ha annunciato una interrogazione parlamentare ai Ministeri della Giustizia, dell’Interno e degli Affari Esteri.

Ahmad Salem, nato e cresciuto nel campo profughi di al-Baddawi in Libano, era arrivato in Italia in cerca di protezione internazionale e si era recato a Campobasso per presentare regolare richiesta di asilo politico. Durante l’audizione davanti alla Commissione territoriale, il suo telefono è stato sequestrato e perquisito, dando il via a un procedimento giudiziario che ora lo vede sotto accusa. Il quadro accusatorio poggia, secondo gli atti, su poche frasi isolate e su spezzoni estratti da un video di circa otto minuti in cui Salem parla del genocidio a Gaza, sollecita mobilitazione in Cisgiordania e invoca la partecipazione nelle piazze del Libano; un passaggio in cui condanna il silenzio del mondo arabo è stato ritenuto dalla Digos di Campobasso elemento di «propaganda jihadista». Sempre dal suo cellulare sarebbero stati recuperati filmati che, per l’accusa, avrebbero carattere istruttivo: in realtà si tratta di riprese degli attacchi compiuti dalla resistenza palestinese contro mezzi militari israeliani, gli stessi filmati che negli ultimi anni sono circolati su canali pubblici e testate giornalistiche italiane e non contengono istruzioni tecniche né indicazioni di addestramento.

Nonostante la fragilità delle prove raccolte, Ahmad Salem resta detenuto nella casa circondariale di Corigliano-Rossano, una struttura dotata di sezioni dedicate a detenuti classificati come Alta Sicurezza o coinvolti in procedimenti complessi legati al terrorismo islamico. La vicenda ha cominciato a circolare in queste settimane attraverso alcune reti dell’attivismo pro-Palestina, sollevando interrogativi sulla trasparenza del caso. I reati contestati ad Ahmad Salem – istigazione a delinquere e autoaddestramento con finalità di terrorismo – fanno riferimento all’articolo 270 quinquies del codice penale, noto come “terrorismo della parola”, recentemente introdotto con il “DL Sicurezza” ad aprile. I suoi legali hanno presentato ricorso in Cassazione e hanno sollevato la questione di costituzionalità di questa norma, che amplia ulteriormente il margine repressivo in Italia.

A intervenire sul caso è stato il Gruppo Territoriale del Movimento 5 Stelle di Reggio Calabria, che ha espresso «profonda preoccupazione» per l’accaduto e annunciato la presentazione di una interrogazione parlamentare a firma della deputata Stefania Ascari, indirizzata ai Ministeri della Giustizia, dell’Interno e degli Affari Esteri. Numerosi gruppi Pro-pal hanno inoltre annunciato che nei prossimi giorni si svolgerà una manifestazione davanti al carcere di contrada Ciminata, con l’obiettivo dichiarato di chiedere informazioni ufficiali e visibilità sul caso.

Questo caso si inserisce in un contesto più ampio che vede lo Stato italiano dotarsi di strumenti repressivi sempre più stringenti, non solo per colpire le lotte sociali e il movimento di solidarietà, ma anche ogni espressione di appoggio alla Palestina. L’ultimo caso è quello che ha coinvolto Mohamed Shahin, imam della moschea di via Saluzzo (Torino), raggiunto da un decreto di espulsione e rinchiuso in un Centro di Permanenza e Rimpatrio (CPR) per aver affermato che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre furono un atto di resistenza dovuto ad anni di occupazione e decine di guerre. Dopo essere stato detenuto in un primo momento nel CPR di Torino, Shahin è stato trasportato in quello di Caltanissetta e da qui verrà rimandato nel suo Paese d’origine, l’Egitto. Il suo rimpatrio potrebbe comportare per lui la detenzione, se non anche la morte, dal momento che in patria è considerato un dissidente per la sua aperta opposizione al regime di Al Sisi. I movimenti per la Palestina accusano il governo di aver colpito Shahin per essersi pubblicamente esposto e aver dato voce a un’idea condivisa dalle piazze che da due anni chiedono la fine della guerra.