La Rete Medici del Sudan ha riferito di un attacco avvenuto giovedì nella zona di Kologi, nello Stato del Kordofan meridionale, che ha colpito un asilo uccidendo oltre 50 persone, delle quali almeno 33 erano bambini, 4 donne e numerosi altri paramedici, accorsi sul luogo e colpiti da un secondo attacco a sorpresa. Secondo quanto riferito dai medici, l’attacco è stato condotto dalle Forze di Supporto Rapido, che «terrorizzano deliberatamente» la popolazione. Nello stesso giorno dell’attacco, l’ONU ha messo in guardia dal peggioramento della situazione umanitaria nel Kordofan, nel quale si teme «una nuova ondata di atrocità».
Sussidi agricoli UE alla mafia, la Cassazione chiude il maxiprocesso: 50 condanne definitive
Si è definitivamente concluso il Maxiprocesso sulla “mafia dei pascoli”, frutto della più imponente operazione antimafia nell’ambito dei sussidi agricoli elargiti dall’Unione Europea e dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) e sfruttati illegalmente da uomini legati alla criminalità organizzata. La Cassazione ha infatti comminato un totale di 50 condanne – la più alta a oltre 20 anni di carcere – ai danni di soggetti legati al clan mafioso dei Batanesi e dei Faranda-Crascì, in prima linea nella perpetrazione delle truffe. Molti imputati sono invece riusciti a cavarsela grazie all’intervento della prescrizione. In definitiva, però, l’impianto accusatorio della Procura ha pienamente retto.
Il maxi-blitz da cui tutto è nato, denominato “Nebrodi”, ha avuto luogo nel 2020. Il processo di primo grado davanti al Tribunale di Patti sfociato dall’operazione si era concluso il 30 settembre 2022, con la disposizione di 90 condanne, per un totale di oltre 640 anni di carcere, 10 assoluzioni e una prescrizione. Erano state confiscate numerose imprese e ingenti somme di denaro. L’anno scorso, la sentenza è stata in parte modificata al ribasso, con i giudici che hanno comminato in tutto 65 condanne. In ultimo è arrivata la pronuncia della Cassazione, che ha messo il timbro sull’impianto accusatorio dei pm. Le pene più alte sono arrivate per i capi mafiosi riconosciuti dei Batanesi – diretta propaggine delle famiglie tortoriciane – ovvero Sebastiano Bontempo (20 anni e 6 mesi) e Vincenzo “Lupin” Galati Giordano (19 anni e 6 mesi). A scendere, hanno subito pene ingenti – tutte al di sopra dei 10 anni – anche i «partecipi» dei gruppi mafiosi Domenico Coci, Salvatore Bontempo, Sebastiano Conti Mica, Giuseppe Costanzo “u carretteri” Zammataro e Gino Calcò Labruzzo. Per quanto concerne i capi d’imputazione caduti in prescrizione, la Suprema Corte ha disposto rinvii alla Corte d’appello per ricalcolare le pene dove occorre eliminare i reati dichiarati estinti.
La “mafia dei pascoli” è un fenomeno criminale molto diffuso e articolato che riguarda l’infiltrazione della criminalità organizzata nelle attività legate alla gestione e allo sfruttamento dei terreni agricoli. In particolare, la mafia sfrutta i fondi europei destinati all’agricoltura tramite frodi nei sussidi per i pascoli e le attività agricole. I clan, attraverso minacce e intimidazioni e grazie all’impiego di prestanome o all’intestazione di pezzi di terra a persone insospettabili, ottengono illegalmente la gestione di terreni, pubblici e privati, per accedere ai finanziamenti europei della Politica Agricola Comune (PAC) senza svolgere alcuna reale attività agricola.
Nel 2024 è peraltro emerso come a richiedere e ottenere senza incorrere in nessun ostacolo i sussidi agricoli dallo Stato italiano e dall’Unione Europea siano state, negli ultimi anni della sua latitanza, anche le sorelle di Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano che, da stretto alleato dei corleonesi di Totò Riina, ha avuto un ruolo di primo piano nella stagione stragista di Cosa Nostra. Si parla di somme, accreditate dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea), che ammontano complessivamente a circa 17mila euro. I fondi sono entrati in maniera continuativa per 8 anni, dal 2015 al 2023, nelle casse della famiglia. Il boss Matteo è stato arrestato il 15 gennaio 2023 dopo trent’anni di latitanza ed è deceduto nel carcere dell’Aquila il 25 settembre dello stesso anno a causa di un tumore.
Bologna, 6 dicembre 1990: quando un aereo militare fece strage in una scuola
Sul filo dell’ultima campanella, una mattina d’inverno a due passi da Natale, quattro ragazzini corrono a scuola: sono in ritardo e devono accontentarsi dei banchi in prima fila, invece di quelli soliti in fondo all’aula che sono già occupati. Non potevano sapere, non lo poteva sapere nemmeno l’insegnante, che entro un paio d’ore tutta la loro classe sarebbe stata cancellata, letteralmente spazzata via da fuoco e fiamme, e tutti i loro compagni uccisi, disintegrati da un aereo color arancione piombato giù come un forsennato dal cielo. Era il 6 dicembre 1990, il giorno della strage alla succursale dell’istituto tecnico Gaetano Salvemini di Casalecchio, dove Bologna comincia la sua arrampicata verso i colli e dove la pace di una periferia verde e tranquilla, è stata squarciata da un boato di morte, un terremoto inaudito piovuto dall’alto. Federica Tacconi, Milena Gabusi, Daniele Berti e Federica Regazzi, i quattro ragazzi arrivati a scuola col fiatone, sono tutto quello che è rimasto della loro classe, la 2A. Protagonisti loro malgrado di una sliding door che non era un film, ma è stato come tirare a dadi il proprio destino: un’inezia che gli salvato la vita, la semplice questione di pochi metri, e che per molto tempo ha tolto loro la pace.
Un siluro arancione dal cielo
Hanno visto i loro compagni morire, travolti e inceneriti da un Aermacchi MB 326 dell’Aeronautica Militare che ad un certo punto del suo volo è impazzito ed è venuto giù in picchiata, imbizzarrito come un cavallo mustang con le briglie sciolte. E invece di andare a schiantarsi dove non avrebbe potuto fare danni, invece di allontanarsi il più possibile da case e persone, si è infilato sul municipio più grande dell’area metropolitana di Bologna, proprio al primo piano della succursale dell’istituto dove i ragazzi avevano già cominciato i preparativi per le festività natalizie, con decorazioni e canzoni, e che nelle foto in bianconero di quella mattina di orrore e morte, dopo lo schianto, è ridotto ad uno scheletro di mattoni, fumante e annerito. Un bilancio di guerra, quando le ambulanze e i vigili del fuoco hanno finito il loro triste lavoro: 12 alunni uccisi, 11 ragazze e un ragazzo. Tutti del ’75, tutti strappati via a 15 anni, una vittima non li aveva nemmeno compiuti. Bambini. 88 i feriti in tutta la scuola che in quel momento ospitava 200 ragazzi, 82 dei quali studenti. 72 di loro feriti in modo grave o molto grave, tanto che hanno riportato invalidità dal 5 all’85%, vite rovinate nella mente e nel corpo, vite tutte in salita. Una mattina tranquilla che improvvisamente, alle 10.33, diventa un inferno di urla, disperazione, lacrime.

Un fuggi fuggi da quelle aule diventate improvvisamente delle camere a gas. Ragazzi e docenti che disperati si lanciavano nel vuoto, spingendosi giù dal cornicione pur di scappare dal fumo nero, dai veleni delle fiamme, da quella morte calata su di loro come un colpo di mannaia. Una scuola devastata e sventrata nel suo intimo, una comunità e una città intera, Bologna, colpite a morte nel cuore di una collettività che ha scoperto con la brutalità durata un fiammifero, tutta la propria fragilità. Quella sensazione insopportabile che non ti levi mai più dalla pelle, un ergastolo dell’anima, di non essere riusciti a proteggere i tuoi figli e i tuoi nipoti. Ma anche lo sbigottimento del Paese, tutta l’Italia a interrogarsi su come sia possibile che una classe di ragazzi possa essere annientata in quel modo, proprio dentro una scuola che dovrebbe essere un porto sicuro. Un posto dove, come tutti i coetanei, anche i ragazzi della 2A coltivavano tutti i giorni i loro sogni e le loro aspettative: pochi giorni prima della strage, gli era stato proposto un tema dedicato al senso della vita e andare a rileggere i loro lavori, i loro pensieri che sono diventati il loro testamento, guardare le loro fotografie sorridenti, è straziante. Deborah, Laura, Sara, Laura, Tiziana, Antonella, Alessandra, Dario, Elisabetta, Elena, Carmen ed Alessandra, i loro nomi, sono rimasti per sempre nella loro aula.
La missione “Alfa 356” da Verona

Il sottotenente Bruno Viviani aveva 24 anni e 740 ore di volo alle spalle, 140 delle quali proprio con l’MB-326 che è stato un’eccellenza italiana nei jet-trainers, gli aerei militari da addestramento. Lo hanno elogiato perfino gli americani e altrove, nel mondo dove è stato il velivolo italiano più gradito ed esportato nel suo genere, progettato e costruito dall’Aermacchi, lo hanno trasformato in un caccia operativo piuttosto efficace, oltre che maneggevole. Come per esempio i sudafricani che lo hanno acquistato e armato di tutto punto, in barba alle disposizioni di embargo ONU, all’epoca in vigore contro l’apartheid in atto in quel Paese. Quella mattina del 6 dicembre, al 3° Stormo dell’Aeronautica di Villafranca, alle porte di Verona, a Viviani era stata assegnata una missione “in bianco”, ossia disarmata. Il piano di volo, battezzato “Alfa 356”, era iniziato col decollo alle 9.48 e prevedeva un passaggio in una zona tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, con un attacco simulato ad una postazione: tre passaggi prima di essere intercettato.
Ma circa mezz’ora dopo il decollo, Viviani è costretto a comunicare alla torre di controllo di Monte Venda, nel padovano, la “piantata” dei motori, che in gergo vuol dire la perdita di potenza di uno o di tutti i propulsori che improvvisamente calano fino anche a fermarsi. Viviani comunica un calo del 60% dei motori del suo MB-326. Da manuale, un pilota in quella situazione non proprio semplice deve abbassare il muso del suo velivolo, per cercare di mantenere velocità e portanza, prima di tutto per non perdere quota. Aprire i flap e, soprattutto, azionare il dispositivo “relight”, ossia una riaccensione. Viviani esegue e l’apparecchio riprende il 75% della sua potenza, si trova a 1.371 metri sopra Ferrara e ha la possibilità di tentare un atterraggio di emergenza a Poggio Renatico, sulla pista di un aeroporto militare dove eventuali danni sarebbero stati comunque circoscritti. Non lo fa, però. Perché dalla torre di controllo l’aereo viene dirottato verso Bologna, una disposizione alla cieca, senza conoscere la disponibilità delle piste del Marconi e la struttura del territorio.
Ci sarebbe stato anche il mare per cadere, per la verità. L’Adriatico. Le spiagge dei lidi ferraresi, non molto lontane, sarebbero state un punto di fuga isolato, vuoto e sicuro, specie in quei giorni di dicembre. L’unico danno sarebbe stato, per l’Erario, la perdita dell’aereo. Ma Viviani esegue gli ordini e prosegue, anche se scarica tutto il carburante per alleggerire l’aereo e depotenziare il più possibile i rischi della caduta ormai prossima. Quando la torre di controllo del Marconi di Bolgona lo avvista, alle 10.25, Viviani comunica “ho delle forti vibrazioni… Ho i comandi laschi, mi sa che mi lancio”. Sei minuti dopo, alle 10.31, l’ultima comunicazione radio tra l’aereo e la base di Villafranca: dal 3° Stormo l’indicazione di allineare il muso del MB-326 alla linea dell’orizzonte e orientarlo verso una zona disabitata. L’aereo ormai impazzito, invece, punta verso la periferia di Bologna, mentre Viviani aziona l’espulsione del suo seggiolino: nella caduta il pilota si romperà tre vertebre, nonostante il paracadute. Quel tipo di seggiolino – denominato 0/0 – poteva funzionare ed espellere in sicurezza il pilota a velocità e quota zero: ma Viviani aziona l’espulsione ad un’altezza considerevole, quindi con un margine ancora molto ampio per mettersi al sicuro. Perché non ha aspettato, continuando a governare nel frattempo l’aereo? Fatto sta che l’Aermacchi, abbandonato a se stesso, si dirige verso Casalecchio. Proprio sopra all’istituto Gaetano Salvemini, dove piomba come un castigo del cielo due minuti dopo, mentre la chioma di un pino lo smista atrocemente verso la finestra della classe 2A. Quel siluro colorato di arancione che qualche studente ha visto, prima di tremare per il boato dell’impatto e per la violenza delle conseguenze.
Tre militari alla sbarra

Due giorni dopo l’apocalisse di fuoco e morte nella pancia della Salvemini, il pubblico ministero Massimiliano Serpi – che da magistrato inquirente si era già occupato del processo a Luigi Ciavardini per la strage alla stazione di Bologna – firma l’avviso di garanzia nei confronti del sottufficiale Bruno Viviani e nomina tre medici legali. Insieme al pilota, sono indagati anche il comandante del 3° Stormo di Villafranca, colonnello Eugenio Brega, e il responsabile della torre di controllo e delle operazioni, tenente colonnello Roberto Corsini. Vengono messi sotto accusa anche funzionari ed amministratori di Casalecchio, ipotizzando l’assenza di dispositivi antincendio nella scuola, e i meccanici addetti alla revisione e manutenzione dell’aereo. I loro fascicoli vengono poi archiviati, ma quello relativo ai tecnici dell’Aeronautica potrebbe essere stato stralciato in modo sbrigativo, per ragioni affiorate in tempi più recenti. Il giudice delle indagini preliminari (all’epoca si utilizzava nella fase istruttoria il codice di procedura precedente a quello attuale) è Aureliana Del Gaudio, al quale viene assegnato il fascicolo delle indagini. I tre militari, gli unici imputati, finiscono alla sbarra con le accuse di omicidio colposo plurimo, disastro aviatorio e lesioni. Il 28 febbraio 1995 vengono condannati in primo grado a due anni e sei mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali, al risarcimento e alle provvisionali alle parti civili che sono state costrette ad affidarsi ad avvocati privati perché l’Avvocatura dello Stato, rappresentata dal legale Mario Zito, ha negato loro il patrocinio per dedicarsi alla difesa dei militari imputati e del Ministero della Difesa: scelta che ha provocato non poche polemiche. Così come il fatto che il Consiglio di Istituto sia stato escluso dalle parti civili, in quanto non rappresentativo degli interessi della scuola. Il Ministero della Pubblica Istruzione, che ne avrebbe avuto la titolarità, scelse di non farla valere.
Un colpo di spugna in 8 giorni
Due anni dopo, nel gennaio 1997, il processo di appello che in appena otto giorni ribalta tutto: il 22 del mese la sentenza della Corte di Assise che spazza via la pronuncia di primo grado e assolve tutti “perché il fatto non costituisce reato”. Ci vogliono la bellezza di cinque mesi per leggere le motivazioni del dispositivo, nonostante le ripetute sollecitazioni del sindaco e del ministro di Grazia e Giustizia a rispettare i termini di legge che prevedono 90 giorni per il loro deposito. La Corte d’Appello stabilisce l’”imprevedibilità dell’evento e l’ineluttabilità del danno”, puntando il dito verso i giudici del primo grado, così come verso il pm della fase istruttoria, il Gip, il pubblico ministero del primo processo e il procuratore generale di quello di Appello. Tutti spinti da suggestioni “politiche”, mentre secondo i giudici dell’Appello il processo non sarebbe nemmeno dovuto iniziare, visto che gli imputati – secondo loro – non avevano nessuna colpa per le avarie dell’aereo e quindi per le catastrofiche conseguenze della sua caduta. Per la Corte di Appello di Bologna, la strage del Salvemini è stata imputabile solo al fato. Al destino. Una tragica fatalità che esclude ogni umana colpa. La Quarta sezione della Corte di Cassazione, il 26 gennaio 1998, ha confermato il giudizio di secondo grado, respingendo il ricorso delle parti civili (familiari e parenti delle vittime in primis) e dal Procuratore generale di Bologna, e prosciogliendo in via definitiva gli imputati. Per la giustizia italiana, la strage dei ragazzi del Salvemini è un fatto dovuto alla casualità. Peccato che quell’aereo, l’MB326 pilotato da Viviani, avesse avuto altre due “piantate” ai motori nel corso dello stesso anno: il 22 febbraio e l’8 novembre, un mese prima di schiantarsi sulla scuola di Casalecchio.
I misteri del jet revisionato

Il comandante Mario Ciancarella, ufficiale pilota, ha pagato un prezzo molto alto alla sua caparbietà e alla sua ostinazione. Il suo impegno per creare un movimento democratico all’interno delle forze armate e per scoprire le verità inconfessabili della strage di Ustica, sulla quale si è impegnato per anni raccogliendo il testimone di amici commilitoni coinvolti e misteriosamente “suicidati”, gli sono costati, oltre ad una detenzione terrificante a Forte Boccea e ad una vita segnata per sé ed i propri familiari, la radiazione dal corpo di appartenenza, l’Aeronautica Militare. Che però è stata eseguita con un decreto a firma apocrifa dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, come accertato dalla magistratura in una battaglia giudiziaria durata decenni. Nella sua autobiografia, Si può si deve, edita da Pigreco, Ciancarella dedica alcune riflessioni sul sistema di manutenzione e revisione degli aerei da parte dell’Aeronautica: sono previsti tre livelli di interventi, l’ultimo dei quali denominato “Grande Ispezione”, eseguito da officine specializzate esterne alle forze armate e che costa milioni ai contribuenti. Prevede letteralmente che l’aereo sottoposto a revisione venga rivoltato da cima a fondo e riportato a condizioni pari al nuovo con una procedura meticolosa e rigorosamente documentata e certificata. Come è stato possibile, si chiede il comandante, che un velivolo come l’MB326 pilotato da Viviani, passato da poco attraverso il terzo livello di manutenzione, il più accurato e approfondito, potesse avere problemi di quel genere in volo, fino a subire la “piantata” dei motori? Come era possibile che un apparecchio riportato in teoria a condizioni di perfetta efficienza, potesse manifestare tali e tante avarie e problemi? I meccanici di Villafranca deputati alla manutenzione di quel jet da addestramento, inizialmente iscritti nel registro degli indagati da parte della magistratura, sono usciti di scena presto, prosciolti da ogni accusa. Forse troppo presto.
Progettato per volare anche senza il motore
Non è tutto, però. Su quel tipo di aereo, i collegamenti erano meccanici, e non idraulici. Ossia, per governare le superfici mobili come alettoni e timoni che possono essere le ancore di salvezza quando le cose si complicano, non era necessaria la rotazione del motore e la sua erogazione. Per farla breve, l’MB326 era stato progettato e realizzato per poter volare e soprattutto atterrare anche coi motori spenti. Infatti, era famoso proprio perché concepito per poter planare in condizioni estreme, gli allievi piloti erano messi alla prova proprio su questo e dovevano sviluppare le loro capacità, così come il sottufficiale Bruno Viviani. E allora, come si è potuto parlare di “aereo ingovernabile” per la strage del Salvemini? Siamo proprio sicuri che sia stato il destino ad abbattere quell’aereo che aveva avuto due guasti analoghi in pochi mesi? Quali sono state le vere cause di quell’avaria fatale che per i giudici è stato un evento imponderabile e che in tempo di pace ha provocato la più grave strage di adolescenti in questo Paese?
La comunità energetica di Corviale: quando la transizione parte dai quartieri popolari
Una comunità energetica solidale, creata per promuovere l’autoproduzione e lo sviluppo sostenibile del territorio, è nata a Corviale, quartiere popolare della periferia sud-ovest di Roma. Il progetto prende il nome di CorvialèCERS – dove l’acronimo sta per Comunità Energetica Rinnovabile Solidale – ed è frutto della collaborazione tra il progetto SUN4U e la cooperativa EUDECoop. È l’undicesima comunità di questo tipo che fa parte del progetto SUN4U, realtà attive che stanno sperimentando nuovi modelli partecipativi di produzione e condivisione dell’energia contribuendo attivamente alla costruzione di un futuro più sostenibile.
Una comunità energetica è un’alleanza tra cittadini, imprese, enti locali o associazioni che decidono di produrre, condividere e utilizzare energia rinnovabile in modo collettivo, trasformando l’energia da semplice servizio a bene comune. Alla base c’è un principio semplice ma rivoluzionario: l’energia non è solo qualcosa che si compra, ma qualcosa che si può creare insieme. I membri investono in impianti fotovoltaici o altre fonti pulite e, grazie a una gestione condivisa, producono elettricità che viene consumata in loco oppure immessa in rete e redistribuita agli aderenti. Il valore aggiunto non sta solo nel risparmio economico – comunque significativo – ma nella partecipazione attiva dei cittadini alla transizione ecologica che diventa un modo concreto per far crescere il senso di appartenenza e immaginare, insieme, un futuro. In Italia il fenomeno è in rapida crescita: anche se non ci sono cifre ufficiali le comunità di questo tipo dovrebbero essere tra le 400 e le 600, tra quelle formali, e quindi iscritte al Gestore dei Servizi Energetici, informali e in via di costituzione.
In Italia nel 2024 è stato approvato il decreto CACER (Configurazioni di Autoconsumo per la Condivisione dell’Energia Rinnovabile) per recepire le direttive europee e stabilire le modalità per accedere a tariffe con incentivi e contributi a fondo perduto per le comunità energetiche rinnovabili e altre configurazioni di autoconsumo diffuso. Di recente, però, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha ridotto i finanziamenti del Pnrr destinati alle Comunità energetiche rinnovabili da 2,2 miliardi a 795,5 milioni, con un taglio del 64%. Intanto anche il comune di Roma sta lavorando al progetto, e sono in corso di approvazione regolamenti e atti specifici per facilitare la costituzione e la partecipazione dei cittadini alle CER.
Il progetto di Corviale prevede l’installazione di impianti condivisi (il primo da circa 93 kWp allo stadio del rugby) e la partecipazione di circa 50 famiglie e 11 imprese del Municipio XI. Nell’idea degli organizzatori: «Lo stadio non è solo ideale dal punto di vista tecnico e centrale nel territorio ma anche perché riflette i valori delle comunità rugbistica ed energetica: responsabilità sociale, solidarietà ed inclusione». Inoltre spiegano che: «La realizzazione dell’impianto sarà anche occasione per un percorso di scuola cantiere nel settore delle rinnovabili per i giovani del quartiere».
«La Fondazione Banco dell’Energia, dedicata proprio alle rinnovabili, è pronta a finanziare l’impianto, siamo in attesa dei permessi definitivi per far partire i lavori», racconta a L’Indipendente il presiedente della comunità, Tommaso Capezzone. Mentre lo studio di fattibilità e la progettazione erano stati fatti grazie alla vittoria di un bando della Camera di commercio.
L’obiettivo è promuovere un consumo energetico consapevole, autoconsumo collettivo, sostenibilità ambientale e inclusione sociale, con una particolare attenzione al contrasto della povertà energetica. «Noi abbiamo scelto di lavorare su vari campi», aveva spiegato Capezzone all’inaugurazione del progetto, «uno dei quali è proprio l’energia, perché risponde a sociali e ambientali, e soprattutto all’idea dello stare insieme e quindi produrre energia sia in senso reale che in senso simbolico».
USA: nel nuovo piano per la sicurezza di Trump l’UE rischia la “cancellazione di civiltà”
Sovranismo, appoggio alle destre e correzione della «traiettoria europea», dove «censura e repressione politica» (verso le destre) renderanno il continente irriconoscibile «in meno di vent’anni». Sono questi alcuni dei punti centrali della nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d’America, nella quale l’Europa è dipinta come un continente in declino, prossima alla «cancellazione della civiltà». Dal canto suo, l’Europa ha cercato di minimizzare il contenuto del rapporto, con l’Alta Rappresentante Kaja Kallas che si è limitata a ricordare che «gli Stati Uniti sono il nostro più grande alleato» ed è «nel loro interesse» continuare a collaborare con l’UE. La politica italiana aderisce invece alle posizioni di Trump, cavalcando il suo discorso per sottolineare la necessità di investire ulteriormente nel settore bellico.
Il documento diffuso ieri specifica che la strategia punta a far rimanere gli Stati Uniti «la nazione più forte, ricca, potente e di successo» al mondo. Affinchè questo possa accadere, è necessario plasmare la direzione politica degli alleati e le relazioni commerciali con l’esterno. Abbandonando definitivamente il pretesto dell’esportazione della democrazia per influenzare le politiche economiche degli altri Paesi, il documento specifica che non è necessario imporre «cambiamenti sociali» radicali per rafforzare i propri legami. Di fatto, è necessario puntare al rafforzamento del sistema Stato-nazione, in quanto «il mondo funziona meglio quando le nazioni rendono prioritari i propri interessi». Al contempo, tuttavia, «nessuna nazione può diventare tanto dominante da minacciare i nostri interessi».
Se, per quanto riguarda la politica interna, è necessario rafforzare l’apparato militare in ottica della deterrenza e fermare del tutto l’immigrazione, è anche necessario che l’emisfero occidentale rimanga «ragionevolmente stabile» e «ben governato», in modo da «scoraggiare la migrazione di massa negli Stati Uniti». L’era in cui gli Stati Uniti «sostenevano l’intero ordine mondiale» è finita: ora, gli alleati delle nazioni avanzate devono prendersi la responsabilità della stabilità della propria regione – ubbidendo però ai dettami imposti dagli USA, come quello che impone ai Paesi NATO di spendere il 5% del proprio PIL nella Difesa.
In questo contesto, secondo gli Stati Uniti, l’Europa sta rimanendo indietro: non solo per via della spesa militare insufficiente e della stagnazione economica, ma anche per problematiche più profonde che la espongono alla «cancellazione della civiltà», che potrebbe avvenire da qui a meno di vent’anni. Le politiche migratorie, le «attività dell’Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica», la censura e la repressione dell’opposizione politica, oltre al crollo della natalità e alla «perdita di identità nazionali e fiducia in sè stessi», sono tutte problematiche centrali in questo senso, sostiene il documento, che rendono molti Stati dell’UE alleati non affidabili per gli Stati Uniti. «Vogliamo che l’Europa rimanga europea, riacquisti fiducia nella sua civiltà». E per farlo è necessario «correggere la propria traiettoria», ristabilendo rapporti equilibrati con la Russia, costruendo un proprio sistema di difesa autonomo e promuovendo la crescita dell’influenza di «partiti europei patriottici» (ovvero i partiti di destra, esplicitamente appoggiati dagli Stati Uniti con interventi del vicepresidente Vance stesso).
Se l’UE ha ostentato una tiepida reazione al documento, la politica italiana ha immediatamente aderito alla linea di Trump. Il ministro della Difesa Crosetto ha commentato: «Trump ha esplicitato che l’UE non gli serve» nella «competizione sempre più difficile, complessa e dura con la Cina», perchè «non ha risorse naturali particolarmente rilevanti o utili», «sta perdendo la competizione sull’innovazione e la tecnologia» e «non ha potere militare», suggerendo dunque ulteriori investimenti nel settore bellico come via della redenzione. Posizione analoga a quella della presidente del Consiglio Meloni, che intervistata da Mentana ha sostenuto come non vi sia «un incrinarsi dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa» e di essre d’accordo su alcuni punti delineati da Trump. Tra questi, «la correzione della politica migratoria dell’UE» e «processo storico inevitabile» cui stiamo assistendo, ovvero che «l’Europa deve capire che per essere grande deve essere in grado di difendersi da sola e non può dipendere dagli altri». Un cambiamento che ha «un costo economico» e «produce una libertà politica».
Sudafrica, sparatoria in un ostello a Pretoria: almeno 11 morti
Uomini armati hanno fatto irruzione nel Saulsville Hostel di Atteridgeville, a ovest di Pretoria, uccidendo almeno 11 persone, tra cui un bambino di tre anni, e ferendone 25. La sparatoria, scoppiata intorno alle 4 di questa mattina, è ora sotto indagine, con il maggior generale Thine sul posto. La polizia è attualmente sulle tracce di tre sospettati, ma non sono stati resi noti altri dettagli. L’attacco è l’ultima di una serie di sparatorie di massa registrate nel Paese e riaccende l’allarme sulla diffusa violenza armata in Sudafrica, alimentata da armi illegali e attività criminali.
Il mondo è tutto ciò che accade
Dobbiamo abbracciare il mondo, non le cose. Scriveva Wittgenstein che il mondo è tutto ciò che accade. Esistono dunque le relazioni non gli oggetti.
Gli oggetti, anche splendidi e ricercati sono cose, non meritano un linguaggio, non accolgono parole che durano. Sono destinati all’uso, anche un uso speciale ma hanno una vita circoscritta, contengono la loro fine, la loro parziale utilità. È il loro consumo, il loro riflettersi in qualcuno che le rappresenta a dare loro espressione, come un buon cibo, come un dono.
Le cose hanno un destino. Le persone no, dipendono dal divenire e da una volontà, si definiscono per quello che desiderano. Le persone sì, si riflettono nel linguaggio che le accoglie, che li custodisce e le fa esprimere.
Dobbiamo dunque avere un tesoro di sguardi, di cenni, di ascolto che accolga, che apra gli occhi davanti al bisogno, che favorisca la risposta dell’altro. Gli altri sono infatti il nostro linguaggio, le nostre parole, il senso di un giorno o di sempre.
Lasciamo spazio alla risposta, accettiamo, cioè ascoltiamo.
Arriverà la vittoria. Scopriremo che avverrà proprio quello aspettavamo. Avevamo bisogno di sentirci ospiti generosi ma non sapevamo ancora come. Ogni giorno, se ascoltiamo bene, ci viene detto perché.
Nuovi scontri al confine tra Afghanistan e Pakistan: almeno 4 morti
Tra venerdì e sabato si sono verificati nuovi scontri armati al confine tra Afghanistan e Pakistan, vicino a Spin Boldak: secondo le autorità afghane almeno quattro persone sono morte. I combattimenti, durati diverse ore, restano di origine incerta, con i due paesi che si accusano reciprocamente di aver aperto il fuoco per primi. Le tensioni tra i governi sono elevate da tempo: il Pakistan accusa i talebani afghani di proteggere i talebani pakistani (TPP), mentre Kabul denuncia bombardamenti pakistani nel sud del paese. A ottobre c’erano già stati scontri, seguiti da un cessate il fuoco mai evoluto in un accordo stabile.
Dentro Tubas: cosa rimane di una città palestinese dopo sei giorni di assedio israeliano
TUBAS, PALESTINA OCCUPATA – È finita (per ora) l’aggressione militare israeliana nel governatorato di Tubas. I soldati dell’IDF hanno lasciato la città dopo un totale di sei giorni di assedio e uno di pausa. Tubas, Aqaba, al-Faraa, Tayasir e Tamoun sono tornate a vivere. Il coprifuoco è finito, i bambini possono tornare a scuola, i negozi sono aperti, le strade brulicano di gente. Ma i danni, le ferite e le conseguenze che l’ennesimo raid israeliano hanno lasciato sono difficili da cancellare. «Era venerdì 28 quando ci sono entrati in casa», racconta Mohammad a L’Indipendente. «I soldati hanno messo in una stanza le donne, nell’altra gli uomini. Poi hanno picchiato i miei due figli», racconta. Siamo ad Al-Faraa, il campo profughi a 5 km da Tubas. Uno dei territori sistematicamente attaccati attraverso incursioni, assedi, danneggiamenti alle infrastrutture, di cui quest’ultimo raid è solo un esempio.
Uno dei due figli siede con noi, il braccio rotto al collo. Glielo hanno spaccato i soldati. Tutti e due sono finiti all’ospedale. L’altro figlio ancora non riesce a dormire per il dolore. I militari l’hanno colpito ripetutamente con gli stivali rinforzati sul ginocchio, dove gli avevano sparato un anno fa. Il ragazzo, trentenne, non vuole foto, teme ripercussioni. «Uno dei soldati ha preso anche me, mi ha messo al muro. Ma un altro ha detto “no, lui no”. Perché sono vecchio», sorride Mohammad. Gli chiedo che cosa volevano i soldati, che domande facevano. Scuote la testa: «Questa operazione l’hanno fatta solo per picchiarci, per dirci che dobbiamo stare zitti. Che questa terra è loro. Non chiedevano niente. Qui, ci trattano come animali».
La sua casa testimonia le numerose incursioni subite. Molte delle finestre sono rotte, i vetri sostituiti da pezzi di cartone. Il muro del salotto presenta vari fori di proiettili. Anche l’armadio della camera da letto è stato rotto dalle fucilate dei soldati. «Qui, puoi morire mentre stai tranquillamente dormendo a casa tua!» dice, indicando la finestra accanto al comodino dove sono entrati i proiettili.
L’intero campo profughi mostra le ferite lasciate dai raid militari; la strada principale del campo, è stata scavata dai D9, i bulldozer israeliani con la quale letteralmente arano le strade e rompono l’asfalto. Una parte delle infrastrutture idriche ed elettriche sono state rovinate in questi due anni di ripetuti assedi. «Questa casa l’hanno bruciata», prosegue Mohammed, avvicinandoci a un edificio tutto nero e chiuso con una rete. «Quest’altra l’hanno danneggiata con i bulldozer. Anche quella, e quella» dice, mostrando le evidenti riparazioni effettuate. Camminiamo osservando i buchi dei proiettili sulle case, le finestre rotte, i muretti abbattuti. Arriviamo davanti alla sede dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi. Una grossa struttura con molte vetrate. «Questo posto viene sistematicamente preso di mira», spiega. «Spesso sparano contro le finestre per rompere i vetri. Per mandare via l’UNRWA». Anche le scuole lì accanto sono state danneggiate. I muretti esterni mostrano segni di riparazioni recenti e alcuni tratti sono tuttora a pezzi. Accanto, su un palo della luce, il manifesto di un ragazzino ucciso. Fanno così, qui, per ricordare i martiri. «L’hanno ucciso due settimane fa», dice. «Si chiamava Jad Jihad Jadallah. Aveva 15 anni. È stato ucciso il 16 novembre 2025, mentre giocava a pallone, proprio qui. Hanno impedito all’ambulanza di soccorrerlo, poi hanno sequestrato il corpo». Jad è la 29esima vittima nel campo profughi di al-Faraa uccisa dai soldati d’Israele. 12 di essi, erano ragazzini come lui.
«Ci attaccano perché vogliono mandarci via da tutta quest’area. Siamo all’ingresso della Valle del Giordano, quello che era “il granaio di tutta la Palestina”, dove in passato si produceva la maggior parte della frutta e della verdura. Questa zona è piena di fonti idriche». E aggiunge: «Vogliono prendersi tutta l’area. Anche perché se controllano Tubas, controllano Jenin e Nablus».
Conclude: «c’è una grande sofferenza qui. Ma resistiamo. Dobbiamo essere pazienti. Non lasceremo la nostra madre terra. Saremo come gli alberi: anche se ci uccidono, resteremo qui, non ce ne andremo».

Il sindaco di Tamoun ci accoglie con la solita gentilezza palestinese. Samir Bisharat, una quarantina d’anni, è una delle oltre 200 persone che sono state detenute durante l’ultima operazione Cinque Pietre. Tamoun è una cittadina di circa 14mila persone presa particolarmente di mira dall’esercito israeliano in questi ultimi due anni e l’ultimo raid lo dimostra: solo nel paesino 25 case sono state occupate e rese caserme per interrogatori; 170 le abitazioni perquisite, 100 persone detenute e interrogate. Cinque gli uomini arrestati.
«Tamun ha circa 40 martiri, molti dei quali bambini. Tutti uccisi dopo il 7 di ottobre,» dichiara Bisharat a L’Indipendente. «Stiamo anche soffrendo per gli ingenti danni economici causati dalle continue incursioni. Questa è una terra di agricoltori. L’obiettivo israeliano è prenderci le terre, distruggere la nostra sussistenza per mandarci via», conferma. «Solo le perdite economiche legate al commercio ammontano a circa 5 milioni di shekel [1,3 milioni di euro, ndr]. Più almeno 3 milioni per i danni alle infrastrutture soprattutto idriche, e 1 milione per quelle private. Ma stiamo ancora contando le perdite economiche». Bisharat denuncia anche che molti cittadini hanno riportato furti di soldi e gioielli durante le perquisizioni e le occupazioni delle proprie abitazioni.
Secondo il sindaco, la retorica con la quale Tel Aviv giustifica gli attacchi è una semplice scusa. «Non abbiamo armi qui», dice. «Vogliono prendersi la terra per costruire una strada di decine di km che dividerà le zone abitate dalle terre coltivate. Il loro principale obiettivo è questo. Stanno anche distribuendo ordini di lasciare dei terreni agricoli con questo scopo». Anche lui conferma che l’area è un territorio strategico, per la sua vicinanza al confine con la Giordania e per la ricchezza delle fonti idriche.
«L’ultima incursione è stata particolarmente violenta. Non si era mai vista una quantità così grande di soldati invadere Tamoun. Sono venuti con gli elicotteri Apache, con armi pesanti», riferisce. «Hanno chiuso le strade con quintali di terra, nessuno poteva entrare o uscire. Quando fanno i raid, la vita, si ferma. Non lasciano nemmeno i giornalisti e le ambulanze avvicinarsi». Gli chiedo della sua detenzione. «Mi hanno detenuto mentre stavo andando in giro per Tamoun a portare medicine a chi aveva bisogno. Mi hanno ammanettato e bendato. Gli ho detto che ero il sindaco, ma non gli è importato». Mi offre una sigaretta, prima di farmi accompagnare a vedere la distruzione lasciata dai bulldozer di Tel Aviv la settimana scorsa. Cinque chilometri della strada che connette Tamoun e Atuf sono stati distrutti. Macchinari del comune stanno ancora lavorando per togliere i pezzi di asfalto lacerati e ai margini delle strade ci sono tuttora detriti. Le macchine avanzano lentamente sulla strada disconnessa.
«Qui vorremmo solo quello che sono i diritti basici di ogni persona: il diritto di vivere, di stare in pace e in sicurezza. Diritti che ci vengono negati dall’occupazione,» conclude il sindaco.
Russia-Ucraina, attacchi incrociati nella notte
Un attacco russo con missili e droni ha colpito nelle ore notturne alcune città dell’Ucraina. Lo hanno riferito autorità locali, rendendo noto che nella regione di Kiev sarebbero state ferite almeno tre persone. L’attacco ha colpito le infrastrutture ferroviarie, rendendo necessaria la riprogrammazione dei collegamenti passeggeri. Contestualmente, droni ucraini hanno preso di mira le regioni russe di Ryazan e Voronezh, provocando danni ma nessuna vittima. Lo hanno dichiarato stamane i governatori locali. Gli attacchi hanno causato un incendio sul tetto di un edificio residenziale a più piani e i detriti dei droni sono caduti sul terreno di una struttura industriale.









