Cresce la tensione tra Venezuela e Stati Uniti. Gli attacchi autorizzati dalla Casa Bianca verso decine di imbarcazioni al largo delle coste venezuelane hanno causato la morte di oltre 100 persone, come denunciato da un gruppo di esperti incaricati dall’ONU. Questi ultimi hanno sottolineato l’illegalità del blocco navale americano, di fatto «un uso proibito della forza militare» che attiva «un diritto di legittima difesa» per lo Stato vittima. Il Venezuela è in stato di mobilitazione, di fronte a quelli che il suo presidente, Nicolás Maduro, ha definito atti di «pirateria e saccheggio delle risorse di Stati sovrani», invitando l’omologo Donald Trump ad abbandonare le mire espansionistiche, suscettibili di rendere il Paese caraibico un nuovo teatro della terza guerra mondiale a pezzi.
Continuano le operazioni militari statunitensi al largo delle coste venezuelane, a distanza di oltre due mesi dalle prime minacce. Il dispiegamento di migliaia di soldati si affianca agli affondamenti di almeno venti piccole imbarcazioni accusate di narcotraffico, che hanno causato più di 100 esecuzioni extragiudiziali. Secondo la Casa Bianca, il governo di Maduro foraggerebbe il traffico di stupefacenti nell’ambito del Cartel de los Soles, la cui stessa esistenza non è stata ancora verificata. Le accuse, unitamente al rispolvero del ruolo del poliziotto del mondo e all’accondiscendenza degli alleati, hanno permesso agli Stati Uniti di stringere la morsa intorno al Venezuela, mettendo nel mirino il petrolio di cui è ricco. Se formalmente le azioni statunitensi sono mosse dalla volontà di spezzare il presunto sostegno di Maduro al narcotraffico, l’interesse economico e le pressioni politiche per un cambio di regime sono evidenti.
Pochi giorni fa, Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti terranno il carico di petrolio venezuelano (4 milioni di barili) sequestrato al largo delle coste di Caracas. In un intervento al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’ambasciatore statunitense Mike Waltz ha dichiarato che «gli Stati uniti faranno tutto ciò che rientra nel loro considerevole potere per proteggere il nostro emisfero, i nostri confini e il popolo americano». Il rispolvero della dottrina Monroe a distanza di 2 secoli dalla sua messa a punto ha incontrato l’indignazione del Venezuela. Nella stessa sede, Samuel Moncada, il rappresentante di Caracas all’ONU ha infatti descritto le azioni di Washington come la «più grande estorsione della nostra storia», accusando l’amministrazione Trump di «saccheggio, depredazione e ricolonizzazione».
Oltre all’indignazione dello Stato caraibico, gli attacchi USA hanno attivato il Consiglio ONU per i diritti umani, che ha delegato un’indagine a un gruppo di 4 esperti indipendenti. Secondo questi ultimi, «non esiste alcun diritto di imporre unilateralmente delle sanzioni tramite un blocco armato», il quale si configura come «un uso proibito della forza militare» che attiva «un diritto di legittima difesa» per lo Stato vittima. Il gruppo di esperti ha poi auspicato delle indagini ulteriori sulle morti causate dagli attacchi USA, contro il basilare diritto alla vita.
Se continuerà, la guerra politico-economica del petrolio avrà ripercussioni sull’intero mercato energetico globale (e globalizzato), rischiando di consegnare a quella che Papa Francesco definiva la terza guerra mondiale a pezzi un nuovo tassello strategico. Cina e Russia hanno condannato in sede ONU la pressione militare ed economica esercitata dagli Stati Uniti sul Venezuela; l’Europa, trincerata nel silenzio, conferma invece la marginalità geopolitica in cui si è impantanata negli ultimi tempi.
Un terremoto di magnitudo 6.4 ha scosso la costa nord-orientale di Taiwan, alle 23:05 locali (16:05 italiane). Al momento, l’agenzia meteorologica dell’isola non segnala vittime o danni particolari anche se l’attenzione resta alta. L’epicentro si è registrato in mare, al largo della contea di Yilan, a una profondità di circa 90 chilometri. Il sisma è stato avvertito anche in Giappone, in particolare sulle isole Ishigaki e Iriomote.
Con 93 voti a favore, 51 contrari e 5 astenuti, il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge sulla Corte dei Conti, confermando il testo licenziato dalla Camera. Sono stati infatti respinti tutti gli emendamenti presentati dai partiti di opposizione. Tra le varie misure, la riforma riduce il risarcimento per danno erariale, dovuto cioè da funzionari e amministratori che causano un danno economico allo Stato.
Pochi giorni prima di Natale il Capo di stato maggiore della difesa del Regno Unito, Richard Knighton ha lanciato il suo annuncio-bomba: «Le famiglie devono essere pronte a mandare i loro figli e le loro figlie in guerra contro la Russia». Mentre in Europa, e in Italia di conseguenza, la parola più usata dalla politica è riarmo, il Regno Unito si prepara a mobilitare la sua popolazione. E per farlo, tuona Knighton, è necessario che le scuole incoraggino i ragazzi ad abbandonare gli studi. «Abbiamo bisogno di più persone che lascino la scuola per entrare in questo settore. (…) Abbiamo bisogno che i genitori e le scuole incoraggino i bambini e i giovani a intraprendere la carriera militare». Presto comunque, le famiglie «sapranno cosa significa il sacrificio per la nostra nazione». Knighton precisa che le possibilità di un attacco russo sono remote, ma intanto è necessario militarizzare la società e prepararsi a un’economia di guerra.
Una profezia che avrebbe dovuto far inarcare più di qualche sopracciglio, ma che invece è passata quasi inosservata se non accolta con favore da tutti coloro che guardano con favore al riarmo dell’Europa, come il nostro ministro Crosetto, e che nel clima bellicista di questi ultimi tempi sembrano non averne mai abbastanza. Lo scorso marzo era stata la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ad aprire le danze, tuonando a gran voce che era necessario riarmare l’Europa. E da quel momento fu tutto un susseguirsi di dichiarazioni entusiaste, almeno sulla carta, nei confronti del nuovo, grandioso piano che prese il nome di ReArm Europe (riarmo europeo), poi prudentemente rinominato Readiness 2030 (prontezza 2030). Il dibattito politico ha ruotato attorno alla necessità, vera o apparente, di concludere in fretta il riarmo dell’Europa. Peccato che non esista nessun riarmo. E che la parola riarmo sia il classico esempio di come le parole vengano usate per manipolare l’opinione pubblica e pilotarne le emozioni; ciò che una buona propaganda si prefigge di fare.
L’antitesi della parola riarmo è il sostantivo disarmo. Un’Europa disarmata è un’Europa indifesa, sostengono i fautori della dottrina della deterrenza. L’utilizzo della parola riarmo, infatti, non è casuale. Lascia presupporre e che esista una debolezza, una vulnerabilità che il Nemico, ovviamente disumanizzato e spietato come ogni Nemico che si rispetti, vuole e può sfruttare in ogni momento per invaderci, distruggerci e assoggettarci al suo potere. La parola riarmo fa leva su una paura ancestrale: l’essere indifesi. E chi mai vorrebbe esserlo davanti a un Nemico esiziale come la Russia? Ecco allora che il riarmo diventa necessario, un obbligo morale, un’urgenza che non può essere disattesa in alcun modo.
Peccato però che l’Europa non sia mai stata disarmata. Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda ci furono effettivamente un paio di anni in cui la spesa militare decrebbe, per poi tornare ad assestarsi su una tendenza abbastanza stabile. Nel 2024 prima del grande piano di riarmo, l’Europa spendeva già più del doppio della Russia. Il Centro Studi Europeo riporta che: «L’ampio divario tra spesa russa ed europea nel 2024 suggerisce cautela nel concludere che sia necessario un forte aumento della spesa militare». Badate bene, aumento dice e non riarmo. «La spesa militare russa è in buona parte destinata a rimpiazzare le ingenti perdite sul campo di mezzi e munizioni sostenute dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Di conseguenza, nel 2024 l’aumento degli arsenali russi è stato ben inferiore a quello suggerito dalla sua spesa militare. La spesa europea non viene invece erosa da attività belliche e quindi va interamente, per la componente relativa agli armamenti, a incrementare le capacità di difesa».
Sempre nel 2024 la spesa degli Stati membri nel settore della difesa aveva raggiunto i 343 miliardi di euro, facendo registrare un aumento per il decimo anno consecutivo. In parole povere la spesa militare in Europa era già cresciuta esponenzialmente prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Ma perché è così importante? Perché le parole che usiamo creano la realtà. Letteralmente. Le parole non sono mai soltanto parole, sono orizzonti. Chiamare il riarmo attraverso la formula «ulteriore e ingiustificato aumento della spesa militare» per rilanciare le politiche espansionistiche e le industrie morenti di Francia, Germania e Regno Unito non avrebbe avuto lo stesso effetto.
Naturalmente la parola riarmo non è stata l’unica parola usata in questi ultimi mesi allo scopo di manipolare l’opinione pubblica. Il podio in classifica lo merita «la leva obbligatoria su base volontaria», il nuovo diktat della Germania. Anche se a giudicare dalle manifestazioni rabbiose degli studenti e dei giovani scesi in piazza non ha attecchito fino in fondo.
Già rodati e collaudati, invece, sono «gli attacchi di difesa preventiva», un’espressione che è tutta un programma. La dottrina della Difesa Preventiva, tanto amata oggi da Israele, fu ampiamente usata da Bush per giustificare l’invasione dell’Iraq, in cerca di quelle fantomatiche «armi biologiche di distruzione di massa» paventate da Powell, allora segretario di Stato. Powell al termine del suo mandato ammise di essersi sbagliato. Il suo celebre discorso all’ONU rappresentò una macchia indelebile alla sua carriera, scuse che però non resuscitarono le centinaia di migliaia di civili morti in Iraq, che dopo l’invasione statunitense divenne l’epicentro del terrorismo, una conseguenza diretta di quella guerra di difesa preventiva che era stata combattuta proprio con lo scopo di prevenire il terrorismo.
Ma la Storia non insegna, tant’è che il nostro italianissimo Cavo Dragone, presidente del comitato militare Nato, valuta «cyber attacchi preventivi» contro la Russia. Queste terminologie che possono suonare comiche, astruse, perfino banali in realtà fanno una grande presa sul nostro inconscio, spingendoci a normalizzare e ad accettare dichiarazioni che formulate diversamente avremmo aberrato. Nella nostra memoria risuona il detto «meglio prevenire che curare», un’espressione che fa parte del bagaglio mnemonico collettivo: ecco allora che la guerra e gli attacchi divengono una forma di prevenzione. E colui che li attua va quasi a sovrapporsi alla figura benevola del medico che somministra al paziente uno stile di vita volto ad assicurarne il benessere e la salute.
Sono tantissime le parole, le espressioni, i titoli giornalistici che quotidianamente vengono usati su di noi e contro di noi per spingerci a normalizzare la guerra o a interpretarla sotto una determinata prospettiva: basti pensare al diverso trattamento riservato a israeliani e palestinesi nei titoli e negli articoli di giornale. I primi sono sempre vittima di «stragi», sono «uccisi, colpiti, assassinati», i secondi, invece, sono «danni collaterali» di attacchi missilistici contro cellule terroristiche. Di rado vengono uccisi, almeno nella terminologia giornalistica, perché la parola «ucciso» implica la presenza di un assassino e di un colpevole da ricercare e condannare. I palestinesi semplicemente muoiono. «Morti 100/200/300 (e via dicendo) palestinesi a Gaza» recitano i giornali; perché il verbo morire è qualcosa di molto più naturale; si muore di malattia, incidenti, vecchiaia. I palestinesi muoiono o semplicemente cadono morti come i frutti che cadono dall’albero.
Di esempi ce ne sarebbero ancora tantissimi, ma c’è un’ultima chicca che vorrei condividere, la punta di diamante della dottrina del riarmo, e di ogni propaganda bellica di ogni tempo, epoca e luogo. Un’arma propagandistica che nonostante sia vecchia quanto il mondo non ha mai perso d’efficacia e che alimenta tutta la retorica del riarmo, o più precisamente del nuovo esponenziale aumento della spesa militare in Europa: l’invasione barbarica. Questa è un’arma propagandistica difficile da combattere non soltanto perché fa leva su una paura ancestrale, ma perché storicamente non si tratta di una minaccia inventata. Nel corso della storia tutti i popoli del mondo sono stati invasi e hanno subito invasioni su larga scala. Diventa davvero difficile perciò riuscire a distinguere tra minacce reali e minacce inventate.
Oggi il ruolo di nuovo, temibile invasore barbarico è stato affibbiato alla Russia. E la reale invasione russa dell’Ucraina ha contribuito ad alimentare questa paura. Naturalmente è una cosa ben diversa invadere i territori dell’Ucraina rispetto all’attaccare una coalizione di Stati Europei che fanno parte della Nato, ognuno dotato di apparati bellici e costretti a difendersi l’un l’altro in base all’Articolo 5. La Russia oggi viene descritta come una terra smaniosa di terre da conquistare (le nostre) e popoli da sottomettere (i nostri). Una visione che fa paura e giustamente spaventa; ma che non tiene conto né delle caratteristiche della Russia né della sua specificità. Quando diversi analisti provano a spiegare che la Russia, il più grande Stato al mondo che si estende su ben due continenti, non ha bisogni di nuovi territori, dato che il problema della Russia non è la mancanza di territori ma la mancanza di popolazione, perché sì la Russia è tra gli Stati più sottopopolati, viene banalmente etichettato come filoputiniano. Rintracciare nelle cause dell’invasione russa dell’Ucraina non una guerra combattuta con fini espansionistici ma con fini geopolitici ben precisi (la volontà della Russia di fare dell’Ucraina uno Stato-cuscinetto e di fermare l’avanzata della Nato) ha valso di volta a intellettuali, storici e opinionisti l’accusa di essere filo-russi. Non che la guerra tra Russia e Ucraina non sia qualcosa di aberrante, ogni guerra lo è, ma distorcerne le reali cause per evocare scenari fantomatici (invasione dell’Europa) rientra a pieno titolo della propaganda.
Il Nemico, nella propaganda, non è soltanto colui che compie azioni malvagie o moralmente discutibili (come iniziare una guerra d’invasione ad esempio) per perseguire i suoi fini; il Nemico non conosce limiti, freni o paure. Il Nemico è animato dal desiderio di assoggettare e depredare ogni angolo del pianeta, anche a costo di iniziare guerre contro intere coalizioni armate. La sua sete di conquista è illimitata, la sua malvagità inumana, e con la sua sola presenza rappresenta una minaccia esistenziale per ogni abitante del mondo civilizzato. Un ritratto simile è tanto macchiettistico quando irrealistico, sarebbe sembrato ridicolo perfino nelle pagine di qualche vecchia spy-story americana e in qualche romanzetto comunista di epoca staliniana, eppure è così ci è stato descritto Vladimir Putin negli ultimi quattro anni. Riumanizzare la figura di Putin non significa sminuire i suoi crimini o le sue tante colpe, ma significa restituire dignità intellettuale al discorso sulla guerra o sulla pace. Un’altra parola che oggi è stata spogliata di senso, significato e valore. La pace andrebbe costruita, lentamente e pazientemente, ma ovviamente la pace non è tra le priorità di quest’Europa e di quest’Unione che alimenta la discordia, fomenta le tensioni, foraggia e viene foraggiata dall’industria bellica e circuisce l’opinione pubblica a suon di propaganda. Ben conscia che, mi permetto di apportare una piccola modifica a questo celebre detto latino: si vis bellum, para bellum. Se vuoi la guerra, prepara la guerra. E devo ammettere che ci stanno riuscendo benissimo.
Un file riservato recante una precisa mappa delle inchieste sulle stragi del 1993 e su fatti ad esse collaterali è recentemente finito online, alla portata di chiunque. Si tratta di un documento interno alla DDA di Firenze del 2023 firmato dall’allora Procuratore Filippo Spiezia, che ha come oggetto “Direttiva generale per il coordinamento interno all’ufficio dei procedimenti in materia di stragi”. Nel file, un PDF composto da una decina di pagine e raggiungibile attraverso Google da chicchessìa attraverso l’utilizzo di determinate parole chiave, vi era l’indicazione del numero dei fascicoli aperti e delle strategie investigative da adottare, oltre che dei nomi altisonanti che abbiamo progressivamente imparato ad associare alle indagini sui mandanti esterni: Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Mario Mori, Paolo Bellini e tanti altri.
Il contenuto
Il file riassume in maniera dettagliata le attività di indagine in corso al 13 dicembre 2023 su molte delle stragi che hanno insanguinato l’Italia, con la specifica indicazione del numero dei procedimenti aperti – 11 in tutto – e dei magistrati assegnatari, oltre che degli indagati. Tra questi, molti boss di Cosa Nostra, ma anche esponenti della politica e delle istituzioni. Nel fascicolo su Dell’Utri (ancora oggi sotto inchiesta) e Berlusconi (indagato per strage fino alla sua morte) si suggerisce di realizzare «un indice per blocchi logico-tematici» al fine di pervenire a «una corretta assunzione delle necessarie determinazioni finali, in vista dell’azione penale e di eventuali azioni cautelari». Nel documento si fa anche il nome di Rosa Belotti, la donna sospettata di essere la cosiddetta ”biondina” che il 27 luglio del 1993 avrebbe parcheggiato l’autobomba in via Palestro a Milano (una strage che provocò 5 morti), rispetto a cui si legge che «si è ritenuto di avanzare una richiesta di archiviazione», non chiudendo però alla prospettiva di nuovi accertamenti previa riapertura del procedimento da parte del gip. Si cita anche Mario Mori, sotto inchiesta per concorso in strage, associazione mafiosa ed eversione, e Ilda Bocassini, indagata per false informazioni ai pm. Uno spazio è riservato anche a Paolo Bellini, ora condannato definitivamente per la strage di Bologna, per il quale erano stati avviati «nuovi accertamenti bancari anche con rogatoria internazionale». Quest’ultimo sarebbe stato successivamente archiviato nel filone stragi-Gioè.
Nel documento si scrive inoltre che è stato aperto un fascicolo modello 44 (contro ignoti) «generato dalla relazione della commissione antimafia». Novità importanti si rilevano in merito alla strage del Rapido 904, appena giunto al suo 41esimo anniversario. Dal file emerge infatti che – nel nuovo fascicolo aperto proprio nel 2023 sull’attentato – è presente un nuovo indagato. Si tratta del boss napoletano Raffaele Stolder, allora stretto alleato del clan Giuliano di Forcella. Alla base della sua iscrizione nel registro degli indagati ci sono le rivelazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Ferraiuolo, nipote di Stolder, il quale ha raccontato di aver appreso che suo zio, attorno al 2007, ricevette la proposta di un patto da parte dei servizi segreti per evitare spargimenti di sangue all’interno del territorio da lui controllato. Nel file si evidenzia come verità storica sul delitto non sia ancora ricostruita e come ancora fiocchino domande essenziali: «Chi ha protetto? Chi ha saputo e ha taciuto? Quali coperture hanno impedito alla verità di emergere per intero?».
Dell’Utri, Mori, Bellini
Il procedimento con al centro 42 milioni versati da Silvio Berlusconi a Marcello Dell’Utri negli anni dei suoi processi per mafia e della sua detenzione dopo la condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, nel frattempo, è stato spostato da Firenze a Milano. Secondo i pm fiorentini che avevano chiesto il rinvio a giudizio per Dell’Utri e sua moglie Mirella Ratti (scelta confermata dai colleghi di Milano), quel denaro rappresenterebbe «il quantum per garantire l’impunità a Silvio Berlusconi». Mario Mori, ex ufficiale del ROS protagonista della vicenda e del processo “Trattativa Stato-mafia”, è ancora sotto inchiesta a Firenze per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico nell’indagine sui mandanti delle stragi del 1993. Tra le altre cose, i pm affermano che Mori sarebbe «stato informato già nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta del proposito di Cosa Nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale italiano». A febbraio di quest’anno, il gip di Firenze, su richiesta della Procura del capoluogo toscano, ha archiviato l’inchiesta a carico di Paolo Bellini – ex componente di Avanguardia Nazionale, già condannato in primo e secondo grado per la strage di Bologna – per l’attentato del 27 maggio 1993 in via dei Georgofili, in cui morirono 5 persone, tra cui due piccole bambine. Secondo il giudice, non vi sono abbastanza elementi per prevedere la condanna dell’indagato. Molti sono però i punti di non ritorno della pronuncia: da un lato si attesta che non vi sono «riscontri circa i legami tra Bellini e la destra eversiva», ammessi però dallo stesso Bellini e attestati nelle sentenze bolognesi; dall’altro, è emerso che alle parti offese non è stata comunicata la richiesta di archiviazione avanzata dai pm, come previsto dalla legge.
Passaggi di consegne
In questo contesto si inserisce anche una situazione ingarbugliata tutta interna alla Procura di Firenze. Nel dicembre 2024, infatti, il Consiglio di Stato ha annullato la nomina di Filippo Spiezia a Procuratore Capo, in seguito ai ricorsi avanzati da altri due magistrati in cui si evidenziava come, al tempo della nomina (2023), Spiezia non avrebbe avuto i requisiti necessari per ottenere l’incarico. Pochi giorni prima della bocciatura, in una conferenza stampa, Spiezia– che aveva ottenuto la nomina grazie ai voti della corrente “conservatrice” della magistratura, MI, e dei laici scelti dai partiti di centro-destra e da Italia Viva di Matteo Renzi – aveva dichiarato: «le inchieste sulle stragi di mafia ancora aperte saranno chiuse nel 2025». Esse erano state aperte dal magistrato Luca Tescaroli, che dallo scorso anno è passato a dirigere la Procura di Prato. L’annuncio di Spiezia aveva fatto scattare l’allarme tra i familiari delle vittime della strage di Firenze, i quali avevano dichiarato di auspicare «non una chiusura» nell’inchiesta sui presunti mandanti esterni delle stragi. Prima di lasciare la Procura, almeno per Bellini, Spiezia era però riuscito a ottenere l’archiviazione.
La Procura nazionale antimafia e la Procura di Genova hanno ottenuto l’arresto di nove persone accusate di aver finanziato Hamas, mascherando raccolte fondi come aiuti umanitari. Secondo l’accusa, tre associazioni avrebbero raccolto oltre 7 milioni di euro dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023, trasferiti via Italia e Turchia a gruppi collegati a Hamas; tra gli arrestati figura Mohammad Hannoun, presidente dell’associazione dei palestinesi in Italia, ritenuto «verice della cellula italiana di Hamas». Le indagini, basate su analisi finanziarie e intercettazioni con cooperazione internazionale, avrebbero individuato reti strutturate per propaganda e trasferimento dei proventi. I pm hanno ribadito che ciò non attenua i crimini subiti dalla popolazione palestinese.
Google si prepara a superare uno dei tabù più radicati della sua storia: permettere agli utenti di cambiare il proprio indirizzo Gmail senza perdere dati, servizi o accessi. La novità, comparsa quasi in sordina nella documentazione ufficiale, segna una svolta di rilievo nell’ecosistema dell’azienda e dà finalmente risposta a una richiesta rimasta inevasa per oltre vent’anni. Il nuovo corso, però, dovrà essere integrato con attenzione e la stessa Big Tech sembra preoccupata dal fatto che i malintenzionati possano sfruttare la transizione per tentare di compromettere gli account. Modificare il proprio indirizzo Gmail è stata a lungo un’opzione perlopiù inaccessibile, una limitazione che milioni di utenti hanno finito per considerare inevitabile. Chi aveva scelto un nome poco professionale, chi non si riconosceva più in un indirizzo creato da adolescente, o chi desiderava separare con maggiore chiarezza vita privata e lavoro, si è sempre trovato davanti alla stessa soluzione drastica: dover creare un nuovo account e ripartire da zero. Ora le cose sono in procinto di cambiare.
Il cambio di rotta di Google è stato evidenziato per la prima volta dal canale Telegram Google Pixel Hub, il quale ha individuato alcune recenti modifiche nelle pagine di assistenza in lingua hindi. Gli aggiornamenti segnalati non sono ancora attivi, ma promettono di rendere più flessibili le regole che finora impedivano di modificare il proprio indirizzo Gmail. La funzione dovrebbe infatti consentire di aggiornare le caselle “@gmail.com” preservando al contempo l’indirizzo originale nella forma contatto di recupero. In pratica, gli utenti potranno affiancare un nuovo indirizzo al precedente e ricevere i messaggi su entrambi.
A differenza della creazione di un nuovo indirizzo da zero, questa soluzione permetterà di conservare integralmente tutto ciò che è collegato all’account originale. Contatti, file su Drive, foto, video YouTube, app acquistate e abbonamenti resteranno associati allo stesso profilo, senza necessità di migrazioni né rischio di perdita di dati. Restano però alcune limitazioni: dopo la modifica, non sarà possibile creare un ulteriore indirizzo per i successivi 12 mesi e, in ogni caso, ogni account potrà essere associato a un massimo di tre email. Inoltre, l’operazione sarà definitiva e non potrà essere annullata.
La pagina di supporto di Google precisa che l’introduzione della nuova funzione sarà graduale e che potrebbero verificarsi alcuni inconvenienti tecnici durante la fase iniziale. In particolare, l’azienda consiglia agli utenti di ChromeOS di creare una copia dei file di sistema prima di modificare l’indirizzo di accesso, quindi segnala che alcune impostazioni legate ai profili Gmail potrebbero essere reimpostate e che, almeno per il momento, il calendario degli eventi continuerà a mostrare gli indirizzi email originali.
Possibili inciampi che, tutto sommato, non sorprendono, considerando la complessità dell’operazione. Sorvolando le difficoltà tecniche legate alla profonda integrazione di Gmail nei numerosi servizi Google, diversi osservatori segnalano i rischi che il nuovo processo di cambio indirizzo possa essere sfruttato in modo improprio nelle campagne di spam e phishing. La stessa azienda avverte infatti che i cybercriminali potrebbero approfittare della novità per inviare comunicazioni fasulle, progettate per convincere gli utenti a modificare la propria email: un escamotage che consentirebbe loro di sottrarre credenziali e compromettere gli account. Considerando che Gmail è collegata a una vasta rete di servizi sensibili — inclusi i pagamenti tramite Google Pay — è più importante che mai mantenere un atteggiamento prudente e scettico di fronte a eventuali comunicazioni sospette.
Una barca da turismo con 11 persone a bordo è affondata nella giornata di ieri al largo dell’isola di Padar, in Indonesia, nei pressi di Labuan Bajo, area frequentata dai visitatori del Parco nazionale di Komodo. L’imbarcazione ha avuto un’avaria al motore. Sette persone sono state soccorse: due turisti spagnoli, quattro membri dell’equipaggio e una guida. Restano dispersi quattro cittadini spagnoli, appartenenti alla stessa famiglia, tra cui due bambini. Le ricerche proseguono in condizioni difficili a causa di onde fino a tre metri; l’isola è stata chiusa al turismo per maltempo.
BETLEMME, PALESTINA OCCUPATA – Il Natale è tornato a Betlemme, dopo due anni in cui le autorità locali avevano deciso di sospendere le celebrazioni in solidarietà alla popolazione palestinese della Striscia. Uno dei luoghi simbolo dell’identità cristiana, dove nacque Gesù Cristo, è tornato a risplendere in questi giorni, dopo due anni di buio, dove l’assenza di fedeli e turisti pesa enormemente sull’economia cittadina. Sono centinaia le persone che si sono radunate la sera del 24 dicembre nella piazza della Mangiatoia, davanti la Basilica della Natività, dopo una processione per le vie della città. Un concerto dal vivo, banchetti, e un enorme albero di Natale ha accompagnato i credenti riuniti per celebrare il Natale per la prima volta dall’inizio dal ottobre 2023. Un’evento che accende la luce sulla comunità palestinese di religione cristiana, circa 50.000 persone che da secoli vivono in pace con la comunità musulmana ed oggi soffrono, come tutti i palestinesi, le violenze della polizia e dei coloni israeliani, che non si sono placate nemmeno nei giorni del Natale.
Nella messa di mezzanotte, il cardinale Pierbattista Pizzaballa – patriarca latino di Gerusalemme – ha portato i saluti della piccola e assediata comunità cristiana di Gaza, dove pochi giorni prima aveva celebrato una messa prenatalizia tra le rovine. Ha parlato di una Gaza devastata dalla guerra dove ha affermato che «la sofferenza è ancora presente» nonostante il cessate il fuoco. Rivolgendosi a migliaia di palestinesi, sia cristiani che musulmani, ma anche ai fedeli di tutto il mondo, Pizzaballa ha affermato che il messaggio del Natale di quest’anno è inseparabile dalla sofferenza e dalla resilienza. «Abbiamo deciso di essere la luce – ha detto – e la luce di Betlemme è la luce del mondo».
Parole di speranza che stridono con la realtà che ancora i palestinesi sono costretti a vivere. Solo per arrivare a Betlemme da Ramallah, un tragitto di appena 27 chilometri, ci abbiamo messo più di due ore e mezzo, a causa dei vari posti di blocco militari israeliani, che rendono gli spostamenti molto difficili. La guerra e le restrizioni imposte da Israele hanno paralizzato l’economia di Betlemme, dove circa l’80% dei residenti dipende dal turismo, che è quasi scomparso. Le limitazioni alla mobilità, la quasi assenza dei pellegrinaggi, ha fatto salire la disoccupazione dal 14% al 65%, trasformando la sopravvivenza quotidiana in una lotta. Secondo i dati riportati dal sindaco della città, Maher Nicola Canawati, in questi due anni di guerra di genocidio circa 4.000 persone hanno lasciato Betlemme in cerca di lavoro. Su una popolazione di 32.000 abitanti rappresenta il 12,5% di cittadini emigrati in appena tre anni.
La realtà di Betlemme resta tuttavia tra le migliori nell’insieme delle città palestinesi della Cisgiordania, dove incursioni, arresti, distruzioni di proprietà sono quotidiani. Anche per le comunità cristiane presenti sul territorio. Il Natale di quest’anno ha riportato qualche migliaio di turisti e di credenti nella città sacra, ancora troppo pochi per risollevare anche minimamente la deteriorata economia del territorio. Oggi, il viaggio di ritorno a Nazareth da Betlemme di Maria, Giuseppe e Gesù bambino sarebbe impossibile per una famiglia palestinese. Un muro divide le due città, insieme a check-points, cancelli, e militari israeliani.
Una comunità cristiana sotto attacco
I festeggiamenti durante la notte di Natale a Betlemme (foto di Moira Amargi per L’Indipendente)
«Da Gerusalemme invio saluti agli amici cristiani i tutto il mondo» dice Benjamin Netanyahu in un video pubblicato ieri. «Qui, dalla terra santa, Israele. Il solo stato del Medio Oriente dove la comunità cristiana sta prosperando. Il solo stato dove i cristiani possono celebrare la loro fede con pieni diritti e totale libertà. Dove i pellegrini cristiani sono accolti a braccia aperte, dove possono celebrare propriamente le loro tradizioni, apertamente e senza paura». Un messaggio, quello del primo ministro israeliano, in totale contraddizione con la realtà che vivono i circa 50mila cristiani residenti in Palestina Occupata.
Un tempo comunità fiorente, secondo il censimento del 2017, il numero dei cristiani che vivono nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme Est e a Gaza è ora inferiore a 50.000, pari a circa l’1-2% della popolazione. All’inizio del XX secolo, i cristiani costituivano circa il 12% della popolazione. Tuttavia, l’occupazione illegale della Cisgiordania da parte di Israele ha messo sotto pressione le comunità, creando difficoltà economiche e privandola delle condizioni necessarie per vivere sulla propria terra, spingendo molte famiglie a cercare una vita più stabile all’estero. La maggior parte dei cristiani palestinesi vive in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, per un totale di circa 47.000-50.000 persone, a cui se ne aggiungevano altre 1.000 a Gaza prima della guerra.
L’interno della basilica della Natività (foto di Moira Amargi per L’Indipendente)
La vita dei cristiani in Palestina è la stessa che soffrono tutti i palestinesi. Nei giorni precedenti, nella città settentrionale di Haifa, in Israele, i momenti di festa nel quartiere cristiano palestinese di Wadi al-Nisnas sono degenerati nel caos quando la polizia israeliana ha fatto irruzione nella zona, arrestando e picchiando i residenti, secondo quanto riportato da filmati e testimonianze oculari condivisi online. Nei video si vede un uomo – palestinese – vestito da Babbo Natale venire spinto a terra e ammanettato dalla polizia israeliana, insieme a un DJ e a un venditore ambulante. Le famiglie che si preparavano al Natale sono state accolte con la forza e gli arresti in un incidente che riflette la routine di persecuzione delle comunità palestinesi, anche durante le festività religiose.
In tutta la Palestina le comunità cristiane e le loro chiese hanno subito numerosi attacchi da parte delle forze israeliane e di membri della popolazione israeliana. Il Religious Freedom Data Center (RFDC) ha monitorato le violenze contro i cristiani attraverso una hotline gestita da volontari e attivisti; tra gennaio 2024 e settembre 2025, il gruppo ha documentato almeno 201 episodi di violenza contro i cristiani, commessi principalmente da ebrei ortodossi che prendevano di mira il clero internazionale o individui che esibivano simboli cristiani. Questi incidenti comprendono diverse forme di molestie, tra cui sputi, insulti, atti di vandalismo, aggressioni e altro ancora. La maggior parte (137) di questi incidenti ha avuto luogo nella Città Vecchia di Gerusalemme, situata nella Gerusalemme Est occupata, luogo sacro per ebrei, musulmani e cristiani.
La basilica della Natavità di Betlemme (foto di Moira Amargi per L’Indipendente)
Secondo un’inchiesta di Al Jazeera, nel 2025, le comunità cristiane nella Cisgiordania occupata hanno dovuto affrontare sia un allarmante aumento della violenza da parte di coloni e militari, sia una crescita esponenziale di sequestri di terreni di loro proprietà. Il mese scorso, nella città prevalentemente cristiana di Beit Sahour, ad est di Betlemme, i coloni israeliani sostenuti dall’esercito hanno raso al suolo con i bulldozer la storica collina di Ush al-Ghurab per costruire un nuovo avamposto illegale. A Taybeh, città prevalentemente cristiana della Cisgiordania, l’antica chiesa di San Giorgio è stata presa di mira da piromani nel mese di luglio. A giugno, un gruppo di israeliani è stato filmato mentre attaccava il monastero armeno e i luoghi sacri cristiani durante un raid nel quartiere armeno della Città Vecchia di Gerusalemme Est, che è stato oggetto di numerosi attacchi.
Nel mentre, a Gaza, le bombe israeliane hanno raso al suolo luoghi di culto, chiese, rifugi dove la piccola comunità cristiana si stava rifugiando. Secondo un rapporto di Open Doors, circa il 75% delle case di proprietà di cristiani a Gaza sono state danneggiate o distrutte. Il 19 ottobre 2023, le forze israeliane hanno attaccato la più antica chiesa greco-ortodossa di San Porfirio a Gaza, uccidendo almeno 18 sfollati, tra cui molti bambini. La chiesa, che fungeva da rifugio multiconfessionale per centinaia di civili, era stata costruita nel 1150, ed era il più antico luogo di culto attivo di Gaza. Le forze israeliane hanno anche attaccato ripetutamente la Chiesa della Sacra Famiglia, l’unica chiesa cattolica romana di Gaza, che da tempo fungeva da rifugio per la comunità cristiana locale.
Intanto, nel suo primo discorso natalizio come pontefice, Papa Leone ha condannato la terribile situazione umanitaria a Gaza, dove centinaia di migliaia di persone vivono in tende e alloggi fatiscenti, esposti al freddo pungente e alla pioggia. Ha fatto riferimento alla storia della nascita di Gesù in una stalla, affermando che essa dimostra come Dio abbia «piantato la sua fragile tenda» tra i popoli del mondo. «Come non pensare allora alle tende di Gaza, esposte da settimane alla pioggia, al vento e al freddo», ha detto, lamentando «le popolazioni indifese, provate da tante guerre». Nonostante le parole di Netanyahu, non c’è pace in Palestina. Nemmeno per i palestinesi cristiani.
Thailandia e Cambogia hanno raggiunto un nuovo accordo per fermare i combattimenti lungo il confine, ripresi a inizio dicembre nonostante un cessate il fuoco firmato pochi mesi prima. L’intesa prevede il mantenimento delle posizioni militari attuali e il divieto di violare gli spazi aerei. La disputa riguarda un confine di 820 chilometri, definito nel 1907 in epoca coloniale francese e mai pienamente riconosciuto da Bangkok. Il conflitto, alimentato da rivalità storiche e nazionalismo, ha causato almeno 80 morti e circa 800mila sfollati. Un precedente accordo, promosso anche dagli Stati Uniti, non era stato rispettato.
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