venerdì 28 Novembre 2025
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Il ministro Crosetto ha proposto il ritorno del servizio militare in Italia

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Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha dichiarato ieri che intende portare in Parlamento un disegno di legge per reintrodurre il servizio militare in Italia, alla luce di una percepita minore sicurezza che accomuna tutti gli Stati europei in conseguenza dei rapporti ostili con la Russia. «È uno schema che in qualche modo non è molto diverso da quello tedesco, perché prevede una volontarietà. Quello tedesco ha un automatismo che scatta, quello francese – da ciò che leggo – è totalmente volontario», ha affermato ieri Crosetto in conferenza stampa a Parigi circa l’ipotesi di una reintroduzione del servizio militare in Italia, che sarebbe per ora su base volontaria, come in Francia e Germania. L’idea di rafforzare la Difesa e aumentare le fila delle forze armate, infatti, è un’idea che circola in gran parte degli Stati europei insieme a quella di un’imminente e inevitabile guerra contro Mosca, sebbene il presidente russo Vladimir Putin proprio in questi giorni abbia definito una «completa assurdità» e una «menzogna spudorata» la narrazione secondo cui la Russia sarebbe pronta a invadere l’Europa.

«Tutte le nazioni europee vedono messi in discussione i modelli costruiti 10-15 anni fa, e tutti stanno pensando di aumentare il numero delle forze armate» ha detto Crosetto, spiegando che anche in Italia bisogna avviare una riflessione che conduca ad abbandonare le scelte fatte negli ultimi decenni di riduzione delle forze militari, in quanto «ci sono motivi di sicurezza che rendono importante farlo». In concreto, dunque, la proposta punta ad istituire una riserva militare ausiliare dello Stato con determinate specialità, con l’obiettivo di aumentare il numero delle attuali forze armate almeno di diecimila unità, attraverso un servizio di leva su base volontaria pronto ad entrare in azione in caso di necessità. Crosetto ha anche sottolineato che «la difesa in futuro ha bisogno non soltanto di più uomini ma anche di regole diverse».

Come anticipato, la proposta di legge che Crosetto intende portare in Parlamento si inserisce in un più generale contesto in cui gli Stati europei sembrano mossi dall’esigenza irrefrenabile se non di prepararsi a una reale guerra contro la Russia, perlomeno di predisporre il comparto bellico e soprattutto l’opinione pubblica a questa possibilità, trasformando completamente l’architettura della difesa europea e instillando uno stato di allarme permanente nei cittadini. Proprio in questo scenario rientrano anche le più ampie proposte di Crosetto per trasformare il comparto militare. Si tratta di una serie di iniziative che si può dire che facciano dell’ex presidente di Orizzonti sistemi navali e di AIAD (federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza) un aspirante ministro della Guerra. Nel corso del mese di novembre, infatti, ha annunciato una riforma strutturale delle forze armate e l’arruolamento di 30mila nuovi militari, in aggiunta ai 170mila già presenti, insieme al varo di una “Arma Cyber”, un corpo speciale da 5 mila uomini destinato a fronteggiare la cosiddetta “guerra ibrida”. Inoltre, ha predisposto il potenziamento degli organici militari dedicati al settore cyber con 10/15mila nuove unità e la creazione di uno scudo aereo nazionale con sensori per monitorare gli obiettivi sensibili e una flotta di droni.

«La situazione che stiamo vivendo adesso ci impone di prepararci a scenari che fino a cinque anni fa non erano prevedibili: questo vuol dire avere più personale, perché serve anche capacità di farlo ruotare, e servono regole diverse di reclutamento», ha dichiarato Crosetto in un’intervista con Bruno Vespa nella trasmissione filogovernativa 5 minuti. Ne emerge un messaggio potente per plasmare e spaventare l’opinione pubblica, secondo cui l’Italia e in generale l’“Occidente” è sotto attacco. Una narrazione che giustifica il rafforzamento del settore militare e il riarmo e il trasferimento di fondi da settori come la scuola, la sanità e l’industria verso la Difesa. Si tratta di un progetto che risponde a logiche sovranazionali che scaturiscono da Bruxelles e dall’Alleanza atlantica e che rischia di acuire la crisi economica e sociale degli Stati europei, sottraendo risorse alla spesa pubblica e alimentando il debito pubblico con investimenti non produttivi.

Da parte sua, il presidente russo Vladimir Putin ha liquidato le voci che circolano riguardo a un attacco russo all’Europa come «una vera e propria sciocchezza» sottolineando che è difficile capire cosa spinge le élite europee a alimentare questa narrazione. «Ci sono persone, a mio avviso un po’ fuori di testa o magari dei furbi, che da questa situazione vogliono ricavarci qualcosa. Dicono pubblicamente ai loro cittadini che la Russia si starebbe preparando a invadere l’Europa e che quindi occorre rafforzare immediatamente la propria capacità difensiva. Forse vogliono favorire gli interessi dell’industria bellica, di aziende private, oppure cercano di risollevare i propri indici di gradimento interno, visti lo stato disastroso dell’economia e del settore sociale. È difficile capire cosa li spinga ma, secondo noi, è una completa assurdità, una menzogna spudorata» ha affermato ieri il capo del Cremlino rispondendo alle domande dei giornalisti.

Gli interessi dell’industria bellica nel piano di riarmo europeo non sono certo da sottovalutare, considerato l’aumento del valore delle azioni delle aziende produttrici di armi durante i conflitti in Ucraina e a Gaza, così come anche l’esigenza di Bruxelles di un motivo forte che unisca un’Unione sempre più disgregata e fragile con profondi problemi finanziari. L’Italia con il ministro Crosetto non è certo un’eccezione in questo panorama in cui confluiscono interessi economici, politici e di potere che sembrano avere trovato nel riarmo e nel rafforzamento dell’esercito e del comparto militare il loro canale privilegiato.

Avvento di lusso: come i brand trasformano il calendario in una tendenza

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Mentre imperversa la settimana più nera dell’anno (quella di Black Friday & Co.) un fenomeno di consumo, già affacciato all’orizzonte da qualche anno, sta prendendo sempre più piede. Si tratta dei calendari dell’avvento di brand di lusso e cosmetica: uno strumento di marketing travestito da rituale natalizio, che spinge la dimensione commerciale mascherandosi da leva spirituale. 

L’avvento, un tempo, era quel momento di attesa che preparava all’arrivo del santo Natale. Un periodo riflessivo, contemplato con grande osservanza dai cristiani fin dal IV secolo e scandito con candele e gessetti dai protestanti tedeschi all’inizio dell’Ottocento. Poi sono arrivati, in tempi più recenti, i calendari con le finestre: dietro ad ogni sportello un disegno, un’immagine o un cioccolatino. Riservati quasi esclusivamente ai più piccoli, nel giro di poco è arrivata un’ulteriore trasformazione e questi calendari, ormai, contengono di tutto di più! Non sorprese per i più piccoli, ma oggetti per adulti con i quali nutrire quotidianamente la smania di novità: emozioni giornaliere e gratificazioni immediate, per ventiquattro giorni di fila.

Negli ultimi dieci anni i calendari dell’avvento di lusso sono passati da oggetto di nicchia a pilastro del business natalizio, con prezzi, aspettative e storytelling cresciuti in modo esponenziale. Si tratta a tutti gli effetti di una categoria merceologica che vale centinaia di milioni e che si prevede raddoppierà il suo valore entro il prossimo decennio, superando i 2 miliardi di dollari a livello globale. Quando, nel 2014, il calendario beauty di Liberty London, lanciato in quantità limitate, è andato sold out rapidamente altri rivenditori hanno drizzato le antenne sulla possibilità reale che un cofanetto multi‑marchio potesse diventare il lancio più importante dell’anno. Da lì department store e retailer online hanno iniziato a costruire calendari complessi con decine di brand, trasformandoli in macchine di promozione ed acquisizione clienti. All’interno non solo prodotti beauty, ma vini pregiati, miniature di superalcolici, té, prodotti alimentari e persino gadget erotici. 

Una mossa che ha coinvolto anche i brand del lusso, che hanno iniziato a proporre cofanetti dal valore percepito altissimo, con prezzi che superano le diverse centinaia di euro, ma con un “valore contenuto” spesso di gran lunga superiore al prezzo di vendita. Calendari da 250 euro che promettono oltre 1.000 euro di prodotti, invitano all’acquisto spingendo l’idea di affare imperdibile, pur restando nel territorio del superfluo. Oggi, alcuni calendari del segmento del lusso toccano tranquillamente cifre molto alte, con punte che sfiorano il migliaio di dollari.

Oltre alla “promessa di valore” (pagare meno dell’acquisto dei singoli prodotti) ci sono svariate leve che stanno aumentando la popolarità di questo fenomeno commerciale: la gratificazione quotidiana dell’unboxing e l’accesso simbolico al mondo del lusso, il tutto alimentato da una dimensione social che contribuisce ad elevare il proprio status. L’apertura delle finestrelle a favore di camera, infatti, diventa un momento da condividere e mostrare, soprattutto se il calendario è firmato o presenta loghi blasonati (l’hashtag #adventcalendar genera milioni di visualizzazioni su TikTok, dove gli influencer ne fanno un appuntamento fisso). In più, se fino a dieci anni fa a guidare l’acquisto era la curiosità di provare tanti piccoli prodotti, oggi il calendario è diventato un oggetto identitario: celebra il patrimonio del brand, enfatizza i best seller, offre “oggetti da fan” come charm, accessori o memorabilia. I marchi di alta moda lo usano per mettere in scena il proprio universo estetico in miniatura, con packaging strutturati, design scenografici e tirature limitate che alimentano code, liste d’attesa e resale sui canali secondari. Nel marketing il calendario viene ormai identificato come “gateway drug”: una porta d’accesso relativamente abbordabile per l’olimpo dorato di brand irraggiungibili (o comunque a cui si aspira). I mini-formati, come piccoli assaggi, diventano una leva importante per spingere in seguito l’acquisto del prodotto “intero” e per attirare nuovi clienti verso uno shopping più consistente post-feste.

Se da una parte il calendario dell’avvento firmato genera entusiasmo e frenesia, dall’altra parte mostra chiaramente come questi oggetti siano l’ennesimo prodotto creato ad hoc per alimentare il sovraconsumo, opportunamente infiocchettato da rituale natalizio. Le mini-taglie – più energivore da produrre rispetto al beneficio d’uso che offrono – spingono a provare continuamente nuovi prodotti, alimentando un ciclo di consumo rapido e poco sostenibile. 

In queste trappole del marketing, di sostenibile c’è molto poco. I calendari, per racchiudere e contenere prodotti, sono realizzati con architetture complesse in cartone, plastiche e rivestimenti metallizzati difficili da riciclare. Ogni nuovo formato o stampa speciale comporta set-up di macchinari, prove, scarti di avviamento, spesso per tirature limitate che “sprecano” questa energia su pochi pezzi. Le dimensioni ridotte dei prodotti rendono inoltre complicato il recupero dei materiali nei sistemi di raccolta, con un’alta probabilità che finiscano in discarica o in mare (piccole dimensioni, grandi danni)! In merito a queste perplessità di carattere ambientale, alcuni brand stanno sperimentando packaging monomateriale, design riutilizzabili e focus su prodotti full size per ridurre il numero di mini e avvicinarsi alle aspettative dei consumatori più attenti. 

Ma altre perplessità rimangono. Quella di aver sacrificato un antico rituale sull’altare del consumismo. Quella di aver confuso la speranza con la gratificazione; e di credere che la luce, al giorno d’oggi, si possa trovare in flaconcini da 5ml nascosti dietro la casella – brandizzata – del 17 Dicembre.

Judo, Federazione Internazionale riammette per prima gli atleti russi

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La International Judo Federation (IJF) ha deciso di riammettere gli atleti russi nelle competizioni internazionali con bandiera e inno nazionale, diventando la prima federazione a farlo dopo il bando deciso nel 2022. A partire dall’Abu Dhabi Grand Slam 2025, in corso fino al 30 novembre negli Emirati Arabi, judoka russi potranno gareggiare a pieno titolo, con tutti i simboli nazionali. L’IJF giustifica la scelta sostenendo che lo sport deve restare neutrale, equo e libero da discriminazioni e che gli atleti non sono responsabili delle scelte dei loro governi.

Chat Control: primo via libera da Bruxelles, Italia astenuta

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I rappresentanti permanenti presso il Consiglio dell’Unione Europea (Coreper) hanno dato il primo via libera alla posizione negoziale sul regolamento noto come Chat Control, pensato per contrastare gli abusi sessuali su minori online. Il voto, svoltosi a Bruxelles il 26 novembre 2025, ha registrato l’astensione dell’Italia, che ha espresso preoccupazioni sulla tutela della privacy e sulla sicurezza delle comunicazioni cifrate. La prossima tappa è il voto decisivo del Consiglio UE l’8 e 9 dicembre.

Il regolamento – formalmente chiamato Regulation to Prevent and Combat Child Sexual Abuse (CSAR) – aveva suscitato sin da subito polemiche per la parte più controversa: la scansione automatica di messaggi, foto, video e allegati nei servizi di messaggistica, anche quando protetti da crittografia end-to-end. Il meccanismo avrebbe comportato l’impiego di un software incaricato di analizzare i messaggi di tutti i cittadini europei, aggirando le garanzie della crittografia e segnalando automaticamente alle autorità i contenuti ritenuti sospetti in materia di abusi sui minori. Da anni, le agenzie di sicurezza chiedono un accesso esteso alle comunicazioni digitali per contrastare la criminalità e questa impostazione comprimerebbe in modo strutturale il diritto alla privacy. Lo stallo, in atto da oltre due anni dalla presentazione della proposta della Commissione europea nel maggio 2022, è stato superato grazie alla scelta della presidenza danese di attenuare l’impianto normativo, eliminando dal testo l’obbligo di scansione generalizzata dei messaggi, uno dei passaggi più contestati. La modifica ha evitato la ricostituzione della minoranza di Paesi contrari, che il 9 ottobre 2025 aveva già determinato il rinvio del voto. La Germania aveva guidato il fronte del “no”. Insieme a Berlino si erano schierati anche Austria, Olanda, Finlandia, Polonia e Repubblica Ceca, mentre altri Paesi, incerti o divisi al loro interno, avevano preferito non esporsi.

Nella nuova bozza i controlli non sarebbero più imposti in maniera indiscriminata, ma lasciati alla discrezionalità dei singoli fornitori di servizi nella progettazione e nell’attuazione delle difese digitali a tutela dei minori, introducendo una “facoltatività”. L’articolo 4 del nuovo impianto normativo impone alle piattaforme l’adozione di «misure appropriate di mitigazione del rischio», senza però definire un elenco puntuale e vincolante degli strumenti da utilizzare. La revisione della norma non ha dissipato tutte le perplessità: secondo chi critica il provvedimento, questo compromesso rappresenta solo un adeguamento formale, destinato a rendere legittima una forma di sorveglianza di massa. Tra le ipotesi più controverse figura l’introduzione dell’obbligo di verifica dell’età: qualora il Chat Control venisse approvato, sarà probabile dover trasmettere i propri documenti alle piattaforme per aprire un profilo di messaggistica, un account di posta o accedere a servizi cloud. Una misura che di fatto sancirebbe la fine dell’anonimato online, seguendo un modello già previsto da febbraio per l’accesso ai siti pornografici.

L’astensione dell’Italia indica una riserva circa qualsiasi forma di controllo generalizzato delle comunicazioni private, sia da parte dello Stato sia dei soggetti privati. Roma ha chiesto garanzie concrete: secondo Palazzo Chigi, la presidenza danese dovrebbe garantire un approfondimento serio sulle conseguenze per la privacy e la protezione delle comunicazioni cifrate. Con l’astensione, l’Italia sembra voler salvaguardare il principio della segretezza delle comunicazioni e la tutela dei diritti digitali, senza però bloccare del tutto l’avanzamento del dossier, scelta che in ambienti politici e tecnici viene letta come un equilibrio precario tra sicurezza e libertà. Il via libera non rende immediatamente operativo il Chat Control, ma apre la strada alla fase finale dei negoziati tra Parlamento Europeo, Commissione e Consiglio. Durante il cosiddetto trilogo, le parti tenteranno di trovare un compromesso definitivo sui punti ancora oscuri: le modalità di scansione, la tutela delle comunicazioni criptate, la reale portata del potere delle piattaforme e le garanzie per la privacy di cittadini e utenti. Se il testo dovesse essere approvato, le conseguenze sarebbero rilevanti: milioni di utenti rischierebbero di vedere le proprie chat sottoposte a verifica preventiva, indipendentemente da sospetti concreti.

Fuga di dati coinvolge ChatGPT: esposti nomi ed email degli utenti

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Mixpanel ha annunciato di aver subito un “incidente di sicurezza”, ossia una fuga di dati di entità ancora non esplicita. L’azienda, poco nota al grande pubblico, ma centrale nell’infrastruttura digitale, fornisce servizi di analisi all’azienda di intelligenza artificiale OpenAI, monitorando le interazioni degli utenti con l’interfaccia di programmazione di ChatGPT. OpenAI ha prontamente assicurato il pubblico che, pur essendo stati sottratti alcuni dati personali, non risultano compromesse le informazioni sensibili. Nel frattempo, la società ha comunque deciso di sospendere la collaborazione con Mixpanel.

La violazione risale all’8 novembre, tuttavia questa è stata resa pubblica solamente ieri, giovedì 27 novembre. Nella sua nota, Mixpanel afferma di essere stata vittima di una campagna di smishing — una variante del phishing veicolata via SMS — e di aver adottato di conseguenza delle misure correttive, tra cui il rinnovo delle proprie password e il blocco degli accessi sospetti. OpenAI, da parte sua, precisa che l’incidente ha riguardato “un numero limitato di dati analitici relativi ad alcuni utilizzi dell’API” e ribadisce che “gli utenti di ChatGPT e degli altri prodotti non sono stati colpiti”. Curiosamente, però, OpenAI colloca la fuga di dati al 9 novembre, un giorno dopo la data indicata da Mixpanel.

Secondo quanto dichiarato da OpenAI — l’unica delle due aziende ad aver fornito dettagli sulla natura dei dati compromessi — gli intrusi hanno avuto accesso a nomi, indirizzi email, identificativi degli utenti e delle organizzazioni associate, oltre ai sistemi operativi utilizzati per collegarsi agli account e all’area geografica approssimativa degli utilizzatori del servizio. Dati che, seppur non sensibili in senso stretto, possono essere sfruttati per orchestrare campagne di phishing mirate e altamente persuasive. A rendere la vicenda più grave, secondo quanto riscontrato da CyberNews, OpenAI avrebbe trasmesso a Mixpanel informazioni non anonimizzate, in violazione delle pratiche fondamentali di sicurezza nella gestione dei dati.

Nonostante il dichiarato impegno alla trasparenza, resta poco chiaro cosa sia accaduto all’interno di Mixpanel per provocare l’incidente informatico. Dai comunicati ufficiali si può intuire che soggetti terzi siano riusciti a ottenere l’accesso agli account di uno o più dipendenti, acquisendo di conseguenza la possibilità di consultare i dati gestiti dalla piattaforma. Se questa ricostruzione fosse corretta, il problema riguarderebbe potenzialmente tutte le aziende che si affidano ai servizi di Mixpanel, una lettura che viene parzialmente confermata dal fatto che anche CoinTracker, entità di tracciamento di criptoportafogli, ha dichiarato di essere stata coinvolta nella violazione.

Ciò che è certo è che OpenAI attribuisce la responsabilità a Mixpanel, la quale sostiene tra le righe che sia colpa di un fattore umano, ovvero che dipendenti o collaboratori si siano fatti ingenuamente ingannare da qualche persuasivo truffatore. L’episodio ricalca però una tendenza sempre più diffusa, ovvero la violazione di dati e sistemi attraverso fornitori terzi, subappaltatori che si dimostrano più vulnerabili delle grandi aziende tech, ma a cui vengono esternalizzati servizi di ogni tipo. 

Nel 2020 si è verificato il grave incidente legato al software Orion di SolarWinds, il quale ha compromesso numerose grandi aziende e diverse agenzie governative statunitensi. Nello stesso anno, in Italia, Enel e Luxottica hanno registrato compromissioni riconducibili a fornitori tecnologici esterni. Più di recente, lo scorso 23 novembre, è emerso il caso di SitusAMC, società che gestisce informazioni su mutui e prestiti per importanti istituti finanziari di Wall Street. Questo schema di responsabilità estesa consente ad aziende come OpenAI di sostenere — con difficoltà di smentita — che gli incidenti dipendano da negligenze di terze parti e non dalle fragilità dei propri sistemi. Nonostante questo, resta legittimo chiedersi se tale argomentazione regga nella realtà dei fatti: in ultima istanza è il committente che sceglie, integra e controlla i fornitori nella propria filiera, anche quando questi si dimostrano manchevoli.

Venezuela, ambasciatore italiano visita Trentini e Burlò in carcere

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L’ambasciatore italiano a Caracas Giovanni De Vito ha visitato ieri in carcere Alberto Trentini, cooperante italiano detenuto da oltre un anno in Venezuela. Secondo quanto riferito alla Farnesina, Trentini sarebbe apparso “in condizioni di umore migliori rispetto all’ultima visita”. Durante lo stesso incontro, l’ambasciatore ha incontrato anche un altro detenuto italiano, Mario Burlò, l’imprenditore torinese detenuto dal 2024 in Venezuela. La visita rientra nella strategia diplomatica voluta dal governo Meloni finalizzata a ottenere la liberazione dei nostri connazionali detenuti all’estero.

Perché la Corte dei conti ha bocciato il Ponte sullo Stretto: i contenuti della sentenza

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Dopo trenta giorni di attesa sono state depositate le motivazioni della pronuncia con la quale la Corte dei Conti ha bocciato il progetto del Ponte sullo stretto di Messina. Trentatré pagine di argomentazioni giuridiche che svelano tutte le criticità del progetto su cui punta il governo Meloni. E mentre dal governo si continua a mostrare fiducia, assicurando che i tecnici governativi sono al lavoro per risolvere rapidamente i rilievi della Corte, leggendo il documento emergono punti che in realtà demoliscono dalla base il progetto: violazioni sostanziali delle normative nazionale e comunitarie in tema di appalti, tutela dell’ambiente e degli habitat naturali, nonché rilievi sui costi complessivi dell’opera. Obiezioni giuridiche che vanno ad aggiungersi alla mobilitazione popolare contro il Ponte, che domani 29 novembre, tornerà a manifestare a Messina.

Il primo e forse più grave vizio di legittimità evidenziato dalla Corte concerne la protezione ambientale. I giudici hanno infatti rilevato la piena violazione dell’art. 6, paragrafi 3 e 4, della direttiva 92/43/CE (Direttiva Habitat). Nonostante il parere negativo della Commissione tecnica VIA-VAS sulla Valutazione di Incidenza per tre siti della Rete Natura 2000, il progetto è stato fatto procedere grazie a una delibera del Consiglio dei Ministri che ha approvato la relazione IROPI (Imperative Reasons of Overriding Public Interest). Tuttavia, per la Corte, questa procedura è viziata alla base. «Né maggiori, e più circostanziate, valutazioni sull’assenza di soluzioni alternative alla costruzione del Ponte – tali da integrare adeguata motivazione – sono rinvenibili nella relazione IROPI, che, in modo estremamente sintetico e assiomatico, […] rimarca che “date le motivazioni imperative di sicurezza e di sviluppo economico solo il Ponte sullo stretto, a campata unica, riesce a soddisfare le necessità minimizzando gli impatti ambientali”», si legge nelle motivazioni. Anche le «considerazioni connesse con la salute dell’uomo e la sicurezza pubblica», che permettono di «prescindere dall’acquisizione di formale parere della Commissione europea e di far ricorso a mera informativa in favore della stessa» sono risultate «prive di adeguata istruttoria svolta dalle strutture tecnico-amministrative dei ministeri competenti».

Il secondo pilastro della pronuncia riguarda la direttiva n. 2014/24/UE (c.d. direttiva Appalti). La Corte rilegge l’articolo 72, che disciplina le modifiche ai contratti pubblici, concludendo che le trasformazioni intervenute negli anni cambiano la natura economica dell’operazione: «Risultano, invero, verificate “condizioni che, se fossero state contenute nella procedura d’appalto iniziale, avrebbero attratto ulteriori partecipanti alla procedura di aggiudicazione”», elementi che avrebbero richiesto l’indizione di una nuova gara. L’opera, che originariamente doveva essere realizzata con project financing (40% capitale privato e 60% mercati), oggi è infatti coperta «integralmente su risorse pubbliche». La Corte osserva, inoltre, che le amministrazioni non hanno fornito i necessari elementi di calcolo, basandosi su «elaborazioni endoprocedimentali mai formalizzate in un provvedimento».

Il terzo capo d’illegittimità è rappresentato dalla scelta di avere escluso l’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART) dalla procedura di approvazione del piano economico-finanziario e del sistema tariffario. La giustificazione addotta – ovvero che il ponte sullo Stretto rientrerebbe nella categoria di “strada extraurbana di categoria B” – non ha convinto la Corte, che l’ha definita frutto di una «lettura parziale, non condivisibile, del d.l. n. 201/2011». Tale lettura «ha precluso la partecipazione al procedimento di ART, quale soggetto autonomo e indipendente istituzionalmente preposto, altresì, alla tutela dell’utenza». In un’opera così complessa, il contributo tecnico dell’Autorità sarebbe stato «doveroso», sottolineano i giudici.

A fine ottobre, l’esecutivo non aveva preso bene la bocciatura della Corte dei Conti. In un post sui social, la premier Meloni aveva criticato aspramente i giudici, affermando che si sarebbe battuta contro la loro «intollerabile invadenza, che non fermerà l’azione di governo sostenuta dal Parlamento». Oggi Palazzo Chigi usa toni più concilianti, dichiarando che «il governo è convinto che si tratti di profili con un ampio margine di chiarimento davanti alla stessa Corte, in un confronto che intende essere costruttivo e teso a garantire all’Italia un’infrastruttura strategica attesa da decenni». Quando è uscito il comunicato della Corte, il anche il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini era stato molto duro, scrivendo che «se la casta dei giudici pensa di fermare il cambiamento, la modernità e le opere pubbliche portate avanti da un governo scelto e sostenuto dagli Italiani, ha sbagliato a capire». Il Mit ora dichiara di «prendere atto delle motivazioni della Corte dei Conti», evidenziando che «tecnici e giuristi sono già al lavoro per superare tutti i rilievi e dare finalmente all’Italia un Ponte unico al mondo per sicurezza, sostenibilità, modernità e utilità».

La Corte – occorre ricordarlo – non si esprime sul merito dell’opera, ma solo sulla sua legittimità rispetto a norme di procedura, appalti e ambiente. Dopo il parere contrario dei giudici, l’esecutivo non è obbligato a fermare il progetto. Può infatti presentare una richiesta di riesame, fornendo nuovi chiarimenti. Se la Corte, dopo questo secondo esame, confermerà le sue criticità, potrà apporre un «visto con riserva». In questo caso, la delibera diventerebbe pienamente operativa e i lavori potrebbero iniziare. Tuttavia, il «visto con riserva» è una dichiarazione formale di illegittimità: la Corte segnalerà la cosa al Parlamento, e il governo si assumerà l’onere politico di procedere nonostante il parere sfavorevole dell’organo di controllo. Nel frattempo, lo scorso 18 novembre, la Corte dei Conti ha comunicato di non avere concesso il visto di legittimità al terzo atto aggiuntivo della convenzione tra il Ministero delle Infrastrutture e la società concessionaria Stretto di Messina Spa. Di questa pronuncia di attendono ancora le motivazioni.

Israele: nuova violenta invasione nella Cisgiordania occupata, palestinesi giustiziati

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TULKAREM, PALESTINA OCCUPATA – Nella notte tra il 25 e il 26 novembre scorso è iniziata una nuova, massiccia e violenta operazione militare nel nord della Cisgiordania occupata. Le città di Tubas, Tamun e Aqaba sono state isolate, le strade bloccate con quintali di terra portati dai bulldozer israeliani. Droni ed elicotteri Apache sorvolano la zona, mentre i soldati di Tel Aviv perquisiscono decine di case e interrogano uomini, donne e minori. Almeno 30 famiglie sono state mandate via dalle proprie case, occupate e vandalizzate dai soldati d’Israele che le stanno utilizzando come caserme militari. Mentre arrivano le immagini di civili palestinesi uccisi a sangue freddo dai soldati israeliani dopo essere stati fatti inginocchiare. In un comunicato congiunto, lo Shin Bet e l’esercito israliano (IDF) lo definiscono un attacco preventivo, come sempre giustificato come una «risposta alla volontà dei gruppi armati palestinesi di stabilire una presenza nell’area». Il governatore di Tubas, Ahmad Al-Assad, ritiene che in realtà Israele usi i raid «per forzare più palestinesi ad andarsene» impiegando la scusa dell’antiterrorismo, sottolineando anche come la città sia la porta d’accesso alla Valle del Giordano, una delle zone più colpite dalla pulizia etnica israeliana negli ultimi decenni.

Durante l’invasione della città, i soldati israeliani di occupazione hanno aggredito un palestinese nella città di Tammun, a sud di Tubas, nella Cisgiordania occupata.

Sarebbero almeno 162 i palestinesi portati in carcere (tra loro anche Samir Basharat, il sindaco di Tamun, poi rilasciato) e 70 i feriti. L’operazione si è estesa al campo profughi di Al Faraa all’alba di oggi, 28 novembre. Fonti sul campo riportano che le truppe israeliane si sarebbero ritirate dalla cittadina di Tamun, lasciando una grossa distruzione alle infrastrutture e alle proprietà. Continua invece l’incursione nelle città di Tubas e Tayasir, dove molte famiglie palestinesi sono state sfollate dalla proprie abitazioni, occupate dell’IDF per essere utilizzate come basi.

È stato imposto il coprifuoco, mentre decine di cecchini sono tuttora appostati sui tetti delle abitazioni più alte. Il sindaco di Tubas, Mahmoud Daraghmah, ha denunciato anche che nella giornata di mercoledì le IDF hanno sparato contro la popolazione dagli elicotteri militari e le stesse IDF hanno confermato che le loro forze aree hanno colpito più volte per isolare la zona prima dell’ingresso delle truppe di terra. «Sembra che si tratterà di una lunga incursione» ha detto Ahmed Al-Assad, giudicando il grosso dispiegamento di forze sul campo e l’occupazione di molte abitazioni.

Già lo scorso febbraio i militari israeliani avevano condotto un’operazione su larga scala nel campo profughi di Faraa, a sud di Tubas, distruggendo decine di case, strade, infrastrutture idriche ed elettriche e sfollando centinaia di abitanti. A differenza dei campi profughi di Tulkarem e di Jenin, occupati da ormai quasi 10 mesi e con oltre 40 mila persone sfollate, il campo rifugiati di Faraa era poi stato abbandonato dall’IDF dopo 10 giorni. Sempre in nome dell’antiterrorismo, Israele continua a emettere ordini di demolizioni di case e strutture palestinesi nei campi profughi deserti di Jenin e Tulkarem: l’ultimo è stato un ordine di demolizione per 12 strutture nel campo rifugiati di Jenin, insieme a un ordine di parziale demolizione di altre 11 case. Motivi militari, dicono. Questi ordini dovrebbero essere eseguiti a partire da oggi, 28 novembre, e rappresentano una nuova svolta negli sforzi volti a rimodellare la topografia all’interno dei campi, già semi-distrutti dalla lunga invasione israeliana.

Intanto da Jenin arriva un video che testimonia l’ordinaria brutalità dell’esercito di occupazione israeliano. Nel video si vede una ruspa che sfonda una saracinesca, i militari di Tel Aviv intorno. Due uomini escono, le mani alzate, e sollevano la maglietta per mostrare che non hanno armi. I soldati israeliani li fanno inginocchiare, rientrare nella specie di garage dove si trovavano, e aprono il fuoco. Una esecuzione a sangue freddo, per la quale Ben Gvir, il ministro della sicurezza di estrema destra israeliana, si congratula, mostrando ancora una volta il pensiero della politica israeliana. «Hanno agito (le IDF, ndr) esattamente come ci si aspettava da loro: i terroristi devono morire!». I due palestinesi uccisi si chiamavano Al-Muntasir Billah Abdullah, di 26 anni, e Youssef Asasa, di anni 37.

Non sono le uniche vittime. Almeno altri due giovani uomini sono stati uccisi a Nablus e a Jenin, l’uno a poche ore di distanza dall’altro tra il 24 e il 25 novembre. Entrambi erano ricercati dall’antiterrorismo, ed entrambi i corpi sono stati sequestrati dai militari israeliani. Nonostante – sembra – fossero le ultime due persone ricercate dall’intelligence israeliana, Tel Aviv continua ad arrestare, sfollare e uccidere palestinesi in nome della guerra alla violenza armata. Mentre il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dal 7 di ottobre continua a crescere, non si fermano nemmeno gli assalti dei coloni, che attaccano quotidianamente i villaggi palestinesi da nord a sud della Cisgiordania.

Sri Lanka, inondazioni e frane causano almeno 56 morti

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Lo Sri Lanka è in piena emergenza per le gravi inondazioni e frane che hanno colpito gran parte dell’isola. Il bilancio provvisorio è di 56 morti e almeno 21 dispersi, mentre le autorità valutano i danni provocati dalle intense piogge degli ultimi giorni. La situazione potrebbe peggiorare con l’arrivo del ciclone Ditwah, che minaccia ulteriori devastazioni. Le frane hanno distrutto case e infrastrutture, costringendo le autorità a sospendere i treni passeggeri e chiudere diverse strade principali. Squadre di soccorso sono al lavoro per cercare i dispersi e assistere le comunità colpite.

Correlazione vaccini-autismo: il Dipartimento della salute USA avvia un’indagine

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Il Center for Disease Control and Prevention (CDC), agenzia federale degli Stati Uniti che opera sotto il Dipartimento della salute guidato da Robert F. Kennedy Jr., accusa le autorità sanitarie di aver ignorato la ricerca a supporto di un possibile legame tra autismo e vaccini e afferma che il dipartimento della Salute degli Stati Uniti «ha avviato una valutazione completa delle cause dell’autismo». Nei giorni scorsi, infatti, la pagina ufficiale dell’agenzia dedicata ad autismo e vaccini è stata modificata sottolineando che: «L’affermazione “i vaccini non causano l’autismo” non è un’affermazione basata sull’evidenza, poiché gli studi non hanno escluso la possibilità che i vaccini infantili causino l’autismo», che: «Gli studi a sostegno di un collegamento sono stati ignorati dalle autorità sanitarie» e che: «L’HHS (il Dipartimento della Salute, nda) ha avviato una valutazione completa delle cause dell’autismo, che include indagini su plausibili meccanismi biologici e potenziali nessi causali».

Non solo, perché nonostante non vengano forniti dati a supporto del cambio di linea, viene scritto chiaramente che: «L’aumento della prevalenza dell’autismo a partire dagli anni ’80 è correlato all’aumento del numero di vaccini somministrati ai neonati. Sebbene sia probabile che la causa dell’autismo sia multifattoriale, non sono state ancora stabilite le basi scientifiche per escludere del tutto un potenziale fattore contribuente. Ad esempio, uno studio ha rilevato che gli adiuvanti a base di alluminio nei vaccini presentavano la più alta correlazione statistica con l’aumento della prevalenza dell’autismo tra le numerose sospette cause ambientali. La correlazione non dimostra un nesso di causalità, ma merita ulteriori studi». Secondo i dati dello stesso CDC nel 2022 la prevalenza stimata di autismo fra bambini di 8 anni era di 1 su 31 bambini. Nel 2000 le rilevazioni parlavano una prevalenza stimata di 1 su 150 bambini. La prevalenza è il numero di persone in una popolazione affette da una patologia, in rapporto al totale della popolazione e può essere espressa in percentuale o in proporzione.

Precedentemente sulla pagina dei CDC si poteva leggere che gli studi non mostrano «alcun legame tra la somministrazione di vaccini e l’autismo» e si citavano una serie di ricerche scientifiche, tra cui uno studio del 2013 condotto dall’agenzia stessa. È lo stesso studio che viene citato come prima fonte dal nostro Istituto Superiore di Sanità dove si legge che: «La presenza di una possibile associazione causale tra vaccinazioni e autismo è stata estensivamente studiata e non è stata evidenziata alcuna correlazione».

«Siamo sconvolti nello scoprire che il contenuto della pagina web del CDC “Autismo e Vaccini” è stato modificato e distorto, ed è ora pieno di retorica anti-vaccini e vere e proprie bugie su vaccini e autismo» è la reazione della Autism Science Foundation, forte delle posizioni della stragrande maggioranza di scienziati e associazioni mediche americane, che hanno contestato il provvedimento, attribuendo la responsabilità a Robert Kennedy, che in passato aveva già sostenuto il possibile collegamento più volte smentito dagli scienziati. «Chiediamo al CDC di smettere di sprecare risorse governative per amplificare false affermazioni che seminano dubbi su uno dei migliori strumenti a nostra disposizione per mantenere i bambini sani e in salute: le vaccinazioni di routine», ha dichiarato Susan J. Kressly, Presidente dell’American Academy of Pediatrics, spigando che l’associazione è «al fianco dei membri della comunità autistica che hanno chiesto supporto per impedire che questa voce si diffonda ulteriormente».

La replica è stata affidata a Andrew Nixon, portavoce dell’HHS: «Come ha affermato il Presidente Trump nel suo discorso congiunto al Congresso, il tasso di autismo tra i bambini americani è salito alle stelle. Il CDC non lascerà nulla di intentato nella sua missione per capire esattamente cosa sta succedendo», si legge nella dichiarazione. «Il popolo americano si aspetta una ricerca di alta qualità e trasparenza, ed è proprio questo che il CDC sta offrendo».