giovedì 20 Novembre 2025
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La Polonia chiude l’ultimo consolato russo

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La Polonia ha annunciato la chiusura del consolato russo di Danzica, l’ultimo operativo nel proprio territorio. La scelta della Polonia arriva dopo i presunti «atti di sabotaggio» sulle proprie ferrovie, che il Paese attribuisce alla Russia. L’annuncio è stato dato dal ministro degli Esteri polacco alla stampa; il ministro ha precisato che la chiusura del consolato di Danzica verrà formalizzata alla Russia nelle prossime ore, sottolineando che essa non comporta una rottura delle relazioni diplomatiche con Mosca e che l’ambasciata a Varsavia continuerà a lavorare regolarmente.

Messico, la Generazione Z scende in piazza: 20 arresti e scontri con la polizia

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Dopo l’uccisione del sindaco di Uruapan, Carlos Alberto Manzo Rodríguez, da parte del cartello messicano, il Messico sta vivendo una forte ondata di proteste. L’ultima, nonché più rumorosa, è stata lanciata da pagine social della cosiddettagenerazione Z”, i giovani nati tra il 1997 e il 2012. La manifestazione si è svolta in diverse città messicane lo scorso 15 novembre, ma la piazza più partecipata è stata quella di Città del Messico, dove sono scoppiati scontri con la polizia che hanno portato a 20 arresti. La presidente Claudia Sheinbaum ha messo in dubbio la spontaneità del movimento, affermando che le proteste non sarebbero state partecipate dai giovani, ma sponsorizzate dalla destra; nei giorni, diversi giornalisti hanno provato a gettare luce sulle origini del movimento giovanile messicano, ipotizzando collegamenti con attori politici. Intanto le stesse pagine della Generazione Z hanno lanciato un’altra manifestazione, che si svolgerà domani, 20 novembre, in parallelo alla tradizionale marcia per l’anniversario della Rivoluzione Messicana.

La protesta del 15 novembre ha visto la partecipazione di migliaia di persone in oltre 50 località del Messico. La più grande e partecipata si è svolta nella capitale, dove circa 17mila persone hanno marciato pacificamente fino all’arrivo presso lo Zócalo, la maggiore piazza di Città del Messico. Qui un gruppo di persone in blocco nero ha provato a sfondare le entrate del Palazzo Nazionale, sede del governo, provocando scontri con le forze dell’ordine, che hanno usato lacrimogeni ed estintori contro i manifestanti. Gli scontri sono stati particolarmente violenti, e hanno causato il ferimento di 120 persone, tra cui 20 civili e 100 agenti; 40 di questi ultimi sono stati portati in ospedale. Al termine degli scontri, una ventina di persone sono state fermate e a oggi ancora 20 manifestanti risultano in stato di arresto.

Le proteste della “gen Z” sono nate in risposta all’uccisione di Manzo Rodríguez da parte di gruppi del narcotraffico messicano, lo scorso 1° novembre. Il sindaco di Uruapan è stato ucciso mentre partecipava a un evento per il giorno dei morti, celebrazione molto sentita in Messico, colpito da tre colpi di pistola provenienti dalla folla. Manzo Rodríguez era molto attivo nella lotta al narcotraffico e ha più volte chiesto al governo federale maggiori fondi per contrastare il cartello messicano. Sin da subito, la sua morte ha causato una forte ondata di indignazione, che si è rapidamente trasformata in contestazioni nei confronti della presidente Sheinbaum e del suo partito, Morena. I movimenti giovanili sono nati in questo contesto. Il primo a vedere la luce ha come portavoce un ragazzo di nome Iván Mero Perro, e ha lanciato una protesta l’8 novembre. Pochi giorni dopo, tuttavia, a catalizzare la maggior parte dell’attenzione è stata un’altra pagina, che ha promosso la manifestazione del 15 novembre.

La medesima pagina che ha lanciato la protesta del 15 novembre ha promosso una manifestazione per domani. La protesta si terrà in diverse città, ma la più grande è prevista all’Università di Città del Messico; le manifestazioni si terranno in parallelo allo svolgimento del corteo per la celebrazione del centoquindicesimo anniversario della Rivoluzione Messicana, a cui parteciperanno vari rami dell’esercito del Paese. A causa delle proteste, il percorso del corteo di commemorazione nazionale è stato deviato. La piattaforma di Mero Perro ha annunciato che non parteciperà alla manifestazione, affermando che essa non rispecchia gli obiettivi del movimento.

Dopo gli eventi del 15 novembre, diversi politici e giornali messicani hanno commentato le proteste mettendo sul piatto interpretazioni diametralmente opposte dell’evento. Il Partito di Azione Nazionale (PAN), forza di opposizione di orientamento conservatore, ha contestato l’uso della forza da parte della polizia, attribuendone la responsabilità al governo, mentre il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), anch’esso di opposizione e di stampo liberale, ha accusato Morena di essere un «narcopartito al servizio del crimine». La presidente Sheinbaum, invece, ha puntato il dito proprio contro la destra, affermando che la maggior parte delle persone che hanno partecipato alla manifestazione non fossero giovani e che il movimento della gen Z sia nato su spinta e orientamento di attori politici nazionali e internazionali con il fine di delegittimare il governo.

A fare eco alle parole di Sheinbaum sono stati diversi giornalisti politicamente vicini alla sinistra messicana. Il coordinatore di Infomedia, Miguel Ángel Elorza, ha presentato un rapporto ripreso dai media nazionali in cui sostiene che la protesta del 15 novembre non fosse spontanea, ma finanziata e promossa dalla destra internazionale e da membri di PAN e PRI; secondo Ángel Elorza, dietro al movimento vi sarebbero in verità imprenditori come Ricardo Salinas Pliego, proprietario del canale Azteca Noticias, influencer di destra e politici di spicco. Tale accusa, che si è diffusa rapidamente in rete, è stata ripresa anche dal movimento di Mero Perro, che inizialmente si era allontanato dalla protesta del 15 novembre, per poi tuttavia cambiare posizione e decidere di parteciparvi, rivendicandone i risultati. In generale, la piattaforma di Mero Perro accusa la pagina social che ha lanciato la manifestazione dello scorso sabato di essere vicina alla destra.

La pagina social al centro della bufera ha sollevato sospetti in diversi ambienti, perché fino a pochi giorni fa aveva tra i propri “follow” pagine e attivisti di destra. Essa è stata creata nel 2024, ma è rimasta pressoché inattiva per oltre un anno. I post pubblicati prima di novembre, inoltre, non riguardano il Messico, bensì il Venezuela, e sono apertamente schierati a favore di Maria Corina Machado, la golpista filo-americana che ha vinto il premio nobel per la pace. Uno dei link condivisi dalla pagina rimanda a un gruppo sulla piattaforma Discord, creato per coordinare il movimento. Le persone all’interno del gruppo sembrano mostrare un interesse genuino, e rivendicano la loro posizione lontana dalle firme politiche, rigettando le accuse pubbliche mosse contro la piattaforma.

La disputa su Taiwan riaccende la tensione tra Cina e Giappone

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A poco meno di un mese dall’insediamento della nuova premier del Giappone, Sanae Takaichi, le relazioni tra Pechino e Tokyo sono precipitate, compromettendo rapidamente gli equilibri dell’area. Ancora una volta a catalizzare i nervosismi tra i due Paesi è l’isola di Taiwan, che gode de facto di autonomia politica e commerciale, ma che dal 1949 è sotto le mire del colosso cinese.

Le nuove tensioni non si presentano come un fulmine a ciel sereno. Già nel 2022, durante la controversa visita a Taipei dell’ex speaker della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi, la Cina mise in atto varie esercitazioni militari intorno all’isola e, con la caduta di alcuni razzi nella Zona Economica Speciale del Giappone, pose in allerta il governo di Tokyo sulla possibilità di entrare in un conflitto armato in caso di invasione di Taiwan.

Questa volta la crisi diplomatica è stata innescata dalle dichiarazioni pronunciate il 7 novembre dalla premier giapponese. «La presenza di navi da guerra e l’utilizzo della forza potrebbero costituire una minaccia alla sopravvivenza» ha affermato Takaichi in occasione della sua prima interrogazione parlamentare in merito a un ipotetico attacco cinese verso Taiwan. Differentemente dai suoi predecessori, la premier ha messo in luce con una certa schiettezza la necessità di fare ricorso alle forze di autodifesa del paese per intervenire in una situazione nella quale il Giappone non sarebbe direttamente interessato. 

Le reazioni di Pechino non si sono fatte attendere. Inizialmente i media cinesi hanno attaccato duramente la postura del governo giapponese, successivamente i vertici militari di Pechino hanno messo in guardia Tokyo e hanno parlato di «sconfitta schiacciante» in caso di intervento. Alle parole hanno fatto seguito le ritorsioni: il governo cinese ha caldamente sconsigliato ai suoi cittadini di recarsi in Giappone e alcune agenzie turistiche hanno annullato tour e viaggi verso il paese del Sol levante, mettendo così a repentaglio l’economia turistica giapponese, che solo nei primi otto mesi del 2025 ha visto il transito di 6,7 milioni di turisti cinesi, pari a un quinto dei visitatori totali. L’invito del governo cinese a fare ritorno in madrepatria si è esteso anche ai 100.000 studenti residenti in Giappone.

La crisi ha colpito anche l’importazione di prodotti audiovisivi giapponesi verso il territorio cinese, in particolar modo ha rinviato l’uscita in sala di due film. Per ultimo, il governo di Pechino, dopo i colloqui ritenuti insufficienti con Masaaki Kanai, responsabile degli affari con l’Asia e l’Oceania del ministero degli esteri giapponese, ha annunciato l’interruzione delle importazioni di prodotti ittici dall’arcipelago nipponico.

L’ambasciata giapponese a Pechino, invece, ha invitato i residenti in Cina a prestare attenzione a possibili rappresaglie, facendo implicitamente riferimento alle aggressioni che si verificarono nel 2024 contro due cittadini giapponesi in territorio cinese.

La situazione infiamma ulteriormente le relazioni già rese complicate a causa delle eredità storiche presenti tra i due Paesi. Se da un lato la Cina nutre ancora rancore verso i crimini di guerra commessi dal paese nipponico durante gli anni del colonialismo e della guerra mondiale, dall’altro la figura di Sanae Takaichi non può che inasprire la diplomazia tra le due potenze dell’area. La premier ultranazionalista, difatti, in passato ha più volte rappresentato l’ala revisionista del paese e nel corso degli anni ha espresso più volte sostegno verso attivisti uiguri, tibetani e hongkonghesi, mettendo in evidenza la propria vicinanza verso cause “anti-cinesi”. Lo scorso aprile, inoltre, Takaichi si è recata in visita proprio a Taiwan e in quell’occasione aveva reiterato la cooperazione tra i due Paesi in ambito commerciale ed economico, facendo riferimento alle condizioni geografiche dei due territori insulari. Il presidente taiwanese Lai Ching-Te, invece, in occasione dell’insediamento della premier ha rivolto le proprie congratulazioni affiancate dall’augurio per una collaborazione duratura improntata sulla ricerca del benessere di entrambi i Paesi.

Le nuove tensioni si iscrivono in un contesto geopolitico fortemente delicato. La situazione sembra precipitare subito dopo gli incontri tra Xi Jinping, Donald Trump e la stessa Takaichi, durante i quali il futuro di Taiwan è stato astutamente messo da parte dinanzi alla necessità di risolvere problematiche commerciali evidentemente considerate più urgenti. La Cina adesso pretende la ritrattazione sulla questione da parte del Giappone; in attesa di improbabili scuse, l’equilibrio dell’intera area si è fatto irrimediabilmente precario.

Ddl Violenza, primo sì dalla Camera

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Con 227 voti favorevoli e nessuno contrario, la Camera dei Deputati ha approvato il DDL Violenza, che introduce il concetto di consenso nel codice penale. L’approvazione è arrivata dopo un accordo tra maggioranza e opposizioni. Con il DDL, chiunque compia o faccia compiere atti sessuali “senza il consenso libero e attuale” altrui potrebbe essere punito con la reclusione da sei a dodici anni. Oggi, il reato di violenza sessuale è normato dall’articolo 609-bis del codice penale, e punisce chi “con violenza o minaccia o mediante l’abuso di autorità” costringe un’altra persona “a compiere o a subire atti sessuali”. Con il sì unanime alla Camera, ora la parola passa al Senato.

Le gemelle Kessler, il fine vita e il diritto di scelta

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Le gemelle Alice ed Ellen Kessler arrivarono in Italia nel 1961, nel pieno boom economico che il nostro Paese stava vivendo e sono mancate nei giorni scorsi, insieme, all’età di 89 anni. Negli anni avevano più volte ribadito che nessuna delle due avrebbe voluto sopravvivere alla scomparsa dell’altra, e così si erano organizzate per tempo, richiedendo il suicidio assistito e scegliendo la data, il 17 novembre scorso.
Quando arrivarono nel nostro Paese erano gli anni della nascita dei grandi complessi industriali, con l’Autostrada del sole in via di ultimazione per essere percorsa in lungo e in ...

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Corruzione in Ucraina, l’opposizione blocca il Parlamento: «Zelensky sapeva»

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In seguito al recente più grave scandalo di corruzione in tempo di guerra, il Parlamento ucraino si trova ad affrontare una profonda crisi politica, tanto che ieri, martedì 18 novembre, l’opposizione ha bloccato i lavori parlamentari. Il principale partito di minoranza, Solidarietà Europea, ha infatti impedito la votazione per fare dimettere due ministri del governo presumibilmente coinvolti in uno schema di corruzione del valore di cento milioni di dollari, dichiarando che il suo obiettivo è quello di fare dimettere l’intero governo. Il sospetto, infatti, è che lo stesso presidente Volodymyr Zelensky fosse a conoscenza del sistema di corruzione che ha coinvolto il settore energetico, considerati gli stretti legami che intrattiene con alcuni degli indagati. Lo scontro alla Verchovna Rada (il parlamento ucraino) riflette la rabbia crescente della popolazione, costretta a restare al buio a causa dei bombardamenti russi alle infrastrutture energetiche, mentre una presunta casta di politici corrotti distrae i fondi pubblici – ricevuti da donatori e dagli Stati occidentali – per arricchirsi.

Nello specifico, ieri il Parlamento avrebbe dovuto votare sulle dimissioni del ministro dell’Energia Svitlana Hrynchuk e del suo predecessore German Galushchenko, che ora ricopre la carica di ministro della Giustizia. Entrambi negano di essere coinvolti nella vicenda: tuttavia, Hrynchuk ha dato le dimissioni mentre Galushchenko è stato sospeso in attesa dell’esito dell’indagine. Intanto, cinque sospettati sono stati arrestati, tra cui l’ex vice primo ministro Oleksiy Chernyshov, mentre due sono latitanti: uno di questi è uno degli ex soci in affari del presidente Volodymyr Zelenskiy, Timur Mindich, fuggito dal Paese la scorsa settimana e considerato capo del sistema di corruzione. In questo contesto, ieri il partito di opposizione ha bloccato la Verchovna Rada esponendo cartelli con slogan come «Qual è il prezzo dell’oscurità?». Da parte loro, alcuni membri del partito di maggioranza (Servitore del popolo) hanno accusato gli avversari politici di impedire al Parlamento di intervenire: «Mentre alcuni ladri scappano e si nascondono, altri – i politici populisti – mettono in scena uno spettacolo», ha affermato Danylo Hetmantsev, un deputato del partito di Zelensky.

Secondo quanto emerso dall’indagine dell’Ufficio nazionale anticorruzione dell’Ucraina (la NABU), presentata lunedì e durata 15 mesi, circa 100 milioni di dollari destinati a proteggere le centrali elettriche dal sabotaggio russo sarebbero stati in realtà sottratti da alcuni funzionari a partire dal 2022. La NABU ha soprannominato l’inchiesta operazione “Midas” e ha raccolto prove secondo cui i funzionari corrotti chiedevano una tangente tra il 10 e il 15 per cento ai fornitori dell’Energoatom, l’azienda statale dell’energia nucleare, in cambio della possibilità di concludere affari senza subire blocchi interni. I nastri diffusi dalla NABU affermano che circa 1,2 milioni di dollari sono andati nelle tasche di un ex vice primo ministro (Oleksiy Chernyshov), che gli indagati chiamavano “Che Guevara”. Sebbene Zelensky abbia promesso di riorganizzare il settore energetico ucraino accogliendo con favore l’indagine dell’Agenzia anticorruzione e sostenendo le dimissioni dei ministri coinvolti, solo la scorsa estate il presidente ucraino aveva tentato di smantellare gli uffici anticorruzione della nazione (la NABU e la SAPO, la Procura speciale anticorruzione). Solo le veementi proteste popolari lo costrinsero, suo malgrado, a fare marcia indietro.

Si scopre ora che Zelensky ha stretti legami con alcuni degli indagati, benché il presidente non risulti direttamente coinvolto nella vicenda, soprannominata anche la truffa del “gabinetto dorato”. La mente dello schema corruttivo sarebbe, infatti, Timur Mindich, imprenditore e co-fondatore insieme a Zelensky della società di intrattenimento Kvartal 95, dove il capo ucraino ha fatto carriera come star di sitcom prima di ottenere la carica di presidente nel 2019. Il New York Post riporta che i due avevano persino degli appartamenti nello stesso edificio dove, secondo un ex funzionario del governo ucraino, Tymur aveva un appartamento con i bagni dorati. In base alle ultime informazioni, Mindich sarebbe fuggito la scorsa settimana in Israele. Anche l’ex vice primo ministro, Oleksiy Chernyshov, è stato uno stretto collaboratore del capo di Kiev, avendo ricoperto incarichi nel suo governo dal 2019. Lo stesso è stato anche accusato di abuso d’ufficio.

Lo scandalo che coinvolge i vertici del governo ucraino avviene in un momento delicato, in cui la popolazione è spesso senza corrente elettrica e in cui l’esercito sta subendo importanti sconfitte, ad esempio nei pressi di Pokrovsk. Il tutto ha generato sfiducia nei finanziatori di Kiev e potrebbe allontanare l’ingresso dell’Ucraina nell’UE. Nonostante ciò, l’UE e gli Stati membri continuano a finanziaria con fondi ingenti l’ex Stato sovietico, costretto a fare i conti con una profonda crisi politica, specchio a sua volta di un evidente collasso morale.

 

La Lituania riapre i confini con la Bielorussia

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La Lituania ha annunciato che riaprirà i propri valichi di frontiera con la Bielorussia. Il confine riaprirà a partire da domani. La scelta di chiudere i valichi di frontiera con Minsk da parte della Lituania è arrivata dopo un episodio, registrato il 26 ottobre, in cui diversi palloni aerostatici avrebbero oltrepassato il confine dalla Bielorussia con il fine di contrabbandare sigarette. I confini avrebbero dovuto rimanere chiusi fino al 30 novembre, e la loro chiusura ha causato una diatriba diplomatica tra i due Paesi: la scorsa settimana, oltre 1.000 camion sono rimasti bloccati in Bielorussia; la Lituania ha accusato la Bielorussia di volere sequestrare i mezzi, ma Minsk ha respinto le accuse.

No al caporalato made in Italy: azione collettiva contro lo scudo penale nella moda

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Dopo gli scandali e le inchieste che hanno coinvolto noti marchi italiani della moda di lusso, accusati di sfruttamento e caporalato, sono arrivate le proposte per cercare di arginare e regolamentare i problemi a monte e le prime azioni collettive ad opera di varie associazioni. Dopo che, a maggio, è stato siglato il Protocollo d’intesa per la legalità dei contratti di appalto nelle filiere produttive della moda, è ora arrivato un nuovo strumento: la certificazione unica di conformità. Si tratta di uno strumento volontario che punta ad attestare legalità, trasparenza e correttezza lungo tutta la filiera produttiva, che punta a tutelare tanto l’immagine del Made in Italy quanto il rispetto delle normative sociali e fiscali. Tuttavia, la misura non convince organizzazioni e associazioni, che ritengono che il provvedimento costituisca a tutti gli effetti uno scudo penale per le società.

In sintesi, il Protocollo propone una banca dati regionale per censire fornitori e manodopera impiegata; una piattaforma messa a punto dal Politecnico di Milano e gestita dalla Regione stessa per raccogliere dati ed informazioni della filiera produttiva. Quante e quali informazioni devono essere inserite dipende dalle dimensioni dell’impresa ed in ogni caso si tratta di una piattaforma ad iscrizione volontaria. Alle aziende fornitrici accreditate verrà rilasciato un Attestato di trasparenza del settore moda; i brand che decidono di aderire al protocollo si impegnano a richiedere per via contrattuale al fornitore un impegno a rispettare le norme giuslavoristiche. Questa proposta, per quanto sia un inizio costruttivo, lascia spazio a diverse perplessità, prima tra tutti il suo limitato aspetto regionale (quando sappiamo benissimo che ci sono aziende produttrici sparse in svariati distretti e in numerose regioni, da Nord a Sud della penisola). Altro grande punto interrogativo sorge sulla possibilità di essere esentate dalla piattaforma le aziende produttrici di diretta proprietà dei brand (come se quelle avessero di default la coscienza pulita, o più semplicemente rientrano tra “gli intoccabili”). Infine, ogni misura volontaria lascia il tempo che trova.

Con il recente disegno di legge sulle piccole e medie imprese, poi, è arrivata la certificazione unica di conformità per le aziende del settore moda: un sistema di attestazione che garantisce la legalità, la trasparenza e la correttezza lungo l’intera filiera produttiva. Questa certificazione, definita anche come “bollino di garanzia”, ha l’obiettivo di tutelare sia l’immagine del Made in Italy che di promuovere pratiche di lavoro corrette e rispettose delle normative sociali e fiscali. A poter richiedere “il bollino” sono tutte quelle società lige i cui titolari o amministratori non abbiano avuto condanne penali negli ultimi tre anni o sanzioni riguardanti inadempimenti di normative sul lavoro, che si impegnano a sottoscrivere contratti regolari con le aziende fornitrici (che a loro volta lo dovrebbero fare con i subfornitori). In pratica il bollino viene rilasciato a chiunque faccia dei contratti “a norma”. Niente di nuovo, dunque, oltre al fatto che questo tipo di documenti potrebbero essere falsificati (come spesso è stato fatto fino ad ora). La proposta di legge, infatti, non prevede né controlli né verifiche, né alcun tipo di miglioria concreta e dimostrabile, creando un precedente pericoloso.

«La certificazione unica di conformità permetterà alle aziende di operare come sempre, continuando a violare le norme con l’avallo delle istituzioni, creando a tutti gli effetti uno scudo penale contro le società capofila (o qualunque anello della catena che si procuri la certificazione)». Questa la paura delle 23 organizzazioni che si stanno movimentando per bloccare il disegno di legge – tra le quali ci sono capofila Campagna Abiti Puliti, l’ASGI, OXFAM e Libera. Lo sfruttamento all’interno della filiera – purtroppo – è ormai strutturale, un modello di business ben inserito nel contesto fashion a vari livelli. L’ennesima certificazione volontaria non servirà certo ad eliminare violazioni ed illegalità. Anzi. Permetterà di perpetuare nel tempo quello che già succede: sfruttamento e agevolazione colposa del caporalato nella subfornitura da parte delle aziende capofila. Le organizzazioni contestano apertamente questa norma, auspicando un settore realmente sostenibile. 

La moda ha bisogno di politiche industriali e del lavoro serie ed efficaci, per trasformare il comparto in maniera sana, innovativa, con un occhio alla transizione ecologica e l’altro ai diritti dei lavoratori. Non di altre misure opache per permettere a chi ha costruito imperi su pratiche scorrette di continuare ad aggiungere mattoni a discapito di altri esseri umani. L’appello è aperto.

Scuola: un emendamento di maggioranza vuole regalare 20 milioni alle private

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Rispunta anche quest’anno, tra gli emendamenti alla legge di bilancio, il voucher da 1.500 euro per chi iscrive i figli alle scuole paritarie di primo e secondo grado. La misura, avanzata da Mariastella Gelmini per Noi Moderati, si aggiunge a quella portata avanti dalla Lega, a firma di Massimiliano Romeo, che vorrebbe esentare le paritarie dal pagamento dell’IMU. Le opposizioni denunciano l’ennesimo privilegio concesso agli istituti privati, accusando il Governo di continuare ad avvantaggiare le scuole private e sottrarre risorse al sistema statale.

L’emendamento, sostenuto da Forza Italia e Fratelli d’Italia, prevede che il contributo venga corrisposto alle famiglie con un ISEE sotto i 30 mila euro, limitatamente al primo anno di iscrizione. Il voucher, secondo la maggioranza, consentirebbe alle famiglie “di ceto medio” di orientarsi verso la scuola ritenuta più adatta ai figli, riducendo i costi delle rette delle paritarie. Per coprire il costo della misura, stimato in 20 milioni di euro, Noi Moderati intende provvedere con un taglio al fondo per gli interventi strutturali di politica economica. Le opposizioni respingono questa impostazione, parlando apertamente di un “regalo” mascherato da misura sociale, ricordando che le scuole paritarie non sono istituzioni pubbliche e che la Costituzione, pur prevedendo la libertà di istituire scuole non statali, stabilisce che esse non debbano gravare sulle finanze dello Stato. Il timore, sottolineano PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra, è che la misura alimenti un sistema educativo parallelo, sostenuto con fondi pubblici, ma privo degli obblighi della scuola statale, contribuendo a una progressiva privatizzazione dell’istruzione. Il favore dell’attuale esecutivo alle scuole paritarie è stato ben espresso dalla stessa premier Meloni ad agosto, dal palco del Meeting di Rimini: «L’Italia rimane l’ultima Nazione in Europa senza un’effettiva parità scolastica, e io credo che sia giusto ragionare sulla questione con progressività, con buonsenso, ma soprattutto sgombrando il campo da quei pregiudizi ideologici che per troppo tempo hanno impedito di affrontare seriamente il tema».

La tendenza a elargire sempre più fondi statali alle scuole paritarie è cominciata, però, ben prima dell’insediamento dell’attuale esecutivo. Nel 2020, gli istituti paritari avevano ricevuto ben 150 milioni di euro di fondi del PNRR dal governo. Nel 2022, all’interno della legge di bilancio, il governo Meloni aveva previsto un finanziamento di 70 milioni di euro agli istituti paritari. Successivamente, attraverso due decreti firmati dal ministro per l’Istruzione Valditara, il governo aveva stanziato per l’anno 2024-2025 750 milioni di euro per le scuole paritarie, con un aumento di ben 50 milioni rispetto all’anno precedente. Nel 2024, ad avanzare un contributo di 1.500 euro per le famiglie che avessero scelto le scuole paritarie per l’istruzione dei propri figli era stato Fratelli d’Italia a firma dei deputati Lorenzo Malagola e Giovanni Coppo, scatenando le critiche feroci delle opposizioni. La differenza rispetto al voucher proposto oggi da Noi Moderati era sostanzialmente la soglia del reddito, fino a 40 mila euro. Alla fine, la polemica aveva portato a una marcia indietro e l’emendamento non era stato approvato.

Secondo associazioni di docenti, sindacati e analisti, l’aumento dei fondi alle paritarie rischia di sottrarre risorse a un sistema pubblico già provato da organici instabili, edifici inadeguati e investimenti insufficienti. La costante crescita dei finanziamenti statali alle scuole private è parte di un processo iniziato anni fa, alimentato da politiche di liberalizzazione che hanno spinto l’istruzione verso logiche sempre più di mercato. Già nella prima manovra dell’attuale governo la scuola pubblica è risultata marginale, mentre il sostegno alle paritarie è stato ulteriormente ampliato in continuità con gli esecutivi precedenti. Ne emerge una direzione chiara: il rafforzamento del privato procede insieme al progressivo indebolimento del sistema statale, delineando un modello educativo che rischia di spostare l’attenzione dall’interesse collettivo alle dinamiche del mercato.

Raid russi su Ucraina, Polonia chiude due aeroporti

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La Polonia ha temporaneamente chiuso gli aeroporti di Rzeszów e Lublino, nel sud-est del Paese, mentre i raid russi attaccavano le città di Leopoli e Ternopil nell’Ucraina occidentale. Per precauzione, Varsavia ha fatto decollare aerei polacchi e alleati per proteggere il proprio spazio aereo. Anche la Romania ha fatto decollare i suoi aerei da combattimento questa mattina presto dopo una nuova incursione di droni nel suo territorio.