sabato 22 Novembre 2025
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Euro-propaganda, il fiume di soldi da Bruxelles ai grandi media

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Non si tratta più di un sospetto: il sistema mediatico europeo è forgiato, selezionato, premiato o punito in base alla sua adesione ai dogmi dell’europeismo. A dimostrarlo, in modo inequivocabile, è il rapporto Brussels’s Media Machine, realizzato dal giornalista e saggista Thomas Fazi per il think-tank ungherese Mathias Corvinus Collegium (MCC Brussels). Uno studio rigoroso e documentato che scoperchia l’enorme apparato con cui Commissione e Parlamento Europeo finanziano il circuito dell’informazione con fondi europei, trasformandolo in una vera e propria macchina del consenso, e che viene pubblicato pochi mesi dopo il precedente rapporto The Eu’s propaganda machine, incentrato sul ruolo delle ONG e dei centri studio come megafoni dell’imperialismo culturale della Commissione. 

Un miliardo di euro in dieci anni: il prezzo dell’allineamento

Secondo il rapporto, l’UE ha riversato negli ultimi dieci anni almeno un miliardo di euro a favore di media, agenzie di stampa, programmi giornalistici e piattaforme digitali. Una cifra che corrisponde a circa 80 milioni di euro l’anno in finanziamenti diretti, senza contare quelli indiretti, come contratti pubblicitari o di comunicazione assegnati ad agenzie di marketing, che poi ridistribuiscono i fondi ai principali organi di stampa che accettano di diffondere la narrazione europeista. Lungi dal limitarsi a sostenere il pluralismo e l’indipendenza, l’obiettivo di questo sistema appare orientato anche a plasmare l’opinione pubblica, promuovere narrazioni in favore delle politiche europee e marginalizzare le voci critiche. 

I principali strumenti della propaganda

La rete di finanziamento si articola in una serie di programmi chiave: 

  • IMREG (Information Measures for the EU Cohesion Policy): oltre 40 milioni di euro erogati dal 2017 per promuovere i “benefici” delle politiche di coesione UE. Coinvolte agenzie e media in Italia, Spagna, Lituania, Bulgaria, Portogallo. Il rapporto evidenzia esempi in cui questi finanziamenti non sono chiaramente segnalati, il che equivale a forme di “marketing occulto” o “propaganda occulta”.
  • Journalism Partnerships (2021-2025): quasi 50 milioni di euro stanziati tramite Creative Europe per progetti giornalistici transnazionali che promuovono l’integrazione europea.
  • European Digital Media Observatory (EDMO): almeno 27 milioni di euro per costituire reti di fact-checking (verifica delle informazioni) impegnate nella cosiddetta “lotta alla disinformazione”.
  • Multimedia Actions: più di 20 milioni di euro annui, tra cui 1,7 milioni per la European Newsroom, che riunisce 24 agenzie stampa a Bruxelles con l’obiettivo dichiarato di allineare la narrazione europea.
  • Direzione Comunicazione del Parlamento Europeo: quasi 30 milioni di euro spesi dal 2020 per campagne mediatiche promozionali, in particolare in vista delle elezioni europee del 2024.

Le agenzie stampa come guardiani della narrazione

Uno degli snodi centrali è il ruolo delle agenzie di stampa, la mano nascosta che plasma la narrazione mediatica globale. Essendo fonti primarie per centinaia di media, controllarne la linea equivale a controllare il messaggio, spesso replicato alla lettera dagli altri organi di stampa. È per questo che la Commissione collabora strutturalmente con ANSA (Italia), EFE (Spagna), Lusa (Portogallo), AFP (Francia) e molte altre. La sola ANSA, ad esempio, ha partecipato ad almeno due dozzine di campagne mediatiche finanziate dall’UE. 

La Commissione ha anche speso quasi 2 milioni di euro attraverso il suo programma Azioni Multimediali (a cui sono stati stanziati oltre 20 milioni di euro solo nel 2024) per la realizzazione dell’European Newsroom (ENR): avviato nel 2022, il progetto ha previsto la creazione di un centro di produzione di notizie a Bruxelles, dove i corrispondenti delle “agenzie” producono congiuntamente riassunti di notizie due volte a settimana, alimentando reciprocamente le rispettive agenzie di stampa e i canali di diffusione, offrendo così una prospettiva paneuropea sugli affari dell’UE al pubblico di tutto il continente. 

Journalism Partnerships: come Bruxelles orienta il giornalismo “collaborativo”

Uno dei canali più significativi attraverso cui la Commissione Europea finanzia – e, quindi, indirizza – l’informazione in Europa è il programma Journalism Partnerships, attivo dal 2021 e incardinato nel quadro del programma Creative Europe. Si tratta di una linea di finanziamento che ha messo a disposizione circa 50 milioni di euro nel periodo 2021-2027 per progetti “collaborativi” tra testate, reti editoriali e organizzazioni giornalistiche europee. L’obiettivo di chiarato è «rafforzare il pluralismo e la resilienza del settore giornalistico». Tuttavia il programma premia con insistenza le proposte orientate all’integrazione europea, alla promozione dell’agenda verde e digitale dell’UE, alla «coerenza informativa» su temi chiave come migrazioni, politiche economiche, guerra in Ucraina e contrasto all’euroscetticismo. Diverse testate italiane partecipano attivamente ai progetti Journalism Partnerships, in consorzi transnazionali che coinvolgono media, università e ONG. È il caso, ad esempio, del gruppo GEDI (editore di Repubblica, La Stampa, HuffPost), di RAI e di piattaforme come Pagella Politica.

Il punto critico, sottolineato dal dossier di Fazi, è che questi partenariati spesso contribuiscono a standardizzare la narrazione europea, allineando linguaggio, messaggi e priorità editoriali. Il giornalismo diventa così una rete di ripetizione strutturata, dove il dissenso non viene censurato apertamente, ma disincentivato silenziosamente.

Fact-checking finanziato e verità condizionata

L’Osservatorio Europeo dei Media Digitali (EDMO), presentato come bastione contro le fake news e finanziato con almeno 27 milioni di euro, viene in realtà definito un sistema di filtraggio ideologico. Partecipano al progetto agenzie già coinvolte in attività promozionali per l’UE, tra cui AFP, ANP, DPA e Lusa. In Italia, partner di EDMO è il gruppo GEDI e l’emittente pubblica RAI.

Quando chi riceve fondi per fare “giornalismo” è anche incaricato di sorvegliare i confini del discorso accettabile e di decidere cosa è vero e cosa è falso, il rischio non è solo quello della censura: è la soppressione sistematica del dissenso, bollato come “disinformazione”.  

Il caso Euronews: la CNN d’Europa

Uno dei casi più emblematici della fusione tra media e potere europeo è quello di Euronews, l’emittente televisiva paneuropea con sede a Bruxelles che venne fondata nel 1993 da una collaborazione tra le emittenti pubbliche del continente, oggi di proprietà del fondo d’investimenti portoghese Alpac Capital. Storicamente presentata come «la voce neutrale dell’Europa» ma che, nel tempo, si è trasformata in una appendice comunicativa della Commissione Europea. Quest’ultima ha versato tra il 2015 e il 2020 circa 122 milioni di euro nelle casse del network con sede a Lione. Questi fondi hanno rappresentato fino al 60% del fatturato totale dell’emittente in certi anni, rendendo Bruxelles di fatto il suo principale finanziatore. Il paradosso è che, pur formalmente indipendente, Euronews ha stipulato un contratto di servizio pubblico con la Commissione, che le ha affidato il compito di diffondere contenuti sulle politiche e le priorità europee e di fornire copertura in tutte le lingue ufficiali dell’UE. Una funzione nobile solo in apparenza: nella realtà si traduce in una linea editoriale strutturalmente allineata all’agenda comunitaria, in cambio di fondi che ne garantiscono la sopravvivenza economica. Questo modello rappresenta una forma diretta di “propaganda istituzionale”, che si regge su vincoli economici e accordi contrattuali, agendo di fatto come organo promozionale. 

L’investigazione a senso unico

E le inchieste? L’UE finanzia anche il giornalismo investigativo, purché sia diretto all’esterno. Gran parte dei progetti finanziati – come IJ4EU (3 milioni), ICIJ, MediaResilience – puntano a investigare su Russia, Kazakistan, Africa, paradisi fiscali. Nessuna indagine seria su corruzione od opacità istituzionale all’interno dell’UE, nonostante i numerosi scandali documentati al suo interno. Quello d’inchiesta appare quindi come una forma di giornalismo da incentivare ma a patto che non si occupi di quanto avviene dentro le mura del Vecchio Continente. 

La propaganda del Parlamento Europeo

Il Parlamento Europeo, attraverso la sua Direzione generale della Comunicazione, ha stanziato quasi 30 milioni di euro dal 2020 per campagne mediatiche, inclusi contenuti esplicitamente autopromozionali in vista delle elezioni. L’obiettivo è «aumentare in modo più efficace la portata verso un pubblico mirato con messaggi relativi all’attività del Parlamento Europeo», aggiungendo «legittimità alle campagne del Parlamento». 

Una strategia che ricorda l’USAID

Il modello seguito da Bruxelles ricalca quello americano dello USAID, l’agenzia per lo sviluppo finita sotto la scure del governo Trump, che per decenni ha finanziato media all’estero per promuovere gli interessi geopolitici statunitensi. Non a caso, molti progetti UE all’estero (Ucraina, Balcani, Caucaso) sono orientati proprio a “rafforzare la democrazia” attraverso il finanziamento a media e organizzazioni di stampo liberale ed europeista. Solo nel 2025 sono stati destinati 10 milioni di euro ai media ucraini. Dopo il taglio ai fondi da parte di Trump a Radio Free Europe/Radio Liberty, Bruxelles è subentrata nel ruolo di sponsor. 

La stampa come cinghia di trasmissione

La macchina della propaganda europea, che si dipana tra ONG, media e accademia, «supera le aspettative del più cinico dei critici», ha spiegato a L’Indipendente Thomas Fazi, che è rimasto stupito dalla mole di finanziamenti diretti ai media. Ed è anche per questo che il rapporto sta avendo un impatto silenzioso, ma non per questo meno incisivo, sui palazzi di Bruxelles. 

Il quadro delineato è chiaro: dal rapporto emerge una Commissione Europea interessata non tanto a sostenere la stampa libera, quanto a comprarne i favori, in quella che viene definita una «relazione semi-strutturale tra istituzioni europee e media mainstream». Non si tratta di intromissioni redazionali, ma di creare un rapporto di dipendenza economica, che induce automaticamente allineamento e servilismo. Un sistema si autoalimenta: i media che già mostrano simpatia per Bruxelles ricevono fondi; chi li riceve evita critiche per non perderli. Un circolo vizioso che soffoca ogni autonomia. E tutto questo, va ricordato, viene pagato con i soldi dei contribuenti. Quegli stessi cittadini che ricevono una verità confezionata su misura, in cui le testate parlano con una voce sola, ripetendo le stesse parole d’ordine, gli stessi titoli, le stesse versioni fotocopia. L’effetto è devastante: si uccide il pluralismo, si offusca il dissenso, si trasforma il giornalismo in megafono della tecnocrazia.

C’è un’illusione persistente nel dibattito pubblico italiano: che la stampa mainstream sia libera per definizione, che i media rappresentino “il cane da guardia” del potere e che la neutralità sia tutelata da una presunta autorevolezza editoriale. Uno sguardo ai dati rivela un’altra realtà. Secondo il dossier Brussels’s Media Machine di Thomas Fazi (MCC Brussels, giugno 2025), il sistema di finanziamento UE alla stampa è tutt’altro che secondario: si tratta di una macchina che distribuisce circa 80 milioni di euro all’anno per promuovere narrazioni pro-UE, spesso senza trasparenza per il lettore. L’Italia, da questo punto di vista, è un caso esemplare. Il rapporto evidenzia un vero e proprio sistema parallelo di finanziamento condizionato, in cui Bruxelles premia gli allineati e isola i divergenti. Si badi bene: non si tratta di piccoli editori locali bisognosi di sopravvivere in un mercato difficile, ma di colossi editoriali strutturati che ricevono fondi consistenti in cambio di una narrazione smaccatamente filoeuropeista. Il tutto senza dichiarare in modo trasparente al lettore il ruolo dell’UE nella produzione dei contenuti. Una violazione della fiducia, che richiama alla mente le modalità della propaganda e del “marketing occulto”.

ANSA: il braccio armato di un’informazione conforme

ANSA, l’agenzia di stampa leader in Italia, è il principale vettore della narrazione europeista, per il semplice motivo che i suoi contenuti vengono rilanciati da centinaia di altre testate, locali e nazionali. Secondo i dati ufficiali analizzati da Fazi, ANSA ha ricevuto quasi 6 milioni di euro dalla Commissione Europea negli ultimi dieci anni. Nel dettaglio, l’agenzia di stampa ha beneficiato di oltre 800.000 euro dalla Commissione Europea per almeno tre progetti strutturati – Italy: Cohesion Goes Local (265.000 euro), Time4Results (270.000 euro) e The Cohesion Policy Today and Tomorrow – Italy (270.000 euro). Questi progetti, finanziati nell’ambito del programma IMREG (Information Measures for the EU Cohesion Policy), hanno prodotto migliaia di contenuti multimediali su scala nazionale e locale, molti dei quali rilanciati da oltre 20 testate locali, tra cui Gazzetta del Sud, La Sicilia e La Gazzetta del Mezzogiorno. ANSA è stata coinvolta anche nel progetto FANDANGO, istituito «per individuare le notizie false e fornire una comunicazione più efficiente e verificata per tutti i cittadini europei», finanziato quasi interamente dalla Commissione Europea (attraverso il programma Horizon 2020) per un importo di quasi 3 milioni di euro.

La funzione è chiara: portare il verbo europeista nelle periferie e legare l’immagine dell’UE a benefici concreti e tangibili. L’inganno più grande? Nella maggior parte dei casi non è specificato che i contenuti siano stati finanziati dall’UE, né che le linee editoriali rispondano a obiettivi dettati da Bruxelles.

RAI: il servizio pubblico al servizio dell’Unione

Anche la RAI è coinvolta in modo sistematico nel circuito dei finanziamenti europei, in particolare attraverso progetti legati all’alfabetizzazione mediatica, alla promozione dei “valori europei” e alla lotta alla disinformazione. La RAI partecipa, infatti, all’hub italiano dell’European Digital Media Observatory (EDMO), assieme a GEDI, Pagella Politica, Università di Roma Tor Vergata e TIM. L’iniziativa, che rientra nel programma Digital Europe, è stata finanziata con oltre 27 milioni di euro a livello europeo, di cui una parte consistente è destinata proprio alla realizzazione di contenuti multimediali, attività formative e campagne di verifica dei fatti.

La Repubblica e Domani 

La testata La Repubblica, parte del gruppo GEDI, quotidiano di riferimento della borghesia progressista, storicamente vicino all’ideologia europeista, ha ricevuto 260.000 euro per il progetto Europa, Italia, un’iniziativa editoriale volta a promuovere «una migliore comprensione dell’azione europea nei territori». Nella pratica, si tratta di articoli celebrativi dei fondi europei, dei progetti PNRR, delle sinergie tra Bruxelles e le regioni. Anche in questo caso, la trasparenza è minima: solo un piccolo logo UE sul banner del progetto, nessuna chiara indicazione che il contenuto sia frutto di una sponsorizzazione istituzionale.

È il turno di Domani, testata fondata da Carlo De Benedetti, oltre ad aver fruito di 100 mila euro dalla Commissione Europea, figura tra i media coinvolti nel progetto European Focus, finanziato con 470.000 euro per la produzione di una newsletter paneuropea volta a «rafforzare il dibattito europeo».

Il Sole 24 Ore

Che dire poi de Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria e punto di riferimento per il mondo economico e finanziario italiano? Anche qui, è difficile stabilire quanto la narrazione pro-UE sia figlia di una linea culturale autonoma e quanto, invece, sia il frutto dei finanziamenti strutturati ricevuti. Oltre ad aver beneficiato di 1,5 milioni di euro di fondi diretti europei, il progetto La politica di coesione in numeri, premiato con 290.000 euro da Bruxelles, ha portato alla pubblicazione di una lunga serie di articoli, analisi e grafici che esaltano il ruolo dell’Unione Europea nello sviluppo economico delle regioni italiane. Eppure, in nessuno di questi articoli si legge chiaramente che l’intera operazione è sponsorizzata dalla Commissione. Non c’è una nota redazionale, un disclaimer, una separazione tra contenuto editoriale e comunicazione istituzionale. Il risultato? Una propaganda mascherata da informazione tecnico-finanziaria, dove l’UE appare come unica soluzione razionale ai problemi del Paese.

Da citare, inoltre, Linkiesta, partner del progetto Wounds of Europe (programma Stars4Media), in cui si racconta l’integrazione europea attraverso podcast e longform journalism. Questo progetto fa parte delle Journalism Partnerships, un’iniziativa da 50 milioni di euro lanciata nel 2021 per promuovere «valori europei» nei contenuti editoriali.

Un sistema che esclude il dissenso

Il rapporto di Fazi evidenzia un punto cruciale, ovvero che i fondi UE non vengono distribuiti a caso: le testate che promuovono attivamente la visione europeista ricevono finanziamenti, mentre le voci critiche vengono sistematicamente ignorate o escluse. C’è una selezione a monte, per cui accedono più facilmente ai finanziamenti le testate che già mostrano una predisposizione favorevole all’Unione Europea. 

In un Paese dove la libertà di stampa è già fragile, legata a interessi editoriali, pubblicitari e politici, l’intervento dell’UE attraverso fondi selettivi ha prodotto una compressione ulteriore del pluralismo che riguarda anche il nostro Paese. I media italiani interessati da questo sistema – che pontificano sul pericolo della disinformazione on line e impartiscono lezioni di democrazia – non sono più arbitri, ma giocatori schierati, impegnati a difendere il progetto europeo per ragioni finanziarie. L’informazione italiana è diventata un’estensione del potere europeo, funzionale alla costruzione di un consenso artificiale, che inquina il dibattito pubblico.

L’idea moderna di libertà di stampa affonda le sue radici nell’Illuminismo. Per i filosofi del XVIII secolo la circolazione dei giornali era il primo antidoto contro l’arbitrio del potere: uno strumento capace di alimentare il confronto, permettere la formazione dell’opinione pubblica e vigilare sull’operato dei governanti. La stampa assunse così un ruolo politico e culturale, diventando veicolo di idee e di dibattito. In questo solco si inserisce la celebre definizione della stampa come “Quarto potere”. L’espressione, ispirata ai tre poteri teorizzati da Montesquieu (legislativo, esecutivo e giudiziario), sottolinea la funzione dei media come pilastro democratico aggiuntivo, capace di esercitare un controllo costante sul potere politico. La libertà di stampa, dunque, non è un privilegio, ma una necessità per ogni società democratica. 

La libertà di stampa come diritto naturale

Lo sviluppo della tradizione dei media occidentali corre di pari passo con l’evoluzione della democrazia in Europa e negli Stati Uniti. Già i pensatori liberali del XVII e XIX secolo, in contrapposizione alla tradizione monarchica e al diritto divino dei re, rivendicavano la libertà di espressione come “diritto naturale” dell’individuo. In questa prospettiva, la libertà di stampa divenne parte integrante dei diritti fondamentali sanciti dall’ideologia liberale. 

In foto: Jürgen Habermas, filosofo, sociologo, politologo ed epistemologo tedesco

Successivamente, altre correnti hanno sostenuto la stessa tesi su basi diverse: la libertà di espressione venne sempre più intesa come componente essenziale del contratto sociale. Jürgen Habermas, nel 1962, avrebbe concettualizzato questo spazio come “sfera pubblica borghese”: un luogo ideale e aperto in cui i cittadini possono esprimersi, discutere e contribuire al dibattito pubblico senza essere subordinati a logiche di potere o interessi di parte. La Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese consolidarono questa visione, sancendo il legame tra giornalismo e democrazia. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 riconobbe, infatti, la libertà di stampa come diritto fondamentale.  

Il reporter come “watchdog

Lo scandalo Watergate, o semplicemente il Watergate, fu uno scandalo politico scoppiato negli Stati Uniti nel 1972, innescato dalla scoperta di alcune intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del Comitato nazionale democratico, da parte di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente Richard Nixon. In foto: il Watergate Complex

Da quel momento, il giornalismo non fu più considerato soltanto cronaca dei fatti, ma spazio di critica e di partecipazione pubblica: un percorso che, nell’Ottocento, portò al giornalismo politico e nel Novecento alla consacrazione del modello investigativo e di inchiesta. Nel XX secolo, infatti, il giornalismo statunitense ha codificato il ruolo del reporter come watchdog, il “cane da guardia” incaricato di vigilare sulle istituzioni e denunciarne gli abusi. Si tratta di un giornalismo investigativo che mira a far emergere responsabilità sistemiche e a stimolare conseguenze politiche e giudiziarie. Tra i casi storici più noti possiamo ricordare il Watergate, i Pentagon Papers e l’Iran-Contra affair. Sebbene il watchdog journalism resti un presidio indispensabile per la democrazia, capace di rivelare ciò che il potere preferirebbe occultare, oggi questo paradigma vive una profonda crisi che si estende ben oltre gli Stati Uniti.

Il potere degli incentivi: da Bill Gates al caso USAID

Nelle democrazie occidentali si deve constatare la trasformazione della stampa da contropotere a cassa di risonanza delle istituzioni e della tecnocrazia. Il meccanismo non si fonda tanto sulla censura diretta, quanto sull’uso sistematico del soft power: una rete di incentivi, finanziamenti, pressioni politiche ed economiche, programmi e piattaforme che orientano l’agenda mediatica e marginalizzano le voci critiche. Un ruolo centrale lo hanno i filantrocapitalisti del calibro di George Soros e Bill Gates, che attraverso le loro fondazioni indirizzano l’agenda mediatica. Secondo un’inchiesta di MintPress News, la Bill & Melinda Gates Foundation ha distribuito oltre 319 milioni di dollari a testate come CNN, BBC, The Guardian, Le Monde e Al-Jazeera, oltre che a centri di giornalismo investigativo e associazioni di categoria. La Gates Foundation ha donato in lungo e in largo a fonti accademiche, con almeno 13,6 milioni di dollari destinati alla prestigiosa rivista medica The Lancet. Persino la formazione dei reporter avviene spesso tramite borse di studio finanziate dagli stessi filantrocapitalisti, creando un sistema chiuso in cui media e giornalisti dipendono dagli stessi soggetti. 

Il caso dell’USAID, che ha usato programmi di “rafforzamento dei media” come strumenti di influenza politica, mostra quanto queste dinamiche non siano eccezioni. Il risultato è una stampa che rischia di perdere la sua funzione critica, sostituita da un’informazione certificata dall’alto e sempre più allineata ai centri di potere. 

Fact checking: dalla verifica alla certificazione 

In questo scenario ricopre un ruolo fondamentale il fact checking: nato come pratica di verifica dei dati e delle fonti, si è trasformato velocemente in un sistema di  certificazione della verità, che assegna bollini di attendibilità o etichette di falsità con criteri spesso opinabili e soggettivi, con effetti diretti sulla visibilità dei contenuti online. La logica che lo sostiene è paternalistica e l’obiettivo di creare una “informazione certificata” pone le basi per la legittimazione morale della censura. 

Strutture come l’EDMO in Europa o la International Fact-Checking Network a livello globale ricevono finanziamenti da istituzioni pubbliche, fondazioni private e piattaforme digitali, con advisory board in cui siedono esponenti legati a grandi media, Big Tech e fondazioni come la Gates Foundation o la Open Society. Il caso più emblematico è NewsGuard, agenzia americana nata nel 2018 e finanziata anche dal Pentagono, che valuta i media con indici di “credibilità”. Tra i suoi advisor figurano l’ex direttore della CIA Michael Hayden e l’ex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen, mentre tra gli investitori c’è il colosso pubblicitario Publicis. Un meccanismo pensato per contrastare le fake news rischia così di diventare un filtro politico e commerciale dell’informazione, penalizzando i media indipendenti e proteggendo le narrazioni mainstream.

Fact checking e pandemia: l’inquisizione digitale

L’avvocato e imprenditore statunitense Hunter Biden, figlio secondogenito dell’ex presidente americano Joe Biden

Durante la pandemia da Covid-19, questa dinamica ha mostrato tutta la sua portata, come testimoniato dai Twitter Files e dai Facebook Files. Il fact checking non si è limitato a correggere errori, ma ha assunto la funzione di filtro preventivo: contenuti divergenti dalla narrativa ufficiale, spesso veri, compresi articoli giornalistici (come lo scoop del New York Post sul laptop di Hunter Biden) sono stati declassati, etichettati come “disinformazione” o rimossi dai social. In molti casi, la stessa categoria di “fake news” è stata usata in modo elastico per bollare opinioni scientifiche minoritarie, ipotesi alternative o critiche politiche. Ne è scaturita una forma di “Inquisizione digitale”: una rete di debunkers e algoritmi che, lungi dal garantire il pluralismo, ha consolidato un monologo informativo, volto a criminalizzare le voci divergenti, alimentando un clima di colpevolizzazione e di conformismo forzato.

Spirale del silenzio e autocensura

Il potere del fact checking non sta solo nelle etichette, ma nell’effetto sociale che produce. Etichettare un contenuto come “falso” o “pericoloso” genera isolamento per chi lo diffonde e induce altri a tacere per timore di subire la stessa delegittimazione. È la cosiddetta “spirale del silenzio”, teoria elaborata da Elisabeth Noelle-Neumann: la percezione che un’opinione sia minoritaria porta gli individui a non esprimerla, rafforzando così l’apparente consenso attorno alla narrativa dominante. Questo meccanismo riduce lo spazio del dibattito pubblico. Invece di discutere e confrontare argomenti, la questione si chiude a monte: un’etichetta di fact checking sancisce cosa è vero e cosa è falso, trasformando la complessità in un verdetto binario.

Da cane da guardia a cane da compagnia

Il giornalismo ha così smarrito la propria vocazione originaria. Non più guardiano che vigila sul potere, ma cane da compagnia che lo rassicura e lo protegge. Le redazioni, impoverite economicamente e pressate dagli sponsor, rinunciano all’inchiesta indipendente per riprodurre comunicati ufficiali o contenuti già filtrati da network istituzionali. Il fact checking, nato come strumento interno al giornalismo, è diventato invece un apparato esterno che certifica quali media e quali notizie siano legittime. 

La parabola che va dall’Illuminismo all’odierno giornalismo certificato segna un arretramento democratico. In nome della lotta alla disinformazione, si sta producendo un’informazione sempre più omogenea, che riduce il pluralismo e trasforma i media in cinghie di trasmissione delle élite. Il soft power si rivela qui più efficace della censura tradizionale: non vieta, ma orienta; non reprime, ma incentiva. In questo modo, la grande promessa della stampa come garanzia di libertà rischia di dissolversi in un paesaggio informativo disciplinato da algoritmi, fact checkers e finanziamenti istituzionali.

Nigeria, 315 persone rapite da una scuola cattolica

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315 persone sono state rapite ieri nella scuola cattolica St. Mary nell’area di Agwara, in Nigeria: 303 studenti e 12 insegnanti, secondo il bilancio fornito dall’associazione cristiana nazionale. Nessun gruppo ha rivendicato l’azione, in un contesto in cui i rapimenti a scopo di riscatto sono frequenti. Il governo del Niger ha criticato la scuola per aver riaperto nonostante gli avvertimenti dei servizi su minacce crescenti. Il sequestro è avvenuto all’alba; forze militari e di sicurezza sono state dispiegate. Un episodio analogo è avvenuto pochi giorni fa, con il rapimento di 25 studentesse dai dormitori della Government girls secondary school di Maga, nello Stato di Kebbi.

Musica, è morta Ornella Vanoni

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Ornella Vanoni è morta all’età di 91 anni, a causa di un malore. Attiva dal 1956, la cantautrice ha pubblicato nel corso della sua carriera oltre cento progetti (tra album, EP e raccolte), vendendo più di 60 milioni di dischi in tutto il mondo. Tra le altre cose ha partecipato a otto edizioni del Festival di Sanremo, risultando l’unica donna e la prima artista in assoluto a vincere due Premi Tenco.

In Sardegna quattro operai protestano da giorni vivendo sospesi a 40 metri d’altezza

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Da cinque giorni quattro operai dell’Eurallumina stanno trascorrendo giorno e notte a quaranta metri di altezza sul silo dello stabilimento di Portovesme, nel Sulcis, in una protesta estrema per ottenere risposte dalle istituzioni. I lavoratori, che sfidano il maestrale e le temperature rigide in un presidio permanente, chiedono lo sblocco dei fondi necessari alla ripartenza della fabbrica dopo sedici anni di fermo. Non è la prima volta che i lavoratori di Portovesme si mobilitano a causa della crisi dell’area industriale della regione: già nel 2023 altri operai erano rimasti in presidio sulla vetta di una ciminiera dell’azienda metallurgica per protestare contro il caro energia.

Le rivendicazioni economiche – i 10 milioni che i lavoratori considerano dovuti per legge e la promessa di investimenti fino a 300 milioni per riavviare la produzione – sono al centro del contendere. Il provvedimento che ha bloccato i beni in Italia della Rusal, multinazionale russa proprietaria dello stabilimento, ha di fatto paralizzato la prospettiva di riavvio dell’impianto, primo anello della filiera strategica dell’alluminio. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, tramite l’Agenzia del Demanio, è diventato il soggetto competente per la custodia e la gestione della fabbrica, spostando la soluzione del problema a livello nazionale. È in questo vuoto che si inserisce la disperata richiesta dei lavoratori. Enrico Pulisci, rappresentante dei lavoratori, ha spiegato le ragioni della mobilitazione, chiedendo al ministero e al governo di dare «subito risposte certe sullo stanziamento dei fondi». «Teniamo a precisare – ha aggiunto – che in questi 16 anni la Rusal ci ha messo 24 milioni all’anno. Esclusi gli ammortizzatori sociali, non siamo sovvenzionati da contributi pubblici».

A sostegno degli operai sono scese in campo anche le sigle sindacali Filctem Cgil, Femca Cisl, Uiltec Uil e Rsa Eurallumina, che in un comunicato congiunto pubblicato negli scorsi giorni hanno ritenuto «paradossale» la «disparità di trattamento applicata all’Eurallumina rispetto ad altre aziende europee consociate della stessa UC RUSAL (in Svezia, Germania, Irlanda)», in cui i rispettivi esecutivi, pur aderendo al regime sanzionatorio, «hanno scelto di tutelare le imprese ritenute strategiche, mantenendole operative». In sindacati hanno inoltre evidenziato come la gestione finanziaria dello stabilimento, pari a oltre 20 milioni annui, sia stata «sostenuta sino a settembre 2025 dalla stessa Proprietà (RUSAL), mentre la normativa prevederebbe la gestione, anche finanziaria, da parte del C.S.F. tramite l’Agenzia del Demanio con fondi ministeriali».

Nella giornata di ieri si è registrato un primo timido segnale di movimento. La presidente della Regione Sardegna, Alessandra Todde, ha infatti incontrato il ministro Giancarlo Giorgetti a Roma, e durante il colloquio è stato affrontato anche il caso Eurallumina. «Ci siamo confrontati con il ministro Giorgetti sulla situazione di Eurallumina – ha dichiarato Todde -, ed è emerso che la volontà del MEF è di collaborare e di rimettersi al tavolo anche con l’azienda per capire come poter definire una direttrice che possa chiudere il contenzioso». La governatrice sarda ha portato ai lavoratori un messaggio di apertura: «Quello che porto a casa è un messaggio per l’azienda di riaprire immediatamente un tavolo condiviso con il MEF: c’è disponibilità e apertura per poter affrontare insieme il problema. L’invito all’azienda è quindi quello di non irrigidirsi perché c’è una volontà espressa dal governo, insieme ovviamente alla Regione, per poter trovare dei punti di caduta in tempi rapidi».

Non è la prima volta che gli operai di Portovesme attuano questo tipo di protesta. Era già successo tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2023, quando quattro di loro si erano asserragliati sulla ciminiera dell’impianto Kss, a 100 metri di altezza, per denunciare il caro energia che stava portando alla fermata di quasi tutti gli impianti dello stabilimento. Dopo un’iniziale stop arrivato in seguito a rassicurazioni e promesse da parte del governo, la protesta si era riaccesa a fine marzo a seguito della fumata nera di un vertice sulla vertenza presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, con gli operai che hanno deciso di installarsi sul tetto e incatenati ai tornelli dell’impianto a Portovesme.

Sciopero generale 28 novembre: fermi treni, aerei, scuole e sanità

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È stato proclamato uno sciopero generale nazionale di 24 ore, dalle ore 21 del 27 novembre alle ore 21 del 28 novembre per i settori pubblici e privati, tra cui trasporti, sanità e scuola. La protesta nasce contro la Manovra 2026: i sindacati CUB, USB, SGB, COBAS e USI-CIT criticano l’aumento delle spese militari a scapito dei servizi pubblici, il sottofinanziamento di sanità, scuola e trasporti, e l’assenza di misure per ridurre il precariato e incrementare i salari. Nel trasporto ferroviario la fascia garantita sarà dalle ore 6 alle 9 e dalle 18 alle 21.

Test di Medicina, domande sui social prima della prova: il ministero conferma l’esame

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Telefoni che squillano durante la prova senza conseguenze, conversazioni tra candidati, copiature da dispositivi elettronici, foto e video del test diffusi online prima della fine dell’esame, chiacchiere tollerate tra candidati, gravi falle nella vigilanza, regole applicate a macchia di leopardo. È questo il quadro che emerge dalle segnalazioni di irregolarità da parte degli studenti che il 20 novembre hanno sostenuto il nuovo test del semestre filtro dell’Università di Medicina, Odontoiatria e Veterinaria, che ha sostituito il test d’ingresso. Le associazioni studentesche e di categoria, sostenute dai partiti di opposizione, chiedono l’apertura di un’indagine e le dimissioni della ministra dell’Università Anna Maria Bernini che, dal canto suo difende l’esame e tira dritto: «La macchina ha retto, i furbetti li troveremo».

Le prime prove del semestre filtro a Medicina, che hanno riguardato circa 55 mila studenti, sono state un «susseguirsi di errori e disorganizzazione», accusa l‘Unione degli Universitari, che annuncia un ricorso collettivo che chieda per tutti l’ingresso in soprannumero e nella prima sede. «Il numero chiuso va abolito, non reinventato peggio», spiega l’UdU. Per rispondere al malcontento e per chiedere le dimissioni della ministra Bernini, è già stato acquistato il dominio berninidimettiti.it. La piattaforma è già pronta per andare online e iniziare la raccolta firme. Anche il Pd attacca la ministra, chiedendole di riferire in Aula.

Il caos che si è generato rischia di diventare il punto di svolta di una riforma che ha preso il via sotto la bandiera dell’apertura, ma rischia di essere ricordata come una selezione di fatto più labirintica che liberatoria. In pratica, il modello del nuovo test del semestre filtro era stato annunciato come una rivoluzione a favore dell’accesso all’università e della valorizzazione del merito e della trasparenza, ma già prima dell’esame erano emerse perplessità: anonimato a rischio, condizioni d’esame non omogenee, obblighi di frequenza diversi da ateneo ad ateneo e il tempo di preparazione. L’idea era di rendere l’accesso più inclusivo e meno basato su una sola prova d’ingresso, ma la realizzazione ha mostrato delle crepe che ora rischiano di minare tutto l’impianto. Intanto, il ministero dell’Università ha annunciato che indagherà e annullerà le prove solo nei casi in cui sarà accertata la responsabilità individuale, per ripristinare «il pieno rispetto delle procedure previste». L’eventuale annullamento non riguarderà tutta la procedura, ma solo l’esame del singolo candidato individuato come responsabile di irregolarità. Anche la Conferenza dei rettori assicura «totale intransigenza».

Il rovescio della riforma è che, se da un lato si elimina il test d’ingresso tradizionale, dall’altro si introduce un sistema che appare tutt’altro che trasparente e omogeneo. Le disparità di accesso alle risorse, alle modalità di frequenza e ai controlli mostrano che il cambiamento annunciato rischia di generare nuova selettività mascherata. Alcune università avrebbero applicato controlli rigidi, mentre altre sedi avrebbero mostrato una vigilanza molto meno stringente, affidata alla buona volontà dei commissari, creando così disparità tra i candidati. In un contesto già complesso come quello dell’università italiana, queste tensioni rischiano di amplificarsi con conseguenze sul diritto allo studio e sull’equità tra candidati. Chi ha sostenuto il test senza intoppi adesso deve solo aspettare: entro il prossimo 3 dicembre sarà pubblicato sulla piattaforma Universitaly l’esito degli esami del primo appello. La seconda sessione, prevista per il 10 dicembre resta confermata, ma il clima è cambiato: migliaia di studenti torneranno sui banchi di prova in un’atmosfera carica di risentimento.

Terremoto nel Bangladesh: almeno 8 morti e centinaia di feriti

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Un terremoto di magnitudo fra 5,5 e 5,7 ha colpito la regione centrale del Bangladesh, con epicentro nel distretto di Narsingdi, a circa 25-40 km dalla capitale Dhaka. Secondo le autorità locali, sono almeno otto i morti e più di 300 i feriti, mentre edifici sono crollati o hanno riportato gravi danni e scene di panico si sono diffuse in città e zone periferiche. Il sisma ha scatenato anche una fuga incontrollata in un’area industriale nei dintorni della capitale, dove lavoratori hanno abbandonato le fabbriche in fretta dopo la scossa. Esperti avvertono che la vulnerabilità della zona è elevata, soprattutto nella metropoli dove milioni di edifici rischiano gravi danni in caso di eventi più forti.

Ucraina: ecco quali sarebbero i punti del piano di pace USA

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Gli Stati Uniti hanno presentato una bozza di piano di pace per l’Ucraina in 28 punti, alcuni dei quali già anticipati dai media, che la Casa Bianca ha definito «in evoluzione» e su cui adesso emergono ulteriori dettagli. Secondo la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, l’inviato speciale del Presidente Steve Witkoff e il segretario di Stato americano Marco Rubio hanno lavorato «con discrezione» al piano per circa un mese. Stando al Financial Times, Trump vorrebbe la firma di Volodymyr Zelensky sull’accordo entro giovedì. Frustrazione dall’Europa, tagliata fuori dalle trattative: Germania, Francia e Regno Unito ribadiscono il sostegno a Kiev, che giudica alcune clausole assurde e inaccettabili, come la cessione del Donbass. Il presidente ucraino, pur non sbilanciandosi sui contenuti dell’iniziativa che appare penalizzante per Kiev, si è detto «pronto a collaborare» e disposto a parlarne «nei prossimi giorni» con Trump. La Russia ha fatto sapere di non aver ancora ricevuto il piano del presidente americano.

I 28 punti

  1. Conferma della sovranità dell’Ucraina.
  2. Accordo globale di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa, con risoluzione di tutte le ambiguità passate.
  3. Impegno russo a non invadere i Paesi vicini e stop all’ulteriore espansione NATO.
  4. Dialogo Russia-NATO mediato dagli USA per la sicurezza e la distensione.
  5. Garanzie di sicurezza affidabili per l’Ucraina.
  6. Limitazione delle forze armate ucraine a 600.000 unità.
  7. Neutralità costituzionale dell’Ucraina e non integrazione futura nella NATO.
  8. La NATO accetta di non schierare truppe in Ucraina.
  9. Gli aerei da combattimento europei saranno basati in Polonia.
  10. Meccanismo di garanzie e sanzioni con compenso agli USA e decadenza in caso di aggressione ucraina o attacchi ingiustificati.
  11. Idoneità dell’Ucraina all’UE e accesso preferenziale al mercato europeo.
  12. Piano globale di ricostruzione con Fondo di sviluppo e finanziamento della Banca Mondiale.
  13. Reintegrazione della Russia nell’economia globale e possibile revoca sanzioni; reintegrazione nel G8 e la conclusione di un accordo di cooperazione economica a lungo termine con gli Stati Uniti.
  14. Investimento di 100 miliardi di dollari di beni russi congelati per ricostruzione Ucraina con compartecipazione USA ed Europa, con gli Stati Uniti che riceveranno il 50% dei profitti dell’iniziativa. L’Europa aggiungerà altri 100 miliardi di dollari per aumentare l’importo degli investimenti disponibili per la ricostruzione dell’Ucraina.
  15. Gruppo di lavoro congiunto USA-Russia sulla sicurezza.
  16. La Russia sancirà per legge la sua politica di non aggressione nei confronti dell’Europa e dell’Ucraina.
  17. Proroga dei trattati su non proliferazione e controllo nucleare tra USA e Russia, compreso il trattato START I.
  18. Impegno ucraino a restare Stato non nucleare, in conformità con il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari.
  19. La centrale nucleare di Zaporižžja sarà messa in funzione sotto la supervisione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) e l’elettricità prodotta sarà distribuita in parti uguali tra Russia e Ucraina al 50%.
  20. Programmi educativi per promuovere comprensione reciproca.
  21. La Crimea, Lugansk e Donetsk saranno riconosciute come regioni russe de facto, anche dagli Stati Uniti. Kherson e Zaporižžja saranno congelate lungo la linea di contatto, il che significherà un riconoscimento de facto lungo tale linea.
  22. Impegno reciproco a non modificare i confini con la forza.
  23. Libero uso del Dnepr per scopi commerciali e corridoi per esportazione di cereali nel Mar Nero.
  24. Comitato umanitario per prigionieri, ostaggi e ricongiungimenti.
  25. L’Ucraina organizzerà le elezioni entro 100 giorni.
  26. Amnistia totale per le azioni di guerra e rinuncia a richieste legali future.
  27. Accordo vincolante supervisionato da Consiglio di pace con sanzioni in caso di violazione.
  28. Cessate il fuoco immediato dopo il ritiro concordato delle parti.

Le reazioni internazionali

Le risposte internazionali al piano statunitense sono state immediate e divergenti. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro britannico Keir Starmer hanno telefonato oggi pomeriggio al presidente ucraino Volodymyr Zelensky per ribadire il loro «sostegno pieno e incondizionato» all’Ucraina e sottolineare che qualsiasi accordo dovrà «preservarne la sovranità e garantirne la sicurezza futura». La Francia, tramite il ministro degli Esteri Jean‑Noël Barrot, ha chiarito che la pace non può significare «capitolazione» dell’Ucraina: «Vogliamo una pace giusta che rispetti la sovranità di ogni Paese». Nel Regno Unito, un portavoce del Foreign Office ha dichiarato che Londra condivide l’obiettivo della Casa Bianca di porre fine alla guerra, ma ha sottolineato che ciò richiede un «ritiro immediato delle truppe russe». Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa si è rifiutato di commentare, limitandosi a specificare che «All’UE non è stato comunicato alcun piano in maniera ufficiale». Il capo della diplomazia comunitaria Kaja Kallas ha affermato che «qualsiasi piano per porre fine alla guerra deve includere Ucraina ed Europa», respingendo l’idea di un’intesa negoziata senza il coinvolgimento dell’UE e di Kiev. Dello stesso avviso il titolare della Farnesina, Antonio Tajani, che ha ribadito che «l’Europa dovrà essere parte della trattativa», anche perché bisognerà discutere di come ritirare le sanzioni comminate alla Federazione. Fuori dal coro, la voce ungherese: continuare a sovvenzionare «una mafia di guerra corrotta» in Ucraina sarebbe impensabile, ha commentato Péter Szijjártó riferendosi allo scandalo corruzione esploso a Kiev negli scorsi giorni che ha indebolito il leader ucraino.

Secondo Reuters, l’Ucraina sta subendo una pressione maggiore rispetto al passato, da parte di Washington, affinché accetti il quadro di un accordo di pace, comprese minacce di cessare la fornitura di intelligence e armi. Nonostante ciò, il principale negoziatore di Kiev, Rustem Umerov, ha chiarito che l’Ucraina non accetterà alcun accordo di pace con la Russia che oltrepassi le sue “linee rosse”. Mosca ha fatto sapere attraverso il suo portavoce Dmitry Peskov che non ha ancora ricevuto ufficialmente il piano e che «niente sta venendo discusso in modo sostanziale». «Siamo completamente aperti, manteniamo la nostra apertura ai negoziati di pace», ha precisato il portavoce del Cremlino, che ha invitato Zelensky a negoziare “ora”, in quanto «Il suo margine di manovra decisionale si sta riducendo man mano che il territorio viene perso durante le azioni offensive delle forze armate russe».

I manichini femminili da crash test sono ora uno standard

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Da oltre mezzo secolo i crash test automobilistici si basano su manichini modellati sul corpo maschile “medio” – uno standard nato negli anni ’70 che non rappresenta in modo adeguato la fisiologia femminile. Oggi, però, si intravede una svolta: il Dipartimento dei Trasporti degli Stati Uniti ha approvato l’introduzione di un nuovo manichino con caratteristiche anatomiche femminili, pensato per colmare una storica lacuna nella sicurezza stradale.

Giovedì 20 novembre il Segretario ai Trasporti degli Stati Uniti, Sean Duffy, ha presentato al pubblico il THOR-05F di Humanetics, un nuovo manichino avanzato per crash test progettato per colmare gli ampi margini di vuoto della ricerca e offrire dati più accurati sulla sicurezza delle donne. Questo segmento demografico, storicamente trascurato nei test, risulta infatti più esposto a lesioni e decessi in caso di incidente stradale. Secondo uno studio dell’Università della Virginia, a causa di sistemi di protezione non adeguatamente calibrati, le donne hanno il 73% di probabilità in più di riportare ferite gravi o fatali durante una collisione, con particolare vulnerabilità agli arti inferiori, alla colonna vertebrale e all’area addominale. 

La Traffic Safety Administration (TSA), l’agenzia responsabile della sicurezza delle reti di trasporto, aveva già in uso manichini con fattezze femminili, gli Hybrid III, tuttavia questi sono piuttosto rudimentali: la loro struttura rigida deriva da proporzioni virili idealizzate e mancavano di componenti in grado di riprodurre le fragilità e la complessità del corpo umano. Al contrario, il THOR-05F è stato progettato per riprodurre più fedelmente scheletro, organi e articolazioni femminili, inoltre integra più di 150 sensori che promettono di registrare con dettaglio i dati degli impatti simulati.

L’introduzione del nuovo standard rappresenta dunque un passo avanti significativo e largamente condiviso, uno dei pochi provvedimenti statunitensi che è stato in grado di raccogliere un sostegno bipartisan, con Repubblicani e Democratici che hanno messo da parte le loro sempre più marcate divisioni pur di approvarlo. Ciò non toglie che l’Amministrazione Trump sia comunque stata in grado di presentare questa misura come un risultato politico di rilievo e di consenso. “La sinistra non vuole sentirselo dire, ma la scienza è chiara: ci sono solamente due sessi – maschile e femminile”, ha dichiarato Duffy nel presentare il manichino. “Questo fatto biologico non è solamente propaganda – è un elemento importante da tenere in considerazione durante la progettazione delle autovetture”.

Il THOR-05F è stato presentato come un’innovazione coerente con l’Ordine Esecutivo intitolato “Ripristinare la Verità Biologica all’interno del Governo Federale”, tuttavia tale inquadramento non coglie la complessità e l’ampiezza delle ricerche attualmente in corso, le quali cercano di superare i format imposti dalle origini dei manichini da crash, i quali risalgono all’aviazione militare: i primi modelli furono concepiti per rispecchiare la fisicità dei soldati dell’epoca, uomini tonici e ben addestrati. Quella matrice fisica rifletteva tuttavia un contesto molto specifico e non è rappresentativa della popolazione al volante dei trasporti civili, la cui variabilità richiede oggi modelli molto più diversificati e accurati.

Humanetics aveva già presentato pubblicamente i suoi manichini da crash test femminili nel 2024, tuttavia, parallelamente, l’azienda sta anche sviluppando un’ampia gamma di modelli pensati per riprodurre in modo più realistico anche altre forme di automobilisti odierni. Già nel 2017, Humanetics aveva per esempio introdotto e messo in commercio manichini che replicano i corpi di adulti obesi e di donne anziane, offrendo uno spaccato molto più aderente alla realtà delle strade. Secondo i dati diffusi dalla società, il 51% degli automobilisti statunitensi è donna, il 40% è obeso e il 20% ha più di 70 anni: categorie che finora sono rimaste sottorappresentate nella progettazione dei sistemi di sicurezza. La standardizzazione del modello THOR-05F potrebbe finalmente contribuire a colmare questa storica lacuna.

Infrazione UE all’Italia per Golden power sulle banche

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La Commissione UE ha aperto una procedura di infrazione all’Italia per l’applicazione del meccanismo del “Golden Power Decreto‑legge 21/2012” nel settore bancario, ritenendo che i poteri discrezionali attribuiti al governo italiano siano “incompatibili” con i princìpi della libera circolazione dei capitali e del diritto dell’Unione. Il ministro Giancarlo Giorgetti ha dichiarato che l’Italia proporrà una riforma normativa che chiarisca e “superi le obiezioni” mosse da Bruxelles. L’Italia ora ha due mesi per rispondere alla lettera di messa in mora: in mancanza di una risposta soddisfacente, la Commissione potrà emettere un parere motivato e procedere con ulteriori passi.