Era il punto di riferimento regionale di importanti uomini di Cosa Nostra e si prodigava, dall’alto della sua carica di deputato all’ARS, per i loro interessi, in cambio di un’ingente quantità di voti. Per questo motivo, Paolo Ruggirello – prima esponente del Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo, poi di “Articolo 4” e infine, dal 2015, del Partito Democratico in Sicilia – è stato definitivamente condannato a 12 anni di carcere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ruggirello, su cui pesano in particolare i rapporti con il potente boss Pietro Virga, con cui si incontrò più volte, e con il mafioso Carmelo Salerno, dovrà ora tornare dietro le sbarre per scontare la sua pena.
La Corte di Cassazione ha dunque impresso il timbro definitivo sulla condanna a 12 anni di galera rimediata in appello da Ruggirello lo scorso 25 gennaio, che a sua volta aveva confermato la condanna inflitta al politico in primo grado dal Tribunale di Trapani nel 2023. «È emerso con tutta evidenza che Paolo Ruggirello, nel corso della propria carriera politica, ha sistematicamente potuto contare sul consenso elettorale fornito da autorevoli esponenti dell’associazione mafiosa trapanese, fra cui il pacecoto Filippo Coppola, il mazarese Michele Accomando, i campobellesi Giovanni Buraci, Vincenzo La Cascia e Filippo Sammartano, nonché i trapanese Pietro e Francesco Virga», avevano allora evidenziato i giudici. «La consorteria mafiosa per il tramite di propri associati o di soggetti ad esso contigui – hanno sottolineato – ha fornito il proprio appoggio all’elezione dell’imputato e quest’ultimo, deputato regionale, ha tenuto una condotta idonea a consentire a Cosa nostra di perseguire i propri fini criminali, offrendo un rilevante contributo al suo rafforzamento e consentendo l’ingerenza dell’associazione mafiosa nelle dinamiche amministrativo-politico sociali».
Ruggirello entrò all’ARS per la prima volta nelle file del Movimento per le Autonomie nella primavera del 2006. Poi, nel 2012, riottenne il seggio nella lista “Nello Musumeci presidente”, per approdare l’anno successivo in “Articolo 4” e, in ultimo, nel Partito Democratico nel 2015. «La capacità delle cosche mafiose di stringere rapporti con la politica nei diversi ambiti territoriali, locali, regionali e nazionali, e in momenti di uguale rilievo politico, cioè quello elettorale prima e quello istituzionale poi, ha permesso ai mandamenti mafiosi del territorio della provincia di Trapani, di mantenere ancora forte la propria forza criminale, esercitata al fine di conseguire un controllo occulto sulle istituzioni e sulle attività economiche», aveva messo nero su bianco il tribunale di Trapani, affermando senza esitazione che, come confermato dai contenuti delle intercettazioni esaminate, «l’esponente politico è stato un autentico referente politico» per gli uomini di Cosa Nostra.
La vicenda processuale è nata dall’inchiesta “Scrigno” del nucleo investigativo del comando provinciale dei Carabinieri di Trapani, coordinata dalla DDA di Palermo, in cui, oltre alla riorganizzazione delle cosche, sono emersi gli intrecci tra mafia, politica e imprenditoria nella provincia di Trapani. «Ruggirello – aveva spiegato nella sua requisitoria il pm Gianluca De Leo – si è mostrato perfettamente a conoscenza delle regole, delle dinamiche e delle competenze territoriali di Cosa Nostra, pronto a fare mercimonio della propria attività politica, utilizzando somme pubbliche per distribuire incarichi e consulenze». Il pm aveva sottolineato per esempio che nel 2014, in occasione dell’elezione di Giuseppe Castiglione (PD) a sindaco di Campobello di Mazara, appoggiato da Ruggirello, quest’ultimo in una telefonata con il boss Salerno – che a lui si rivolse per delineare alleanze e candidature – diceva «È salito il nostro sindaco»; ma anche che Ruggirello si sarebbe mosso in prima persona con l’obiettivo di affidare al figlio di Salerno il posto di addetto alla sicurezza all’Assemblea regionale siciliana.
Oltre ai contatti intrattenuti con Pietro Virga e un altro esponente della sua cosca mafiosa, Pietro Cusenza, avvenuti prima delle elezioni regionali del 2017, Ruggirello avrebbe poi avuto solidi legami anche con Lillo Giambalvo di Castelvetrano, condannato per estorsione e nipote del boss Vincenzo La Cascia, e con il mafioso Filippo Sammartano di Campobello di Mazara: due soggetti che, ha ricordato il pm, numerose inchieste hanno ricollegato al superboss stragista trapanese Matteo Messina Denaro.
L’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro è stato arrestato. Nonostante a settembre fosse stato condannato a una pena di 27 anni e 3 mesi di carcere per il tentato golpe militare del 2022, Bolsonaro si trovava ai domiciliari. Secondo la legge brasiliana, infatti, per scontare la pena in prigione è necessario concludere tutto l’iter processuale, e all’ex presidente manca ancora l’appello alla Corte Suprema. Proprio quest’ultima ha rilevato una violazione dei domiciliari da parte di Bolsonaro, riscontrando un pericolo per l’ordine pubblico, il che ha portato alla decisione dell’arresto.
Una dieta ricca di alimenti ultraprocessati – dalle bevande zuccherate agli snack confezionati, passando per i pasti pronti – potrebbe aumentare in modo significativo il rischio di sviluppare polipi intestinali precursori del tumore al colon-retto a esordio precoce, noto come EOCRC (Early Onset Colorectal Cancer). A lanciare l’allarme è uno studio pubblicato su JAMA Oncology e condotto dai ricercatori del Massachusetts General Brigham su circa 30mila persone, che mostra come il consumo abituale di questi prodotti sia associato a un incremento concreto del 45% del rischio già prima dei 50 anni, in una fascia d’età dove i casi sono in preoccupante crescita. I risultati indicano che contenere il consumo di alimenti ultra-processati potrebbe rappresentare una strategia chiave per contrastare la crescita dei casi di cancro del colon-retto a esordio precoce, mettendo in luce come la qualità della dieta contemporanea giochi un ruolo probabilmente più rilevante e finora sottovalutato nella prevenzione di questa patologia.
Lo studio in questione, pubblicato su JAMA Oncology e intitolato Ultraprocessed Food Consumption and Risk of Early-Onset Colorectal Cancer Precursors Among Women, ha seguito per 24 anni 29.105 infermiere statunitensi della Nurses’ Health Study II, nate tra il 1947 e il 1964, tutte sottoposte ad almeno un’endoscopia inferiore prima dei 50 anni. Le partecipanti hanno compilato questionari alimentari ogni quattro anni, consentendo di stimare il consumo medio di alimenti definiti “ultraprocessati”, come snack confezionati, bevande zuccherate, piatti pronti industriali, prodotti da fast food. In media, il 34,8% delle calorie giornaliere proveniva da questi prodotti, corrispondenti a circa 5,7 porzioni al giorno. Il dato più significativo è il seguente: le donne che consumavano più alimenti ultraprocessati presentavano un rischio di sviluppare adenomi convenzionali superiore del 45% rispetto a quelle che ne consumavano meno, anche tenendo conto di altri fattori che possono influenzare la salute. Per quanto riguarda, invece, le lesioni seghettate, non è stata rilevata un’associazione significativa. Un aspetto interessante dello studio è che l’associazione risulta “lineare”: «Più ultraprocessati si consumano, maggiore è la probabilità che si formino polipi», osserva il professor Andrew Chan.
Il messaggio è chiaro: ridurre il consumo di alimenti ultra-processati può aiutare a prevenire il tumore colorettale nei più giovani, puntando su scelte alimentari più consapevoli e su una dieta che protegga l’equilibrio dell’intestino. Non si tratta, però, di una dimostrazione di causa-effetto, ma di una forte correlazione in uno scenario osservazionale. I ricercatori spiegano che, sebbene la dieta rappresenti un fattore importante, non è l’unica spiegazione del fenomeno del tumore del colon-retto a esordio precoce. Il contesto è allarmante: in molti Paesi ad alto reddito si registra un aumento delle diagnosi di tumore colorettale tra gli adulti sotto i 50 anni, un fenomeno che non trova spiegazione esclusivamente nel miglioramento della diagnostica o nella maggiore sorveglianza. Le possibili ragioni meccaniche includono l’effetto combinato degli additivi, l’infiammazione intestinale, alterazioni del microbiota e un più basso consumo di fibre nei regimi alimentari dominati da prodotti ultraprocessati. Questo suggerisce la possibilità che la riduzione, e non necessariamente l’eliminazione totale, di questi alimenti possa avere un effetto protettivo.
Alla luce dei dati emerge che, oltre all’importanza di mantenere uno stile di vita sano (esercizio fisico regolare, peso corporeo adeguato, consumo di frutta, verdura e fibre), bisogna guardare con attenzione anche al “tipo” di alimenti che compongono la dieta quotidiana. Gli alimenti ultra-processati dovrebbero essere limitati, in particolare da chi ha altri fattori di rischio per il tumore colorettale, come familiarità, sovrappeso o diabete. È anche un invito alla politica sanitaria e alle campagne educative affinché promuovano la prevenzione, l’accesso e l’adozione di alimenti minimamente processati, specialmente nelle fasce di età più giovani. Infine, la sorveglianza clinica non va trascurata: ovunque vi siano sintomi come cambiamenti nelle abitudini intestinali, sangue occulto o perdita di peso inspiegabile, è opportuno rivolgersi al medico senza attendere che l’età “arrivi” alla soglia tradizionale dei 50 anni.
«L’Ucraina si trova di fronte a una scelta molto difficile: o la perdita di dignità o il rischio di perdere un partner chiave». A dirlo è il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che nelle scorse ore ha commentato il piano elaborato dall’amministrazione Trump per porre fine alla guerra con Mosca. Allineata a quella della Casa Bianca è parsa proprio la posizione del presidente russo Vladimir Putin, secondo cui «il piano può servire come base per terminare il conflitto». D’altronde le trattative sono state condotte dalle delegazioni statunitensi e russe, tagliando fuori Ucraina e Unione europea, a cui l’esecutivo guidato da Zelensky si è rivolto per elaborare una controrisposta alla pace di Donald Trump. Nel frattempo il Tycoon ha lanciato un ultimatum a Kiev: accettare il piano entro giovedì 27 novembre o prepararsi a perdere il sostegno americano, quindi armi e intelligence. Dal Cremlino rincalza Putin: «conquisteremo altri territori se l’Ucraina rifiuta».
La divergenza di vedute tra Trump e Zelensky era cosa nota, apparsa evidente durante l’incontro di inizio anno alla Casa Bianca, conclusosi con un’umiliazione del presidente ucraino da parte dell’omologo statunitense. In quell’occasione Trump gli disse: «Non hai le carte per vincere», frase che ha ricordato ieri durante il punto stampa allo Studio Ovale. «Ad un certo punto [Zelensky] dovrà accettare qualcosa», ha aggiunto, facendo riferimento al piano elaborato dalla sua amministrazione, in particolare dall’inviato speciale Steve Witkoff e dal segretario di Stato Marco Rubio, confrontatisi con la controparte russa guidata da Kirill Dmitriev. «Qualsiasi piano di pace deve fermare le uccisioni preservando la sovranità ucraina, essere accettabile sia per la Russia che per l’Ucraina, massimizzare le probabilità che la guerra non riprenda», ha scritto il vicepresidente americano JD Vance, definendo fantasiosa l’idea che l’Ucraina possa vincere la guerra se gli Stati Uniti dessero a Kiev più soldi e armi o imponessero maggiori sanzioni a Mosca.
La bozza che circola al momento (pubblicata ieri su L’Indipendente) vede un piano articolato in 28 punti, che includerebbe tra le varie cose un accordo di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa; stop all’ulteriore espansione della NATO; neutralità costituzionale dell’Ucraina e riduzione delle forze armate a 600mila unità; piano globale di ricostruzione del Paese; riconoscimento della Crimea, Lugansk e Donetsk come regioni russe. Il blitz dell’amministrazione Trump ha colto di sorpresa Zelensky, che per il momento prende tempo non chiudendo la porta al piano, e gli alleati europei. Dopo aver scaricato su questi ultimi il peso economico del sostegno all’Ucraina — traendo profitto dalle armi pagate da loro e inviate a Kiev — Trump taglia fuori l’UE dalle trattative. La ricerca dell’utile continua, tra l’altro, anche nel piano di pace: secondo il punto numero 14, gli USA otterrebbero metà dei profitti legati alla ricostruzione dell’Ucraina.
L’Europa, guidata dalla cosiddetta coalizione dei volenterosi, sta preparando una controrisposta. Se ieri Zelensky ha parlato con Vance, il ministro degli Esteri ucraino Andrii Sybiha ha avuto una telefonata congiunta coi ministri degli Esteri di Francia, Regno Unito, Polonia, Finlandia e con la rappresentante degli affari esteri dell’UE Kaja Kallas, che nelle scorse ore ha dichiarato: «qualsiasi piano per porre fine alla guerra deve includere Ucraina ed Europa». A margine del confronto, a cui hanno partecipato anche dei rappresentanti di Italia e Germania, Sybiha ha dichiarato: «abbiamo discusso in dettaglio gli elementi delle proposte di pace presentate dagli Stati Uniti e il nostro lavoro congiunto per aprire una strada percorribile verso una pace giusta». Questa mattina, durante il G20 di Johannesburg, il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa ha invitato i leader “affini” presenti a partecipare a una riunione sull’Ucraina. Nei prossimi giorni dovrebbe poi far seguito, a margine del vertice UE-UA (Unione Africana), un incontro tra i 27 leader dell’Unione europea.
È salito a 55 unità il bilancio delle vittime delle piogge torrenziali, delle inondazioni e delle frane che hanno colpito il Vietnam centrale negli ultimi giorni. Lo ha dichiarato nella giornata di oggi l’agenzia per le calamità naturali del Paese, aggiungendo che 13 persone risultano ancora disperse. Quasi la metà dei morti sono stati registrati nella provincia di Dak Lak, dove hanno perso la vita in 27; 14 persone sono invece decedute nella provincia di Khanh Hoa. Secondo le autorità vietnamite, oltre 235.000 case sono state allagate e circa 80.000 ettari di raccolti sono stati danneggiati.
Non si tratta più di un sospetto: il sistema mediatico europeo è forgiato, selezionato, premiato o punito in base alla sua adesione ai dogmi dell’europeismo. A dimostrarlo, in modo inequivocabile, è il rapporto Brussels’s Media Machine, realizzato dal giornalista e saggista Thomas Fazi per il think-tank ungherese Mathias Corvinus Collegium (MCC Brussels). Uno studio rigoroso e documentato che scoperchia l’enorme apparato con cui Commissione e Parlamento Europeo finanziano il circuito dell’informazione con fondi europei, trasformandolo in una vera e propria macchina del consenso, e che viene pubblicato pochi mesi dopo il precedente rapporto The Eu’s propaganda machine, incentrato sul ruolo delle ONG e dei centri studio come megafoni dell’imperialismo culturale della Commissione.
Un miliardo di euro in dieci anni: il prezzo dell’allineamento
Secondo il rapporto, l’UE ha riversato negli ultimi dieci anni almeno un miliardo di euro a favore di media, agenzie di stampa, programmi giornalistici e piattaforme digitali. Una cifra che corrisponde a circa 80 milioni di euro l’anno in finanziamenti diretti, senza contare quelli indiretti, come contratti pubblicitari o di comunicazione assegnati ad agenzie di marketing, che poi ridistribuiscono i fondi ai principali organi di stampa che accettano di diffondere la narrazione europeista. Lungi dal limitarsi a sostenere il pluralismo e l’indipendenza, l’obiettivo di questo sistema appare orientato anche a plasmare l’opinione pubblica, promuovere narrazioni in favore delle politiche europee e marginalizzare le voci critiche.
I principali strumenti della propaganda
La rete di finanziamento si articola in una serie di programmi chiave:
IMREG (Information Measures for the EU Cohesion Policy): oltre 40 milioni di euro erogati dal 2017 per promuovere i “benefici” delle politiche di coesione UE. Coinvolte agenzie e media in Italia, Spagna, Lituania, Bulgaria, Portogallo. Il rapporto evidenzia esempi in cui questi finanziamenti non sono chiaramente segnalati, il che equivale a forme di “marketing occulto” o “propaganda occulta”.
Journalism Partnerships (2021-2025): quasi 50 milioni di euro stanziati tramite Creative Europe per progetti giornalistici transnazionali che promuovono l’integrazione europea.
European Digital Media Observatory (EDMO): almeno 27 milioni di euro per costituire reti di fact-checking (verifica delle informazioni) impegnate nella cosiddetta “lotta alla disinformazione”.
Multimedia Actions: più di 20 milioni di euro annui, tra cui 1,7 milioni per la European Newsroom, che riunisce 24 agenzie stampa a Bruxelles con l’obiettivo dichiarato di allineare la narrazione europea.
Direzione Comunicazione del Parlamento Europeo: quasi 30 milioni di euro spesi dal 2020 per campagne mediatiche promozionali, in particolare in vista delle elezioni europee del 2024.
Le agenzie stampa come guardiani della narrazione
Uno degli snodi centrali è il ruolo delle agenzie di stampa, la mano nascosta che plasma la narrazione mediatica globale. Essendo fonti primarie per centinaia di media, controllarne la linea equivale a controllare il messaggio, spesso replicato alla lettera dagli altri organi di stampa. È per questo che la Commissione collabora strutturalmente con ANSA (Italia), EFE (Spagna), Lusa (Portogallo), AFP (Francia) e molte altre. La sola ANSA, ad esempio, ha partecipato ad almeno due dozzine di campagne mediatiche finanziate dall’UE.
La Commissione ha anche speso quasi 2 milioni di euro attraverso il suo programma Azioni Multimediali (a cui sono stati stanziati oltre 20 milioni di euro solo nel 2024) per la realizzazione dell’European Newsroom (ENR): avviato nel 2022, il progetto ha previsto la creazione di un centro di produzione di notizie a Bruxelles, dove i corrispondenti delle “agenzie” producono congiuntamente riassunti di notizie due volte a settimana, alimentando reciprocamente le rispettive agenzie di stampa e i canali di diffusione, offrendo così una prospettiva paneuropea sugli affari dell’UE al pubblico di tutto il continente.
Journalism Partnerships: come Bruxelles orienta il giornalismo “collaborativo”
Uno dei canali più significativi attraverso cui la Commissione Europea finanzia – e, quindi, indirizza – l’informazione in Europa è il programma Journalism Partnerships, attivo dal 2021 e incardinato nel quadro del programma Creative Europe. Si tratta di una linea di finanziamento che ha messo a disposizione circa 50 milioni di euro nel periodo 2021-2027 per progetti “collaborativi” tra testate, reti editoriali e organizzazioni giornalistiche europee. L’obiettivo di chiarato è «rafforzare il pluralismo e la resilienza del settore giornalistico». Tuttavia il programma premia con insistenza le proposte orientate all’integrazione europea, alla promozione dell’agenda verde e digitale dell’UE, alla «coerenza informativa» su temi chiave come migrazioni, politiche economiche, guerra in Ucraina e contrasto all’euroscetticismo. Diverse testate italiane partecipano attivamente ai progetti Journalism Partnerships, in consorzi transnazionali che coinvolgono media, università e ONG. È il caso, ad esempio, del gruppo GEDI (editore di Repubblica, La Stampa, HuffPost), di RAI e di piattaforme come Pagella Politica.
Il punto critico, sottolineato dal dossier di Fazi, è che questi partenariati spesso contribuiscono a standardizzare la narrazione europea, allineando linguaggio, messaggi e priorità editoriali. Il giornalismo diventa così una rete di ripetizione strutturata, dove il dissenso non viene censurato apertamente, ma disincentivato silenziosamente.
Fact-checking finanziato e verità condizionata
L’Osservatorio Europeo dei Media Digitali (EDMO), presentato come bastione contro le fake news e finanziato con almeno 27 milioni di euro, viene in realtà definito un sistema di filtraggio ideologico. Partecipano al progetto agenzie già coinvolte in attività promozionali per l’UE, tra cui AFP, ANP, DPA e Lusa. In Italia, partner di EDMO è il gruppo GEDI e l’emittente pubblica RAI.
Quando chi riceve fondi per fare “giornalismo” è anche incaricato di sorvegliare i confini del discorso accettabile e di decidere cosa è vero e cosa è falso, il rischio non è solo quello della censura: è la soppressione sistematica del dissenso, bollato come “disinformazione”.
Il caso Euronews: la CNN d’Europa
Uno dei casi più emblematici della fusione tra media e potere europeo è quello di Euronews, l’emittente televisiva paneuropea con sede a Bruxelles che venne fondata nel 1993 da una collaborazione tra le emittenti pubbliche del continente, oggi di proprietà del fondo d’investimenti portoghese Alpac Capital. Storicamente presentata come «la voce neutrale dell’Europa» ma che, nel tempo, si è trasformata in una appendice comunicativa della Commissione Europea. Quest’ultima ha versato tra il 2015 e il 2020 circa 122 milioni di euro nelle casse del network con sede a Lione. Questi fondi hanno rappresentato fino al 60% del fatturato totale dell’emittente in certi anni, rendendo Bruxelles di fatto il suo principale finanziatore. Il paradosso è che, pur formalmente indipendente, Euronews ha stipulato un contratto di servizio pubblico con la Commissione, che le ha affidato il compito di diffondere contenuti sulle politiche e le priorità europee e di fornire copertura in tutte le lingue ufficiali dell’UE. Una funzione nobile solo in apparenza: nella realtà si traduce in una linea editoriale strutturalmente allineata all’agenda comunitaria, in cambio di fondi che ne garantiscono la sopravvivenza economica. Questo modello rappresenta una forma diretta di “propaganda istituzionale”, che si regge su vincoli economici e accordi contrattuali, agendo di fatto come organo promozionale.
L’investigazione a senso unico
E le inchieste? L’UE finanzia anche il giornalismo investigativo, purché sia diretto all’esterno. Gran parte dei progetti finanziati – come IJ4EU (3 milioni), ICIJ, MediaResilience – puntano a investigare su Russia, Kazakistan, Africa, paradisi fiscali. Nessuna indagine seria su corruzione od opacità istituzionale all’interno dell’UE, nonostante i numerosi scandali documentati al suo interno. Quello d’inchiesta appare quindi come una forma di giornalismo da incentivare ma a patto che non si occupi di quanto avviene dentro le mura del Vecchio Continente.
La propaganda del Parlamento Europeo
Il Parlamento Europeo, attraverso la sua Direzione generale della Comunicazione, ha stanziato quasi 30 milioni di euro dal 2020 per campagne mediatiche, inclusi contenuti esplicitamente autopromozionali in vista delle elezioni. L’obiettivo è «aumentare in modo più efficace la portata verso un pubblico mirato con messaggi relativi all’attività del Parlamento Europeo», aggiungendo «legittimità alle campagne del Parlamento».
Una strategia che ricorda l’USAID
Il modello seguito da Bruxelles ricalca quello americano dello USAID, l’agenzia per lo sviluppo finita sotto la scure del governo Trump, che per decenni ha finanziato media all’estero per promuovere gli interessi geopolitici statunitensi. Non a caso, molti progetti UE all’estero (Ucraina, Balcani, Caucaso) sono orientati proprio a “rafforzare la democrazia” attraverso il finanziamento a media e organizzazioni di stampo liberale ed europeista. Solo nel 2025 sono stati destinati 10 milioni di euro ai media ucraini. Dopo il taglio ai fondi da parte di Trump a Radio Free Europe/Radio Liberty, Bruxelles è subentrata nel ruolo di sponsor.
La stampa come cinghia di trasmissione
La macchina della propaganda europea, che si dipana tra ONG, media e accademia, «supera le aspettative del più cinico dei critici», ha spiegato a L’Indipendente Thomas Fazi, che è rimasto stupito dalla mole di finanziamenti diretti ai media. Ed è anche per questo che il rapporto sta avendo un impatto silenzioso, ma non per questo meno incisivo, sui palazzi di Bruxelles.
Il quadro delineato è chiaro: dal rapporto emerge una Commissione Europea interessata non tanto a sostenere la stampa libera, quanto a comprarne i favori, in quella che viene definita una «relazione semi-strutturale tra istituzioni europee e media mainstream». Non si tratta di intromissioni redazionali, ma di creare un rapporto di dipendenza economica, che induce automaticamente allineamento e servilismo. Un sistema si autoalimenta: i media che già mostrano simpatia per Bruxelles ricevono fondi; chi li riceve evita critiche per non perderli. Un circolo vizioso che soffoca ogni autonomia. E tutto questo, va ricordato, viene pagato con i soldi dei contribuenti. Quegli stessi cittadini che ricevono una verità confezionata su misura, in cui le testate parlano con una voce sola, ripetendo le stesse parole d’ordine, gli stessi titoli, le stesse versioni fotocopia. L’effetto è devastante: si uccide il pluralismo, si offusca il dissenso, si trasforma il giornalismo in megafono della tecnocrazia.
Come i media italiani sono diventati il megafono dell’euro-propaganda
C’è un’illusione persistente nel dibattito pubblico italiano: che la stampa mainstream sia libera per definizione, che i media rappresentino “il cane da guardia” del potere e che la neutralità sia tutelata da una presunta autorevolezza editoriale. Uno sguardo ai dati rivela un’altra realtà. Secondo il dossier Brussels’s Media Machine di Thomas Fazi (MCC Brussels, giugno 2025), il sistema di finanziamento UE alla stampa è tutt’altro che secondario: si tratta di una macchina che distribuisce circa 80 milioni di euro all’anno per promuovere narrazioni pro-UE, spesso senza trasparenza per il lettore. L’Italia, da questo punto di vista, è un caso esemplare. Il rapporto evidenzia un vero e proprio sistema parallelo di finanziamento condizionato, in cui Bruxelles premia gli allineati e isola i divergenti. Si badi bene: non si tratta di piccoli editori locali bisognosi di sopravvivere in un mercato difficile, ma di colossi editoriali strutturati che ricevono fondi consistenti in cambio di una narrazione smaccatamente filoeuropeista. Il tutto senza dichiarare in modo trasparente al lettore il ruolo dell’UE nella produzione dei contenuti. Una violazione della fiducia, che richiama alla mente le modalità della propaganda e del “marketing occulto”.
ANSA: il braccio armato di un’informazione conforme
ANSA, l’agenzia di stampa leader in Italia, è il principale vettore della narrazione europeista, per il semplice motivo che i suoi contenuti vengono rilanciati da centinaia di altre testate, locali e nazionali. Secondo i dati ufficiali analizzati da Fazi, ANSA ha ricevuto quasi 6 milioni di euro dalla Commissione Europea negli ultimi dieci anni. Nel dettaglio, l’agenzia di stampa ha beneficiato di oltre 800.000 euro dalla Commissione Europea per almeno tre progetti strutturati – Italy: Cohesion Goes Local (265.000 euro), Time4Results (270.000 euro) e The Cohesion Policy Today and Tomorrow – Italy (270.000 euro). Questi progetti, finanziati nell’ambito del programma IMREG (Information Measures for the EU Cohesion Policy), hanno prodotto migliaia di contenuti multimediali su scala nazionale e locale, molti dei quali rilanciati da oltre 20 testate locali, tra cui Gazzetta del Sud, La Sicilia e La Gazzetta del Mezzogiorno. ANSA è stata coinvolta anche nel progetto FANDANGO, istituito «per individuare le notizie false e fornire una comunicazione più efficiente e verificata per tutti i cittadini europei», finanziato quasi interamente dalla Commissione Europea (attraverso il programma Horizon 2020) per un importo di quasi 3 milioni di euro.
La funzione è chiara: portare il verbo europeista nelle periferie e legare l’immagine dell’UE a benefici concreti e tangibili. L’inganno più grande? Nella maggior parte dei casi non è specificato che i contenuti siano stati finanziati dall’UE, né che le linee editoriali rispondano a obiettivi dettati da Bruxelles.
RAI: il servizio pubblico al servizio dell’Unione
Anche la RAI è coinvolta in modo sistematico nel circuito dei finanziamenti europei, in particolare attraverso progetti legati all’alfabetizzazione mediatica, alla promozione dei “valori europei” e alla lotta alla disinformazione. La RAI partecipa, infatti, all’hub italiano dell’European Digital Media Observatory (EDMO), assieme a GEDI, Pagella Politica, Università di Roma Tor Vergata e TIM. L’iniziativa, che rientra nel programma Digital Europe, è stata finanziata con oltre 27 milioni di euro a livello europeo, di cui una parte consistente è destinata proprio alla realizzazione di contenuti multimediali, attività formative e campagne di verifica dei fatti.
La Repubblica e Domani
La testata La Repubblica, parte del gruppo GEDI, quotidiano di riferimento della borghesia progressista, storicamente vicino all’ideologia europeista, ha ricevuto 260.000 euro per il progetto Europa, Italia, un’iniziativa editoriale volta a promuovere «una migliore comprensione dell’azione europea nei territori». Nella pratica, si tratta di articoli celebrativi dei fondi europei, dei progetti PNRR, delle sinergie tra Bruxelles e le regioni. Anche in questo caso, la trasparenza è minima: solo un piccolo logo UE sul banner del progetto, nessuna chiara indicazione che il contenuto sia frutto di una sponsorizzazione istituzionale.
È il turno di Domani, testata fondata da Carlo De Benedetti, oltre ad aver fruito di 100 mila euro dalla Commissione Europea, figura tra i media coinvolti nel progetto European Focus, finanziato con 470.000 euro per la produzione di una newsletter paneuropea volta a «rafforzare il dibattito europeo».
Il Sole 24 Ore
Che dire poi de Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria e punto di riferimento per il mondo economico e finanziario italiano? Anche qui, è difficile stabilire quanto la narrazione pro-UE sia figlia di una linea culturale autonoma e quanto, invece, sia il frutto dei finanziamenti strutturati ricevuti. Oltre ad aver beneficiato di 1,5 milioni di euro di fondi diretti europei, il progetto La politica di coesione in numeri, premiato con 290.000 euro da Bruxelles, ha portato alla pubblicazione di una lunga serie di articoli, analisi e grafici che esaltano il ruolo dell’Unione Europea nello sviluppo economico delle regioni italiane. Eppure, in nessuno di questi articoli si legge chiaramente che l’intera operazione è sponsorizzata dalla Commissione. Non c’è una nota redazionale, un disclaimer, una separazione tra contenuto editoriale e comunicazione istituzionale. Il risultato? Una propaganda mascherata da informazione tecnico-finanziaria, dove l’UE appare come unica soluzione razionale ai problemi del Paese.
Da citare, inoltre, Linkiesta, partner del progetto Wounds of Europe (programma Stars4Media), in cui si racconta l’integrazione europea attraverso podcast e longform journalism. Questo progetto fa parte delle Journalism Partnerships, un’iniziativa da 50 milioni di euro lanciata nel 2021 per promuovere «valori europei» nei contenuti editoriali.
Un sistema che esclude il dissenso
Il rapporto di Fazi evidenzia un punto cruciale, ovvero che i fondi UE non vengono distribuiti a caso: le testate che promuovono attivamente la visione europeista ricevono finanziamenti, mentre le voci critiche vengono sistematicamente ignorate o escluse. C’è una selezione a monte, per cui accedono più facilmente ai finanziamenti le testate che già mostrano una predisposizione favorevole all’Unione Europea.
In un Paese dove la libertà di stampa è già fragile, legata a interessi editoriali, pubblicitari e politici, l’intervento dell’UE attraverso fondi selettivi ha prodotto una compressione ulteriore del pluralismo che riguarda anche il nostro Paese. I media italiani interessati da questo sistema – che pontificano sul pericolo della disinformazione on line e impartiscono lezioni di democrazia – non sono più arbitri, ma giocatori schierati, impegnati a difendere il progetto europeo per ragioni finanziarie. L’informazione italiana è diventata un’estensione del potere europeo, funzionale alla costruzione di un consenso artificiale, che inquina il dibattito pubblico.
Da quarto potere a guardie della verità ufficiale: la metamorfosi dei media
L’idea moderna di libertà di stampa affonda le sue radici nell’Illuminismo. Per i filosofi del XVIII secolo la circolazione dei giornali era il primo antidoto contro l’arbitrio del potere: uno strumento capace di alimentare il confronto, permettere la formazione dell’opinione pubblica e vigilare sull’operato dei governanti. La stampa assunse così un ruolo politico e culturale, diventando veicolo di idee e di dibattito. In questo solco si inserisce la celebre definizione della stampa come “Quarto potere”. L’espressione, ispirata ai tre poteri teorizzati da Montesquieu (legislativo, esecutivo e giudiziario), sottolinea la funzione dei media come pilastro democratico aggiuntivo, capace di esercitare un controllo costante sul potere politico. La libertà di stampa, dunque, non è un privilegio, ma una necessità per ogni società democratica.
La libertà di stampa come diritto naturale
Lo sviluppo della tradizione dei media occidentali corre di pari passo con l’evoluzione della democrazia in Europa e negli Stati Uniti. Già i pensatori liberali del XVII e XIX secolo, in contrapposizione alla tradizione monarchica e al diritto divino dei re, rivendicavano la libertà di espressione come “diritto naturale” dell’individuo. In questa prospettiva, la libertà di stampa divenne parte integrante dei diritti fondamentali sanciti dall’ideologia liberale.
In foto: Jürgen Habermas, filosofo, sociologo, politologo ed epistemologo tedesco
Successivamente, altre correnti hanno sostenuto la stessa tesi su basi diverse: la libertà di espressione venne sempre più intesa come componente essenziale del contratto sociale. Jürgen Habermas, nel 1962, avrebbe concettualizzato questo spazio come “sfera pubblica borghese”: un luogo ideale e aperto in cui i cittadini possono esprimersi, discutere e contribuire al dibattito pubblico senza essere subordinati a logiche di potere o interessi di parte. La Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese consolidarono questa visione, sancendo il legame tra giornalismo e democrazia. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 riconobbe, infatti, la libertà di stampa come diritto fondamentale.
Il reporter come “watchdog”
Lo scandalo Watergate, o semplicemente il Watergate, fu uno scandalo politico scoppiato negli Stati Uniti nel 1972, innescato dalla scoperta di alcune intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del Comitato nazionale democratico, da parte di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente Richard Nixon. In foto: il Watergate Complex
Da quel momento, il giornalismo non fu più considerato soltanto cronaca dei fatti, ma spazio di critica e di partecipazione pubblica: un percorso che, nell’Ottocento, portò al giornalismo politico e nel Novecento alla consacrazione del modello investigativo e di inchiesta. Nel XX secolo, infatti, il giornalismo statunitense ha codificato il ruolo del reporter come watchdog, il “cane da guardia” incaricato di vigilare sulle istituzioni e denunciarne gli abusi. Si tratta di un giornalismo investigativo che mira a far emergere responsabilità sistemiche e a stimolare conseguenze politiche e giudiziarie. Tra i casi storici più noti possiamo ricordare il Watergate, i Pentagon Papers e l’Iran-Contra affair. Sebbene il watchdog journalism resti un presidio indispensabile per la democrazia, capace di rivelare ciò che il potere preferirebbe occultare, oggi questo paradigma vive una profonda crisi che si estende ben oltre gli Stati Uniti.
Il potere degli incentivi: da Bill Gates al caso USAID
Nelle democrazie occidentali si deve constatare la trasformazione della stampa da contropotere a cassa di risonanza delle istituzioni e della tecnocrazia. Il meccanismo non si fonda tanto sulla censura diretta, quanto sull’uso sistematico del soft power: una rete di incentivi, finanziamenti, pressioni politiche ed economiche, programmi e piattaforme che orientano l’agenda mediatica e marginalizzano le voci critiche. Un ruolo centrale lo hanno i filantrocapitalisti del calibro di George Soros e Bill Gates, che attraverso le loro fondazioni indirizzano l’agenda mediatica. Secondo un’inchiesta di MintPress News, la Bill & Melinda Gates Foundation ha distribuito oltre 319 milioni di dollari a testate come CNN, BBC, The Guardian, Le Monde e Al-Jazeera, oltre che a centri di giornalismo investigativo e associazioni di categoria. La Gates Foundation ha donato in lungo e in largo a fonti accademiche, con almeno 13,6 milioni di dollari destinati alla prestigiosa rivista medica The Lancet. Persino la formazione dei reporter avviene spesso tramite borse di studio finanziate dagli stessi filantrocapitalisti, creando un sistema chiuso in cui media e giornalisti dipendono dagli stessi soggetti.
Il caso dell’USAID, che ha usato programmi di “rafforzamento dei media” come strumenti di influenza politica, mostra quanto queste dinamiche non siano eccezioni. Il risultato è una stampa che rischia di perdere la sua funzione critica, sostituita da un’informazione certificata dall’alto e sempre più allineata ai centri di potere.
Fact checking: dalla verifica alla certificazione
In questo scenario ricopre un ruolo fondamentale il fact checking: nato come pratica di verifica dei dati e delle fonti, si è trasformato velocemente in un sistema di certificazione della verità, che assegna bollini di attendibilità o etichette di falsità con criteri spesso opinabili e soggettivi, con effetti diretti sulla visibilità dei contenuti online. La logica che lo sostiene è paternalistica e l’obiettivo di creare una “informazione certificata” pone le basi per la legittimazione morale della censura.
Strutture come l’EDMO in Europa o la International Fact-Checking Network a livello globale ricevono finanziamenti da istituzioni pubbliche, fondazioni private e piattaforme digitali, con advisory board in cui siedono esponenti legati a grandi media, Big Tech e fondazioni come la Gates Foundation o la Open Society. Il caso più emblematico è NewsGuard, agenzia americana nata nel 2018 e finanziata anche dal Pentagono, che valuta i media con indici di “credibilità”. Tra i suoi advisor figurano l’ex direttore della CIA Michael Hayden e l’ex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen, mentre tra gli investitori c’è il colosso pubblicitario Publicis. Un meccanismo pensato per contrastare le fake news rischia così di diventare un filtro politico e commerciale dell’informazione, penalizzando i media indipendenti e proteggendo le narrazioni mainstream.
Fact checking e pandemia: l’inquisizione digitale
L’avvocato e imprenditore statunitense Hunter Biden, figlio secondogenito dell’ex presidente americano Joe Biden
Durante la pandemia da Covid-19, questa dinamica ha mostrato tutta la sua portata, come testimoniato dai Twitter Files e dai Facebook Files. Il fact checking non si è limitato a correggere errori, ma ha assunto la funzione di filtro preventivo: contenuti divergenti dalla narrativa ufficiale, spesso veri, compresi articoli giornalistici (come lo scoop del New York Post sul laptop di Hunter Biden) sono stati declassati, etichettati come “disinformazione” o rimossi dai social. In molti casi, la stessa categoria di “fake news” è stata usata in modo elastico per bollare opinioni scientifiche minoritarie, ipotesi alternative o critiche politiche. Ne è scaturita una forma di “Inquisizione digitale”: una rete di debunkers e algoritmi che, lungi dal garantire il pluralismo, ha consolidato un monologo informativo, volto a criminalizzare le voci divergenti, alimentando un clima di colpevolizzazione e di conformismo forzato.
Spirale del silenzio e autocensura
Il potere del fact checking non sta solo nelle etichette, ma nell’effetto sociale che produce. Etichettare un contenuto come “falso” o “pericoloso” genera isolamento per chi lo diffonde e induce altri a tacere per timore di subire la stessa delegittimazione. È la cosiddetta “spirale del silenzio”, teoria elaborata da Elisabeth Noelle-Neumann: la percezione che un’opinione sia minoritaria porta gli individui a non esprimerla, rafforzando così l’apparente consenso attorno alla narrativa dominante. Questo meccanismo riduce lo spazio del dibattito pubblico. Invece di discutere e confrontare argomenti, la questione si chiude a monte: un’etichetta di fact checking sancisce cosa è vero e cosa è falso, trasformando la complessità in un verdetto binario.
Da cane da guardia a cane da compagnia
Il giornalismo ha così smarrito la propria vocazione originaria. Non più guardiano che vigila sul potere, ma cane da compagnia che lo rassicura e lo protegge. Le redazioni, impoverite economicamente e pressate dagli sponsor, rinunciano all’inchiesta indipendente per riprodurre comunicati ufficiali o contenuti già filtrati da network istituzionali. Il fact checking, nato come strumento interno al giornalismo, è diventato invece un apparato esterno che certifica quali media e quali notizie siano legittime.
La parabola che va dall’Illuminismo all’odierno giornalismo certificato segna un arretramento democratico. In nome della lotta alla disinformazione, si sta producendo un’informazione sempre più omogenea, che riduce il pluralismo e trasforma i media in cinghie di trasmissione delle élite. Il soft power si rivela qui più efficace della censura tradizionale: non vieta, ma orienta; non reprime, ma incentiva. In questo modo, la grande promessa della stampa come garanzia di libertà rischia di dissolversi in un paesaggio informativo disciplinato da algoritmi, fact checkers e finanziamenti istituzionali.
315 persone sono state rapite ieri nella scuola cattolica St. Mary nell’area di Agwara, in Nigeria: 303 studenti e 12 insegnanti, secondo il bilancio fornito dall’associazione cristiana nazionale. Nessun gruppo ha rivendicato l’azione, in un contesto in cui i rapimenti a scopo di riscatto sono frequenti. Il governo del Niger ha criticato la scuola per aver riaperto nonostante gli avvertimenti dei servizi su minacce crescenti. Il sequestro è avvenuto all’alba; forze militari e di sicurezza sono state dispiegate. Un episodio analogo è avvenuto pochi giorni fa, con il rapimento di 25 studentesse dai dormitori della Government girls secondary school di Maga, nello Stato di Kebbi.
Ornella Vanoni è morta all’età di 91 anni, a causa di un malore. Attiva dal 1956, la cantautrice ha pubblicato nel corso della sua carriera oltre cento progetti (tra album, EP e raccolte), vendendo più di 60 milioni di dischi in tutto il mondo. Tra le altre cose ha partecipato a otto edizioni del Festival di Sanremo, risultando l’unica donna e la prima artista in assoluto a vincere due Premi Tenco.
Da cinque giorni quattro operai dell’Eurallumina stanno trascorrendo giorno e notte a quaranta metri di altezza sul silo dello stabilimento di Portovesme, nel Sulcis, in una protesta estrema per ottenere risposte dalle istituzioni. I lavoratori, che sfidano il maestrale e le temperature rigide in un presidio permanente, chiedono lo sblocco dei fondi necessari alla ripartenza della fabbrica dopo sedici anni di fermo. Non è la prima volta che i lavoratori di Portovesme si mobilitano a causa della crisi dell’area industriale della regione: già nel 2023 altri operai erano rimasti in presidio sulla vetta di una ciminiera dell’azienda metallurgica per protestare contro il caro energia.
Le rivendicazioni economiche – i 10 milioni che i lavoratori considerano dovuti per legge e la promessa di investimenti fino a 300 milioni per riavviare la produzione – sono al centro del contendere. Il provvedimento che ha bloccato i beni in Italia della Rusal, multinazionale russa proprietaria dello stabilimento, ha di fatto paralizzato la prospettiva di riavvio dell’impianto, primo anello della filiera strategica dell’alluminio. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, tramite l’Agenzia del Demanio, è diventato il soggetto competente per la custodia e la gestione della fabbrica, spostando la soluzione del problema a livello nazionale. È in questo vuoto che si inserisce la disperata richiesta dei lavoratori. Enrico Pulisci, rappresentante dei lavoratori, ha spiegato le ragioni della mobilitazione, chiedendo al ministero e al governo di dare «subito risposte certe sullo stanziamento dei fondi». «Teniamo a precisare – ha aggiunto – che in questi 16 anni la Rusal ci ha messo 24 milioni all’anno. Esclusi gli ammortizzatori sociali, non siamo sovvenzionati da contributi pubblici».
A sostegno degli operai sono scese in campo anche le sigle sindacali Filctem Cgil, Femca Cisl, Uiltec Uil e Rsa Eurallumina, che in un comunicato congiunto pubblicato negli scorsi giorni hanno ritenuto «paradossale» la «disparità di trattamento applicata all’Eurallumina rispetto ad altre aziende europee consociate della stessa UC RUSAL (in Svezia, Germania, Irlanda)», in cui i rispettivi esecutivi, pur aderendo al regime sanzionatorio, «hanno scelto di tutelare le imprese ritenute strategiche, mantenendole operative». In sindacati hanno inoltre evidenziato come la gestione finanziaria dello stabilimento, pari a oltre 20 milioni annui, sia stata «sostenuta sino a settembre 2025 dalla stessa Proprietà (RUSAL), mentre la normativa prevederebbe la gestione, anche finanziaria, da parte del C.S.F. tramite l’Agenzia del Demanio con fondi ministeriali».
Nella giornata di ieri si è registrato un primo timido segnale di movimento. La presidente della Regione Sardegna, Alessandra Todde, ha infatti incontrato il ministro Giancarlo Giorgetti a Roma, e durante il colloquio è stato affrontato anche il caso Eurallumina. «Ci siamo confrontati con il ministro Giorgetti sulla situazione di Eurallumina – ha dichiarato Todde -, ed è emerso che la volontà del MEF è di collaborare e di rimettersi al tavolo anche con l’azienda per capire come poter definire una direttrice che possa chiudere il contenzioso». La governatrice sarda ha portato ai lavoratori un messaggio di apertura: «Quello che porto a casa è un messaggio per l’azienda di riaprire immediatamente un tavolo condiviso con il MEF: c’è disponibilità e apertura per poter affrontare insieme il problema. L’invito all’azienda è quindi quello di non irrigidirsi perché c’è una volontà espressa dal governo, insieme ovviamente alla Regione, per poter trovare dei punti di caduta in tempi rapidi».
Non è la prima volta che gli operai di Portovesme attuano questo tipo di protesta. Era già successo tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2023, quando quattro di loro si erano asserragliati sulla ciminiera dell’impianto Kss, a 100 metri di altezza, per denunciare il caro energia che stava portando alla fermata di quasi tutti gli impianti dello stabilimento. Dopo un’iniziale stop arrivato in seguito a rassicurazioni e promesse da parte del governo, la protesta si era riaccesa a fine marzo a seguito della fumata nera di un vertice sulla vertenza presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, con gli operai che hanno deciso di installarsi sul tetto e incatenati ai tornelli dell’impianto a Portovesme.
È stato proclamato uno sciopero generale nazionale di 24 ore, dalle ore 21 del 27 novembre alle ore 21 del 28 novembre per i settori pubblici e privati, tra cui trasporti, sanità e scuola. La protesta nasce contro la Manovra 2026: i sindacati CUB, USB, SGB, COBAS e USI-CIT criticano l’aumento delle spese militari a scapito dei servizi pubblici, il sottofinanziamento di sanità, scuola e trasporti, e l’assenza di misure per ridurre il precariato e incrementare i salari. Nel trasporto ferroviario la fascia garantita sarà dalle ore 6 alle 9 e dalle 18 alle 21.
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