venerdì 21 Novembre 2025
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Terremoto nel Bangladesh: almeno 8 morti e centinaia di feriti

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Un terremoto di magnitudo fra 5,5 e 5,7 ha colpito la regione centrale del Bangladesh, con epicentro nel distretto di Narsingdi, a circa 25-40 km dalla capitale Dhaka. Secondo le autorità locali, sono almeno otto i morti e più di 300 i feriti, mentre edifici sono crollati o hanno riportato gravi danni e scene di panico si sono diffuse in città e zone periferiche. Il sisma ha scatenato anche una fuga incontrollata in un’area industriale nei dintorni della capitale, dove lavoratori hanno abbandonato le fabbriche in fretta dopo la scossa. Esperti avvertono che la vulnerabilità della zona è elevata, soprattutto nella metropoli dove milioni di edifici rischiano gravi danni in caso di eventi più forti.

Ucraina: ecco quali sarebbero i punti del piano di pace USA

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Gli Stati Uniti hanno presentato una bozza di piano di pace per l’Ucraina in 28 punti, alcuni dei quali già anticipati dai media, che la Casa Bianca ha definito «in evoluzione» e su cui adesso emergono ulteriori dettagli. Secondo la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, l’inviato speciale del Presidente Steve Witkoff e il segretario di Stato americano Marco Rubio hanno lavorato «con discrezione» al piano per circa un mese. Stando al Financial Times, Trump vorrebbe la firma di Volodymyr Zelensky sull’accordo entro giovedì. Frustrazione dall’Europa, tagliata fuori dalle trattative: Germania, Francia e Regno Unito ribadiscono il sostegno a Kiev, che giudica alcune clausole assurde e inaccettabili, come la cessione del Donbass. Il presidente ucraino, pur non sbilanciandosi sui contenuti dell’iniziativa che appare penalizzante per Kiev, si è detto «pronto a collaborare» e disposto a parlarne «nei prossimi giorni» con Trump. La Russia ha fatto sapere di non aver ancora ricevuto il piano del presidente americano.

I 28 punti

  1. Conferma della sovranità dell’Ucraina.
  2. Accordo globale di non aggressione tra Russia, Ucraina ed Europa, con risoluzione di tutte le ambiguità passate.
  3. Impegno russo a non invadere i Paesi vicini e stop all’ulteriore espansione NATO.
  4. Dialogo Russia-NATO mediato dagli USA per la sicurezza e la distensione.
  5. Garanzie di sicurezza affidabili per l’Ucraina.
  6. Limitazione delle forze armate ucraine a 600.000 unità.
  7. Neutralità costituzionale dell’Ucraina e non integrazione futura nella NATO.
  8. La NATO accetta di non schierare truppe in Ucraina.
  9. Gli aerei da combattimento europei saranno basati in Polonia.
  10. Meccanismo di garanzie e sanzioni con compenso agli USA e decadenza in caso di aggressione ucraina o attacchi ingiustificati.
  11. Idoneità dell’Ucraina all’UE e accesso preferenziale al mercato europeo.
  12. Piano globale di ricostruzione con Fondo di sviluppo e finanziamento della Banca Mondiale.
  13. Reintegrazione della Russia nell’economia globale e possibile revoca sanzioni; reintegrazione nel G8 e la conclusione di un accordo di cooperazione economica a lungo termine con gli Stati Uniti.
  14. Investimento di 100 miliardi di dollari di beni russi congelati per ricostruzione Ucraina con compartecipazione USA ed Europa, con gli Stati Uniti che riceveranno il 50% dei profitti dell’iniziativa. L’Europa aggiungerà altri 100 miliardi di dollari per aumentare l’importo degli investimenti disponibili per la ricostruzione dell’Ucraina.
  15. Gruppo di lavoro congiunto USA-Russia sulla sicurezza.
  16. La Russia sancirà per legge la sua politica di non aggressione nei confronti dell’Europa e dell’Ucraina.
  17. Proroga dei trattati su non proliferazione e controllo nucleare tra USA e Russia, compreso il trattato START I.
  18. Impegno ucraino a restare Stato non nucleare, in conformità con il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari.
  19. La centrale nucleare di Zaporižžja sarà messa in funzione sotto la supervisione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) e l’elettricità prodotta sarà distribuita in parti uguali tra Russia e Ucraina al 50%.
  20. Programmi educativi per promuovere comprensione reciproca.
  21. La Crimea, Lugansk e Donetsk saranno riconosciute come regioni russe de facto, anche dagli Stati Uniti. Kherson e Zaporižžja saranno congelate lungo la linea di contatto, il che significherà un riconoscimento de facto lungo tale linea.
  22. Impegno reciproco a non modificare i confini con la forza.
  23. Libero uso del Dnepr per scopi commerciali e corridoi per esportazione di cereali nel Mar Nero.
  24. Comitato umanitario per prigionieri, ostaggi e ricongiungimenti.
  25. L’Ucraina organizzerà le elezioni entro 100 giorni.
  26. Amnistia totale per le azioni di guerra e rinuncia a richieste legali future.
  27. Accordo vincolante supervisionato da Consiglio di pace con sanzioni in caso di violazione.
  28. Cessate il fuoco immediato dopo il ritiro concordato delle parti.

Le reazioni internazionali

Le risposte internazionali al piano statunitense sono state immediate e divergenti. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz, il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro britannico Keir Starmer hanno telefonato oggi pomeriggio al presidente ucraino Volodymyr Zelensky per ribadire il loro «sostegno pieno e incondizionato» all’Ucraina e sottolineare che qualsiasi accordo dovrà «preservarne la sovranità e garantirne la sicurezza futura». La Francia, tramite il ministro degli Esteri Jean‑Noël Barrot, ha chiarito che la pace non può significare «capitolazione» dell’Ucraina: «Vogliamo una pace giusta che rispetti la sovranità di ogni Paese». Nel Regno Unito, un portavoce del Foreign Office ha dichiarato che Londra condivide l’obiettivo della Casa Bianca di porre fine alla guerra, ma ha sottolineato che ciò richiede un «ritiro immediato delle truppe russe». Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa si è rifiutato di commentare, limitandosi a specificare che «All’UE non è stato comunicato alcun piano in maniera ufficiale». Il capo della diplomazia comunitaria Kaja Kallas ha affermato che «qualsiasi piano per porre fine alla guerra deve includere Ucraina ed Europa», respingendo l’idea di un’intesa negoziata senza il coinvolgimento dell’UE e di Kiev. Dello stesso avviso il titolare della Farnesina, Antonio Tajani, che ha ribadito che «l’Europa dovrà essere parte della trattativa», anche perché bisognerà discutere di come ritirare le sanzioni comminate alla Federazione. Fuori dal coro, la voce ungherese: continuare a sovvenzionare «una mafia di guerra corrotta» in Ucraina sarebbe impensabile, ha commentato Péter Szijjártó riferendosi allo scandalo corruzione esploso a Kiev negli scorsi giorni che ha indebolito il leader ucraino.

Secondo Reuters, l’Ucraina sta subendo una pressione maggiore rispetto al passato, da parte di Washington, affinché accetti il quadro di un accordo di pace, comprese minacce di cessare la fornitura di intelligence e armi. Nonostante ciò, il principale negoziatore di Kiev, Rustem Umerov, ha chiarito che l’Ucraina non accetterà alcun accordo di pace con la Russia che oltrepassi le sue “linee rosse”. Mosca ha fatto sapere attraverso il suo portavoce Dmitry Peskov che non ha ancora ricevuto ufficialmente il piano e che «niente sta venendo discusso in modo sostanziale». «Siamo completamente aperti, manteniamo la nostra apertura ai negoziati di pace», ha precisato il portavoce del Cremlino, che ha invitato Zelensky a negoziare “ora”, in quanto «Il suo margine di manovra decisionale si sta riducendo man mano che il territorio viene perso durante le azioni offensive delle forze armate russe».

I manichini femminili da crash test sono ora uno standard

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Da oltre mezzo secolo i crash test automobilistici si basano su manichini modellati sul corpo maschile “medio” – uno standard nato negli anni ’70 che non rappresenta in modo adeguato la fisiologia femminile. Oggi, però, si intravede una svolta: il Dipartimento dei Trasporti degli Stati Uniti ha approvato l’introduzione di un nuovo manichino con caratteristiche anatomiche femminili, pensato per colmare una storica lacuna nella sicurezza stradale.

Giovedì 20 novembre il Segretario ai Trasporti degli Stati Uniti, Sean Duffy, ha presentato al pubblico il THOR-05F di Humanetics, un nuovo manichino avanzato per crash test progettato per colmare gli ampi margini di vuoto della ricerca e offrire dati più accurati sulla sicurezza delle donne. Questo segmento demografico, storicamente trascurato nei test, risulta infatti più esposto a lesioni e decessi in caso di incidente stradale. Secondo uno studio dell’Università della Virginia, a causa di sistemi di protezione non adeguatamente calibrati, le donne hanno il 73% di probabilità in più di riportare ferite gravi o fatali durante una collisione, con particolare vulnerabilità agli arti inferiori, alla colonna vertebrale e all’area addominale. 

La Traffic Safety Administration (TSA), l’agenzia responsabile della sicurezza delle reti di trasporto, aveva già in uso manichini con fattezze femminili, gli Hybrid III, tuttavia questi sono piuttosto rudimentali: la loro struttura rigida deriva da proporzioni virili idealizzate e mancavano di componenti in grado di riprodurre le fragilità e la complessità del corpo umano. Al contrario, il THOR-05F è stato progettato per riprodurre più fedelmente scheletro, organi e articolazioni femminili, inoltre integra più di 150 sensori che promettono di registrare con dettaglio i dati degli impatti simulati.

L’introduzione del nuovo standard rappresenta dunque un passo avanti significativo e largamente condiviso, uno dei pochi provvedimenti statunitensi che è stato in grado di raccogliere un sostegno bipartisan, con Repubblicani e Democratici che hanno messo da parte le loro sempre più marcate divisioni pur di approvarlo. Ciò non toglie che l’Amministrazione Trump sia comunque stata in grado di presentare questa misura come un risultato politico di rilievo e di consenso. “La sinistra non vuole sentirselo dire, ma la scienza è chiara: ci sono solamente due sessi – maschile e femminile”, ha dichiarato Duffy nel presentare il manichino. “Questo fatto biologico non è solamente propaganda – è un elemento importante da tenere in considerazione durante la progettazione delle autovetture”.

Il THOR-05F è stato presentato come un’innovazione coerente con l’Ordine Esecutivo intitolato “Ripristinare la Verità Biologica all’interno del Governo Federale”, tuttavia tale inquadramento non coglie la complessità e l’ampiezza delle ricerche attualmente in corso, le quali cercano di superare i format imposti dalle origini dei manichini da crash, i quali risalgono all’aviazione militare: i primi modelli furono concepiti per rispecchiare la fisicità dei soldati dell’epoca, uomini tonici e ben addestrati. Quella matrice fisica rifletteva tuttavia un contesto molto specifico e non è rappresentativa della popolazione al volante dei trasporti civili, la cui variabilità richiede oggi modelli molto più diversificati e accurati.

Humanetics aveva già presentato pubblicamente i suoi manichini da crash test femminili nel 2024, tuttavia, parallelamente, l’azienda sta anche sviluppando un’ampia gamma di modelli pensati per riprodurre in modo più realistico anche altre forme di automobilisti odierni. Già nel 2017, Humanetics aveva per esempio introdotto e messo in commercio manichini che replicano i corpi di adulti obesi e di donne anziane, offrendo uno spaccato molto più aderente alla realtà delle strade. Secondo i dati diffusi dalla società, il 51% degli automobilisti statunitensi è donna, il 40% è obeso e il 20% ha più di 70 anni: categorie che finora sono rimaste sottorappresentate nella progettazione dei sistemi di sicurezza. La standardizzazione del modello THOR-05F potrebbe finalmente contribuire a colmare questa storica lacuna.

Infrazione UE all’Italia per Golden power sulle banche

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La Commissione UE ha aperto una procedura di infrazione all’Italia per l’applicazione del meccanismo del “Golden Power Decreto‑legge 21/2012” nel settore bancario, ritenendo che i poteri discrezionali attribuiti al governo italiano siano “incompatibili” con i princìpi della libera circolazione dei capitali e del diritto dell’Unione. Il ministro Giancarlo Giorgetti ha dichiarato che l’Italia proporrà una riforma normativa che chiarisca e “superi le obiezioni” mosse da Bruxelles. L’Italia ora ha due mesi per rispondere alla lettera di messa in mora: in mancanza di una risposta soddisfacente, la Commissione potrà emettere un parere motivato e procedere con ulteriori passi.

“Case green”, UE apre procedura contro l’Italia per mancato adeguamento

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La Commissione Europea ha avviato una procedura di infrazione contro l’Italia per non aver attuato in modo completo la direttiva “case green”, in particolare sull’eliminazione graduale degli incentivi per le caldaie autonome a combustibili fossili entro il 1° gennaio 2025. Bruxelles segnala che il governo non ha fornito spiegazioni sufficienti né adeguato recepimento delle norme. Ora Roma ha due mesi per rispondere alle criticità: in caso di replica non soddisfacente, la Commissione potrà emettere un parere motivato e proseguire con l’iter d’infrazione. Procedimenti analoghi sono stati aperti anche nei confronti di Estonia e Ungheria.

Bologna militarizzata per la partita con Israele: 500 militari in strada e scuole chiuse

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Bologna si è svegliata sotto una cappa di tensione mai vista per un evento sportivo. La sfida di Eurolega tra Virtus Segafredo e la società israeliana Maccabi Tel Aviv non è più solo una partita di basket: è diventata il centro di uno scontro politico e istituzionale che ha spaccato la città. Un intero quadrante del capoluogo emiliano è blindato, con circa 500 membri delle forze dell’ordine schierati, una zona rossa a doppio filtro istituita attorno al PalaDozza e scuole chiuse in anticipo. Questo imponente dispiegamento di sicurezza mira a contenere migliaia di manifestanti attesi per la protesta “Show Israel the red card”, che definiscono l’incontro «la partita della vergogna». Sullo sfondo, lo scontro tra il sindaco di Bologna Matteo Lepore e il Viminale, che non ha ceduto alla richiesta del primo cittadino di spostare l’evento lontano dal centro.

Il dispositivo di sicurezza è senza precedenti per una partita di basket a Bologna. Dalle 13 sono scattate le prime limitazioni e dalle 16 l’intera area intorno al PalaDozza sarà completamente cinturata. È in vigore il divieto di sosta con rimozione forzata per autovetture, motoveicoli e persino biciclette in un’ampia zona che include piazza Azzarita, via Graziano, via Calori e piazza della Resistenza. Tre scuole dell’Istituto Comprensivo 17 – la Teresina Guidi e la media Gandino – concluderanno le lezioni entro le 15.45, con i plessi chiusi e svuotati per le 16. Tutti i cantieri nell’area sono stati messi in sicurezza e liberati dal materiale edile.

La protesta contro la partita tra Virtus Segafredo e Maccabi Tel Aviv non riguarda semplicemente la location dell’evento. Secondo i manifestanti, il vero problema consiste nel fatto stesso che l’evento venga disputato. Le sigle che animano la piazza – Potere al Popolo, Cambiare Rotta, Usb e Giovani Palestinesi – intendono dare battaglia. Federico Serra di Usb ha lanciato un messaggio chiaro: «Rispediamo al mittente la volontà di creare tensione e criminalizzare le realtà che hanno costruito mobilitazioni a sostegno della Palestina per fermare i rapporti politici, economici e sportivi con lo Stato genocida di Israele». Anche Pap alza i toni e accusa apertamente: «Il Maccabi Tel Aviv è un club impegnato nella propaganda pro-Israele. Sui social pubblicano i soldati sulle rovine con la sciarpa del team. Non siamo barbari che invadono e devastano la città: questo è un allarme falso. Qui la questione è solo politica».

L’organizzazione della partita ha provocato anche uno scontro acceso tra Comune e Governo. Il sindaco Matteo Lepore ha più volte espresso il suo disappunto. «Avevo chiesto la soluzione alla Milano: giocare lontano dal centro, come l’Olimpia fa al Forum per le partite a rischio», ha dichiarato, riferendosi alle proposte alternative dell’Unipol Arena o della Fiera. Tuttavia, ha poi aggiunto: «Il ministro Piantedosi ha decretato che la partita si giochi al PalaDozza. La città quindi si organizza», in una sorta di accettazione formale che stempera le sue precedenti critiche. Lepore, da sempre appassionato di basket e tifoso della Virtus, ha infine annunciato: «Domani non vado — ha concluso — perché lavoro».

In questo quadro, Il ministro dell’Interno Piantedosi ha replicato soltanto: «Provvederanno le autorità locali», evitando così di rispondere direttamente alle critiche mosse dal Comune. Michele de Pascale, presidente della Regione Emilia-Romagna, ha sottolineato come l’ipotesi di spostare la partita, come aveva proposto il sindaco Lepore, fosse «assolutamente sensata». Sul fronte opposto, Massimiliano Fedriga, presidente leghista del Friuli-Venezia Giulia: «Indecenti e indecorose le proteste per una partita che dovrebbe unire. Vedo un antisemitismo dilagante, mascherato da antisionismo», ha dichiarato. Anche i commercianti bolognesi si trovano nel mezzo della tempesta. Ogni esercente valuterà infatti in autonomia se restare aperto o chiudere in anticipo.

Uno scenario analogo si era creato lo scorso ottobre a Udine in vista della partita delle qualificazioni ai campionati mondiali di calcio tra la nazionale italiana e quella israeliana. Per l’occasione, era stata infatti modificata la viabilità cittadina, con segnali stradali temporanei, divieti di sosta e la chiusura di diverse strade che portano allo Stadio Friuli, teatro del match, e quelle adiacenti all’Hotel Friuli, in cui hanno soggiornato i calciatori israeliani. Comitati e quotidiani locali hanno denunciato una città militarizzata, con elicotteri che la sorvolano in continuazione, droni e cecchini sui tetti. Una foto del quotidiano locale Udine Today ha mostrato proprio quello che sembrava essere un tiratore scelto sul tetto dell’Hotel Friuli. L’anno precedente, in corrispondenza del medesimo evento, il Comune friulano aveva imposto il divieto assoluto di avvicinarsi allo stadio e istituito una zona rossa militarizzata attorno all’impianto. Poi, nel marzo del 2024, pesanti restrizioni per i tifosi e un ingente dispiegamento di forze dell’ordine avevano segnato il contesto della partita calcistica di Europa League tra la Fiorentina e gli israeliani del Maccabi Haifa a Firenze. Anche in questo caso, giocata in uno stadio e una città blindati.

Via i figli alla famiglia nel bosco, l’avvocato annuncia il ricorso

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Il Tribunale per i minori dell’Aquila ha disposto la sospensione della potestà genitoriale alla coppia di genitori, lei australiana e lui inglese, che aveva scelto una vita in natura alle porte di Vasto, in provincia di Chieti, insieme ai 3 figli. I 3 bambini, la più grande di 8 anni e i gemelli di 6, dopo che è stato disposto l’allontanamento dei bambini dalla dimora familiare, si trovano ora in una casa famiglia. Secondo il tribunale le motivazioni del provvedimento sono il fatto che “la deprivazione del confronto fra pari in età da scuola elementare” possa avere “effetti significativi sullo sviluppo del bambino”, oltre al “pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa” che metterebbe a rischio “l’integrità e l’incolumità fisica dei minori”.

“Nella sentenza di ieri sono state scritte falsità”, è il commento all’Ansa dell’avvocato della famiglia, Giovanni Angelucci. Secondo il legale: “Sono andati in cortocircuito. Nell’ordinanza di insiste ancora sull’istruzione dei minori che, secondo i giudici, non avrebbero l’autorizzazione all’home-schooling. Alla più grande viene anche contestato l’attestato di idoneità per il passaggio alla classe terza perché non ratificato dal ministero. Attestato che, invece, c’è ed è anche protocollato“.

La disavventura della famiglia ha inizio nel 2024, quando furono ricoverati in ospedale per un’intossicazione da funghi, con i carabinieri che, dopo la vicenda, segnalarono la situazione ai servizi sociali parlando di “isolamento” e “condizioni abitative non idonee”. Ma la realtà era ben diversa. Come dimostrato anche da diversi servizi giornalistici, quella della famiglia è una scelta precisa, basata sulla volontà di vivere in armonia con la natura. Non c’è l’impianto elettrico ma l’energia è fornita dai pannelli solari installati, c’è il pozzo per l’acqua potabile e un bagno a secco. I genitori hanno spiegato più volte che i bambini, in ottima salute, sono seguiti da un pediatra, vengono portati regolarmente al parco per conoscere altri coetanei, e vanno a fare la spesa al supermercato una volta alla settimana. Fanno home shooling da casa, sostenendo gli esami necessari come nel caso della figlia più grande.

Ma tutto questo non è bastato. “Non siamo criminali. Perché ci trattano così? Non riesco a capirlo. È una grande ingiustizia”, sono le parole di mamma Catherine, ex insegnante di equitazione, riportate da Il Centro, che racconta che lei e i bambini si trovano nello stesso edificio, ma non possono stare insieme. “Dovevo essere più forte allora”, ricorda con amarezza analizzando l’inizio di questa vicenda: “Dovevo prendere subito un avvocato, invece di ascoltare chi diceva di assecondare i servizi sociali per far sparire il problema. Mi sono fidata, ed è stato un errore”.

Il papà, dopo l’allontanamento, ha aspettato per ore davanti alla struttura per potere rivedere i figli, senza successo. “Come si fa a strappare via i figli dai propri genitori? Rimarranno traumatizzati”, si è chiesto davanti ai cronisti aggiungendo: “Chi mai separerebbe una famiglia con dei bimbi piccoli, se non ha fatto niente di male? Credo che questo provvedimento sia frutto di un sistema orribile che fa del male alle persone che vivono onestamente”.

Intanto arrivano anche le prime reazioni politiche. “Ritengo vergognoso che lo Stato si occupi di entrare nel merito dell’educazione privata, delle scelte di vita personali di due genitori che hanno trovato nell’Italia un paese ospitale e che invece gli ruba i bambini”, è la posizione di Matteo Salvini, vicepremier e segretario della Lega.

GEDI: l’editore di Repubblica patteggia nel processo per truffa, i media tacciono

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Tanto tuonò che piovve: al secondo tentativo, gli imputati hanno patteggiato la loro pena e il caso GEDI-INPS, che vedeva il gruppo editoriale accusato di truffa aggravata ai danni dello Stato, è ufficialmente chiuso. Nel lunghissimo silenzio pneumatico e bipartisan delle altre testate italiane, che dell’accaduto non hanno scritto una riga, è arrivata a conclusione dopo sette anni la vicenda che riguarda una delle corazzate nel panorama dei media italiani. Dopo una cura dimagrante passata anche attraverso la cessione di una decina di giornali locali, il Gruppo GEDI ha tutt’ora nel suo portafoglio Repubblica, La Stampa, il Secolo XIX, ma anche periodici come l’Espresso e tre testate radiofoniche tra cui Radio DeeJay, piattaforme digitali e hub tematici. Cinque milioni di utenti al giorno, secondo quanto dichiarato, per i propri contenuti di informazione e di intrattenimento. Ancora più singolare, quindi, il black out informativo di giornali e tv sulla lunga e grave vicenda giudiziaria attraversata dal gruppo editoriale controllato dalla Exor, cassaforte della famiglia Agnelli-Elkann.

Nella foto, Carlo De Benedetti, ex presidente di GEDI Gruppo Editoriale.

Tutto era iniziato nel 2018, all’epoca della gestione CIR (Compagnie Industriali Riunite) di Carlo De Benedetti, con l’avvio di un’indagine su presunti raggiri compiuti dal gruppo ai danni dell’erario e degli enti previdenziali, INPS e INAIL. L’accusa era piuttosto seria: truffa aggravata ai danni dello Stato per aver ottenuto CIG (Cassa Integrazione e Guadagno) e prepensionamenti a favore di circa 80 dei propri dipendenti senza averne diritto, con vari trucchi posti in essere tra i quali demansionamenti e trasferimenti fittizi degli stessi tra alcune aziende del gruppo. In una delle intercettazioni acquisite agli atti, l’amministratore delegato Monica Mondardini, tra gli imputati che hanno patteggiato davanti al GIP di Roma, risponde così ad un esperto giuslavorista che le parlava degli “artifizi” usati e dei finti trasferimenti di personale: «Lei crede che io sarei qui se fossero trasferiti realmente?». I vertici dell’azienda, che insieme ai prepensionati ed un paio di sindacalisti erano nel lungo elenco di indagati con alcune figure apicali (oltre alla Mondardini, anche Roberto Moro, ex capo del personale) hanno quindi scaricato sui conti pubblici il costo di stipendi e trattamenti pensionistici, con scivoli erogati a persone poco più che cinquantenni e che evidentemente non avevano titoli e requisiti per potervi accedere. Parallelamente, GEDI ha tratto ovviamente un indebito arricchimento per i soldi di stipendi e trattamenti pensionistici scaricati sui conti pubblici. Secondo la testata Primaonline che ha diffuso per prima la notizia, il giudice ha accolto la proposta di patteggiamento avanzata da 16 persone, tra le quali Mondardini e Moro, e cinque società del Gruppo GEDI (GEDI Gruppo Editoriale Spa, GEDI News Network Spa, GEDI Printing Spa, A. Manzoni & C. Spa ed Elemedia Spa).

Va ricordato, tuttavia, che non era la prima volta che gli imputati avevano chiesto un patteggiamento per chiudere la scomoda e spinosa faccenda. Nel dicembre 2023 infatti, il GIP Andrea Fanelli aveva bocciato la proposta proveniente – nell’occasione – da Mondardini e Moro, oltre che dalle cinque società di cui sopra, giudicandola sostanzialmente insufficiente e inadeguata alla gravità dei fatti. La Procura di Piazzale Clodio infatti, col procuratore aggiunto Paolo Ielo e la pm Claudia Terracina, aveva approvato l’istanza dei due imputati eccellenti concordando una condanna di 5 anni e 10 anni di reclusione con pena sospesa. Per quanto riguarda le società, era stato proposto un risarcimento del danno all’INPS di 16 milioni con l’offerta di 1,8 milioni in relazione ai profitti collegati ai reati contestati: peccato che, appunto, l’ingiusto profitto accumulato da GEDI che non ha pagato stipendi e contributi a decine di dipendenti, sia stato stimato nell’ordine dei 38,9 milioni. Tre anni fa infatti era stato disposto un sequestro preventivo di pari importo e oggi il GIP, tra le altre cose, ha anche deciso la restituzione di 19,2 milioni a Gedi. Rigettando l’istanza di patteggiamento, il giudice Fanelli ha evidentemente ritenuto troppo morbide le pene in relazione alle responsabilità dei manager imputati, ossia sproporzionate per difetto: una conclusione a tarallucci e vino, vidimata peraltro dalla procura. Peraltro, aveva creato non poche perplessità il fatto che la Procura avesse giudicato “un danno patrimoniale tenue” i 16 milioni da restituire all’INPS: anche questa circostanza era stata valutata dal giudice Fanelli come incongrua e irricevibile.

L’ amministratore delegato della Exor N.V, John Elkann

Secondo gli inquirenti che hanno aperto il fascicolo al seguito dell’indagine aperta dalla stessa INPS nel 2018, dopo segnalazioni pubblicate dal Fatto Quotidiano, i fatti contestati si sono svolti dal 2011 al 2015 grazie ad un triplice patto d’acciaio tra azienda, sindacati e dipendenti, con gli enti che nella migliore delle ipotesi sono restati a guardare: tra gli indagati figuravano anche due dipendenti INPS. Pensare che anni prima che si muovessero i magistrati, INPS Lazio aveva ricevuto una segnalazione anonima su presunte anomalie amministrative nel gruppo GEDI , ma nei successivi controlli – secondo il presidente dell’Istituto, Gabriella Di Michele – non era stata trovata nessuna irregolarità contabile. Per ottenere in modo illegittimo i prepensionamenti, i responsabili hanno provveduto ad effettuare trasferimenti fittizi di personale all’interno delle aziende del gruppo, sfruttando quelle che avevano diritto ad accedere agli ammortizzatori sociali erogati con cifre considerevoli. Ma sono stati anche certificati falsi esuberi e falsificati libretti di lavoro per poter dimostrare di essere in possesso del monte contributi necessario ad accedere allo status richiesto. Così come sono stati eseguiti palesi demansionamenti per trasferire personale da un’azienda all’altra, con qualifiche abbastanza fantasiose (manager e profili apicali diventati improvvisamente “grafici”).

I soci di maggioranza avevano chiesto di «conservare la marginalità del gruppo» e la GEDI è riuscita ad aumentare i profitti, riducendo il costo del lavoro e gli organici: peccato che per farlo abbia commesso dei reati che assumono un significato particolare, sotto al profilo dell’etica e della correttezza, per chi maneggia un bene prezioso come l’informazione in tutti i suoi aspetti previsti anche dalla Costituzione. Il tombale silenzio che è calato sulla vicenda, secondo gli inquirenti, si sarebbe potuto spiegare anche col fatto che GEDI forse non fosse l’unica a muoversi con tanta disinvoltura per aumentare i propri profitti e scaricare sui conti pubblici i costi del personale, nel panorama già gravemente ammalato dei media italiani, e che quindi come si dice, cane non morde cane. Si era vociferato, all’epoca, anche di imminenti ispezioni e verifiche incrociate tra procure ed enti previdenziali nei conti e nelle carte di altri grandi gruppi editoriali italiani, ma nei fatti nessuno se ne ha più sentito parlare. Dopo la conclusione dell’affaire-GEDI, probabilmente sarà ancora più difficile che possa succedere.

Suicidio assistito, il governo impugna la legge della Regione Sardegna

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Il governo ha deciso di impugnare davanti alla Corte costituzionale la legge regionale sul suicidio assistito approvata dalla Sardegna a settembre, sostenendo che la materia sia di competenza nazionale e non regionale. La norma resterà in vigore mentre la Corte valuta il caso. La decisione ha soprattutto un valore politico: i partiti di centro-destra al governo sono contrari alla pratica e contestano le iniziative regionali, nate anche perché il Parlamento non ha ancora approvato una legge nazionale nonostante la sentenza del 2019. Finora solo Sardegna e Toscana hanno varato norme proprie, entrambe impugnate dal governo.

Dal 7 ottobre, almeno 98 palestinesi sono morti nelle carceri israeliane

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Novantotto prigionieri politici palestinesi sono morti negli ultimi due anni: è il dato più alto degli ultimi decenni e segna un punto di svolta nella gestione delle detenzioni israeliane. Novantaquattro decessi sono stati registrati tra il 7 ottobre 2023 e l’agosto 2025, altri quattro tra ottobre e novembre di quest’anno, ma il numero reale potrebbe essere molto più alto, dato che non si hanno più informazioni su centinaia di detenuti. È il quadro che emerge dal rapporto di Medici per i diritti umani (PHRI), Deaths of Palestinians in Israeli custody: enforced disappearances, systematic killings and cover-ups. Il dossier documenta l’esistenza di una politica ufficiale che combina sparizioni forzate, violazioni dei diritti umani, condizioni carcerarie abusive e uccisioni.

Le detenzioni massicce hanno trasformato carceri e strutture militari in veri e propri centri di tortura: detenuti privati di contatti con le famiglie, ammanettati per ore a terra, pestaggi, fratture non curate, infezioni lasciate evolvere senza antibiotici, malnutrizione e isolamento prolungato. La maggior parte dei palestinesi provenienti da Gaza morti in detenzione non era considerata combattente neppure dalle autorità israeliane: erano civili. Diverse inchieste hanno già documentato atti di violenza arbitraria. Il rapporto 2024 di Physicians for Human Rights Israel e il reportage del Public Committee Against Torture in Israel segnalato dal New Yorker denunciavano la trasformazione delle carceri israeliane in luoghi di abuso sistematico. Un rapporto  dell’ONG israeliana B’Tselem, basato su 55 testimonianze dirette, ha confermato le violenze: prigionieri senza processo, aggressioni sessuali, torture fisiche e psicologiche.

Ora, PHRI approfondisce questa realtà articolandola in tre fronti. Il primo riguarda le scomparse forzate: molti detenuti non vengono registrati, ma confinati in basi militari segrete, le famiglie restano senza notizie e anche l’accesso del Comitato internazionale della Croce Rossa viene spesso bloccato. I parenti dei detenuti hanno appreso in ritardo la notizia del loro decesso o non l’hanno appresa affatto. Per l’organizzazione, questa pratica rientra pienamente nella definizione internazionale di “scomparsa forzata”, volta a rimuovere le prove dei crimini. Il secondo fronte è quello delle morti in custodia, che coinvolge sia le carceri civili sia le strutture militari: «L’uccisione dei palestinesi in custodia – leggiamo nel dossier – è diventata una pratica normalizzata, derivata direttamente da una politica ufficiale dello Stato». Sulle strutture civili emergono i dati su sovraffollamento, violenze e cure negate; in quelle militari, prevalgono opacità e assenza di controlli esterni, «inclusa l’ampia violenza fisica quotidiana» da parte delle guardie carcerarie. Le autopsie disponibili mostrano una combinazione ricorrente di traumi fisici dovuti «alla violenza fisica inflitta dai soldati israeliani» e alla negligenza medica.

Sde Teiman– la base militare nel deserto del Negev trasformata in campo di prigionia e ribattezzata l’“Abu Ghraib israeliana” dagli attivisti dei diritti umani – emerge come quello con il più alto numero di decessi: 29. La struttura è circondata dal silenzio dell’esercito israeliano, che la gestisce come una zona militare interdetta. Già precedenti inchieste descrivevano Sde Teiman come un luogo dove i detenuti vengono bendati, incatenati e picchiati regolarmente, persino trattenuti in gabbie. Anche dopo che Sde Teiman è entrato nel dibattito pubblico e nei media, gli abusi sono continuati. Di questo luogo si è, infatti, parlato molto nelle ultime settimane per la vicenda dei cinque soldati incriminati per torture e lesioni aggravate, dopo la diffusione di un video – autorizzata dalla procuratrice militare Yifat Tomer Yerushalmi poi arrestata a inizio novembre – trasmesso da Channel 12 nell’agosto 2024 e girato il mese precedente, che documenta abusi sessuali su un detenuto palestinese.

Il terzo fronte analizzato nel rapporto, infine, riguarda la copertura, tra autopsie impedite e indagini interne inconsistenti. PHRI conclude che non si tratta di casi isolati, ma di un apparato sedimentato negli anni e radicalizzato dopo il 7 ottobre, costruito per rendere invisibili i detenuti e inverificabili le responsabilità. Per questo, PHRI chiede un’inchiesta internazionale, il rilascio immediato dei corpi e indagini efficaci per accertare le responsabilità. Il nodo resta politico: finché il sistema carcerario sarà trattato come un’appendice della guerra, ogni vita rinchiusa potrà svanire nel silenzio.