L’Australia diventa il primo Paese al mondo a vietare per legge l’accesso ai social network ai minori di 16 anni. Il divieto riguarda Facebook, Instagram, TikTok, X, Snapchat, Threads e Reddit, ma anche YouTube e Twitch, inizialmente escluse, oltre a Kick. Per il momento sono esentate le piattaforme usate per messaggiare o giocare, tra cui Discord, Messenger, Pinterest, Roblox, WhatsApp e YouTube Kids. La normativa, era stata approvata dal Parlamento australiano su impulso del Primo Ministro Anthony Albanese il 28 novembre del 2024, per tutelare la salute mentale dei minorenni. Negli ultimi anni, la letteratura scientifica ha accumulato dati sulla correlazione tra uso precoce dei social e aumento di ansia, depressione, disturbi del sonno e difficoltà di attenzione, dipendenza da stimoli rapidi e gratificazione immediata.
Il Social Media Minimum Age Bill prevede il divieto di accesso ai principali social network per i minori di 16 anni, spostando l’onere della verificadell’età sulle piattaforme. La legge segna un passaggio che potrebbe aprire una nuova stagione di regolamentazione globale delle piattaforme digitali. Non saranno i genitori a dover dimostrare l’età dei figli, ma le aziende tecnologiche, chiamate a impedire l’iscrizione e l’uso dei social agli adolescenti. In caso di violazioni sono previste sanzioni fino a 50 milioni di dollari australiani, circa 28,5 milioni di euro. Il provvedimento nasce in un clima di crescente allarme pubblico per il benessere mentale dei giovani e intercetta un consenso diffuso. Le Big Tech e parte di accademia e società civile, da Amnesty alla Commissione diritti umani australiana, hanno però criticato la legge temendo effetti sui diritti e sui legami sociali dei minori. Allo stesso tempo, una parte consistente dell’opinione pubblica dubita dell’efficacia reale del divieto, temendo che venga aggirato con facilità o che produca effetti collaterali indesiderati. I nodi restano aperti: la verifica dell’età rischia di aprire la strada a sistemi di identificazione digitale invasivi, il confine tra tutela e controllo appare sottile e resta il dubbio sulla capacità di una legge nazionale di arginare colossi globali abituati a eludere le regole.
Il punto centrale rimane l’impatto dei social sullo sviluppo cognitivo ed emotivo di bambini e adolescenti. Negli ultimi anni, la letteratura scientifica internazionale ha consolidato un quadro sempre più critico sugli effetti dei social media sulla salute mentale degli adolescenti, in una fase della vita in cui il cervello è ancora in formazione. Studi pubblicati su JAMA Networkhanno evidenziato come periodi anche brevi di sospensione dall’uso dei social portino a una riduzione significativa di ansia e sintomi depressivi, suggerendo una relazione diretta tra piattaforme digitali e disagio psicologico. Ricerche apparse su Nature e The Lancet, basate su dati longitudinali raccolti nel Regno Unito e negli Stati Uniti, mostrano che un uso intenso e precoce dei social è associato a un calo della soddisfazione di vita, a disturbi del sonno, difficoltà di attenzione e peggioramento dell’autostima negli anni successivi. Particolarmente preoccupanti sono i dati relativi alle ragazze adolescenti, più vulnerabili agli effetti del confronto sociale e dell’esposizione a modelli corporei idealizzati. Metanalisi recenti sottolineano inoltre un’associazione tra uso problematico dei social e aumento di ansia, depressione e comportamenti autolesionisti, pur evidenziando che i rischi crescono soprattutto con un utilizzo passivo, compulsivo e non mediato dagli adulti. Non è un caso che le associazioni pediatriche internazionali stiano rivedendo le proprie linee guida, suggerendo di rimandare l’uso dello smartphone e l’accesso ai social il più possibile. L’idea che un tredicenne possa gestire senza danni un flusso costante di contenuti algoritmici, notifiche e confronti sociali è sempre più contestata. I social media non sono spazi neutrali: sono ambienti progettati per catturare attenzione, generare dipendenza e raccogliere dati.
In questo contesto, la scelta australiana appare meno radicale di quanto venga raccontata e potrebbe inaugurare una nuova linea di intervento anche altrove. Vietare i social ai minori non significa negare il digitale, ma rompere il tabù occidentale secondo cui la tecnologia sarebbe neutra, inevitabile, progresso puro, un destino ineluttabile da assecondare. Resta da capire se il coraggio politico saprà resistere alle pressioni delle Big Tech e se il modello australiano diventerà un precedente capace di ispirare anche altri Paesi.
Nonostante la recente ratifica dell’accordo di cessate il fuoco tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo, i ribelli congolesi dell’M23 – sostenuti da Kigali – continuano ad avanzare. Il portavoce del gruppo ha annunciato la conquista della città lacustre di Uvira, situata al confine con il Burundi, nella provincia orientale del Sud Kivu. Le ONG congolesi segnalano da tempo che l’M23 non avrebbe arrestato la propria avanzata verso Uvira; solo nella scorsa settimana gli scontri nella provincia del Sud Kivu avrebbero portato all’uccisione di oltre 70 persone e costretto alla fuga circa 200mila residenti.
CAMPO PROFUGHI DI TULKAREM, PALESTINA OCCUPATA – Con l’aiuto del buio la nuova Nakba assume un contorno più definito. Nel cuore di Tulkarem, un pezzo di città è nero, silente, fantasma. Poche luci fanno da testimoni a una presenza umana, i fantasmi non voluti che occupano il campo profughi di Tulkarem ormai da più di dieci mesi. Nur scruta il campo vuoto, scuote la testa, è preoccupata. «Laggiù c'è casa mia», dice, indicando un punto ben preciso, come chi conosce perfettamente il territorio. «Quella luce ieri non c’era». Difficile dire se provenga dalla sua abitazione o da una intorno, anche l...
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Sergio Flamigni, ex senatore del PCI ed esponente di primo piano della cultura politica italiana, è morto a 100 anni. Partigiano nella zona di Forlì, entrò in Parlamento nel 1968, restando deputato per tre legislature e poi senatore fino al 1987. Partecipò alle principali commissioni d’inchiesta, tra cui quelle sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Dal 1988 pubblicò numerosi saggi su terrorismo e storia repubblicana. Nel 2005 fondò a Roma l’Archivio Flamigni, dedicato alla documentazione su terrorismo, stragi, mafie ed eversione.
La cucina italiana è la prima al mondo ad essere considerata, nella sua interezza, come patrimonio dell’umanità. Il riconoscimento ufficiale da parte dell’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura) è arrivato oggi grazie al parere positivo del Comitato intergovernativo dell’organizzazione – riunito a Nuova Delhi dall’8 al 13 dicembre – ed è stato accolto in sala da un grande applauso.
La candidatura ufficiale risale al 23 marzo 2023, quando i ministeri della Cultura e dell’Agricoltura presentarono hanno il dossier intitolato “La Cucina Italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale”. Qui la cucina italiana viene descritta come un vero e proprio sistema culturale fondato su 3 punti chiave. Il primo è quello che richiama tradizione, identità e memoria collettiva, considerando le pratiche culinarie come trasmissione di saperi, legami familiari e comunitari; il secondo riguarda la diversità bioculturale e la biodiversità territoriale, visto che ogni regione contribuisce con piatti e ingredienti che riflettono ecosistemi, produzioni locali e tradizioni agroalimentari. Il terzo invece ha a che fare con sostenibilità e cultura del cibo: la candidatura enfatizza la cucina come rituale sociale quotidiano basato su condivisione, comunità, cura e identità, tutti elementi considerati patrimonio immateriale.
È quindi innanzitutto un riconoscimento del valore culturale che il cibo ha nel nostro Paese e di come vada ben oltre al semplice “saziarsi”: la convivialità del pasto, la memoria che si tramanda insieme all’affetto e le infinite varianti di gusti e sapori, declinati con la specificità di ogni Regione. Ed è un passo che potrebbe portare all’aumento del turismo internazionale, alla possibile crescita dell’export delle nostre eccellenze agroalimentari e, si spera, ad una maggiore attenzione istituzionale alla tutela della biodiversità agricola e dei saperi culinari tradizionali.
«Siamo i primi al mondo a ottenere questo riconoscimento, che onora quello che siamo e la nostra identità. Perché per noi italiani la cucina non è solo cibo o un insieme di ricette. È molto di più: è cultura, tradizione, lavoro, ricchezza», è il contenuto del videomessaggio diffuso dal presidente Giorgia Meloni. Mentre il ministro degli Esteri Antonio Tajani, presente a Nuova Delhi, ha preso la parola per ricordare come la cucina italiana sia «anche uno straordinario volano di crescita e prosperità» e spiegare che nel 2024 l’export dell’agro-alimentare italiano è salito a 68 miliardi di euro, mentre nei primi otto mesi di quest’anno si è registrato un ulteriore aumento del 6%.
Mentre il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto suggerisce un possibile ritorno della leva militare, le persone che verrebbero direttamente coinvolte dalla misura esprimono il proprio dissenso. Secondo un sondaggio dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, infatti, il 68% dei giovani italiani di età compresa tra i 14 e i 18 anni non vuole andare in guerra. Il questionario – articolato in 32 domande – è stato effettuato su un campione di 4.000 persone, e non è ancora stato pubblicato nella sua interezza. La domanda posta dal Garante era: «Se il mio Paese entrasse in guerra mi sentirei responsabile e se servisse mi arruolerei. Quanto sei d’accordo con questa affermazione?». Tra i maschi la percentuale di persone in disaccordo è risultata pari al 60,2% e tra le femmine al 73,6%.
La consultazione, intitolata “Guerra e conflitti”, è stata lanciata lo scorso 18 novembre e resterà attiva sul portale del Garante dell’infanzia fino al 19 dicembre. Il sondaggio è stato elaborato lo scorso settembre dalla Consulta delle ragazze e dei ragazzi dell’Autorità garante, un gruppo di adolescenti tra i 13 e i 17 anni, con il supporto tecnico dello psicologo e psicoterapeuta Diego Miscioscia, socio fondatore dell’istituto Il Minotauro e autore di “La guerra è finita – Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali della pace”. L’obiettivo è quello di «colmare un vuoto di informazione sul sentiment degli adolescenti in relazione ai conflitti in corso e allo scopo di fornire alle istituzioni spunti di riflessione», ha affermato la garante nazionale Marina Terragni.
Il dossier contempla anche nodi più sottili: le domande affrontano il rapporto con la violenza, la paura e la responsabilità e indagano se i giovani parlano di guerra e pace a scuola. Non mancano quesiti sulla possibile influenza di giochi e simulazioni belliche sul comportamento e sulle modalità con cui si fronteggiano i «conflitti nel mio quotidiano», da quelli familiari alle tensioni tra coetanei e online. I dati provvisori riservano una sorpresa riguardo alle fonti di informazione: contrariamente allo stereotipo della generazione digitalmente nativa, «è la televisione, e non internet o i giornali, il medium a cui prevalentemente si rivolgono per avere informazioni credibili», ha osservato Terragni. Un dato che appare significativo in un panorama mediatico spesso caratterizzato da un tono allarmistico riguardo a scenari di guerra imminenti.
La natura di alcune domande ha sollevato però perplessità e critiche da parte di molti osservatori. Il quesito cardine sull’arruolamento, ad esempio, è stato tacciato da alcuni di essere costruito per associare l’entrata in guerra del Paese al concetto di “responsabilità” personale, in una forma che non lascerebbe spazio a considerare come un atto di responsabilità potrebbe essere, in certi contesti, proprio il rifiuto di combattere. Altre domande indagano l’opinione sulle mobilitazioni pacifiste, chiedendo se siano ritenute utili, inutili o lascino indifferenti, o propongono riflessioni sulla massima latina «si vis pacem para bellum» (se vuoi la pace, prepara la guerra), recentemente citata anche dall’Alto rappresentante agli Esteri dell’UE Kaja Kallas.
Alcuni critici vedono nel questionario un tentativo di tastare il polso rispetto alla penetrazione di una propaganda bellicista sempre più esplicita e, contestualmente, di misurare l’impatto che le grandi mobilitazioni contro i massacri in Palestina e il riarmo europeo hanno avuto sulle generazioni più giovani. La sezione che equipara i conflitti internazionali a quelli quotidiani, con domande come «Secondo te c’è differenza tra conflitto e guerra?», viene letta da alcuni come un possibile tentativo di banalizzare le dinamiche geopolitiche o, al contrario, di disinnescare il conflitto sociale interno associando l’idea di pace a una passività accettante. L’Autorità garante ha replicato alle polemiche sottolineando che sul sito è possibile «farsi un’idea corretta e non ideologica» del questionario e che lo scopo è puramente conoscitivo. La decisione di diffondere alcuni risultati in anticipo è però vista da molti come una risposta difensiva a critiche giornalistiche che avevano etichettato le domande come eccessivamente “patriottiche”.
A ogni modo, il rifiuto dell’arruolamento da parte di oltre due terzi del campione è un segnale chiaro. Secondo alcuni analisti, esso rischia però di essere strumentalizzato per sostenere una ancor più strenua necessità di “militarizzazione” delle coscienze e dei luoghi formativi. La consultazione, al di là delle possibili interpretazioni soggettive, offre comunque uno spaccato significativo in merito a ciò che pensano ragazzi sottoposti al costante flusso di notizie sui conflitti, confermando che molti di loro hanno sviluppato forti anticorpi contro la propaganda bellicista.
Eileen Higgins è stata eletta sindaca di Miami con il 59% dei voti, diventando la prima democratica a ottenere l’incarico in quasi trent’anni, oltre che la prima donna e la prima non ispanica dagli anni ’90. Ha sconfitto il repubblicano Emilio Gonzalez, sostenuto da Donald Trump, fermo al 41%, offrendo slancio ai democratici in vista delle midterm 2026. La campagna, pur in un contesto formalmente apartitico, ha toccato temi nazionali come accessibilità economica, immigrazione ed economia. Ex commissaria di Miami-Dade, Higgins, 61 anni, ha centrato il programma su alloggi accessibili, trasporti e fiducia nelle istituzioni.
89 anni fa ci lasciava Luigi Pirandello, una delle voci più originali, appassionate e inquietanti del Novecento italiano. Fin da ragazza m’innamorai delle sue novelle, del suo umorismo e della sua capacità di capire, e di mettere nero su bianco, le infinite contraddizioni dell’animo umano. Quante volte ci sentiamo spaesati, confusi, e non riusciamo a trovare un punto d’incontro tra ciò che siamo e ciò che sembriamo? Tra ciò crediamo di essere e come ci vedono gli altri, come capita ad Angelo Moscarda, il protagonista di quel geniale racconto che si chiama Uno, nessuno e centomila? «Gliel’insegno io come si fa», dice Ciampa alla signora Beatrice ne Il berretto a Sonagli, «Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!». Geniale, no?
Quanta verità è contenuta in queste parole! Le persone sincere e autentiche, in un mondo che ha fatto dell’ipocrisia un vanto e delle formalità un’abitudine, passano spesso per pazze. E chi non ha mai desiderato di prendere un treno e sparire, ricominciare daccapo, reinventarsi da zero per iniziare una nuova vita? Questo è quello che fa Mattia Pascal, che arriva a fingere la propria morte pur di scappare da una vita che lo stava soffocando. Insomma la genialità di Pirandello non si discute.
Se oggi lo ricordiamo, è perché seppe smantellare le maschere che l’uomo indossa e mostrarci la spaventosa leggerezza con cui un’intera identità può sgretolarsi in un attimo. Una moglie capisce che il marito che conosceva non è mai esistito. Un gruppo di personaggi irrompe su un palcoscenico senza sapere più dove finisca la finzione e inizi la vita. Un marito geloso finge di avere un amante per salvare la dignità; un uomo decide di morire per scherzo e finisce per perdere se stesso: questi sono le trame dei suoi racconti più famosi, storie che ci mostrano cosa accade quando la forma smette di reggere l’urto della realtà.
Luigi Pirandello nel 1932
Ma per capire l’opera di Pirandello occorre fare un passo indietro. Le tragedie familiari e personali e la sua terra d’origine, la Sicilia, formarono quella sua sensibilità così attenta a cogliere le contraddizioni dell’uomo e della vita e così insofferente nei confronti di tutto ciò che è menzogna.
Pirandello proveniva da una famiglia che faceva fortuna nelle zolfare: il suo era un destino già scritto di lavoro e buonsenso borghese. Ma lui rifiutò presto quella via, attratto invece dalle lettere e dagli studi umanistici. Era nato ad Agrigento, in quella che era in tutto e per tutto la periferia culturale e geografica del Regno, una terra che sapeva di vento, sole e zolfo, che era una miscela esplosiva di fatalismo e teatralità e dove il sole, l’autentico sovrano della Sicilia, dominava incontrastato.
Ed è proprio lì, in quel mondo in cui l’apparenza contava più dei desideri e la reputazione valeva più della felicità, che si formò lo sguardo di Pirandello: uno sguardo capace di cogliere la crepa dietro ogni gesto, il non detto dietro ogni parola. Se l’Ottocento aveva raccontato l’uomo come soggetto dotato di volontà, il Novecento pirandelliano apre una stagione diversa: quella in cui l’io si frammenta e si moltiplica. La borghesia italiana, con le sue formalità rigide e i suoi salotti pieni di convenzioni, gli offriva un catalogo inesauribile di ruoli: il marito rispettabile, la moglie devota, la figlia perbene. Ma bastava grattare appena quella superficie per far emergere gelosie feroci, frustrazioni, desideri indicibili. Ed è quello che sperimentò in prima persona, sulla sua stessa pelle per così dire.
Nel 1894 un giovane Luigi Pirandello sposa la bella Antonietta Portulano, una siciliana dai focosi occhi scuri e lo sguardo malinconico. Si tratta, come si usava all’epoca, di un matrimonio combinato, voluto dal padre di Pirandello, Don Stefano e il padre di Antonietta. I due sposi novelli hanno avuto poco tempo per conoscersi, non sanno quasi nulla l’uno dell’altra, ma a dispetto di un inizio poco promettente, la loro unione nei primi anni di matrimonio sembra felice.
Nel giro di poco tempo hanno due figli, Lietta e Fausto; si trasferiscono a Roma e nella capitale vivono sereni. Nel 1903 però accade il disastro: un tracollo economico si abbatte su Pirandello e la sua famiglia, quando a causa di un allagamento perdono una miniera di zolfo su cui avevano investito tutto ciò che possedevano. Quella disgrazia minò la salute psichica di Antonietta. Quando Pirandello tornò a casa, trovò la moglie, che aveva letto della disgrazia in una lettera del suocero, in uno stato quasi catatonico. Da quel momento la vita di Pirandello si tramutò in un inferno.
Antonietta divenne gelosa, in modo parossistico, del marito. È convinta che il marito la tradisca, ed è gelosa di qualsiasi donna si avvicini a Pirandello: conoscenti, allieve, semplici estranee che incrociano il suo sguardo in strada. Basta anche soltanto un saluto per innescare una violentissima ira. Più passano gli anni, più la paranoia di Antonietta peggiora: non appena Pirandello rientra a casa, lo assale con le sue grida; lo spia, fruga tra le sue carte, di notte resta sveglia a fissarlo nel buio.
«Ho la moglie, caro Ugo,» confessa al suo amico Ugo Ojetti, «da molti anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io». Pirandello limita al minimo le uscite nel mondo esterno, si getta a capofitto nel suo lavoro, pur di non dare alla moglie il minimo pretesto per ingelosirsi.
Ma non serve a nulla. Alla fine Antonietta, smarritasi sempre più nella follia, diventa gelosa anche della figlia. La accusa di volerla avvelenare e di aver avuto rapporti incestuosi con suo padre. Distrutta da queste accuse e dall’odio della madre, Lietta prova a togliersi la vita. Si salva per miracolo, ma ormai il clima familiare è distrutto. Antonietta è divenuta ormai completamente ingestibile, e sono costretti a farla internare in una casa di cura sulla Nomentana. Una storia tristissima che in parte affonda le sue radici in quella cultura della gelosiache aveva spinto la madre di Antonietta a morire di parto pur di non farsi toccare da un uomo, anche se medico, e non scatenare così la gelosia del marito. Questa era la mentalità di molti italiani e di molte italiane agli inizi del Novecento.
Quando Antonietta viene internata, Pirandello non si libera; il suo ricordo lo tormenta e lui trasforma la sua tragedia personale in arte. Il suo teatro diventa laboratorio di esperimenti psicologici, di identità scomposte e ricomposte, di uomini che non sanno più chi sono. Ecco come e perché nacquero personaggi come Mattia Pascal, Angelo Moscarda, Enrico IV: figure che inciampano nella propria vita come chi, camminando distratto, sbatte contro uno specchio e non riconosce più il proprio riflesso.
C’è un elemento che attraversa tutta la sua opera: la follia. Ma non solo la follia spettacolarizzata, quella che irrompe nell’Enrico IV che finge di essere pazzo, ma la follia quotidiana, sotterranea, quella che ci accompagna tutti i giorni senza che nessuno se ne accorga. L’interesse di Pirandello per la follia era un modo per denunciare ciò che nella società dell’epoca non funzionava: l’ipocrisia dei ruoli, la rigidità delle convenzioni sociali, la pretesa che gli esseri umani siano monoliti coerenti.
Pirandello in tourné (1925)
L’eredità più scomoda di Pirandello è un’idea, l’idea che ognuno di noi è almeno tre persone: quella che crede di essere, quella che vede negli specchi e quella che gli altri si inventano guardandoci. Convivono tutte, si disturbano, si sovrappongono, si sabotano tra loro. E i suoi personaggi non fanno a meno di domandarsi: «Chi sono, quando nessuno mi guarda?»
Gli anni Dieci e Venti sono per Pirandello anche anni di crescente notorietà. È in questa fase che l’Italia cambia pelle, scossa dalla guerra e delusa dai governi liberali. Molti intellettuali, Pirandello incluso, guardano al fascismo come a una forza ordinatrice in un paese in cui tutto sembra franare.
La contraddizione è evidente: un uomo che ha passato la vita a smascherare i meccanismi del potere si innamora proprio della maschera più rigida. Ma anche qui emerge la verità più pirandelliana di tutte: nessuno è immune dalle seduzioni del proprio tempo. Nel 1921 va in scena Sei personaggi in cerca d’autore, accolto prima con scandalo e poi con ammirazione in tutta Europa. Seguono anni di tournée e di trionfi. È l’epoca in cui Pirandello diventa Pirandello: e poi ancora il Nobel, la fama, il riconoscimento internazionale. Eppure nel 1929 confessa Marta Abba: «Mi guardano come un uomo che ha un ruolo. Io voglio essere guardato come sono quando ti scrivo: uno che non sa chi è fino in fondo».
Ed è per questo che ancora oggi disturberebbe chiunque abbia costruito la propria esistenza su un ruolo ben stirato: l’uomo di successo, la donna realizzata, il professionista in ordine. Pirandello non avrebbe creduto a nessuno di loro. Avrebbe osservato e sarebbe andato alla ricerca del tremito sotto la superficie. Avrebbe insistito per mostrarci la precarietà delle maschere che ci affanniamo a indossare, e che possono sì darci un ruolo, ma non bastano a definirci e a dare senso, significato e valore a chi siamo e cosa vogliamo.
Pirandello si spegne a Roma, il 10 dicembre del 1936. Nelle sue disposizioni testamentarie chiese di essere sepolto senza cerimonie solenni o cortei pubblici. Il regime avrebbe voluto celebrare la sua morte con un addio grandioso, ma Pirandello si oppose e la sua volontà prevalse. Ebbe un commiato sobrio, semplice, quasi dimesso rispetto alla sua fama, ma che rispecchiò in pieno la sua idea di esistenza: nuda, essenziale, priva di maschere.
Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i report di due importanti organizzazioni di giornalisti, la IFJ (International Federation of Journalists) e RSF (Reporter Sans Frontières) riguardanti il numero di giornalisti uccisi nel 2025. I numeri sono molto differenti: secondo RSF, il numero ammonta a 67, mentre per la IFJ arriva a 111. Ciò che non cambia, tuttavia, è che in entrambe i conteggi circa la metà dei giornalisti uccisi nel mondo sono stati assassinati da Israele a Gaza. «I giornalisti palestinesi hanno pagato il prezzo più alto come risultato della guerra a Gaza», riporta l’IFJ.
«Il più emblematico», scrive l’IFJ, «è stato l’attacco mirato del 10 agosto contro Anas Al-Sharif, reporter di Al Jazeera: è stato ucciso con altri cinque giornalisti e lavoratori dei media in una tenda che ospitava giornalisti nei dintorni dell’ospedale di Al Shifa, a Gaza City». In totale, prosegue, sono 69 i giornalisti uccisi nel solo Medio Oriente, 51 dei quali nella sola Striscia di Gaza (il 46%). In aggiunta a ciò, dei 74 giornalisti detenuti in tutta l’area, ben 41 si trovano nelle carceri israeliane – 15 in quelle egiziane e 11 in quelle yemenite. Dal canto suo, RSF riporta che sono una trentina i giornalisti uccisi a Gaza (il 43% del totale): «sotto il governo di Benjamin Netanyahu, l’esercito israeliano ha compiuto un massacro – senza precedenti nella storia recente – tra i giornalisti palestinesi. Per giustificare i propri crimini, i militari israeliani hanno messo in piedi una propaganda globale per diffondere accuse senza fondamento che ritraggono i giornalisti palestinesi come terroristi», riporta l’organizzazione, che sottolinea come dall’ottobre 2023 siano stati uccisi circa 220 giornalisti a Gaza. «Nel 2025, dopo oltre due anni di blocco della Striscia di Gaza, questa repressione della stampa continua impunemente».
In generale, secondo RSF, nel mondo le uccisioni sono una conseguenza «delle pratiche criminali delle forze armate regolari e non e della criminalità organizzata». Il 79% (53) dei giornalisti uccisi nel 2025, infatti, è morto durante una guerra o a causa di organizzazioni criminali. Secondo l’IFJ, sono una decina quelli uccisi in Europa, 8 dei quali in Ucraina, uno in Turchia e uno in Russia. «È la terza volta in dieci anni in cui l’Europa registra un numero tanto alto di giornalisti uccisi» scrive l’IFJ, ricordando il massacro di Charlie Hebdo del 2015 e l’inizio della guerra in Ucraina nel 2022. Il trend preoccupante, riporta l’organizzazione, vede l’utilizzo sempre più frequente di droni per uccidere giornalisti all’interno dei propri veicoli. Il numero di giornalisti imprigionati nel continente (149) è invece il più alto dal 2018 ed è dovuto soprattutto all’intensificarsi della repressione in Azerbaigian e in Russia. In generale, i giornalisti detenuti nel mondo sono 503, secondo RSF (533 per IFJ), la maggior parte dei quali sono rinchiusi nelle carceri cinesi (121) e russe (48, 26 dei quali sono stranieri).
Il Messico rimane, per RSF, il secondo Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti (dopo la Palestina): qui sono stati uccisi nove reporter nel solo 2025, per aver riportato crimini e averli collegati con i politici locali. Uno di questi, Calletano de Jesus Guerrero, è stato ucciso mentre si trovava sotto protezione governativa. IFJ sottolinea anche l’aggravarsi della situazione in Perù, dove quest’anno è stato registrato il primo omicidio di un giornalista in 10 anni. Dei 135 giornalisti ancora scomparsi nel mondo (alcuni da più di 30 anni), invece, è per RSF la Siria a detenere il primato, con 37 professionisti dei quali non si hanno notizie, seguita dal Messico (28).
«Nel 2025 si registra un aumento del numero degli omicidi e delle incarcerazioni dei giornalisti ed è profondamente vergognoso vedere quanto poco stiano facendo i governi di tutto il mondo per proteggerli o difendere i principi della libertà di stampa» dichiara Dominique Pradalié, presidente dell’IFJ. «Al contrario, assistiamo ad attacchi diretti, a tentativi palesti di mettere a tacere le voci critiche e a sforzi per controllare la narrazione su questioni di interesse pubblico».
Maxi-operazione antimafia a Palermo. Nella notte la polizia di Stato ha eseguito 50 arresti nei confronti di presunti affiliati a clan mafiosi. Le accuse vanno da associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni, fino al traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Per 19 indagati è stata disposta la custodia in carcere, per 6 gli arresti domiciliari e per 25 il fermo. L’indagine – coordinata dalla DDA di Palermo – ha smantellato un vasto giro di droga e ricostruito i nuovi organigrammi di uno dei principali mandamenti siciliani.
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