Alle 16.37 di un venerdì come tanti altri di quel 1969, cinquantasei anni fa, nel cuore di Milano che come sempre pulsava forte di lavoro ed energia, a due passi dalla stazione delle corriere dove i pendolari si travasavano dentro la grande città, è cominciata in un modo devastante e orrendo quella che proprio in quei giorni il settimanale inglese The Observer ha definito la “strategia della tensione”. La strage di Piazza Fontana, definita anche “la madre di tutte le stragi”, ha inaugurato col sangue e con l’orrore il copione di morte e di paura che in Italia è poi andato in scena per molti anni a venire. Una lunga stagione di terrore e incertezza che è passata tra varie tappe del dolore, come l’attentato alla Questura milanese cinque anni dopo, e poi l’Italicus, Piazza della Loggia, la stazione di Bologna e tutti gli altri eventi insanguinati della cronologia arrivata agli anni ’80, come in una macabra geografia degli eccidi di vittime innocenti che avrebbero dovuto preparare e soprattutto giustificare una svolta autoritaria nel Paese. Erano del resto un’epoca e un’Italia di forti tensioni sociali, con gli autunni caldi e i cortei in piazze che brulicavano rabbia e tensioni, un impegno diffuso e consapevole in larghe fette della società a fare fronte comune per il diritto al lavoro e allo studio, ma anche per divorzio e aborto che per tanti divennero buoni motivi per prendere le botte nelle manifestazioni e nelle scene di guerriglia urbana, dura e cupa, che hanno poi dato ispirazione ad una copiosa narrativa di libri e film.
Fermare il PCI a tutti i costi
In quegli anni, il Partito Comunista Italiano era il più grande e solido al di fuori del Patto di Varsavia e questo non poteva non preoccupare gli americani, oltre che innescare una reazione delle forze moderate che hanno costruito, nell’ombra, una strategia militare e piani di assalto alla democrazia con l’apporto di forze eversive di matrice nera, così come di apparati deviati dello Stato che le hanno utilizzate e piegate ai propri scopi. Ma in quella sciagurata compagnia di assassini e depistatori, in quell’opaco sottobosco composto da estrema destra, terrorismo e ambienti paramilitari, tra sicari e bombaroli, tra chi ha preparato congegni esplosivi, chi li ha piazzati nei luoghi della società civile e chi ha coperto o cancellato le tracce, c’erano anche uomini di potenze straniere che in Italia avevano una posizione strategica, come gli agenti della CIA che hanno costellato, nell’ombra e sotto mentite spoglie, tutte le vicende luttuose e oscure di questo paese nel Dopoguerra. Tanto da diventare i registi e i mandanti di progetti eversivi come il Piano Solo del 1964, o il Golpe Borghese del 1974. Ma anche gli organizzatori e gestori delle reti armate clandestine come Gladio, che coi suoi “gladiatori” e i suoi depositi di armi avrebbe dovuto tamponare il fronte orientale, fare da argine all’avanzata dei comunisti e frenare la loro ascesa. Impedire loro, comunque, di arrivare al governo del Paese, con le buone o con le meno buone.

In questo clima, con queste premesse, la strategia della tensione per seminare morte e paura nel Paese e approfittare delle conseguenti devastazioni nella società civile: Piazza Fontana non è stato solo la prima tappa di un calvario, è stata l’inaugurazione in grande stile di un massiccio progetto eversivo che era stato costruito nei dettagli nei mesi precedenti. Da aprile a dicembre, in quell’anno, si erano contati 17 attentati che hanno fatto da prove generali a quello che è successo nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in un tranquillo pomerggio d’inverno. Fino, appunto, a quel boato che ha sollevato tutto il palazzo e il marciapiede davanti, lasciando 17 cadaveri senza vita perfino tra i passanti, così come tra i clienti presenti in quel momento negli uffici e nel personale della filiale.
Una scatola di acciaio dentro una borsa di pelle
Una banca trasformata in un mattatoio da un ordigno ad altissimo potenziale, le stime parlavano di sette chili di tritolo: “portavamo fuori i feriti con gli zerbini perché non c’erano barelle a sufficienza”, ha raccontato uno dei soccorritori accorsi sul luogo. Una specie di perdita di innocenza collettiva, quella di un Paese che improvvisamente ha dovuto fare i conti con la paura di attacchi indiscriminati, costruita con una bomba messa dentro ad una scatola di metallo, e tutto insieme all’interno di una borsa di pelle, una delle tante borse portate per affari e per lavoro in quello e altri posti. Le ricostruzioni dei periti e degli artificieri, le indagini dei magistrati che sono arrivati in quella devastazione con gli occhi sgranati e increduli, hanno accertato che l’esecutore materiale dell’attentanto ha piazzato la borsa sotto ad una sedia, su cui poi ci si è seduto per fingere di compilare qualche scartoffia. La sigaretta accesa che teneva fra le dita è servita come innesco per incendiare il pezzo di miccia che fuoriusciva dalla stessa borsa, e una volta accesa il killer ha avuto tutto il tempo di alzarsi, posare i fogli e uscire dalla banca. Dietro di sé ha lasciato un urugano di potenza e di morte: il “fornello” sul pavimento che è servito per la deflagrazione, un cratere di novanta centrimetri di diametro, ha provocato un’esplosione con onda d’urto dal basso verso l’alto che ha scosso il palazzo dalle fondamenta. I clienti che erano impegnati nelle tradizionali contrattazioni del venerdì sono stati letteralmente travolti e falciati dalla forza dell’esplosione. I soccorritori giunti sul posto erano convinti di trovare una caldaia esplosa, perché nessuno immaginava o voleva credere ad una bomba, hanno trovato urla, disperazione, corpi martoriati, sangue, muri anneriti e divelti.
Cinque bombe in cinquanta minuti
Le indagini sono iniziate a 360 gradi, come si diceva all’epoca, in un clima di indignazione e di attonito stupore. “Dobbiamo capire prima di tutto se si è trattato di un fatto con una dimensione politica”, disse a caldo Ugo Paolillo uno dei magistrati impegnati nei sopralluoghi, per misurare la distanza che c’era nella loro testa e nella testa dei cittadini dal clima di tensione che sarebbe diventato d’ora in avanti la quotidianità italiana. Gli attentatori non avevano lasciato nulla al caso: la lamiera di acciaio della scatola che custodiva la bomba era di tipo “martellato”, ossia non permetteva di lasciarci sopra impronte digitali, un artigiano di Lainate che le produceva ha visto il suo prodotto in un’immagine del tg serale e l’ha riconosciuto, chiamando i carabinieri. La preparazione meticolosa di questo e di tutti gli attentati preparatori nei mesi precedenti, è stata riconosciuta nelle lunghe e tormentate vicende giudiziarie che hanno fatto seguito ai fatti. In particolare, il coinvolgimento degli estremisti neofascisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura all’organizzazione della strage, anche se le loro vicende processuali si sono risolte con un’assoluzione in secondo grado. E’ stato accertato il loro coinvolgimento nelle fasi preparatorie, con l’acquisto di 50 timer, la ricerca delle scatole di metallo e l’acquisto a Padova di borse in pelle simili a quelle utilizzate per contenere gli ordigni. Perché Piazza Fontana, atto primo della strategia di tensione che ha poi imprigionato il Paese, non è stata un atto isolato. Nello stesso giorno, il piano prevedeva altri quattro attentati tra Milano e Roma. Alla Banca Commerciale di Piazza della Scala fu ritrovato un ordigno inesploso, mentre contemporaneamente a Roma tre bombe sono esplose alla BNL di Via San Basilio, a Piazza Venezia e all’altare della Patria. Altri esplosivi, per fortuna ritrovati inerti, furono trovati alla Cassazione e alla Procura generale della capitale, così come al tribunale di Milano e in alcuni uffici giudiziari di Torino. Un attacco simultaneo su larga scala che in 53 minuti ha distrutto la serenità di un Paese che, pur lacerato da scontri sociali e politici, non avrebbe mai immaginato di diventare per anni un teatro di una guerra clandestina condotta da forze oscure contro i fondamenti della Repubblica e della Costituzione.

Otto processi, nessun colpevole
Infinita e avvilente l’Odissea giudiziaria che ha preso il via nel febbraio 1972 col primo processo a Roma: il primo di otto procedimenti giudiziari in 28 anni, l’ultimo avviato nel 2000 e conclusosi come tutti gli altri con assoluzioni per tutti gli imputati. Solo in tempi più recenti, però, è stata accertata la responsabilità del movimento di Ordine Nuovo che nella sua ala veneta ha incubato e coltivato questi progetti stragistici e distruttivi. Il filo nero che lega le stragi e che è stato tirato fuori dal giudice istruttore Guido Salvini, nell’ultimo capitolo di questa infinita vicenda giudiziaria. Tre giorni dopo la strage viene arrestato Franco Freda, che per i carabinieri è il “mostro” di Piazza Fontana, ed è il caso di ricordare che quel 15 dicembre è anche il giorno in cui Giuseppe Pinelli è volato giù da una finestra al quarto piano della Questura di Milano: “la diciottesima vittima innocente di Piazza Fontana”. Tra le procure di Milano e Roma c’è un braccio di ferro nelle istruttorie sulla strage: la prima è orientata a seguire la pista nera, mentre nella capitale si punta a scavare nel mondo degli anarchici. Fatto sta che a Roma la Corte si dichiara incompetente e rimanda gli atti a Milano, dove però il procuratore generale chiede il trasferimento ad altra sede per motivi di ordine pubblico, in un clima incandescente e con i cittadini ancora storditi per gli effetti della strage. La Cassazione allora decide di assegnare il processo al tribunale di Catanzaro dove vengono unificati i due tronconi di indagine.
Finalmente, il 18 gennaio 1977 prende il via il processo a Catanzaro, dove due anni più tardi Freda e Ventura vengono condannati all’ergastolo insieme a Guido Giannettini che era un agente del Sid, il servizio segreto in funzione fino al 1977, quando vennero creati SISMI e SISDE. Condanna anche per due agenti dei servizi. Due anni dopo, però, dopo che Freda e Ventura sono scappati all’estero (in Costarica e Argentina), la Corte di appello calabrese annulla le condanne per insufficienza di prove. La Suprema Corte annulla la pronuncia e rinvia il processo a Bari, dove però il tribunale nel 1985 conferma le assoluzioni e la Cassazione mette la parola fine nel 1987, quando viene a Caracas viene arrestato Stefano Delle Chiaie, neofascista, terrorista e fondatore di Avanguardia Nazionale che nell’ottobre dello stesso anno, insieme a Massiliano Fachini, va a processo a Catanzaro (il settimo): il procedimento si conclude con un’assoluzione per non aver commesso il fatto, con sentenza confermata nel 1991.
La pista nera del giudice Salvini

Sette processi e 23 anni per tornare daccapo, come in un beffardo gioco dell’oca. Bisogna attendere il 1998 con l’inchiesta del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, che punta decisamente la barra delle indagini sugli ambienti dell’estrema destra e dell’eversione nera legata a Ordine Nuovo, associata nel corso degli anni a diverse altre stragi ed eventi terroristici. Vengono imputati di strage Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni, Delfo Zorzi e Carlo Digilio. Il procedimento si conclude con l’assoluzione degli imputati, Digilio che ha collaborato con la giustizia è l’unico teoricamente colpevole, avendo ammesso le proprie responsabilità come esperto di esplosivi e logistica. Ma è intervenuta la prescrizione a fare piazza pulita. La figura di Digilio, in particolare, è emblematica e racchiude sfumature che la dicono lunga sugli ambienti dove è stato preparato l’attentato di Piazza Fontana. Romano di adozione veneziana, soprannominato “Zio Otto” per la sua passione per una pistola denominata Otto Label e deceduto per una macabra coincidenza proprio il 12 dicembre (2005), da universitario era entrato a far parte del Centro Studi Ordine Nuovo. Più avanti, è stato uno degli informatori italiani della basi NATO in Veneto, seguendo le orme del padre Michengelo che da tenente della Guardia di Finanza, col nome in codice di “Erodoto”, era un informatore dell’Oss, rete di intelligence americana che poi sarebbe diventata la Cia.
Un filo nero da Milano alla stazione di Bologna
“Zio Otto” ha tenuto l’alias di suo padre ed era stipendiato con 300mila lire dagli americani, ma non ingannino le note di colore. Partendo da Piazza Fontana, “Zio Otto” al secolo Digilio è stato un personaggio di primissimo piano nella galassia dell’eversione nera, come ha avuto occasione di ribadire anche in un libro il giudice Salvini. Il quale è stato poi sottoposto a inchiesta da parte del collega veneziano Felice Casson per le sue indagini su Piazza Fontana e per un dossier di intercettazioni finite poi in una bolla di sapone: “Ho passato più tempo a difendermi davanti al Csm che a occuparmi delle indagini su queste vicende”, disse poi l’interessato raccontando di una guerra intestina tra magistrati impegnati nelle inchieste sulle stragi. Digilio era operativo in una triangolazione diretta con Ordine Nuovo e con Gilberto Cavallini, ex Nar, che riforniva di armi e che è stato condannato all’ergastolo per la strage alla stazione di Bologna per concorso in strage “nel contributo di agevolazione fornito sul piano logistico e organizzativo” a Fioravanti, Mambro e Ciavardini già condannati come esecutori materiali. Il filo nero che ha trovato il giudice Salvini, da Milano a Bologna. Da Piazza Fontana al 2 agosto 1980.










