martedì 16 Settembre 2025
Home Blog

Gli USA continuano ad aumentare le provocazioni militari contro il Venezuela

0

Si intensifica lo scontro tra Stati Uniti e Venezuela, con un’escalation di provocazioni militari da parte di Washington e una scambio di accuse incrociate. Caracas denuncia una serie di azioni militari statunitensi, definite “illegittime” e imputa alla marina statunitense di aver assassinato undici civili, identificati da Washington come narcotrafficanti del gruppo denominato Tren de Aragua. Secondo il ministro degli Interni venezuelano, Diosdado Cabello, nessuna delle vittime apparteneva all’organizzazione e ciò che si contesta è l’assenza di indagini trasparenti o di una regolare procedura di arresto, sostituite da un uso immediato e letale della forza. Parallelamente, venerdì 12 settembre un episodio che il ministro degli Esteri Yván Gilun ha definito un “atto ostile e illegale” è avvenuto in acque territoriale del Venezuela: il cacciatorpediniere USS Jason Dunham avrebbe intercettato il peschereccio venezuelano Carmen Rosa con nove pescatori e lo avrebbe occupato per otto ore impedendo comunicazioni e attività normali. Il governo USA non ha confermato l’operazione. A ciò si aggiunge l’invio di jet F-35 a Porto Rico e l’ammassamento di navi da guerra e sottomarini al largo delle coste venezuelane, come parte del dispiegamento ordinato dal presidente Donald Trump nei Caraibi per rafforzare le operazioni contro il traffico di droga. La presenza militare statunitense nei Caraibi non è limitata a operazioni antinarcotici: assume una dimensione strategica, che il governo venezuelano considera una istigazione calibrata per mettere alla prova la risolutezza di Caracas e preparare il terreno per una escalation.

Il Ministero della Difesa venezuelano denuncia, inoltre, che le operazioni di intelligence statunitense sono triplicate in agosto e avvengono ormai quotidianamente, anche di notte, violando lo spazio aereo della Regione di Informazione di Volo (FIR, Flight Information Region) di Caracas. Sono segnalati voli non autorizzati da parte di aerei spia USA (come RC-135, E-3 Sentry, KC-135), che operano fino a 200 miglia all’interno del territorio venezuelano. Caracas accusa Washington di voler costruire una narrazione che giustifichi una minaccia militare e un futuro intervento e assicura che proteggerà i suoi pescatori e respingerà ogni attacco. In risposta a queste ripetute provocazioni, infatti, il presidente Nicolás Maduro ha avviato il “Plan Independencia 200”, che contempla l’attivazione di 284 “fronti di battaglia” in punti strategici del Paese, con l’obiettivo dichiarato di preservare la sovranità nazionale. Il Piano prevede l’arruolamento nella Milizia Bolivariana, addestramento territoriale e fasi di lotta disarmata e armata, affidando a ogni cittadino un ruolo nella difesa nazionale. Con oltre 15.000 unità popolari coordinate dai Consigli Comunali, l’iniziativa mira a proteggere il Paese, mantenendo «le coste libere da imperialisti, invasori e gruppi di violenza». Le accuse venezuelane puntano anche a evidenziare la discrepanza tra le affermazioni di Washington e i fatti documentati da Caracas. Sui casi recenti si notano analogie con operazioni passate in cui gli Stati Uniti hanno giustificato interventi navali, attacchi o addirittura golpe nel contesto della lotta al narcotraffico, senza fornire prove concrete o trasparenti che potessero giustificare tali azioni. Per il Venezuela ciò rappresenta non solo una violazione del diritto internazionale – in particolare della zona economica esclusiva che garantisce diritti sovrani al Paese fino a 200 miglia nautiche dalla costa – ma un uso strumentale della lotta alla droga per coprire obiettivi geopolitici.

Un tema centrale della critica venezuelana riguarda, infatti, la narrazione che Washington utilizza per giustificare queste operazioni. Il governo statunitense bolla come “terroristi” o “narcotrafficanti” le persone coinvolte in questi fatti di cronaca e accusa il presidente Maduro di connivenza o controllo criminale. Un contributo significativo alla difesa dell’immagine venezuelana in campo internazionale arriva dall’ex vicesegretario generale dell’ONU, Pino Arlacchi, e che ha definito come «una grande bufala geopolitica» l’impostazione secondo la quale il Venezuela sarebbe un narco-Stato: i dati del Rapporto Mondiale sulle Droghe 2025 dell’UNODC smentiscono, infatti, che il Venezuela sia un centro significativo di produzione o smistamento internazionale della cocaina, indicando che solo una frazione marginale della droga colombiana transita attraverso il suo territorio, e che non esistono prove credibili che colleghino lo Stato venezuelano al fantasioso Cartel de los Soles, come entità centrale del narcotraffico. Le rotte della droga seguono logiche precise: vicinanza ai centri di produzione, facilità di trasporto, corruzione delle autorità locali, presenza di reti criminali consolidate: criteri che il Venezuela non soddisfa del tutto. Per questo motivo, Caracas respinge le accuse americane, affermando che la designazione di narco-Stato sia parte di una strategia di “cambio di regime” attuata attraverso pressioni esterne, sanzioni, attacchi militari indiretti e propaganda.

10 regole per camminare in montagna riducendo i possibili rischi

0
escursioni camminate montagna regole rischio

Andare in montagna non è una passeggiata, recitava una campagna social di fine agosto, con un gioco di parole che esplicita una grande verità. In montagna ci si muove su terreni complessi, le condizioni meteo possono mutare rapidamente e, senza esperienza o abitudine ad affrontare i pericoli e gli imprevisti che possono presentarsi, il rischio di incidente aumenta sensibilmente. L’estate 2025 in montagna ha visto un record tragico: secondo i dati forniti dal CNSAS (Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico) tra il 21 giugno e il 23 luglio si sono contati 83 decessi e 5 dispersi, quasi tre incidenti mortali al giorno. Ma il bilancio non si è arrestato: da fine giugno a meta agosto, le vittime sono arrivate a quota 100, con un +20% di interventi rispetto alla media stagionale. Il CNSAS evidenzia che circa il 44% degli interventi riguarda escursionisti vittime di malori o cadute, mentre il restante 56% riguarda attività di vario tipo. L’escursionismo è dunque il contesto più coinvolto, con quasi metà dei casi, seguito da sci, mountain bike, alpinismo, ferrate e ricerca di funghi

Perché accade? Con l’aumento del turismo di montagna, in un trend che da dopo il Covid non accenna a placarsi, aumenta anche il numero di escursionisti poco preparati: senza equipaggiamento adeguato, privi di acqua, orientamento o consapevolezza dei propri limiti. Uno dei fattori più citati è l’influenza dei social network, dove foto e storie virali spingono molti a tentare il “selfie perfetto” o l’impresa da raccontare a qualsiasi costo, spesso senza preparazione. L’incremento degli interventi ha messo a dura prova le squadre di soccorso, soprattutto volontari, chiamati a operare anche 6–8 missioni al giorno in contesti difficili e pericolosi, con un carico emotivo e fisico significativo.

La sicurezza assoluta, in montagna, non esiste e nessuno può garantirvela. Però, anche se i pericoli in montagna non si possono eliminare del tutto, quello che possiamo fare è preparare al meglio ogni singola escursione, per ridurre i rischi il più possibile; “mitigare il rischio”, insegnano le Guide Alpine italiane nei corsi di formazione. Come? Prendendo diversi accorgimenti prima di partire e sapendo in anticipo che cosa fare in caso di emergenza.

1. Se cammini da solo, avvisa

Può sembrare una banalità, e invece non lo è. Se decidi di uscire per un’escursione in solitaria, anche semplice, avvisa comunque qualcuno spiegando dove andrai, il percorso che intendi seguire, e gli orari i cui pensi di partire e tornare.

2. Studia bene percorso (anche se è semplice)

Anche in caso di una semplice escursione, studia bene il percorso sulla mappa. In generale è buona cosa utilizzare quelle cartacee. Chi preferisce quelle digitali deve ricordarsi di portare con sé un caricabatterie e di poter accedere alle mappe anche se il telefono non prende. Pianifica gli orari tenendo presente che, senza andare troppo forte, si percorrono 3/400 metri all’ora in salita e 4 o 5 km all’ora in piano. Stabilisci prima di partire un possibile piano b in caso di maltempo come un rifugio o una malga in cui ripararti, un paese facilmente raggiungibile, etc. Se il giro è lungo, controlla prima di partire le possibili fonti d’acqua sul percorso. Se non sei un escursionista esperto, e non ti stai facendo accompagnare da un professionista, in montagna è meglio percorrere i sentieri tracciati e segnalati.

3. Controlla le condizioni metereologiche

Controlla attentamente i bollettini meteo prima della gita, soprattutto nel giorno precedente, quando le previsioni sono più accurate. Ci sono decine di applicazioni, anche con funzioni professionali. In generale quelle che mostrano, attraverso il radar, l’evoluzione di nubi e piogge sono più affidabili. Se ancora non ti basta puoi cercare contatti e chiedere a guide locali o ad esempio ai rifugisti. Un temporale improvviso in montagna può essere rischioso, e quindi valuta con attenzione. Meglio rimandare la gita che trovarsi in una situazione spiacevole o difficile da gestire.

4. Fai bene lo zaino

La grandezza dello zaino dipende dall’escursione: per un trekking giornaliero uno zaino da 20 litri in genere è più che sufficiente. L’importante è cosa ci mettiamo dentro. In montagna si porta sempre una giacca antivento e antipioggia. Un pile leggero nella stagione calda al quale, ad esempio in autunno, possiamo aggiungere un piumino leggero, un paio di guanti e un berretto. Una maglietta e un paio di calze di ricambio. Almeno 1 litro e mezzo d’acqua. Crema solare e occhiali da sole. Cibo per il pranzo, una barretta, rutta o frutta secca per merenda. Un kit di pronto soccorso che contenga cerotti, garze e bende, un disinfettante, una o due coperte termiche e le pinzette per togliere le zecche. Un coltellino multiuso può essere di grande aiuto nelle situazioni più disparate.

5. Corretta attrezzatura

A partire dalle scarpe, è fondamentale avere la giusta attrezzatura. Le scarpe da ginnastica, come suggerisce il nome, servono per fare altro. Quelle da trekking vanno bene su percorsi brevi e perlopiù asciutti. Le calzature più adatte per trekking ed escursioni sono gli scarponcini da montagna, che ormai sono declinati in decine di marchi, materiali e caratteristiche. Non servono per forza i più performanti, ma avere una calzatura medio-alta innanzitutto protegge la caviglia da distorsioni e dalla caduta di sassi, e poi ci permette di affrontare al meglio i diversi tipi di terreno e le diverse pendenze che si incontreranno sul cammino. I pantaloni da trekking, così come magliette specifiche – sintetiche o in lana merinos – permettono la giusta traspirabilità, facendoci sudare meno. Occhiali leggeri ci permettono di utilizzarli tutto il giorno senza che “pesino” sul naso. Un buono zaino, indossato nella maniera corretta, peserà meno sulle spalle scaricando sulla cintura lombare.

6. Saluta chi incontri sui sentieri

In montagna è importante salutare, guardando il viso delle persone che si incontrano. Non lo si fa solo per educazione, ma soprattutto perché, in caso di mancato ritorno a valle, è più facile che gli altri escursionisti ricordino il viso della persona scomparsa, potendo dare indicazioni su dove e quando l’avevano incontrata.

7. Allertare i soccorsi nel modo corretto

Impara ad allertare i soccorsi nel modo corretto perché, in una situazione d’emergenza, bisogna essere presenti, chiari e concisi. In Italia il numero unico per le emergenze è il 112, con un centralino che poi smista le diverse chiamate. In genere bisogna essere pronti a comunicare dove ci si trova in quel momento (più precisi siamo e meglio è), in quanti siamo, in quanti si sono fatti male e se abbiamo idea della gravità dell’incidente, se il posto è adatto per far atterrare un elicottero (siamo in bosco? Se possibile è meglio spostarci, ci sono fili elettrici? Meglio dirlo all’operatore). Se affrontiamo una gita in cui il telefono non prende per grandi tratti, possiamo valutare anticipatamente la possibilità di un telefono satellitare o di strumenti tecnologi appositi, che permettono di comunicare con i soccorsi utilizzando i satelliti e quindi anche in assenza di rete telefonica.

8. Non sottovalutare mai i pericoli

Gli incidenti possono capitare proprio a causa della sottovalutazione di un possibile pericolo. Succede ad esempio in escursioni con itinerari conosciuti, dove il fatto di averli percorsi diverse volte, ci porta a rischiare di più. Una pioggerellina fine durante il percorso, in vetta può trasformarsi in un brutto acquazzone. Una brezza di valle durante la camminata può diventare un vento molto forte in cresta. Una discesa affrontata quando si è troppo stanchi e le gambe non tengono più, può diventare un problema, così come l’essersi caricati troppo peso nello zaino o il non aver abbastanza cibo o acqua.

9. Non sopravvalutare le tue capacità

“Ho fatto dislivelli ben maggiori, figurati se non riesco ad arrivare i cima anche questa volta!”. Oppure: “Se ce l’ha fatta il mio amico ieri, non vedo perché non possa farcela io oggi”, e così via. Forzarsi per raggiungere una cima è una cosa che può accadere, farlo senza rendersi conto di esporsi a un rischio, può diventare un grande problema. A partire da una considerazione da tener sempre presente: non devi arrivare in cima per forza. Se le condizioni non lo permettono, se quel giorno sei più stanco del solito, se “ascoltandoti” senti che questa volta non è il caso di insistere, è più saggio tornare indietro tutti interi, per poterci riprovare la prossima volta.

10. Non lasciare traccia

Porta con te tutti i rifiuti. Anche quelli che pensi che si possano biodegradare nell’ambiente, come fazzoletti o bucce di frutta, in realtà possono rappresentare un problema, soprattutto per gli animali selvatici. Per non sbagliare è sempre meglio non lasciare traccia del tuo passaggio e non cercare di interagire con gli animali che incontri, che siano selvatici o animali al pascolo che spesso sono protetti da cani da guardia, mal disposti con chiunque si avvicini agli animali che loro devono proteggere.

Germania, Rheinmetall acquisisce divisione navale del gruppo Luerssen

0

L’azienda tedesca Rheinmetall, specializzata nel settore della difesa, ha annunciato l’acquisizione di Naval Vessels Luerssen (Nvl), la divisione navale del gruppo Luerssen. Il completamento dell’operazione, previsto per l’inizio del 2026, è subordinato all’approvazione delle autorità antitrust. Con questa mossa, come reso noto in un comunicato pubblicato dalla stessa azienda, Rheinmetall intende ampliare il suo portafoglio entrando nel mercato della cantieristica militare navale e consolidando la sua posizione di leader europeo delle tecnologie per la difesa. Il prezzo dell’accordo non è stato reso noto dalle parti.

Ai Mondiali di atletica, per la prima volta, per gareggiare come donna serve il test genetico

0

Dopo l’annuncio della World Boxing per il pugilato dilettantistico è arrivato anche quello della World Athletics: per poter prendere parte alle competizioni di atletica leggera, le atlete donne devono sottoporsi a un test del DNA, al fine di determinarne con un certo grado di certezza il sesso biologico. La verifica consiste, per entrambe gli enti, nell’esame del gene SRY (Sex-determining Region Y), generalmente presente sul cromosoma Y e considerato un elemento affidabile per determinare se biologicamente la persona sia uomo o donna. Gli annunci seguono quanto accaduto alle Olimpiadi 2024 con la pugile Imane Khelif, accusata (senza che esistesse alcuna prova pubblica) di non essere “completamente donna” e di aver goduto, per questo, di un sostanziale vantaggio sulle avversarie.

Il regolamento è già in vigore per gli attuali Mondiali di atletica di Tokyo, iniziati lo scorso sabato 13 settembre. Il test, realizzato tramite tampone buccale o prelievo del sangue, riguarda il gene SRY, considerato «un indicatore affidabile per determinare il sesso biologico». Sebastian Coe, presidente della World Athletics, ha dichiarato che «in uno sport che cerca costantemente di attirare più donne, è davvero importante che queste ultime entrino in questo mondo credendo che non esistano barriere biologiche». Dunque, «a livello agonistico, per competere nella categoria femminile, bisogna essere biologicamente donne». Per la World Athletics, la categoria delle donne può comprendere: le «donne biologiche»; le donne che non abbiano utilizzato testosterone per compiere il percorso di affermazione di genere maschile da almeno un anno; maschi biologici affetti da sindrome di insensibilità completa agli androgeni e che dunque non hanno attraversato il periodo di sviluppo sessuale maschile; maschi biologici con una DSD che soddisfi le disposizioni transitorie emanate dalla World Athletics.

Il 30 maggio scorso, la World Boxing, l’ente che si occupa del pugilato a livello dilettantistico, aveva introdotto la medesima misura, basata sempre sull’analisi del gene SRY. Il test è obbligatorio per tutti gli atleti al di sopra dei 18 anni che desiderino partecipare a una competizione organizzata dall’ente. «Gli atleti considerati maschi alla nascita, come dimostrato dalla presenza del materiale genetico del cromosoma Y (il gene SRY) o con una differenza dello sviluppo sessuale (DSD) in cui si verifica l’androgenizzazione maschile, saranno ammessi a competere nella categoria maschile», mentre «gli atleti considerati femmine alla nascita, come dimostrato dalla presenza dei cromosomi XX o dall’assenza del materiale genetico del cromosoma Y (il gene SRY) o con un DSD in cui non si verifica l’androgenizzazione maschile, potranno competere nella categoria femminile» riporta il comunicato. In caso sia riscontrata la presenza di materiale genetico del cromosoma Y e un eventuale Disturbo della Differenziazione Sessuale (DSD), allora «gli screening iniziali saranno sottoposti a specialisti clinici indipendenti per lo screening genetico, i profili ormonali, l’esame anatomico o altre valutazioni dei profili endocrini da parte di medici specialisti».

La decisione dei due enti prova a dare una risposta agli interrogativi esplosi dopo la partecipazione della pugile Imane Khelif alle Olimpiadi del 2024. Dopo ave vinto il match contro l’avversaria Angela Carini, Khelif era stata accusata, per via della sua struttura fisica, di essere prima una transessuale, poi un travestito, poi ancora una persona intersessuale – il tutto su base di pura speculazione mediatica, senza che vi fosse alcun documento a supportare nessuna tesi. Recentemente, proprio a causa del suo rifiuto a sottoporsi al test genetico, Khelif non è stata ammessa ai Mondiali di pugilato di Liverpool.

La procedura individuata dai due enti si propone di trovare “una volta per tutte” una soluzione a un problema complesso: la classificazione delle persone intersessuali (ovvero che persone che presentano, a livello biologico, differenze o variazioni nello sviluppo del sesso, che possono riguardare tanto cromosomi e ormoni sessuali quanto i genitali esterni o gli organi riproduttivi interni). Tuttavia, questa non è sufficiente per tracciare delle linee con un sufficiente margine di certezza. Per citare solamente un paio di esempi, vi sono casi in cui persone nate con cromosoma XY hanno il gene SRY che non risponde agli androgeni, con il conseguente sviluppo di tratti somatici chiaramente femmini (Sindrome di Morris). In altri casi, invece, persone con cromosoma XX possiedono il gene SRY (Sindrome de la Chapelle).

OII Europe, l’associazione che si occupa della tutela delle persone intersex, ha criticato la scelta di World Athletics e World Boxing definendo il test del SRY «imperfetto» e ricordato che la stessa World Athletics lo aveva bandito, dopo averlo introdotto negli anni Novanta, a causa dell’alto numero di falsi positivi e di casi di DSD. L’associazione ha anche ricordato che «le prove scientifiche dimostrano che una moltitudine di fattori influenzano e incidono sulle prestazioni atletiche e il testosterone è solo uno dei tanti fattori (ad esempio l’assorbimento di ossigeno, la densità capillare o la capacità di tollerare alti livelli di acido lattico) che incidono sulle prestazioni». Secondo l’OII, le nuove norme costituiscono il risultato del diffondersi, da un lato, di politiche discriminatorie nei confronti della comunità LGBTI e, dall’altro, dalle politiche trumpiane, che impongono il divieto alle atlete trans di partecipare alle competizioni sportive.

La questione riporta a galla un tema complesso, ovvero la divisione in categorie degli atleti nelle competizioni. Il sistema impiegato fino ad oggi, che suddivide le persone in base a età, sesso e peso, non risponde evidentemente alla complessità di casistiche nelle quali ci si può imbattere. Non si tratta affatto di un tema da poco conto, soprattutto negli sport da combattimento, dove si può incorrere in seri rischi per l’incolumità di una persona. Eppure, la biologia stessa – con tutte quelle varianti che, con eccesso di medicalizzazione, si tende a indicare come “sindromi” e “disturbi” – ci mostra che la sessualità non è binaria, ma prevede un’ampia serie di variabili. Un concetto ancora difficile da elaborare a livello di società e, forse per questo, ancora più complesso da applicare allo sport.

Che cosa sappiamo dei presunti droni “russi” in Polonia e Romania

3

Negli ultimi giorni, la cronaca internazionale è stata monopolizzata dalla notizia dello sconfinamento di alcuni presunti droni “russi” nello spazio aereo polacco e romeno. Presunti perchè, al momento, la loro attribuzione resta incerta, dal momento che non esistono numeri seriali o componenti identificativi che permettano di identificarli in maniera inequivocabile. Non esiste nemmeno, al momento, alcuna prova che quelli atterrati in Polonia fossero armati, mentre per quanto riguarda la Romania le ricerche sono ancora in corso. Nonostante ciò, è stata immediatamente costruita una cornice mediatica che indica la Russia come colpevole di “aggressione”, con il risultato di rafforzare il clima di tensione internazionale e spingere i Paesi NATO ad invocare il rafforzamento delle proprie difese.

Cosa sappiamo

In Romania, nella serata del 13 settembre, il Ministero della Difesa ha comunicato di aver rilevato un drone nei radar, inviando F-16 a monitorarlo fino alla sparizione del segnale vicino a Chilia Veche, senza però attribuirne la provenienza e annunciando ricerche per eventuali rottami. Per l’incidente polacco del 10 settembre si parla, invece, di 19 apparecchi del tipo Gerbera, utilizzati in genere per osservazione o saturazione, quindi, non armati. Tre sono stati abbattuti dai caccia NATO, tre sarebbero atterrati da soli nei campi, uno si è schiantato contro un’abitazione provocando danni materiali ma nessuna vittima, mentre degli altri non si conosce la sorte. Alcuni media hanno presentato i droni come missili o armi letali, ma le analisi sui rottami rinvenuti a Lublino non hanno evidenziato né esplosivi né carichi militari. L’autonomia limitata dei modelli Gerbera rende improbabile che potessero raggiungere in profondità il territorio polacco partendo dalla Russia: lo stesso Ministero della Difesa russo ha chiarito che nelle operazioni notturne non erano previsti obiettivi in Polonia. Mosca si è detta pronta a discutere l’accaduto con la controparte polacca, segnalando la volontà di evitare un’ulteriore escalation. A questo si aggiunge che nessun frammento recuperato è stato collegato con certezza a droni russi tramite numeri seriali o componenti identificativi.

Proprio la natura degli apparecchi recuperati su suolo polacco solleva dubbi sulla ricostruzione mainstream: si tratta, infatti, di droni-esca, leggeri, spesso privi di carico o con componentistica minima, costruiti con materiali economici come polistirolo, senza testata esplosiva. Le perizie preliminari effettuate in Polonia non hanno, infatti, rilevato tracce di esplosivi, elemento che smentisce l’idea di un attacco militare diretto. Anche l’autonomia di questi modelli – stimata tra 300 e 600 chilometri – non coincide con la traiettoria attribuita a Mosca: se il lancio fosse avvenuto dalla Russia, avrebbero dovuto superare distanze poco compatibili con le loro prestazioni. Inoltre, la stessa NATO ha riconosciuto di non avere certezze né sul numero dei droni effettivamente entrati nello spazio polacco, né sul fatto che l’incursione fosse intenzionale. Il fatto che alcuni droni abbiano sorvolato indisturbati per diversi chilometri il cielo polacco, siano stati recuperati quasi intatti, siano precipitati in campi senza causare vittime né danni rilevanti, suggerisce che non si sia trattato di un’azione militare offensiva, ma piuttosto dell’impiego di apparecchi da ricognizione o destinati a saturare le difese. Un ulteriore elemento contraddittorio emerge dalle dichiarazioni del generale Wiesław Kukuła, Capo di Stato maggiore polacco, e del ministro degli Esteri Sikorski, secondo i quali sarebbe stata la Bielorussia ad avvertire Varsavia della presenza dei droni fuori rotta. Una circostanza che mal si concilia con l’idea di un “test russo” deliberato per sondare le difese NATO.

Anche se le accuse contro Mosca restano per ora non provate, Varsavia ha convocato l’incaricato d’affari russo, presentando una nota di protesta, e ha invocato l’Articolo 4 del Trattato della NATO, non l’Articolo 5: un fatto che segnala esplicitamente che, al di là dei toni, il governo polacco non considera l’accaduto come un’aggressione armata. Le possibili spiegazioni dell’incidente sono molteplici e nessuna appare definitiva. L’ipotesi di un attacco deliberato russo appare la meno plausibile: perché rischiare un’escalation con la NATO con 19 droni da ricognizione non armati? Altre ipotesi parlano di false flag ucraine, di test di prontezza delle difese NATO o di disturbi elettronici che avrebbero deviato gli apparecchi. Una tesi ancora diversa, avanzata dallo stesso Zelensky, suggerisce che Mosca possa avere interesse a costringere l’Alleanza a trattenere le proprie difese antiaeree per proteggere i confini anziché inviarle in Ucraina. In sintesi, Kiev teme che Mosca possa avere pianificato le incursioni nello spazio aereo polacco e romeno in modo che la NATO preferisca rafforzare le proprie difese anziché spedire sistemi antiaerei avanzati in Ucraina. In ogni caso, resta un elemento chiave: nessuna di queste teorie ha trovato conferma pubblica e si rimane nel mero piano delle ipotesi.

La NATO mostra i muscoli

Nel frattempo, però, la vicenda ha già prodotto conseguenze tangibili: rafforzamento del fianco orientale della NATO tramite l’operazione Sentinella dell’Est, dispiegamento di circa quarantamila soldati lungo i confini orientali con la Bielorussia e la Russia, nuove forniture militari. La Polonia, inoltre, ha confermato l’arrivo di 43,7 miliardi di euro dal programma SAFE per incrementare sistemi antiaerei, droni e artiglieria, mentre la Commissione europea ha rilanciato il progetto dello “Eastern Shield”, 700 km di fortificazioni, barriere, infrastrutture e difesa anti-drone al confine con Bielorussia e Russia. Non si tratta soltanto di sicurezza: è un meccanismo che consente di convogliare risorse e consolidare consenso politico. Lo schema alla base è simile a quanto già avvenuto in passato. Negli ultimi due anni, la Russia è stata più volte accusata di sabotaggi in Europa – incendi sospetti, danneggiamenti e incursioni – ma senza prove pubbliche definitive. Episodi in Polonia, Norvegia e Regno Unito sono stati attribuiti a fantomatiche reti filorusse, mentre Mosca ha sempre respinto le accuse come infondate, parlando di narrativa costruita ad hoc. Più recentemente, con le presunte interferenze al sistema GPS del volo che trasportava Ursula von der Leyen verso Sofia, i media occidentali hanno indicato senza esitazione Mosca come colpevole (si parlò apertamente di “jamming russo” e di “guerra ibrida”), fino alla smentita ufficiale di Flightradar24 prima e poi del governo bulgaro: in definitiva, il sabotaggio che ha monopolizzato le prime pagine dei media internazionali non c’è mai stato. Lo stesso schema si era visto con l’attentato al Nord Stream, per il quale la Russia fu subito additata come responsabile: le indagini successive hanno portato all’arresto in Italia di un cittadino ucraino, dimostrando che la realtà è più complessa e a volte molto diversa rispetto alle versioni precostituite. La narrazione che punta immediatamente il dito contro Mosca risulta funzionale: permette di consolidare l’idea di una minaccia russa estesa oltre l’Ucraina e di giustificare nuove misure militari e finanziarie, a prescindere dalla solidità delle prove. Alla fine, la domanda centrale resta senza risposta: a chi giova davvero questo sconfinamento? Alla Russia, che rischierebbe un conflitto aperto con la NATO, o piuttosto a chi può trasformare l’ennesimo episodio ambiguo in leva politica per consolidare consenso, ottenere fondi e rafforzare un’escalation che sembra non avere fine? Le prove tecniche, al momento, non autorizzano conclusioni affrettate, ma la costruzione della narrazione mainstream procede a prescindere, sacrificando la prudenza e la verifica sull’altare della convenienza geopolitica.

Gaza, Israele uccide 25 palestinesi dall’alba

0

Gli attacchi israeliani a Gaza hanno ucciso almeno 25 persone dall’alba di oggi, lunedì 15 settembre, di cui 16 nella sola Gaza City. Lo riporta Al Jazeera, affermando che tra le vittime ci sono tre bambini. Due sono gemelli di sei anni. Negli ultimi quattro giorni, 10 edifici dell’UNRWA a Gaza sono stati colpiti dalle forze israeliane, secondo il capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Philippe Lazzarini. Wafa ha reso noto che questa mattina l’IDF ha effettuato incursioni diurne in diverse città della Cisgiordania, con veicoli dell’esercito avvistati a Tubas e Nablus, nella Cisgiordania settentrionale, e a Birzeit e al-Bireh, poco distanti da Ramallah.

Decine di migliaia di utenti senza rete: Starlink sotto accusa per i suoi blackout

0

Nella mattina di lunedì 15 settembre, il servizio satellitare Starlink ha subito un’interruzione che ha lasciato decine di migliaia di utenti senza connessione a Internet. Il disservizio, stando alle prime ricostruzioni, si è protratto per meno di due ore e risulta ormai rientrato. Nonostante ciò, molti utenti lamentano che simili blackout stiano diventando sempre più frequenti, mentre l’azienda raramente offre spiegazioni trasparenti sull’accaduto.

Per avere un quadro d’insieme, occorre guardare ai dati di Downdetector, portale che monitora in tempo reale la tenuta dei servizi sul web aggregando segnalazioni da varie fonti. Secondo la piattaforma, oltre 40.000 utenti statunitensi hanno iniziato a riscontrare problemi intorno alle sei del mattino (ora italiana). Il 40% degli utenti ha subito un blackout totale dei servizi, mentre il 59% ha evidenziato difficoltà di accesso alla rete. IlSebbene le segnalazioni siano state più consistenti negli Stati Uniti, disservizi sono stati riportati anche in altri Paesi. Italia i clienti del servizio hanno segnalato un 65% di disconnessioni complete e un 34% di problemi d’accesso a internet. “Starlink sta subendo un’interruzione di servizio. Il nostro team sta investigando”, ha dichiarato l’azienda in un post, poi rimosso.

Questo inciampo, seppur di breve durata, arriva in un momento delicato per Starlink. La costellazione satellitare è promossa come strumento utile a portare Internet nelle aree rurali e nei territori non coperti dalla fibra. Un intento nobile, se non fosse che l’impresa ostacola attivamente le azioni governative che consentirebbero l’estensione delle infrastrutture di fibra ottica. La bontà dell’utilizzo di Starlink come sostituto del cablaggio tradizionale è però costantemente messa in discussione. Lo scorso giugno, il ricercatore NASA Denny Oliveira ha per esempio condiviso uno studio che mostra come le tempeste solari possano accelerare il rientro in atmosfera dei satelliti Starlink, riducendone la vita utile più di quanto stimato ufficialmente dall’azienda.

Il 23 luglio, Starlink ha dato il via alla sua collaborazione con l’azienda telefonica T-Mobile per portare la connessione satellitare direttamente sugli smartphone personali. Il 24 luglio, il giorno dopo, i servizi hanno subito un arresto su scala globale. Non è chiaro se ci sia un collegamento tra i due fenomeni. Il Vicepresidente di Starlink Engineering, Michael Nicolls, si è limitato a giustificare il disservizio parlando genericamente di un difetto legato a problemi coi software che vengono impiegati per gestire la rete. Elon Musk, proprietario e CEO dell’impresa, ha rassicurato su X che il problema è stato risolto e che non si sarebbe più ripresentato. 

Anche le cause dell’ultimo blocco non sono state adeguatamente precisate. Online ci si lancia in mille teorie: c’è chi ipotizza un errore in fase di aggiornamento, chi chiama in causa le tempeste solari. Quel che è certo è che il blackout cade in un periodo strategico per l’azienda. L’11 settembre, Starlink ha investito 17 miliardi di dollari per comprare da EchoStar le licenze di spettro che gli permetteranno di configurare servizi 4G/5G. Nello stesso periodo, Musk ha inoltre rivelato che la sua azienda satellitare ha intenzione di sviluppare nell’arco dei prossimi due anni delle soluzioni tecniche che siano in grado di connettere gli smartphone direttamente ai satelliti, senza passare attraverso un operatore intermedio.

Questi sviluppi hanno alimentato le speculazioni su un possibile ingresso diretto di Starlink nel settore della telefonia, una prospettiva che si è ripercossa immediatamente sulle valutazioni in borsa di giganti quali AT&T, T-Mobile e Verizon. Tuttavia, l’abitudine di Musk a promettere risultati ambiziosi in tempi ridotti – spesso senza rispettare le scadenze dichiarate – unita ai blackout ricorrenti, solleva dubbi sulla reale solidità delle infrastrutture di Starlink e sulla sua possibilità che queste possano soppiantare, più che affiancare, le reti di terra.

Bankitalia, a luglio debito pubblico calato di 14,5 miliardi di euro

0

A luglio il debito pubblico italiano è sceso di 14,5 miliardi rispetto al mese precedente, attestandosi a 3.056,3 miliardi di euro. Lo comunica la Banca d’Italia, spiegando che la diminuzione è dovuta principalmente all’avanzo di cassa delle amministrazioni pubbliche (14,2 miliardi). Hanno contribuito anche la riduzione delle disponibilità liquide del Tesoro, calate di 0,2 miliardi a 46,8 miliardi, e altri fattori tecnici per 0,1 miliardi, tra cui scarti e premi all’emissione e rimborso dei titoli, la rivalutazione di quelli indicizzati all’inflazione e le variazioni dei tassi di cambio.

Anche l’Italia lavora a un piano per preparare gli ospedali allo stato di guerra

6

Dopo Francia e Germania, anche l’Italia si muove per garantire la sicurezza degli ospedali in caso si verificasse un conflitto militare. Il governo Meloni sta studiando un piano che coinvolge Ministero della Salute, Difesa e Infrastrutture, che ha portato all’istituzione di un tavolo tecnico interministeriale che si è già riunito un paio di volte dall’estate e ha avviato le prime interlocuzioni per definire una strategia sulla resilienza in campo sanitario. Mentre cresce la tensione per il conflitto russo-ucraino e gli scenari geopolitici si fanno sempre più instabili, in Europa diversi Paesi si attrezzano a non voler più lasciare nulla al caso sul fronte della sanità in tempo di guerra: aggiornano i piani di crisi, definiscono protocolli congiunti tra enti civili e Difesa, individuano strutture e reparti alternativi da attivare in caso di emergenza per essere pronti a fronteggiare l’imprevedibile. Francia e Germania hanno già avviato misure concrete. A Parigi, una circolare del ministero della Salute ha chiesto alle agenzie sanitarie regionali di predisporre, in collaborazione con la Difesa, strutture straordinarie capaci di gestire un afflusso massiccio di feriti, civili e militari, in caso di escalation. Berlino, dal canto suo, lavora a un piano nazionale di difesa civile che mira a preparare gli ospedali all’eventualità di un conflitto su larga scala, con programmi di formazione specifici per il personale medico: dal trattamento di ferite da esplosione a traumi complessi e amputazioni, fino alla definizione di criteri rigorosi per garantire la continuità dell’assistenza anche in condizioni estreme.

L’Italia non è rimasta a guardare e con un apposito decreto di aprile scorso (che attua il Dlgs 134/2024 a sua volta in attuazione della direttiva europea 2022/2557) ha istituito un tavolo tecnico al ministero della Salute presso l’ufficio di gabinetto, un organismo con dieci componenti, con l’obiettivo di «definire una strategia sulla resilienza in campo sanitario che stabilisca ruoli e responsabilità dell’insieme degli organi, istituzioni ed enti coinvolti» nella predisposizione di piani e misure per la gestione di emergenze sanitarie su vasta scala. Il piano prevede anche scenari validi non solo di guerra “frontale”, ma anche in presenza di eventi CRBN (Chimici, radiologici, biologici e nucleari) oppure, in ipotesi di attivazione degli articoli 3 e 5 del Trattato Atlantico (cioè, l’impegno collettivo previsto per i Paesi membri della NATO). Fra le linee guida che emergono dalle discussioni c’è l’idea di rafforzare la collaborazione fra sanità civile e medica militare, definire catene di comando chiare in situazioni estreme, attivare esercitazioni congiunte e percorsi formativi che preparino il personale ad affrontare traumi di guerra, grandi evacuazioni, collegamenti con ospedali da campo o strutture esterne. Si discute anche di tre fasi operative: accoglienza dell’arrivo delle truppe (o del coinvolgimento militare), mobilità interna in caso di crisi, partecipazione in missioni all’estero con eventuale rientro per le cure. Rimangono ancora diverse questioni aperte. Non è chiaro quali ospedali saranno designati come poli di riferimento per la gestione del trauma da guerra su vasta scala, né come sarà  definito l’assetto di risorse, personale e reparti specializzati. Alcune strutture (ospedali come il Niguarda di Milano) che già operano in emergenze nazionali sono citate come possibili hub, ma serve trasparenza sugli standard che si chiederanno, su come verranno integrate le risorse militari con quelle civili, e su quanto rapido possa essere il passaggio da uno stato “regolare” a uno di emergenza. Difficoltà maggiori sono previste nella definizione delle responsabilità fra ministeri, regioni, Protezione civile, Difesa e altre agenzie, così come nella reperibilità di fondi straordinari e nell’adeguamento infrastrutturale (adeguamenti strutturali, sistemi antibomba, reparti CRBN, presidi mobili).

In un clima crescente di militarizzazione e di tensione prebellica, l’Italia, costretta a rincorrere gli esempi di Francia e Germania, si muove dentro un paradosso evidente: da anni si tagliano fondi, posti letto e personale alla sanità pubblica, mentre oggi si invoca la necessità di approntare ospedali da guerra, addestrare medici a traumi bellici e predisporre protocolli per scenari da conflitto mondiale. Invece di rafforzare davvero la sanità pubblica e di restituirle risorse, il governo preferisce seguire i diktat europei e atlantici, adattando la popolazione a un orizzonte di paura e rassegnazione. Il nostro Paese si trova ora di fronte a una sfida che è innanzitutto politica: far maturare nella popolazione la persuasione che, pur non essendo in guerra, il rischio esiste e la preparazione preventiva è un esercizio necessario. È l’ennesimo cortocircuito che rivela come il paradigma emergenziale sia ormai la chiave con cui si governa la società: ogni pretesto viene sfruttato per inoculare paura e per spingere i cittadini ad accettare misure eccezionali come se fossero inevitabili. Il rischio è che l’opinione pubblica venga trascinata in un clima di psicosi permanente: prima il Covid, ora la guerra. Lo schema si ripete identico, tra stati d’eccezione e narrazioni apocalittiche, fino a rendere l’emergenza una condizione permanente. Il vero pericolo, però, non è solo la guerra che incombe, ma la guerra psicologica che prepara i cittadini a viverla come destino ineluttabile.

L’assedio finale a Gaza City: tank israeliani la circondano, 300mila palestinesi in fuga

1

L’esercito israeliano sta intensificando il proprio assalto a Gaza City, bombardando a tappeto edifici residenziali, oltre che le tende nei campi di sfollati, costringendo alla fuga centinaia di migliaia di persone. Solamente questa mattina, circa venti persone persone, inclusi diversi bambini, sono state uccise in attacchi contro il campo di al-Mawasi, a ovest di Gaza City, e contro due abitazioni in Al-Jalaa Street, mentre numerosi sono i feriti (incluso un bambino) dei bombardamenti sul quartiere di Remal. Pesanti bombardamenti sono stati registrati anche a Shujayea, a ovest della città. Fonti militari avrebbero riferito ai media che tank israeliani stanno circondando la città, pronti a lanciare l’assalto finale. Nel frattempo, la carestia causata da Israele sta continuando a uccidere, con oltre 420 persone morte di fame ad oggi.

Secondo quanto riferito dall’ufficio stampa del governo di Gaza, l’IDF sta lanciando attacchi senza sosta contro edifici residenziali, prendendo di mira la popolazione civile. Solamente nella giornata di ieri, domenica 14 settembre, almeno 16 edifici sono stati distrutti dai bombardamenti. Secondo Al Jazeera, a Gaza City sono presenti ancora circa 900 mila persone, ma il numero diminuisce rapidamente: diversi media riportanto che oltre 300 mila persone hanno abbandonato la città per via dell’intensificarsi degli attacchi condotti nel finesettimana, dirigendosi verso il Sud della Striscia. Lo stesso ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha definito Gaza City una «torre di carte» e postato alcuni video dell’IDF che distrugge edifici nella città, commentando che «lo skyline di Gaza sta cambiando». Commentando le immagini del crollo di un palazzo, Katz ha riferito: «L’uragano continua a colpire Gaza. La torre del terrore Burj al-Nour crolla e gli abitanti di Gaza sono costretti a evacuare e spostarsi verso sud».

L’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, ha riferito in una lettera che «nessuno» e «nessun luogo» è sicuro a Gaza. Gli attacchi aerei nel nord della Striscia si stanno intensificando, riporta l’agenzia, creando un numero sempre maggiore di sfollati, costretti a muoversi «verso l’ignoto». Solamente negli ultimi giorni, 10 strutture dell’UNRWA sono state colpite dai bombardamenti a Gaza City, tra le quali «sette scuole e due cliniche attualmente utilizzate come rifugi per migliaia di sfollati». Nel frattempo, «siamo stati costretti a interrompere l’assistenza sanitaria nel campo di Beach, l’unica struttura sanitaria disponibile a nord di Wadi Gaza», mentre «i nostri servizi essenziali di approvvigionamento idrico e igienico-sanitari funzionano ora solo a metà della loro capacità».

Nel frattempo, il segretario di Stato Marco Rubio si è recato in visita in Israele, dove ha incontrato il primo ministro Benjamin Netanyahu per discutere dei prossimi passi dopo l’attacco israeliano contro l’ufficio politico di Hamas a Doha di venerdì 12 settembre. Prima di recarsi a Tel Aviv, Rubio ha riferito che l’obiettivo del suo viaggio sarebbe stato «garantire il ritorno degli ostaggi, trovare il modo di garantire che gli aiuti umanitari raggiungano i civili e affrontare la minaccia rappresentata da Hamas», il quale «non può continuare a esistere se l’obiettivo è la pace nella regione». Dal canto suo, Netanyahu ha riferito che le relazioni tra USA e Israele «non sono mai state così solide». Nel frattempo, diversi leader del mondo arabo-islamico, incluso il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, stanno arrivando a Doha per discutere una risposta ufficiale dopo l’attacco israeliano.