Tredici soldati del Military Committee for Refoundation sono stati arrestati in Benin dopo un tentativo di colpo di Stato. Il gruppo aveva rivendicato poche ore prima in televisione di aver destituito il presidente Patrice Talon, al potere dal 2016, e la nomina del tenente colonnello Pascal Tigri a presidente del Comitato militare. Dopo l’annuncio, le forze armate fedeli a Talon hanno ripreso il controllo del Paese. Il tentativo di golpe arriva in un contesto di crescente instabilità nella regione.
Macron minaccia dazi contro la Cina per ridurre il deficit UE
Emmanuel Macron assume una linea dura nei confronti della Cina e mette sul tavolo l’ipotesi di nuovi dazi qualora non vengano adottate iniziative per contenere l’ampio disavanzo commerciale con l’Unione Europea. Il presidente francese, rientrato da una missione ufficiale a Pechino, parlando con Les Echos, ha affermato che, se Pechino non prenderà provvedimenti per ridurre il deficit commerciale con l’Unione europea, l’UE «sarà costretta, nei prossimi mesi, a prendere misure forti», ovvero dazi a livello comunitario.
Come la società difende e celebra le disuguaglianze sociali
Il mondo contemporaneo è segnato da squilibri economici sempre più profondi: la diseguaglianza sociale cresce sotto lo sguardo assuefatto dell’opinione pubblica, mentre una ristretta élite di miliardari concentra una ricchezza pari a quella posseduta dalla metà più povera della popolazione mondiale. Eppure, invece di provocare accese critiche e un rifiuto diffuso, la disparità economica finisce sempre più spesso per essere accettata, talvolta persino giustificata come inevitabile o celebrata come segno di successo. È quanto emerge dal libro The Social Acceptance of Inequality: On the Logics of a More Unequal World (Oxford University Press, 2025), curato dai sociologi Francesco Duina, docente al Bates college, e Luca Storti, professore associato all’università di Torino.
Il libro non indica soluzioni immediate, ma fa emergere i meccanismi psicologici e sociali che rendono i divari sociali accettabili. In alcuni contesti l’accettazione degli squilibri è molto più diffusa, come in Cina, dove oltre il 60% della popolazione giustifica le disuguaglianze di reddito, o in Svezia, dove emerge un ampio consenso verso welfare selettivo e discriminatorio nei confronti dei migranti. Con contributi corali e interviste provenienti da tutto il mondo, The Social Acceptance of Inequality mostra come le disuguaglianze non sono semplici effetti collaterali della modernità, ma trovano giustificazioni in una serie di “logiche di accettazione” profondamente radicate nelle coscienze individuali e collettive. Queste logiche – di natura economica, morale, culturale e di gruppo/etnica – sono spesso intrecciate fra loro, e convogliano in un’unica direzione: normalizzare la distanza tra ricchi e poveri, rendendola parte integrante del sistema. Le disuguaglianze non sopravvivono solo perché utili a chi detiene il potere, ma perché vengono giustificate attraverso narrazioni condivise. Il mercato diventa il primo alibi: concentrare ricchezza viene presentato come un motore di crescita, di innovazione, di benefici indiretti per tutti. La diseguaglianza, in questa prospettiva, non è un problema ma una condizione necessaria, un prezzo inevitabile del progresso. Per i venture capitalist o i fondatori di startup tecnologiche, la concentrazione di ricchezza rappresenta una “virtù”. Spesso, chi detiene i capitali fa leva su narrative filantrocapitalistiche: donazioni, start-up, tecnologie “salva-mondo”, tutte giustificazioni per un sistema che redistribuisce poco o nulla in termini strutturali. Questa combinazione di giustificazioni e auto-narrazioni produce una normalizzazione sociale: le disuguaglianze crescono, si consolidano, e al tempo stesso diventano invisibili perché vengono percepite come inevitabili, persino come “naturali”. Il sistema finisce così per ammettere la povertà come dato ineluttabile, a cui è inutile opporsi.
C’è poi chi sposa una logica più subdola: quella morale. In questa lettura, la ricchezza è vista come un premio meritocratico: chi si impegna, studia, rischia, “merita” di più. L’eredità familiare e il successo individuale non sono privilegi, ma ricompense legittime di un ordine considerato “giusto”. In certi casi, si arriva perfino a guardare con sospetto chi chiede pari opportunità, come se la povertà fosse il risultato di insufficiente impegno, incapacità o pigrizia. La normalizzazione della disuguaglianza passa anche attraverso una logica culturale o istituzionale: le strutture sociali e politiche in molti Paesi sono costruite in modo che le disuguaglianze non appaiano anomalie da correggere, ma pilastri inevitabili di un ordine ritenuto “naturale”. Spesso questa accettazione trova terreno fertile in contesti in cui la mobilità sociale è minima e l’accesso a risorse e opportunità si trasmette attraverso reti socioeconomiche chiuse o ereditarie. Ultima – e forse la più insidiosa – è la logica di gruppo o etnica, secondo cui certe categorie sociali, etniche, nazionali o di classe sarebbero “naturalmente” più meritevoli, degne di maggiori risorse. Non è un pensiero esplicito, ma traspare nelle scelte concrete su welfare, lavoro, opportunità.
Il vero paradosso è che questo consenso non è monopolio di chi detiene il potere e la ricchezza. Anche persone in condizioni precarie finiscono per accettare e addirittura giustificare le disuguaglianze. In questo modo, la disparità diventa strutturale non solo nei fatti, ma nella mentalità collettiva: un fossato che divide ricchi e poveri e al tempo stesso allontana chi vorrebbe cambiare il mondo dall’idea stessa di giustizia sociale.
Naufragio a Creta, almeno 17 migranti morti
Almeno 17 migranti sono morti nel naufragio di un’imbarcazione avvenuto al largo dell’isola di Creta, ha comunicato la Guardia costiera greca. Tutte le vittime erano uomini, recuperati a sud dell’isola dopo che un cargo turco di passaggio aveva lanciato l’allarme. Due superstiti sono stati tratti in salvo e ricoverati in ospedale in condizioni critiche. Secondo i media locali, l’imbarcazione, un gommone sovraccarico, era “parzialmente sgonfia” e stava imbarcando acqua, circostanza che avrebbe reso drammatico il naufragio. Le autorità stanno indagando sulle cause del naufragio.
Chi decide sull’oro italiano? Dietro lo scontro tra governo Meloni e BCE
La Banca Centrale Europea chiude la porta a un emendamento presentato da Fratelli d’Italia alla legge di bilancio, primo firmatario il senatore Lucio Malan, e richiama Roma al rispetto delle regole dell’Eurozona. Con un parere formale, la BCE mette in guardia l’Italia contro qualsiasi tentativo volto a contestare l’indipendenza della banca centrale ed evidenzia conflitti con il Trattato UE e l’autonomia della Banca d’Italia. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) sta ora lavorando a una riformulazione del testo per recepire le obiezioni della BCE, anche se diversi esperti suggeriscono di ritirarlo del tutto per evitare nuovi attriti istituzionali. Al centro dello scontro c’è un tema che ciclicamente riemerge nel dibattito politico: la proprietà e il controllo delle riserve auree della Banca d’Italia. Una questione che va ben oltre il valore simbolico dell’oro e tocca un nervo scoperto del rapporto tra sovranità nazionale e architettura europea. L’iniziativa di FdI ha riacceso tensioni mai del tutto sopite tra politica e istituzioni monetarie, riportando alla luce una storica battaglia sovranista e sollevando il timore, per la BCE, di un precedente pericoloso. In gioco non c’è solo la gestione di uno dei maggiori patrimoni aurei mondiali, quello italiano, ma anche l’assetto istituzionale che regola i rapporti tra Stati membri, banche centrali nazionali e Unione Europea.
L’emendamento di Fratelli d’Italia

La versione originaria della proposta, firmata dal senatore e capogruppo di FdI Lucio Malan, enunciava una cosa apparentemente semplice: «Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano». Nei giorni scorsi, l’emendamento è stato riformulato in chiave interpretativa. Secondo il nuovo testo, la disposizione sulla gestione delle riserve ufficiali contenuta nel Testo Unico delle norme in materia valutaria «si interpreta nel senso che le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo italiano». Il senatore Malan ha precisato che la versione aggiornata dell’emendamento è attualmente oggetto di istruttoria da parte della Banca centrale europea.
La cessione di sovranità monetaria all’UE
L’oro è già patrimonio dello Stato italiano, ma quando l’Italia è entrata nell’euro ha ceduto la sua sovranità monetaria all’Unione Europea. In pratica, lo Stato non può esercitare alcuna prerogativa diretta, perché ha accettato che la Banca d’Italia facesse parte di un sistema più grande: quello delle banche centrali europee, coordinate dalla BCE. Ed è proprio questo il nodo dello scontro. L’emendamento avanzato da FdI è, pertanto, in contrasto con i trattati europei e con lo statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali, il cosiddetto SEBC. L’articolo 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea obbliga gli stati membri a consultare la BCE in caso di interventi in materie che la riguardano, tra cui appunto l’oro.
La battaglia sovranista sulle riserve auree

L’emendamento di Fratelli d’Italia non è una novità. È una battaglia storica della destra, che risale ai tempi in cui lo stesso partito di Giorgia Meloni aveva posizioni apertamente antieuro e chiedeva l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. In tutta Europa, i partiti euroscettici contestano i vincoli che legano le banche centrali nazionali alla BCE. Non sorprende, quindi, che l’idea di riportare l’oro sotto il controllo diretto dei governi sia stata a lungo un tema centrale per le forze favorevoli, in passato, all’uscita dall’euro e dall’Unione Europea, come Lega e Fratelli d’Italia. Tra i promotori più attivi figuravano i leghisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai e la stessa Giorgia Meloni, che negli anni dell’opposizione ha più volte invocato un utilizzo diretto delle riserve auree per sostenere misure di spesa pubblica.
Come disporre delle riserve auree?
L’oro non può essere utilizzato per finanziare deficit o nuove spese pubbliche. Le norme europee lo vietano esplicitamente. L’unico modo per “sfruttarlo” sarebbe venderlo o darlo in garanzia. Se il governo potesse effettivamente disporre delle riserve auree, potrebbe teoricamente usarle come un tesoretto politico per ridurre le tasse, finanziare opere pubbliche o sostenere misure contro la povertà. L’emendamento presentato da Malan non arriva a ipotizzare un impiego diretto dell’oro, ma il modo in cui è formulato lascia intendere una posizione implicita della maggioranza: l’idea che il patrimonio aureo possa essere messo al servizio della politica fiscale. Dall’altra, si aprirebbe uno scontro istituzionale perché significherebbe rinnegare l’indipendenza delle banche centrali. Per la BCE, anche piccole modifiche possono trasformarsi in crepe pericolose e l’indipendenza di Bankitalia rimane una linea rossa.
Una riserva tra le più grandi al mondo

L’Italia custodisce 2.452 tonnellate di oro fisico, la terza riserva aurea al mondo, superata solo da Stati Uniti (8.133 tonnellate) e Germania (3.352 tonnellate). Una dimensione che colloca Bankitalia tra gli attori strategici globali. Il valore dell’oro è iscritto a bilancio a circa 200 miliardi di euro, secondo criteri prudenziali, ma il valore di mercato – con l’oro che negli ultimi mesi ha ritoccato nuovi massimi – ha superato i 280 miliardi. Venderne una parte oggi comporterebbe un incasso potenzialmente elevato, ma allo stesso tempo indebolirebbe la riserva strategica del Paese. Inoltre, grandi vendite produrrebbero automaticamente un ribasso dei prezzi, riducendo il guadagno atteso.
La distribuzione della riserva aurea italiana
Se la riserva aurea italiana nasce in gran parte nel secondo dopoguerra, solo una parte è custodita in Italia (il 44,86%, 1.100 tonnellate), tra Palazzo Koch e le sedi dell’Eurosistema. Una quota significativa, stimata attorno al 43,29% (circa 1.061,5 tonnellate), è depositata presso la Federal Reserve Bank di New York, uno dei caveau più sicuri e storicamente più utilizzati al mondo. Il trasferimento di una parte delle riserve auree negli USA risale agli accordi di Bretton Woods del 1944: allora, molti Paesi depositarono parte del loro oro negli Stati Uniti –considerati il centro della finanza globale e il Paese più sicuro per stoccare metallo fisico – e l’Italia, uscita dal conflitto in condizioni fragili, adottò la stessa strategia. Il resto si trova presso la Banca d’Inghilterra (5,76% per 141,2 tonnellate) e la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) a Basilea (6,09% 149,3 tonnellate). Questa distribuzione non risponde a logiche politiche, ma operative: l’oro all’estero è più facilmente mobilizzabile per eventuali operazioni di mercato, swap o garanzie internazionali.
Il parere della BCE: un altolà formale

La BCE, attraverso un parere firmato da Christine Lagarde, ha bocciato l’emendamento avanzato da FdI, ricordando che l’oro detenuto da Bankitalia fa parte delle riserve ufficiali dell’Eurosistema. Ciò implica che nessuno Stato membro può disporne unilateralmente. Interpellata dall’eurodeputato Tridico, Lagarde ha chiarito che, secondo i trattati europei, la detenzione e la gestione delle riserve spettano esclusivamente alla banca centrale nazionale di ciascuno Stato membro. «La Banca d’Italia non è diversa da qualsiasi altra banca centrale», ha rimarcato la presidente della BCE, ribadendo come la gestione operativa, contabile e distributiva dell’oro resti di sua piena competenza, senza alcuna variazione rispetto al parere già espresso nel 2019.
Il rischio di un precedente per l’Eurozona

Lagarde ha di fatto ricordato che l’assetto giuridico europeo assegna alle banche centrali nazionali la piena gestione delle loro riserve. La BCE vuole preservare tale equilibrio istituzionale su cui si fonda l’Eurosistema ed evitare che si crei un precedente: un trasferimento di proprietà o una riformulazione ambigua della norma sulla gestione delle riserve auree potrebbe aprire la strada a un uso politico dell’oro, creando un precedente in tutta l’Eurozona. Se un Paese modifica unilateralmente il quadro relativo alle proprie riserve, altri potrebbero sentirsi legittimati a fare lo stesso, con impatti potenzialmente pericolosi per la stabilità dell’Eurozona.
Un equilibrio delicato
Lo scontro tra governo e BCE non è un caso isolato, ma il segnale di un contesto in cui la politica cerca nuovi spazi di manovra dentro un sistema europeo sempre più strutturato. La vicenda dimostra quanto sia sottile il confine tra sovranità nazionale e regole dell’Eurozona e come, paradossalmente, l’oro continui a essere un nodo sensibile anche nell’epoca della finanza digitale. Attribuire formalmente alla Repubblica la proprietà di un bene che il governo non può toccare e che rimane nella disponibilità operativa di una banca centrale indipendente, produce effetti concreti minimi, a meno che non rappresenti il primo passo verso un ripensamento radicale dell’unione monetaria: un’ipotesi estrema sul piano politico, ma che, dal punto di vista tecnico, passerebbe proprio attraverso il controllo delle riserve auree.
Ucraina, blackout a Kremenchuk dopo attacco russo
Nella notte, un massiccio attacco russo ha colpito l’Ucraina coinvolgendo oltre 650 droni e 51 missili balistici. L’attacco è stato descritto da Mosca come “risposta” ai recenti bombardamenti ucraini. Tra le città più colpite c’è Kremenchuk, dove decine di migliaia di abitanti si trovano ora senza elettricità, acqua e riscaldamento. Non ci sono per ora notizie di vittime né è chiara l’entità dei danni denunciati dal sindaco della città, Vitaliy Maletsky.
L’Aquila, a processo la resistenza palestinese: in tre rischiano 28 anni
Dodici anni di reclusione per Anan Yaeesh, nove per Alì Irar e sette per Mansour Dogmosh. Queste le richieste del pubblico ministero Roberta D’Avolio per i tre palestinesi a processo a L’Aquila, accusati di associazione a delinquere con finalità di terrorismo per fatti accaduti in Cisgiordania occupata. Alla sbarra, di fatto, non ci sono solo tre uomini, ma la stessa resistenza palestinese, che lo Stato italiano vorrebbe seppellire con quasi trent’anni di carcere cumulativi. I tre palestinesi sono accusati di aver promosso dall’Italia il Gruppo di Risposta Rapida, una delle brigate armate che cercano di resistere all’occupazione israeliana nella città di Tulkarem, territorio martoriato dall’esercito di Tel Aviv e i cui campi profughi sono chiamati “le piccole Gaza” per l’enorme livello di devastazione subita. Ma della realtà che soffrono i palestinesi ogni giorno non si parla in Tribunale. «Hanno escluso tutti gli elementi di contesto», dichiara l’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini a L’Indipendente. «L’occupazione della Cisgiordania, i circa 800mila coloni che occupano illegalmente il territorio, le violazioni israeliane provate dalla Corte Internazionale di Giustizia». Su questo, c’è il silenzio. «Eppure il diritto e le convenzioni internazionali assicurano il diritto all’autodifesa, anche armata, di un popolo contro un esercito occupante».
«Stiamo parlando di un processo in cui tutti i ragazzi di Tulkarem in contatto con Anan sono stati sistematicamente assassinati da Israele. Spesso nel corso di esecuzioni extragiudiziali, non in conflitti a fuoco», continua Rossi Albertini. «L’assurdità delle richieste è facilmente comprensibile se paragonate al processo in cui è stato condannato Anan in Cisgiordania dalla Corte Marziale israeliana occupante per i fatti commessi nella Seconda Intifada», ha spiegato l’avvocato. «In quel caso Anan è stato condannato a tre anni e 10 mesi di reclusione e cinque anni di libertà vigilata. Ora, per fatti certamente meno gravi, il PM dell’Aquila ha chiesto una condanna a 12 anni di reclusione. Tra l’altro eludendo tutto il contesto nel quale sarebbero maturati i fatti».
«La PM ha richiesto pene sproporzionate, individuandole in prossimità dei massimi edittali quando, quantomeno per Ali e Mansuor, non si sa neppure quale sia realmente il ruolo che avrebbero rivestito nella brigata e quindi la loro condotta partecipativa». Infatti, contro questi ultimi, le uniche attività provate sono il legame di amicizia con Anan e l’interesse per la tragedia del popolo palestinese. La visione di video, messaggi, foto, commenti tra ragazzi palestinesi vengono criminalizzati; attività e interessi comuni a tutti i giovani della diaspora palestinese, e non solo a loro, che dall’estero guardavano esterrefatti al genocidio compiuto a Gaza, vengono ricondotte a reato. Nessuna azione concreta risulta compiuta. «I fatti sulla quale si richiede la condanna di questi due imputati sono gli stessi che avevano portato la Cassazione a rilasciarli a settembre dell’anno scorso». Il processo è politico e ogni sua fase ha esplicitato e messo in evidenza la stretta alleanza e condivisione di obiettivi tra lo Stato d’Israele e quello italiano.
«L’Autorità italiana si è sostituita a Israele», continua Rossi Albertini. «Pur di mantenerlo in carcere, quando è stata negata l’estradizione, ha imbastito un processo posticcio, con la pretesa di conoscere e giudicare dall’Aquila fatti avvenuti in Cisgiordania». La concatenazione degli eventi, dice, «fa oggettivamente pensare che ci sia stato un interesse del nostro Paese ad assecondare le necessità israeliane. A tre mesi dall’inizio del genocidio – gennaio 2024 – sembra che Israele abbia voluto fermare sul nascere l’apertura di un secondo “fronte” di lotta per l’autodeterminazione in Cisgiordania». Anan era nel mirino di Israele: il 29 gennaio 2024 è stato infatti arrestato dietro richiesta di estradizione di Tel Aviv. L’estradizione viene però negata e da qui sorge l’esigenza di intervenire in supplenza di Israele. Assieme a Anan, questa volta, vengono arrestati anche Ali e Mansour per “associazione con finalità di terrorismo”. Gli ultimi due vengono liberati dal Tribunale della Libertà a settembre 2024, Anan è tutt’ora detenuto. Casi simili si sono verificati anche in Francia e nel resto d’Europa.
«Il fatto che pensassero di usare 25 interrogatori compiuti ai danni di cittadini palestinesi dallo Shin Bet e dalla polizia israeliana in Italia, dice tutto». Rossi Albertini ricorda la violazione sistematica di tutti i diritti di difesa da parte di Israele verso i detenuti palestinesi, gli interrogatori senza difensore, i rapporti delle associazioni dei diritti umani sulle pratiche di tortura all’interno delle prigioni e delle sale di interrogatorio di Tel Aviv, confermate anche da un recente rapporto ONU. «Anche l’intervento in videoconferenza di un ufficiale israeliano per il Sud Europa a Parigi, che aveva dietro di sé una enorme bandiera israeliana, mentre in aula sono vietati tutti i simboli a sostegno della lotta palestinese, mostra la direzione processuale». L’Italia si dimostra così, ancora una volta, complice di Israele, non solo sostenendo lo stato sionista nelle sue attività belliche e coloniali, ma anche reprimendo i suoi oppositori all’estero.
Il processo è alle battute conclusive. La prossima udienza si terrà il 19 dicembre alla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila, dove la parola passerà alla difesa e ci sarà la sentenza. I movimenti legati alla Campagna Free Anan e Reti per la Palestina di Basilicata hanno annunciato una mobilitazione in contemporanea a Melfi, dove Yaeesh è attualmente detenuto.
India, incendio in un night club a Goa, almeno 25 morti
Almeno 25 persone sono morte nell’incendio scoppiato ieri sera al Birch, un famoso night club della città indiana di Goa. Il locale ospitava circa cento persone al momento dell’incendio, generato, secondo prime ricostruzione, da un’esplosione di una bombola di gas. Tra le vittime si contano quattro turisti e 14 membri dello staff; molte persone sono decedute per soffocamento dopo essere rimaste intrappolate nel seminterrato, dove la ventilazione risultava insufficiente. Sei feriti sono al momento ricoverati in condizioni stabili. Le autorità locali hanno annunciato un’inchiesta per fare luce sulle cause e sulle eventuali violazioni delle normative di sicurezza.
Sudan, raid su asilo: 50 morti, 33 bambini
La Rete Medici del Sudan ha riferito di un attacco avvenuto giovedì nella zona di Kologi, nello Stato del Kordofan meridionale, che ha colpito un asilo uccidendo oltre 50 persone, delle quali almeno 33 erano bambini, 4 donne e numerosi altri paramedici, accorsi sul luogo e colpiti da un secondo attacco a sorpresa. Secondo quanto riferito dai medici, l’attacco è stato condotto dalle Forze di Supporto Rapido, che «terrorizzano deliberatamente» la popolazione. Nello stesso giorno dell’attacco, l’ONU ha messo in guardia dal peggioramento della situazione umanitaria nel Kordofan, nel quale si teme «una nuova ondata di atrocità».
Sussidi agricoli UE alla mafia, la Cassazione chiude il maxiprocesso: 50 condanne definitive
Si è definitivamente concluso il Maxiprocesso sulla “mafia dei pascoli”, frutto della più imponente operazione antimafia nell’ambito dei sussidi agricoli elargiti dall’Unione Europea e dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) e sfruttati illegalmente da uomini legati alla criminalità organizzata. La Cassazione ha infatti comminato un totale di 50 condanne – la più alta a oltre 20 anni di carcere – ai danni di soggetti legati al clan mafioso dei Batanesi e dei Faranda-Crascì, in prima linea nella perpetrazione delle truffe. Molti imputati sono invece riusciti a cavarsela grazie all’intervento della prescrizione. In definitiva, però, l’impianto accusatorio della Procura ha pienamente retto.
Il maxi-blitz da cui tutto è nato, denominato “Nebrodi”, ha avuto luogo nel 2020. Il processo di primo grado davanti al Tribunale di Patti sfociato dall’operazione si era concluso il 30 settembre 2022, con la disposizione di 90 condanne, per un totale di oltre 640 anni di carcere, 10 assoluzioni e una prescrizione. Erano state confiscate numerose imprese e ingenti somme di denaro. L’anno scorso, la sentenza è stata in parte modificata al ribasso, con i giudici che hanno comminato in tutto 65 condanne. In ultimo è arrivata la pronuncia della Cassazione, che ha messo il timbro sull’impianto accusatorio dei pm. Le pene più alte sono arrivate per i capi mafiosi riconosciuti dei Batanesi – diretta propaggine delle famiglie tortoriciane – ovvero Sebastiano Bontempo (20 anni e 6 mesi) e Vincenzo “Lupin” Galati Giordano (19 anni e 6 mesi). A scendere, hanno subito pene ingenti – tutte al di sopra dei 10 anni – anche i «partecipi» dei gruppi mafiosi Domenico Coci, Salvatore Bontempo, Sebastiano Conti Mica, Giuseppe Costanzo “u carretteri” Zammataro e Gino Calcò Labruzzo. Per quanto concerne i capi d’imputazione caduti in prescrizione, la Suprema Corte ha disposto rinvii alla Corte d’appello per ricalcolare le pene dove occorre eliminare i reati dichiarati estinti.
La “mafia dei pascoli” è un fenomeno criminale molto diffuso e articolato che riguarda l’infiltrazione della criminalità organizzata nelle attività legate alla gestione e allo sfruttamento dei terreni agricoli. In particolare, la mafia sfrutta i fondi europei destinati all’agricoltura tramite frodi nei sussidi per i pascoli e le attività agricole. I clan, attraverso minacce e intimidazioni e grazie all’impiego di prestanome o all’intestazione di pezzi di terra a persone insospettabili, ottengono illegalmente la gestione di terreni, pubblici e privati, per accedere ai finanziamenti europei della Politica Agricola Comune (PAC) senza svolgere alcuna reale attività agricola.
Nel 2024 è peraltro emerso come a richiedere e ottenere senza incorrere in nessun ostacolo i sussidi agricoli dallo Stato italiano e dall’Unione Europea siano state, negli ultimi anni della sua latitanza, anche le sorelle di Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano che, da stretto alleato dei corleonesi di Totò Riina, ha avuto un ruolo di primo piano nella stagione stragista di Cosa Nostra. Si parla di somme, accreditate dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea), che ammontano complessivamente a circa 17mila euro. I fondi sono entrati in maniera continuativa per 8 anni, dal 2015 al 2023, nelle casse della famiglia. Il boss Matteo è stato arrestato il 15 gennaio 2023 dopo trent’anni di latitanza ed è deceduto nel carcere dell’Aquila il 25 settembre dello stesso anno a causa di un tumore.







