mercoledì 3 Dicembre 2025
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Senegal, proteste degli studenti: scontri con la polizia

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Gli studenti senegalesi sono scesi in piazza nella capitale Dakar per chiedere maggiori aiuti finanziari e sussidi universitari. Per far fronte alle proteste, i vertici dell’Università Cheikh Anta Diop hanno chiesto l’intervento delle forze dell’ordine, e sono scoppiati degli scontri tra manifestanti e polizia. Gli studenti hanno lanciato pietre verso gli agenti, che hanno a loro volto scagliato gas lacrimogeni contro la folla. I disordini in Senegal arrivano in una situazione finanziariamente precaria per il Paese, che secondo dati del Fondo Monetario Internazionale avrebbe un debito pari al 132% del proprio PIL.

Dieci banche europee lanciano Qivalis, la prima stablecoin in euro

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Un consorzio di dieci banche europee ha annunciato la nascita della prima stablecoin in euro che si chiamerà Qivalis (acronimo di “la chiave per il valore”) e sarà lanciata a metà 2026. Tra le banche che hanno dato il via all’iniziativa ci sono anche le italiane Unicredit e Banca Sella. Gli altri istituti sono l’olandese Ing, la belga Kbc, la danese Danske Bank, la tedesca DeKa Bank, la svedese Seb, la spagnola Caixa e l’austriaca Raffeisen Bank International. Oltre a questo nucleo originario si è già aggiunta la francese Bnp Paribas ed i promotori dell’iniziativa hanno aperto l’ingresso a ulteriori banche. La creazione della prima stablecoin in euro si inserisce in un contesto internazionale in cui i cosiddetti token digitali stanno acquisendo sempre più centralità promettendo di trasformare il sistema monetario e di pagamenti mondiale. Il mondo finanziario statunitense, così come quello cinese, già da tempo possiede le sue stablecoin, tra cui la più famosa è Tether, e Trump ha lanciato una sfida in quest’ambito attraverso l’emanazione del cosiddetto Genius Act, il cui obiettivo è mantenere il dominio USA nei sistemi di pagamento. Ancora una volta, dunque, l’Europa si ritrova a inseguire gli Stati Uniti in quella che si prospetta essere una svolta cruciale nel sistema finanziario internazionale. Non a caso i promotori della prima stablecoin ancorata all’euro hanno sottolineato che «L’iniziativa fornirà una vera alternativa europea al mercato delle stablecoin dominato dagli Stati Uniti, contribuendo all’autonomia strategica dell’Europa nei pagamenti».

Dal punto di vista legale-organizzativo, le dieci banche hanno costituito una nuova società con sede nei Paesi Bassi al fine di ottenere la licenza di moneta elettronica, sotto la supervisione della banca centrale olandese. Per quanto riguarda la governance, l’amministratore delegato sarà il manager tedesco Jean-Oliver Sell che di recente ha ricoperto il ruolo di consigliere delegato in Coinbase Germany. Mentre il direttore finanziario sarà Floris Lugt, che guidava il settore dei servizi bancari di risorse digitali del gruppo olandese Ing. A capo del consiglio di vigilanza, invece, è stato chiamato sir Howard Davies, già presidente della britannica Financial Services Authority. I vertici di Qivalis hanno spiegato che l’obiettivo di questo strumento di pagamento digitale, che sfrutta la tecnologia blockchain, è «diventare uno standard europeo di pagamento affidabile nell’ecosistema digitale». Per definizione, infatti, la stablecoin è una valuta pensata per mantenere stabile il suo valore nel tempo, grazie al possesso di riserve equivalenti in asset sicuri come dollari, euro, titoli di stato a breve termine o oro (ad esempio 1 stablecoin = 1 USD). Questa è la differenza principale con altre criptovalute come Bitcoin, con cui le stablecoin condividono solo l’uso della tecnologia blockchain. I loro prezzi sono dunque più stabili rispetto a altri tipi di criptovalute e ciò le rende più adatte a essere usate come strumento di pagamento.

Il problema dell’iniziativa si pone nel suo rapporto con l’euro digitale, evidenziando anche alcune differenze significative con l’impostazione statunitense di regolamentazione delle stablecoin: mentre, infatti, il Genius Act, firmato dal presidente Donald Trump nel 2025 per normare l’emissione e l’utilizzo delle stablecoin, punta all’autonomia del mercato favorendo le stablecoin emesse da privati ancorate al dollaro, l’Ue privilegia un controllo centralizzato per mitigare i rischi sistemici. Con l’adozione del Regolamento MiCA, Bruxelles ha adottato un quadro normativo molto stringente e armonizzato per le criptovalute e, in particolare per le stablecoin, mentre parallelamente la BCE ha sviluppato l’euro digitale, una valuta digitale di banca centrale (CBDC) pensata per mantenere la sovranità monetaria dell’euro e che potrebbe competere direttamente con le stablecoin private, ridefinendo l’impalcatura monetaria dell’eurozona. Al contrario, negli Stati Uniti, Donald Trump ha emanato un ordine esecutivo con cui, all’articolo 5, si vieta l’emissione di una valuta digitale della banca centrale. L’idea è di istituire un sistema di valute e pagamenti non in mano a istituzioni pubbliche, con l’obiettivo di erodere l’illimitato potere monetario della Federal Reserve, avversario numero uno di una parte consistente del partito repubblicano statunitense.

Nell’UE, invece, proprio la volontà di limitare – attraverso la CBDC e una stringente regolamentazione –  le stablecoin ha portato a un contrasto con l’euro digitale, per cui i promotori di Qivalis hanno dovuto spiegare che «la stablecoin non sarà concorrente dell’euro digitale promosso dalla Bce poiché quest’ultimo è un’alternativa al contante e dunque è destinato soprattutto al retail». Hanno quindi sottolineato che questo strumento «Permetterà l’accesso 24 ore su 24, 7 giorni su 7, a pagamenti internazionali efficienti, a pagamenti programmabili e a miglioramenti nella gestione della supply chain […]».

L’istituzione della prima stablecoin ancorata all’euro, come anticipato, va nella direzione di colmare il divario in questo ambito con Stati Uniti, Cina e altri Paesi all’avanguardia. Tuttavia, proprio la pretesa di Bruxelles di una regolamentazione eccessiva alle stablecoin potrebbe essere un ostacolo all’obiettivo di fare di Qivalis una vera alternativa europea non solo al mercato delle stablecoin dominato dagli Stati Uniti, ma anche dalla Cina. Questo potrebbe lasciare l’Ue indietro in quella che si configura come una progressiva trasformazione dei sistemi finanziari e di pagamento in grado di ridefinire la sovranità e il potere monetario delle nazioni, anche in una prospettiva dei rapporti di forza geopolitici.

Sud-est asiatico: oltre 1.300 morti e un milione di sfollati per le alluvioni

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Da giorni i Paesi del sudest asiatico sono colpiti da una ondata di tempeste tropicali e piogge torrenziali che stanno devastando le aree interessate, causando alluvioni e smottamenti. I Paesi più colpiti sono Indonesia e Sri Lanka, dove la conta dei morti complessivi ha superato le 1.200 persone, e quella dei dispersi si aggira ormai attorno a 800 persone. Solo in questi due Paesi, poco meno di un milione di cittadini risultano sfollati, ma le persone coinvolte dai disastri sono quasi 5 milioni. Nei giorni le piogge sono arrivate anche in Thailandia e in misura minore in Malesia, i cui dati sommati a quelli dei Paesi più colpiti, portano il numero dei morti ufficiali almeno a 1.390 persone.

Il Paese più colpito in assoluto dalle alluvioni è l’Indonesia. Le piogge si sono concentrate prevalentemente nelle province di Sumatra, Aceh e Nilas, ma sono arrivate in totale in 50 distretti diversi. Secondo il centro per le emergenze indonesiano, in totale, sono morte almeno 770 persone, 463 risultano disperse, e 2.600 ferite; in tutto il Paese sono state evacuati 746.000 cittadini, ma sono 3,2 milioni i residenti nelle aree colpite dal disastro. Oltre 10.000 abitazioni risultano danneggiate, 3.300 delle quali gravemente; danni anche a quasi 300 ponti, 132 luoghi di culto, 9 strutture sanitarie e 215 scuole e strutture educative. Il presidente Prabowo Subianto ha ordinato lo stato di emergenza e ha promosso un piano per orientare tutti gli sforzi all’aiuto delle persone colpite dalle alluvioni, mobilitando esercito e polizia. Le autorità si sono mosse per installare cucine temporanee e per consegnare cibo, coperte, tende e medicine alla popolazione sfollata. A causa della distruzione delle infrastrutture di connessione come i ponti, gli aiuti stanno venendo consegnati via aria e via mare e l’esercito sta costruendo ponti temporanei per ristabilire le vie di comunicazione terrestri.

Anche in Sri Lanka la situazione risulta critica. A venire colpiti sono 20 dei 25 distretti del Paese. Qui si contano 479 morti, 350 dispersi, e almeno 209.000 sfollati; in tutto sono state colpite almeno un milione e mezzo di persone. In totale sono state distrutte 1.289 case e altre 44.556 abitazioni risultano almeno danneggiate. I media descrivono lo scenario come il peggiore disastro naturale dallo tsunami del 2004, quando un terremoto ha interessato tutto il sudest asiatico uccidendo oltre 200.000 persone di cui almeno 40.000 nel solo Sri Lanka. Anche qui, il presidente Anura Kumara Dissanayake ha diramato lo stato di emergenza e il governo ha semplificato le procedure burocratiche per facilitare l’importazione di beni: sono infatti diversi i Paesi che stanno inviando cibo, medicine e attrezzature allo Sri Lanka; tra questi si contano Emirati Arabi Uniti, Bangladesh e India.

La situazione in Tailandia e Malesia sembra maggiormente sotto controllo, ma resta critica. Le autorità tailandesi hanno lanciato un piano per assistere la popolazione strutturato in tre fasi: la prima si concentra sull’assistenza immediata, come l’allestimento di rifugi temporanei e la consegna di aiuti umanitari; la seconda introdurrà programmi di sostegno economico per le imprese e le famiglie colpite, e la terza punterà al ripristino e alla ricostruzione dei servizi attraverso prestiti. Il governo ha inoltre aperto una campagna di finanziamento privato per supportare le persone interessate dalle piogge e semplificato le procedure per la consegna di aiuti. Nel Paese sono state coinvolte almeno 1,4 milioni di persone in 16 distretti, e si contano 138 morti, 43.000 evacuati e 582.000 case danneggiate. In Malesia, invece, i danni sono ancora marginali, e si concentrano nell’area settentrionale del Paese. Sono stati registrati danni ad alcune infrastrutture, e sono morte almeno 2 persone.

Gli USA fermano le domande di immigrazione per i cittadini di 19 Paesi

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Il governo degli Stati Uniti ha bloccato le domande di immigrazione per i cittadini di 19 Paesi. La decisione arriva dopo il caso di una sparatoria che ha coinvolto due membri della Guardia Nazionale, uno dei quali morto dopo le ferite riportate, in cui il principale sospettato risulta un cittadino afghano. In precedenza, Trump aveva chiesto la revisione dei visti per i cittadini provenienti da Paesi «del terzo mondo». A essere colpiti dalla misura sono i cittadini di Afghanistan, Birmania, Burundi, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Cuba, Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Laos, Libia, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Togo, Turkmenistan, Venezuela, Yemen.

Dio e dollari: il Vangelo del potere americano visto dal Texas

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C’è un vecchio adagio nella politica americana che recita: «In Texas, il football è religione e la politica è uno sport di contatto». Ma oggi, nello Stato della Stella Solitaria, i confini tra pulpito, urna elettorale e consiglio di amministrazione si stanno confondendo in un intreccio inestricabile. In Texas si sta infatti consumando un paradosso politico che sfida le categorie tradizionali e si compone di tre elementi: un democratico che predica come un pastore, una miliardaria trumpiana che finanzia la sua ascesa e il tentativo di scardinare il monopolio del partito repubblicano sulla fede....

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Sardegna, l’Antiterrorismo indaga decine di attivisti per le proteste antimilitariste

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La Sardegna torna al centro di un vasto procedimento giudiziario che investe attivisti, collettivi e movimenti impegnati in campagne antimilitariste, anti-carcerarie e di solidarietà internazionale. Sono infatti 36 le persone raggiunte dalla chiusura delle indagini da parte della Direzione Distrettuale Antiterrorismo di Cagliari, con accuse che vanno dall’imbrattamento di edifici pubblici alla resistenza durante manifestazioni, fino a dieci contestazioni per associazione con finalità di terrorismo. Una risposta giudiziaria che collettivi e associazioni del territorio giudicano sproporzionata rispetto ai fatti contestati, sullo sfondo di un clima contraddistinto da una crescente repressione delle mobilitazioni sociali. L’operazione, ribattezzata informalmente “Maistrali”, riprende un copione già visto in Sardegna: maxi-inchieste dagli esiti spesso incerti, come l’Operazione Arcadia o l’Operazione Lince, ancora non del tutto concluse a distanza di molti anni. Secondo quanto riportato nei lanci di agenzia, gli indagati sono accusati di aver organizzato «cortei e manifestazioni alcune senza preavviso alle forze dell’ordine, in occasione delle campagne antimilitariste e anti-carcerarie dal 2020 al maggio dello scorso anno». Secondo gli investigatori, il presunto gruppo avrebbe agito «in tutta la Sardegna» con base nel capoluogo. Altri capi d’imputazione parlano di bombe carta, contestazioni a banchetti politici e danneggiamenti. Le associazioni, per l’ennesima volta dopo le ingenti proteste che hanno caratterizzato l’isola, denunciano un uso strumentale del diritto penale. La risposta della società civile non si è fatta attendere. Il Comitato sardo di solidarietà alla Palestina e l’associazione Amicizia Sardegna Palestina hanno espresso il loro appoggio agli indagati, denunciando una precisa strategia repressiva. In un comunicato congiunto hanno affermato: «La Questura di Cagliari continua ad usare l’accusa di “terrorismo” – mossa in questo caso contro 10 delle 36 persone indagati – per criminalizzare e reprimere le lotte contro la presenza militare in Sardegna, come già in passato con la tristemente nota operazione “Lince”». E aggiungono: «Accuse di terrorismo verso chi protesta mentre i governi imperialisti, Italia in testa, commettono genocidi e crimini di guerra in tutto il mondo. Mentre la NATO e l’Europa marciano a tappe serrate verso la guerra, i “terroristi” sarebbero coloro che si oppongono a questa vergogna». Preoccupazioni condivise dall’associazione Libertade, che ha evidenziato come il crescente dissenso contro «l’economia di guerra», il sostegno governativo al «Genocidio Palestinese» e la «speculazione energetica» stia mobilitando migliaia di persone. Le accuse agli attivisti, osservano, vanno dalla sovversione allo Stato a reati «sempre più utilizzati per reprimere chi manifesta», mentre non mancano episodi recenti di cariche immotivate da parte delle forze dell’ordine. La Cassa Antirepressione Sarda, in una nota, ha dichiarato che le procure si starebbero affannando per «zittire le contestazioni ed il dissenso», al fine di «difendere questa società che vive dello sfruttamento degli ultimi da qualsiasi vento di ribellione, per far sì che corsa al riarmo e guerre genocide possano compiersi senza troppi intralci». Uno scenario che non si limita al solo territorio sardo. A Torino, per esempio, numerosi militanti del centro sociale Askatasuna e del Movimento No TAV si erano visti contestare il reato di associazione a delinquere con finalità eversive, successivamente derubricata in associazione a delinquere – ipotesi poi sgretolatasi nel corso del processo, che ha prodotto solo condanne per reati minori. Il contesto in cui matura l’inchiesta sarda è caratterizzato da una crescita delle mobilitazioni sociali nell’isola, terra ormai da tempo militarizzata e al centro delle esercitazioni atlantiche. Negli ultimi anni, infatti, il network di associazioni impegnate sul territorio ha visto un rafforzamento esponenziale, con numeri in piazza che non si registravano da anni, su temi che vanno dalla solidarietà alla resistenza palestinese, alla lotta antimilitarista, alla contestazione della speculazione energetica. Nel tempo si sono moltiplicati gli episodi di scontro tra forze dell’ordine e attivisti, alimentando un clima che continua a mantenere alta la tensione.

Francia: i sindacati denunciano Israele per i crimini di guerra contro i giornalisti di Gaza

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I sindacati francesi Syndicat national des journalistes (SNJ) e International Federation of Journalists (IFJ) hanno depositato una denuncia presso la Procura nazionale antiterrorismo di Parigi (PNAT), accusando le autorità israeliane di aver imposto un vero e proprio “silenzio mediatico” nella Striscia di Gaza. La denuncia, contro ignoti, descrive come sistematico e prolungato il divieto di accesso a Gaza per giornalisti stranieri a partire dal 7 ottobre 2023, combinato con molestie, intimidazioni, perquisizioni, arresti arbitrari e violenze dirette nei confronti di reporter palestinesi e operatori stranieri. Secondo i sindacati, queste condotte configurano possibili crimini di guerra.

Il segretario generale dell’IFJ, Anthony Bellanger, ha spiegato che la denuncia rappresenta l’ultimo tentativo di fare pressione su Israele affinché apra Gaza alla stampa internazionale. Già a luglio, l’Agence France-Presse (AFP) aveva sollecitato Israele a consentire ai giornalisti di entrare e uscire dal territorio devastato dalla guerra. Secondo le organizzazioni sindacali, l’iniziativa rappresenta «un passo necessario per difendere il diritto all’informazione, la libertà di stampa e il rispetto del diritto internazionale». In una dichiarazione congiunta, si parla espressamente di un «blackout mediatico senza precedenti», unito alla «spietata repressione di giornalisti e professionisti dei media palestinesi». Nel testo depositato davanti alla giustizia francese, SNJ e IFJ documentano una molteplicità di casi concreti e di situazioni drammatiche: giornalisti che non possono entrare in certe aree, attrezzature sequestrate, minacce e aggressioni fisiche, ma anche vere e proprie cacce all’uomo. In un caso, un cronista ha raccontato di essere stato inseguito per tutta la notte da un gruppo armato di «pistole, taniche di benzina e bastoni», mentre stava svolgendo un servizio in Cisgiordania alla presenza dell’esercito israeliano. Le limitazioni, secondo la denuncia, non sarebbero incidenti isolati, ma farebbero parte di una strategia sistematica dallo scopo evidente: imporre una narrazione unica, impedire una copertura mediatica libera e “cancellare” ogni voce indipendente. La capacità dei giornalisti di operare, secondo i sindacati francesi, si sta riducendo anche in Israele e in Cisgiordania. «È un blocco organizzato, sistematico e prolungato», ha dichiarato uno degli avvocati della denuncia, aggiungendo che impedire lo svolgimento del lavoro giornalistico in un contesto di guerra significa negare alla società il diritto fondamentale di conoscere la verità, sancito da trattati internazionali e dal diritto penale francese.

Per la prima volta in Europa, si tenta di portare davanti a un tribunale nazionale il caso di restrizioni sistematiche della libertà di stampa in tempo di guerra. L’obiettivo della denuncia è che la Procura nazionale antiterrorismo di Parigi eserciti la propria giurisdizione, poiché molti dei giornalisti coinvolti sono cittadini francesi. L’iniziativa rientra in un contesto in cui la libertà di informazione è sempre più sotto attacco. Secondo Reporters Senza Frontiere, organismo di controllo della stampa, dall’ottobre 2023 sono stati uccisi a Gaza più di 220 giornalisti, di cui almeno 62 a causa del loro lavoro (22 di questi giornalisti uccisi nel 2025). In una recente mozione del Congresso EFJ di Budapest del 2 e 3 giugno 2025, la European Federation of Journalists (EFJ) aveva deplorato l’uccisione dei giornalisti e operatori media nelle operazioni militari condotte nella Striscia di Gaza. In passato, la morte di reporter a Gaza e nelle aree in guerra era stata denunciata da sindacati e associazioni internazionali come un massacro di giornalisti, ma ora i sindacati puntano a inquadrare le violazioni come crimini di guerra, ossia reati perseguibili secondo il diritto internazionale. Per SNJ e IFJ l’attuale denuncia rappresenta una tappa obbligata per difendere il diritto a documentare i conflitti e tutelare chi, ogni giorno, rischia la vita per raccontare ciò che accade lontano dallo sguardo dell’opinione pubblica. Significa chiedere che le responsabilità vengano chiarite e che il giornalismo torni a essere un presidio, non un bersaglio. In un momento in cui le violenze contro i media, soprattutto nelle zone di guerra, continuano a intensificarsi, l’iniziativa assume anche il valore di un avvertimento: il rispetto del diritto internazionale non può essere aggirato e nessuna arma o restrizione può giustificare il tentativo di soffocare la libertà di stampa.

Cuba, crollo della rete elettrica: L’Avana al buio

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La rete elettrica cubana ha avuto un guasto, lasciando la capitale L’Avana al buio. Il guasto ha interessato gran parte dell’area occidentale dell’isola; secondo i media locali, quattro delle province più occidentali del Paese sarebbero rimaste senza corrente. Ancora ignote le cause del cortocircuito. Non è la prima volta che Cuba registra guasti nella rete elettrica. Quest’anno, le importazioni di greggio dai Paesi alleati sono diminuite di oltre un terzo rispetto al 2024, e le sanzioni degli USA, riattivate da Trump, hanno reso difficile al Paese importare carburante per alimentare la propria rete. L’arrivo dell’uragano Melissa dello scorso ottobre ha alimentato il problema, causando danni alle infrastrutture elettriche.

Il Piano sulle IA dell’Australia mette al centro il lavoro e i cittadini

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Come molte altre nazioni, anche l’Australia ha presentato il proprio piano politico sull’intelligenza artificiale. A differenza della direzione intrapresa dai poteri omologhi, però, Canberra non sembra intenzionata a partecipare alla corsa allo sviluppo tecnologico a ogni costo, preferendo piuttosto puntare su di un impiego sicuro degli strumenti digitali e sulla distribuzione equa dei benefici che questi promettono. Una prospettiva tutt’altro che radicale, ma che contrasta con le direzioni statunitensi ed europee, le quali coincidono sempre più con gli interessi delle grandi imprese.

Il progetto, pubblicato martedì 2 dicembre, mira a colmare i vuoti normativi australiani puntando su tre direttrici principali: attrarre investimenti per data center avanzati, promuovere e sviluppare le competenze necessarie a tutelare i posti di lavoro e garantire la sicurezza di una cittadinanza che, volente o nolente, sarà sempre più esposta ai sistemi di intelligenza artificiale. Non si tratta dunque di un piano ideologico incentrato sulle relazioni umane, bensì di una strategia che privilegia la dimensione economica. Tuttavia, questa impostazione viene esplicitamente presentata come un percorso volto a ridistribuire i benefici dell’innovazione, ridurre il divario digitale e migliorare l’efficienza dei servizi pubblici.

La retorica secondo cui l’adozione dell’IA genererebbe automaticamente nuovi posti di lavoro è un mantra ripetuto sia dai tecnoentusiasti che dalla classe politica. Nella pratica, però, la necessità di formare una nuova forza lavoro viene spesso considerata una conseguenza naturale dell’evoluzione del Mercato – al massimo sostenuta da qualche modesto incentivo – e non come il risultato di un piano politico strutturato. L’Australia, invece, promette interventi di upskilling sostanziali e un impiego della GenAI mirato ai servizi al pubblico e alla riduzione del carico di lavoro degli insegnanti. Parallelamente, algoritmi avanzati, integrati con dati satellitari del programma di Osservazione Terrestre, saranno utilizzati per progettare interventi nei settori agricolo e minerario.

Sul piano normativo, Canberra non intende varare nuove leggi, ma estendere quelle già in vigore affinché includano le casistiche legate all’intelligenza artificiale. La responsabilità di valutare i rischi delle tecnologie emergenti e di definire le policy più adeguate sarà delegata alle singole agenzie e ai rispettivi regolatori. Un compito complesso, che potrà tuttavia avvalersi della consulenza dell’AI Safety Institute (AISI), istituto in fase di costituzione annunciato lo scorso 25 novembre. L’AI Plan prevede inoltre una revisione approfondita delle normative sul diritto d’autore, software medici, ricerca scientifica e tutela dei consumatori: ambiti cruciali su cui il governo australiano è già al lavoro.

Ovviamente, la validità delle leggi potrà essere valutata solo nella loro fase applicativa. Anche i propositi migliori rischiano di indebolirsi sotto il peso di interpretazioni flessibili che finiscono per privilegiare gli interessi dei distributori e dei partner commerciali rispetto a quelli del mondo accademico e delle associazioni civili. L’Australia, tuttavia, ha già dimostrato in passato di saper fronteggiare le Big Tech per difendere le proprie linee politiche. Nonostante ciò, permane il dubbio che l’adozione di principi responsabili sull’intelligenza artificiale non basti a colmare una criticità più profonda, radicata a monte della dimensione applicativa: il controllo delle infrastrutture di IA da parte delle grandi aziende statunitensi.

Il fatto che la sicurezza, il lavoro e il benessere sociale non siano stati citati come sottoprodotti, ma come valori essenziali allo sviluppo tecnologico nazionale rende sicuramente onore ai politici australiani, ma resta da capire se il Governo avrà poi la forza di applicare concretamente le sue idee. Come spesso capita nella sfera del digitale, l’Australia finirà con il diventare un caso studio guardato con attenzione da tutti gli esperti del settore.

Cannabis light: sul divieto del decreto Sicurezza deciderà la Corte Costituzionale

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Sarà la Corte Costituzionale a decidere se il divieto del fiore di canapa industriale, previsto dal decreto Sicurezza, sia conforme alla Costituzione oppure no. Il giudice per le indagini preliminari i Brindisi, in un processo iniziato lo scorso giugno, ha infatti deciso di sollevare la questione della legittimità costituzionale nei confronti dell’articolo 18 del testo di legge, e in particolare dell’emendamento sulla canapa, che prevede il divieto di «importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione, consegna vendita al pubblico e consumo» delle infiorescenze di canapa industriale.

Nell’ultimo periodo la repressione del governo nei confronti delle infiorescenze di canapa industriale ha fatto un salto di qualità: dopo mesi e mesi di sequestri e processi, che nella stragrande maggioranza dei casi si risolvono in favore di agricoltori e commercianti di settore, negli ultimi mesi abbiamo visto diversi coltivatori che sono stati addirittura arrestati, per poi essere prontamente scarcerati. L’ultimo caso ha riguardato un imprenditore di Imperia, arrestato a inizio novembre con l’accusa di detenzione si fini di spaccio per 350 kg di canapa sequestrata, che poi si è rivelata legale e con THC sotto i limiti di legge, ed è stato rimesso in libertà. Nelle motivazioni delle scarcerazioni diversi giudici hanno messo nero su bianco che, senza le analisi scientifiche che attestino un reato, non è possibile procedere.

Il processo celebrato a Brindisi riguardava invece l’importazione, da parte di un’azienda italiana, di piante di canapa provenienti dalla Bulgaria, bloccate dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. «Grazie a questo procedimento», sottolinea l’avvocato Lorenzo Simonetti, che con la sua memoria ha convinto il gip a sollevare la questione di legittimità, «potremo essere in grado di bloccare le iniziative arbitrarie riguardo alla canapa industriale, perché, finché la Consulta non si esprimerà, c’è il dubbio di costituzionalità». Può essere una questione dirimente per molti motivi, anche perché il provvedimento è direttamente collegato al nuovo Codice della strada, in questi giorni al vaglio proprio della Corte costituzionale, che prevede che basti la positività agli stupefacenti per vedersi sospesa la patente. Nel preambolo dell’emendamento canapa al decreto Sicurezza si legge infatti che il consumo delle infiorescenze di canapa industriale, determina la guida sotto effetto di stupefacenti.

Insomma, per la canapa italiana sta per arrivare il momento della verità. Il Parlamento europeo ha approvato il nuovo regolamento che riconosce la pianta di canapa come legale in ogni sua parte – fiori compresi – con THC fino allo 0,5%: ora si apre la fase della negoziazione con la Commissione europea e gli Stati membri e, se tutto andasse liscio, potrebbe essere approvato già nel 2026, facendo decadere la repressione italiana. L’altro fronte aperto è quello derivato dalla volontà del governo di inserire la canapa tra le piante officinali, limitando però l’uso a fibra e semi, con un decreto nel 2022. Dopo il ricorso delle associazioni di settore il decreto viene annullato, ma il governo Meloni ha impugnato la sentenza, e si è arrivati alla decisione del massimo organo amministrativo italiano, che ha demandato la decisione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Mentre i divieti governativi cominciano a scricchiolare, il governo però è già corso ai ripari. È infatti spuntato un emendamento alla legge di Bilancio, che va approvata entro la fine dell’anno, firmato da un senatore di Fratelli d’Italia, che introduce il monopolio di Stato per le infiorescenze di canapa, con un’accisa al 40% e il divieto di vendita online. Si tratta di una legge simile a un’altra proposta dalla maggioranza nel 2023, mai discussa, che – nel caso in cui i divieti del governo cadessero – sarebbe già pronta a iper-tassare lo stesso mercato che fino a ieri l’esecutivo voleva vietare a ogni costo