lunedì 15 Dicembre 2025
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Macron minaccia dazi contro la Cina per ridurre il deficit UE

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Emmanuel Macron assume una linea dura nei confronti della Cina e mette sul tavolo l’ipotesi di nuovi dazi qualora non vengano adottate iniziative per contenere l’ampio disavanzo commerciale con l’Unione Europea. Il presidente francese, rientrato da una missione ufficiale a Pechino, parlando con Les Echos, ha affermato che, se Pechino non prenderà provvedimenti per ridurre il deficit commerciale con l’Unione europea, l’UE «sarà costretta, nei prossimi mesi, a prendere misure forti», ovvero dazi a livello comunitario.

Come la società difende e celebra le disuguaglianze sociali

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Il mondo contemporaneo è segnato da squilibri economici sempre più profondi: la diseguaglianza sociale cresce sotto lo sguardo assuefatto dell’opinione pubblica, mentre una ristretta élite di miliardari concentra una ricchezza pari a quella posseduta dalla metà più povera della popolazione mondiale. Eppure, invece di provocare accese critiche e un rifiuto diffuso, la disparità economica finisce sempre più spesso per essere accettata, talvolta persino giustificata come inevitabile o celebrata come segno di successo. È quanto emerge dal libro The Social Acceptance of Inequality: On the Logics of a More Unequal World (Oxford University Press, 2025), curato dai sociologi Francesco Duina, docente al Bates college, e Luca Storti, professore associato all’università di Torino.

Il libro non indica soluzioni immediate, ma fa emergere i meccanismi psicologici e sociali che rendono i divari sociali accettabili. In alcuni contesti l’accettazione degli squilibri è molto più diffusa, come in Cina, dove oltre il 60% della popolazione giustifica le disuguaglianze di reddito, o in Svezia, dove emerge un ampio consenso verso welfare selettivo e discriminatorio nei confronti dei migranti. Con contributi corali e interviste provenienti da tutto il mondo, The Social Acceptance of Inequality mostra come le disuguaglianze non sono semplici effetti collaterali della modernità, ma trovano giustificazioni in una serie di “logiche di accettazione” profondamente radicate nelle coscienze individuali e collettive. Queste logiche – di natura economica, morale, culturale e di gruppo/etnica – sono spesso intrecciate fra loro, e convogliano in un’unica direzione: normalizzare la distanza tra ricchi e poveri, rendendola parte integrante del sistema. Le disuguaglianze non sopravvivono solo perché utili a chi detiene il potere, ma perché vengono giustificate attraverso narrazioni condivise. Il mercato diventa il primo alibi: concentrare ricchezza viene presentato come un motore di crescita, di innovazione, di benefici indiretti per tutti. La diseguaglianza, in questa prospettiva, non è un problema ma una condizione necessaria, un prezzo inevitabile del progresso. Per i venture capitalist o i fondatori di startup tecnologiche, la concentrazione di ricchezza rappresenta una “virtù”. Spesso, chi detiene i capitali fa leva su narrative filantrocapitalistiche: donazioni, start-up, tecnologie “salva-mondo”, tutte giustificazioni per un sistema che redistribuisce poco o nulla in termini strutturali. Questa combinazione di giustificazioni e auto-narrazioni produce una normalizzazione sociale: le disuguaglianze crescono, si consolidano, e al tempo stesso diventano invisibili perché vengono percepite come inevitabili, persino come “naturali”. Il sistema finisce così per ammettere la povertà come dato ineluttabile, a cui è inutile opporsi.

C’è poi chi sposa una logica più subdola: quella morale. In questa lettura, la ricchezza è vista come un premio meritocratico: chi si impegna, studia, rischia, “merita” di più. L’eredità familiare e il successo individuale non sono privilegi, ma ricompense legittime di un ordine considerato “giusto”. In certi casi, si arriva perfino a guardare con sospetto chi chiede pari opportunità, come se la povertà fosse il risultato di insufficiente impegno, incapacità o pigrizia. La normalizzazione della disuguaglianza passa anche attraverso una logica culturale o istituzionale: le strutture sociali e politiche in molti Paesi sono costruite in modo che le disuguaglianze non appaiano anomalie da correggere, ma pilastri inevitabili di un ordine ritenuto “naturale”. Spesso questa accettazione trova terreno fertile in contesti in cui la mobilità sociale è minima e l’accesso a risorse e opportunità si trasmette attraverso reti socioeconomiche chiuse o ereditarie. Ultima – e forse la più insidiosa – è la logica di gruppo o etnica, secondo cui certe categorie sociali, etniche, nazionali o di classe sarebbero “naturalmente” più meritevoli, degne di maggiori risorse. Non è un pensiero esplicito, ma traspare nelle scelte concrete su welfare, lavoro, opportunità.

Il vero paradosso è che questo consenso non è monopolio di chi detiene il potere e la ricchezza. Anche persone in condizioni precarie finiscono per accettare e addirittura giustificare le disuguaglianze. In questo modo, la disparità diventa strutturale non solo nei fatti, ma nella mentalità collettiva: un fossato che divide ricchi e poveri e al tempo stesso allontana chi vorrebbe cambiare il mondo dall’idea stessa di giustizia sociale.

Naufragio a Creta, almeno 17 migranti morti

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Almeno 17 migranti sono morti nel naufragio di un’imbarcazione avvenuto al largo dell’isola di Creta, ha comunicato la Guardia costiera greca. Tutte le vittime erano uomini, recuperati a sud dell’isola dopo che un cargo turco di passaggio aveva lanciato l’allarme. Due superstiti sono stati tratti in salvo e ricoverati in ospedale in condizioni critiche. Secondo i media locali, l’imbarcazione, un gommone sovraccarico, era “parzialmente sgonfia” e stava imbarcando acqua, circostanza che avrebbe reso drammatico il naufragio. Le autorità stanno indagando sulle cause del naufragio.

Chi decide sull’oro italiano? Dietro lo scontro tra governo Meloni e BCE

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La Banca Centrale Europea chiude la porta a un emendamento presentato da Fratelli d’Italia alla legge di bilancio, primo firmatario il senatore Lucio Malan, e richiama Roma al rispetto delle regole dell’Eurozona. Con un parere formale, la BCE mette in guardia l’Italia contro qualsiasi tentativo volto a contestare l’indipendenza della banca centrale ed evidenzia conflitti con il Trattato UE e l’autonomia della Banca d’Italia. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) sta ora lavorando a una riformulazione del testo per recepire le obiezioni della BCE, anche se diversi esperti suggeriscono di ritirarlo del tutto per evitare nuovi attriti istituzionali. Al centro dello scontro c’è un tema che ciclicamente riemerge nel dibattito politico: la proprietà e il controllo delle riserve auree della Banca d’Italia. Una questione che va ben oltre il valore simbolico dell’oro e tocca un nervo scoperto del rapporto tra sovranità nazionale e architettura europea. L’iniziativa di FdI ha riacceso tensioni mai del tutto sopite tra politica e istituzioni monetarie, riportando alla luce una storica battaglia sovranista e sollevando il timore, per la BCE, di un precedente pericoloso. In gioco non c’è solo la gestione di uno dei maggiori patrimoni aurei mondiali, quello italiano, ma anche l’assetto istituzionale che regola i rapporti tra Stati membri, banche centrali nazionali e Unione Europea.

L’emendamento di Fratelli d’Italia

Il capogruppo di Fratelli d’Italia Lucio Malan

La versione originaria della proposta, firmata dal senatore e capogruppo di FdI Lucio Malan, enunciava una cosa apparentemente semplice: «Le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono allo Stato, in nome del popolo italiano». Nei giorni scorsi, l’emendamento è stato riformulato in chiave interpretativa. Secondo il nuovo testo, la disposizione sulla gestione delle riserve ufficiali contenuta nel Testo Unico delle norme in materia valutaria «si interpreta nel senso che le riserve auree gestite e detenute dalla Banca d’Italia appartengono al popolo italiano». Il senatore Malan ha precisato che la versione aggiornata dell’emendamento è attualmente oggetto di istruttoria da parte della Banca centrale europea.

La cessione di sovranità monetaria all’UE

L’oro è già patrimonio dello Stato italiano, ma quando l’Italia è entrata nell’euro ha ceduto la sua sovranità monetaria all’Unione Europea. In pratica, lo Stato non può esercitare alcuna prerogativa diretta, perché ha accettato che la Banca d’Italia facesse parte di un sistema più grande: quello delle banche centrali europee, coordinate dalla BCE. Ed è proprio questo il nodo dello scontro. L’emendamento avanzato da FdI è, pertanto, in contrasto con i trattati europei e con lo statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali, il cosiddetto SEBC. L’articolo 127 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea obbliga gli stati membri a consultare la BCE in caso di interventi in materie che la riguardano, tra cui appunto l’oro.

La battaglia sovranista sulle riserve auree

L’emendamento di Fratelli d’Italia non è una novità. È una battaglia storica della destra, che risale ai tempi in cui lo stesso partito di Giorgia Meloni aveva posizioni apertamente antieuro e chiedeva l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea. In tutta Europa, i partiti euroscettici contestano i vincoli che legano le banche centrali nazionali alla BCE. Non sorprende, quindi, che l’idea di riportare l’oro sotto il controllo diretto dei governi sia stata a lungo un tema centrale per le forze favorevoli, in passato, all’uscita dall’euro e dall’Unione Europea, come Lega e Fratelli d’Italia. Tra i promotori più attivi figuravano i leghisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai e la stessa Giorgia Meloni, che negli anni dell’opposizione ha più volte invocato un utilizzo diretto delle riserve auree per sostenere misure di spesa pubblica.

Come disporre delle riserve auree?

L’oro non può essere utilizzato per finanziare deficit o nuove spese pubbliche. Le norme europee lo vietano esplicitamente. L’unico modo per “sfruttarlo” sarebbe venderlo o darlo in garanzia. Se il governo potesse effettivamente disporre delle riserve auree, potrebbe teoricamente usarle come un tesoretto politico per ridurre le tasse, finanziare opere pubbliche o sostenere misure contro la povertà. L’emendamento presentato da Malan non arriva a ipotizzare un impiego diretto dell’oro, ma il modo in cui è formulato lascia intendere una posizione implicita della maggioranza: l’idea che il patrimonio aureo possa essere messo al servizio della politica fiscale. Dall’altra, si aprirebbe uno scontro istituzionale perché significherebbe rinnegare l’indipendenza delle banche centrali. Per la BCE, anche piccole modifiche possono trasformarsi in crepe pericolose e l’indipendenza di Bankitalia rimane una linea rossa.

Una riserva tra le più grandi al mondo

L’Italia custodisce 2.452 tonnellate di oro fisico, la terza riserva aurea al mondo, superata solo da Stati Uniti (8.133 tonnellate) e Germania (3.352 tonnellate). Una dimensione che colloca Bankitalia tra gli attori strategici globali. Il valore dell’oro è iscritto a bilancio a circa 200 miliardi di euro, secondo criteri prudenziali, ma il valore di mercato – con l’oro che negli ultimi mesi ha ritoccato nuovi massimi – ha superato i 280 miliardi. Venderne una parte oggi comporterebbe un incasso potenzialmente elevato, ma allo stesso tempo indebolirebbe la riserva strategica del Paese. Inoltre, grandi vendite produrrebbero automaticamente un ribasso dei prezzi, riducendo il guadagno atteso.

La distribuzione della riserva aurea italiana

Se la riserva aurea italiana nasce in gran parte nel secondo dopoguerra, solo una parte è custodita in Italia (il 44,86%, 1.100 tonnellate), tra Palazzo Koch e le sedi dell’Eurosistema. Una quota significativa, stimata attorno al 43,29% (circa 1.061,5 tonnellate), è depositata presso la Federal Reserve Bank di New York, uno dei caveau più sicuri e storicamente più utilizzati al mondo. Il trasferimento di una parte delle riserve auree negli USA risale agli accordi di Bretton Woods del 1944: allora, molti Paesi depositarono parte del loro oro negli Stati Uniti –considerati il centro della finanza globale e il Paese più sicuro per stoccare metallo fisico – e l’Italia, uscita dal conflitto in condizioni fragili, adottò la stessa strategia. Il resto si trova presso la Banca d’Inghilterra (5,76% per 141,2 tonnellate) e la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) a Basilea (6,09% 149,3 tonnellate). Questa distribuzione non risponde a logiche politiche, ma operative: l’oro all’estero è più facilmente mobilizzabile per eventuali operazioni di mercato, swap o garanzie internazionali.

Il parere della BCE: un altolà formale

La presidente della Banca centrale europea (BCE), Christine Lagarde

La BCE, attraverso un parere firmato da Christine Lagarde, ha bocciato l’emendamento avanzato da FdI, ricordando che l’oro detenuto da Bankitalia fa parte delle riserve ufficiali dell’Eurosistema. Ciò implica che nessuno Stato membro può disporne unilateralmente. Interpellata dall’eurodeputato Tridico, Lagarde ha chiarito che, secondo i trattati europei, la detenzione e la gestione delle riserve spettano esclusivamente alla banca centrale nazionale di ciascuno Stato membro. «La Banca d’Italia non è diversa da qualsiasi altra banca centrale», ha rimarcato la presidente della BCE, ribadendo come la gestione operativa, contabile e distributiva dell’oro resti di sua piena competenza, senza alcuna variazione rispetto al parere già espresso nel 2019.

Il rischio di un precedente per l’Eurozona

Lagarde ha di fatto ricordato che l’assetto giuridico europeo assegna alle banche centrali nazionali la piena gestione delle loro riserve. La BCE vuole preservare tale equilibrio istituzionale su cui si fonda l’Eurosistema ed evitare che si crei un precedente: un trasferimento di proprietà o una riformulazione ambigua della norma sulla gestione delle riserve auree potrebbe aprire la strada a un uso politico dell’oro, creando un precedente in tutta l’Eurozona. Se un Paese modifica unilateralmente il quadro relativo alle proprie riserve, altri potrebbero sentirsi legittimati a fare lo stesso, con impatti potenzialmente pericolosi per la stabilità dell’Eurozona.

Un equilibrio delicato

Lo scontro tra governo e BCE non è un caso isolato, ma il segnale di un contesto in cui la politica cerca nuovi spazi di manovra dentro un sistema europeo sempre più strutturato. La vicenda dimostra quanto sia sottile il confine tra sovranità nazionale e regole dell’Eurozona e come, paradossalmente, l’oro continui a essere un nodo sensibile anche nell’epoca della finanza digitale. Attribuire formalmente alla Repubblica la proprietà di un bene che il governo non può toccare e che rimane nella disponibilità operativa di una banca centrale indipendente, produce effetti concreti minimi, a meno che non rappresenti il primo passo verso un ripensamento radicale dell’unione monetaria: un’ipotesi estrema sul piano politico, ma che, dal punto di vista tecnico, passerebbe proprio attraverso il controllo delle riserve auree.

Ucraina, blackout a Kremenchuk dopo attacco russo

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Nella notte, un massiccio attacco russo ha colpito l’Ucraina coinvolgendo oltre 650 droni e 51 missili balistici. L’attacco è stato descritto da Mosca come “risposta” ai recenti bombardamenti ucraini. Tra le città più colpite c’è Kremenchuk, dove decine di migliaia di abitanti si trovano ora senza elettricità, acqua e riscaldamento. Non ci sono per ora notizie di vittime né è chiara l’entità dei danni denunciati dal sindaco della città, Vitaliy Maletsky.

L’Aquila, a processo la resistenza palestinese: in tre rischiano 28 anni

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Dodici anni di reclusione per Anan Yaeesh, nove per Alì Irar e sette per Mansour Dogmosh. Queste le richieste del pubblico ministero Roberta D’Avolio per i tre palestinesi a processo a L’Aquila, accusati di associazione a delinquere con finalità di terrorismo per fatti accaduti in Cisgiordania occupata. Alla sbarra, di fatto, non ci sono solo tre uomini, ma la stessa resistenza palestinese, che lo Stato italiano vorrebbe seppellire con quasi trent’anni di carcere cumulativi. I tre palestinesi sono accusati di aver promosso dall’Italia il Gruppo di Risposta Rapida, una delle brigate armate che cercano di resistere all’occupazione israeliana nella città di Tulkarem, territorio martoriato dall’esercito di Tel Aviv e i cui campi profughi sono chiamati “le piccole Gaza” per l’enorme livello di devastazione subita. Ma della realtà che soffrono i palestinesi ogni giorno non si parla in Tribunale. «Hanno escluso tutti gli elementi di contesto», dichiara l’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini a L’Indipendente. «L’occupazione della Cisgiordania, i circa 800mila coloni che occupano illegalmente il territorio, le violazioni israeliane provate dalla Corte Internazionale di Giustizia». Su questo, c’è il silenzio. «Eppure il diritto e le convenzioni internazionali assicurano il diritto all’autodifesa, anche armata, di un popolo contro un esercito occupante».

«Stiamo parlando di un processo in cui tutti i ragazzi di Tulkarem in contatto con Anan sono stati sistematicamente assassinati da Israele. Spesso nel corso di esecuzioni extragiudiziali, non in conflitti a fuoco», continua Rossi Albertini. «L’assurdità delle richieste è facilmente comprensibile se paragonate al processo in cui è stato condannato Anan in Cisgiordania dalla Corte Marziale israeliana occupante per i fatti commessi nella Seconda Intifada», ha spiegato l’avvocato. «In quel caso Anan è stato condannato a tre anni e 10 mesi di reclusione e cinque anni di libertà vigilata. Ora, per fatti certamente meno gravi, il PM dell’Aquila ha chiesto una condanna a 12 anni di reclusione. Tra l’altro eludendo tutto il contesto nel quale sarebbero maturati i fatti».

«La PM ha richiesto pene sproporzionate, individuandole in prossimità dei massimi edittali quando, quantomeno per Ali e Mansuor, non si sa neppure quale sia realmente il ruolo che avrebbero rivestito nella brigata e quindi la loro condotta partecipativa». Infatti, contro questi ultimi, le uniche attività provate sono il legame di amicizia con Anan e l’interesse per la tragedia del popolo palestinese. La visione di video, messaggi, foto, commenti tra ragazzi palestinesi vengono criminalizzati; attività e interessi comuni a tutti i giovani della diaspora palestinese, e non solo a loro, che dall’estero guardavano esterrefatti al genocidio compiuto a Gaza, vengono ricondotte a reato. Nessuna azione concreta risulta compiuta. «I fatti sulla quale si richiede la condanna di questi due imputati sono gli stessi che avevano portato la Cassazione a rilasciarli a settembre dell’anno scorso». Il processo è politico e ogni sua fase ha esplicitato e messo in evidenza la stretta alleanza e condivisione di obiettivi tra lo Stato d’Israele e quello italiano.

«L’Autorità italiana si è sostituita a Israele», continua Rossi Albertini. «Pur di mantenerlo in carcere, quando è stata negata l’estradizione, ha imbastito un processo posticcio, con la pretesa di conoscere e giudicare dall’Aquila fatti avvenuti in Cisgiordania». La concatenazione degli eventi, dice, «fa oggettivamente pensare che ci sia stato un interesse del nostro Paese ad assecondare le necessità israeliane. A tre mesi dall’inizio del genocidio – gennaio 2024 – sembra che Israele abbia voluto fermare sul nascere l’apertura di un secondo “fronte” di lotta per l’autodeterminazione in Cisgiordania». Anan era nel mirino di Israele: il 29 gennaio 2024 è stato infatti arrestato dietro richiesta di estradizione di Tel Aviv. L’estradizione viene però negata e da qui sorge l’esigenza di intervenire in supplenza di Israele. Assieme a Anan, questa volta, vengono arrestati anche Ali e Mansour per “associazione con finalità di terrorismo”. Gli ultimi due vengono liberati dal Tribunale della Libertà a settembre 2024, Anan è tutt’ora detenuto. Casi simili si sono verificati anche in Francia e nel resto d’Europa.

«Il fatto che pensassero di usare 25 interrogatori compiuti ai danni di cittadini palestinesi dallo Shin Bet e dalla polizia israeliana in Italia, dice tutto». Rossi Albertini ricorda la violazione sistematica di tutti i diritti di difesa da parte di Israele verso i detenuti palestinesi, gli interrogatori senza difensore, i rapporti delle associazioni dei diritti umani sulle pratiche di tortura all’interno delle prigioni e delle sale di interrogatorio di Tel Aviv, confermate anche da un recente rapporto ONU. «Anche l’intervento in videoconferenza di un ufficiale israeliano per il Sud Europa a Parigi, che aveva dietro di sé una enorme bandiera israeliana, mentre in aula sono vietati tutti i simboli a sostegno della lotta palestinese, mostra la direzione processuale». L’Italia si dimostra così, ancora una volta, complice di Israele, non solo sostenendo lo stato sionista nelle sue attività belliche e coloniali, ma anche reprimendo i suoi oppositori all’estero.

Il processo è alle battute conclusive. La prossima udienza si terrà il 19 dicembre alla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila, dove la parola passerà alla difesa e ci sarà la sentenza. I movimenti legati alla Campagna Free Anan e Reti per la Palestina di Basilicata hanno annunciato una mobilitazione in contemporanea a Melfi, dove Yaeesh è attualmente detenuto.

India, incendio in un night club a Goa, almeno 25 morti

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Almeno 25 persone sono morte nell’incendio scoppiato ieri sera al Birch, un famoso night club della città indiana di Goa. Il locale ospitava circa cento persone al momento dell’incendio, generato, secondo prime ricostruzione, da un’esplosione di una bombola di gas. Tra le vittime si contano quattro turisti e 14 membri dello staff; molte persone sono decedute per soffocamento dopo essere rimaste intrappolate nel seminterrato, dove la ventilazione risultava insufficiente. Sei feriti sono al momento ricoverati in condizioni stabili. Le autorità locali hanno annunciato un’inchiesta per fare luce sulle cause e sulle eventuali violazioni delle normative di sicurezza.

Sudan, raid su asilo: 50 morti, 33 bambini

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La Rete Medici del Sudan ha riferito di un attacco avvenuto giovedì nella zona di Kologi, nello Stato del Kordofan meridionale, che ha colpito un asilo uccidendo oltre 50 persone, delle quali almeno 33 erano bambini, 4 donne e numerosi altri paramedici, accorsi sul luogo e colpiti da un secondo attacco a sorpresa. Secondo quanto riferito dai medici, l’attacco è stato condotto dalle Forze di Supporto Rapido, che «terrorizzano deliberatamente» la popolazione. Nello stesso giorno dell’attacco, l’ONU ha messo in guardia dal peggioramento della situazione umanitaria nel Kordofan, nel quale si teme «una nuova ondata di atrocità».

Sussidi agricoli UE alla mafia, la Cassazione chiude il maxiprocesso: 50 condanne definitive

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Si è definitivamente concluso il Maxiprocesso sulla “mafia dei pascoli”, frutto della più imponente operazione antimafia nell’ambito dei sussidi agricoli elargiti dall’Unione Europea e dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) e sfruttati illegalmente da uomini legati alla criminalità organizzata. La Cassazione ha infatti comminato un totale di 50 condanne – la più alta a oltre 20 anni di carcere – ai danni di soggetti legati al clan mafioso dei Batanesi e dei Faranda-Crascì, in prima linea nella perpetrazione delle truffe. Molti imputati sono invece riusciti a cavarsela grazie all’intervento della prescrizione. In definitiva, però, l’impianto accusatorio della Procura ha pienamente retto.

Il maxi-blitz da cui tutto è nato, denominato “Nebrodi”, ha avuto luogo nel 2020. Il processo di primo grado davanti al Tribunale di Patti sfociato dall’operazione si era concluso il 30 settembre 2022, con la disposizione di 90 condanne, per un totale di oltre 640 anni di carcere, 10 assoluzioni e una prescrizione. Erano state confiscate numerose imprese e ingenti somme di denaro. L’anno scorso, la sentenza è stata in parte modificata al ribasso, con i giudici che hanno comminato in tutto 65 condanne. In ultimo è arrivata la pronuncia della Cassazione, che ha messo il timbro sull’impianto accusatorio dei pm. Le pene più alte sono arrivate per i capi mafiosi riconosciuti dei Batanesi – diretta propaggine delle famiglie tortoriciane – ovvero Sebastiano Bontempo (20 anni e 6 mesi) e Vincenzo “Lupin” Galati Giordano (19 anni e 6 mesi). A scendere, hanno subito pene ingenti – tutte al di sopra dei 10 anni – anche i «partecipi» dei gruppi mafiosi Domenico Coci, Salvatore Bontempo, Sebastiano Conti Mica, Giuseppe Costanzo “u carretteri” Zammataro e Gino Calcò Labruzzo. Per quanto concerne i capi d’imputazione caduti in prescrizione, la Suprema Corte ha disposto rinvii alla Corte d’appello per ricalcolare le pene dove occorre eliminare i reati dichiarati estinti.

La “mafia dei pascoli” è un fenomeno criminale molto diffuso e articolato che riguarda l’infiltrazione della criminalità organizzata nelle attività legate alla gestione e allo sfruttamento dei terreni agricoli. In particolare, la mafia sfrutta i fondi europei destinati all’agricoltura tramite frodi nei sussidi per i pascoli e le attività agricole. I clan, attraverso minacce e intimidazioni e grazie all’impiego di prestanome o all’intestazione di pezzi di terra a persone insospettabili, ottengono illegalmente la gestione di terreni, pubblici e privati, per accedere ai finanziamenti europei della Politica Agricola Comune (PAC) senza svolgere alcuna reale attività agricola.

Nel 2024 è peraltro emerso come a richiedere e ottenere senza incorrere in nessun ostacolo i sussidi agricoli dallo Stato italiano e dall’Unione Europea siano state, negli ultimi anni della sua latitanza, anche le sorelle di Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano che, da stretto alleato dei corleonesi di Totò Riina, ha avuto un ruolo di primo piano nella stagione stragista di Cosa Nostra. Si parla di somme, accreditate dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea), che ammontano complessivamente a circa 17mila euro. I fondi sono entrati in maniera continuativa per 8 anni, dal 2015 al 2023, nelle casse della famiglia. Il boss Matteo è stato arrestato il 15 gennaio 2023 dopo trent’anni di latitanza ed è deceduto nel carcere dell’Aquila il 25 settembre dello stesso anno a causa di un tumore.

Bologna, 6 dicembre 1990: quando un aereo militare fece strage in una scuola

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Sul filo dell’ultima campanella, una mattina d’inverno a due passi da Natale, quattro ragazzini corrono a scuola: sono in ritardo e devono accontentarsi dei banchi in prima fila, invece di quelli soliti in fondo all’aula che sono già occupati. Non potevano sapere, non lo poteva sapere nemmeno l’insegnante, che entro un paio d’ore tutta la loro classe sarebbe stata cancellata, letteralmente spazzata via da fuoco e fiamme, e tutti i loro compagni uccisi, disintegrati da un aereo color arancione piombato giù come un forsennato dal cielo. Era il 6 dicembre 1990, il giorno della strage alla succursale dell’istituto tecnico Gaetano Salvemini di Casalecchio, dove Bologna comincia la sua arrampicata verso i colli e dove la pace di una periferia verde e tranquilla, è stata squarciata da un boato di morte, un terremoto inaudito piovuto dall’alto. Federica Tacconi, Milena Gabusi, Daniele Berti e Federica Regazzi, i quattro ragazzi arrivati a scuola col fiatone, sono tutto quello che è rimasto della loro classe, la 2A. Protagonisti loro malgrado di una sliding door che non era un film, ma è stato come tirare a dadi il proprio destino: un’inezia che gli salvato la vita, la semplice questione di pochi metri, e che per molto tempo ha tolto loro la pace.

Un siluro arancione dal cielo

Hanno visto i loro compagni morire, travolti e inceneriti da un Aermacchi MB 326 dell’Aeronautica Militare che ad un certo punto del suo volo è impazzito ed è venuto giù in picchiata, imbizzarrito come un cavallo mustang con le briglie sciolte. E invece di andare a schiantarsi dove non avrebbe potuto fare danni, invece di allontanarsi il più possibile da case e persone, si è infilato sul municipio più grande dell’area metropolitana di Bologna, proprio al primo piano della succursale dell’istituto dove i ragazzi avevano già cominciato i preparativi per le festività natalizie, con decorazioni e canzoni, e che nelle foto in bianconero di quella mattina di orrore e morte, dopo lo schianto, è ridotto ad uno scheletro di mattoni, fumante e annerito. Un bilancio di guerra, quando le ambulanze e i vigili del fuoco hanno finito il loro triste lavoro: 12 alunni uccisi, 11 ragazze e un ragazzo. Tutti del ’75, tutti strappati via a 15 anni, una vittima non li aveva nemmeno compiuti. Bambini. 88 i feriti in tutta la scuola che in quel momento ospitava 200 ragazzi, 82 dei quali studenti. 72 di loro feriti in modo grave o molto grave, tanto che hanno riportato invalidità dal 5 all’85%, vite rovinate nella mente e nel corpo, vite tutte in salita. Una mattina tranquilla che improvvisamente, alle 10.33, diventa un inferno di urla, disperazione, lacrime.

La 2A del Salvemini dopo lo schianto

Un fuggi fuggi da quelle aule diventate improvvisamente delle camere a gas. Ragazzi e docenti che disperati si lanciavano nel vuoto, spingendosi giù dal cornicione pur di scappare dal fumo nero, dai veleni delle fiamme, da quella morte calata su di loro come un colpo di mannaia. Una scuola devastata e sventrata nel suo intimo, una comunità e una città intera, Bologna, colpite a morte nel cuore di una collettività che ha scoperto con la brutalità durata un fiammifero, tutta la propria fragilità. Quella sensazione insopportabile che non ti levi mai più dalla pelle, un ergastolo dell’anima, di non essere riusciti a proteggere i tuoi figli e i tuoi nipoti. Ma anche lo sbigottimento del Paese, tutta l’Italia a interrogarsi su come sia possibile che una classe di ragazzi possa essere annientata in quel modo, proprio dentro una scuola che dovrebbe essere un porto sicuro. Un posto dove, come tutti i coetanei, anche i ragazzi della 2A coltivavano tutti i giorni i loro sogni e le loro aspettative: pochi giorni prima della strage, gli era stato proposto un tema dedicato al senso della vita e andare a rileggere i loro lavori, i loro pensieri che sono diventati il loro testamento, guardare le loro fotografie sorridenti, è straziante. Deborah, Laura, Sara, Laura, Tiziana, Antonella, Alessandra, Dario, Elisabetta, Elena, Carmen ed Alessandra, i loro nomi, sono rimasti per sempre nella loro aula.

La missione “Alfa 356” da Verona

Un Aermacchi MB-326 simile a quello coinvolto nell’incidente

Il sottotenente Bruno Viviani aveva 24 anni e 740 ore di volo alle spalle, 140 delle quali proprio con l’MB-326 che è stato un’eccellenza italiana nei jet-trainers, gli aerei militari da addestramento. Lo hanno elogiato perfino gli americani e altrove, nel mondo dove è stato il velivolo italiano più gradito ed esportato nel suo genere, progettato e costruito dall’Aermacchi, lo hanno trasformato in un caccia operativo piuttosto efficace, oltre che maneggevole. Come per esempio i sudafricani che lo hanno acquistato e armato di tutto punto, in barba alle disposizioni di embargo ONU, all’epoca in vigore contro l’apartheid in atto in quel Paese. Quella mattina del 6 dicembre, al 3° Stormo dell’Aeronautica di Villafranca, alle porte di Verona, a Viviani era stata assegnata una missione “in bianco”, ossia disarmata. Il piano di volo, battezzato “Alfa 356”, era iniziato col decollo alle 9.48 e prevedeva un passaggio in una zona tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, con un attacco simulato ad una postazione: tre passaggi prima di essere intercettato.

Ma circa mezz’ora dopo il decollo, Viviani è costretto a comunicare alla torre di controllo di Monte Venda, nel padovano, la “piantata” dei motori, che in gergo vuol dire la perdita di potenza di uno o di tutti i propulsori che improvvisamente calano fino anche a fermarsi. Viviani comunica un calo del 60% dei motori del suo MB-326. Da manuale, un pilota in quella situazione non proprio semplice deve abbassare il muso del suo velivolo, per cercare di mantenere velocità e portanza, prima di tutto per non perdere quota. Aprire i flap e, soprattutto, azionare il dispositivo “relight”, ossia una riaccensione. Viviani esegue e l’apparecchio riprende il 75% della sua potenza, si trova a 1.371 metri sopra Ferrara e ha la possibilità di tentare un atterraggio di emergenza a Poggio Renatico, sulla pista di un aeroporto militare dove eventuali danni sarebbero stati comunque circoscritti. Non lo fa, però. Perché dalla torre di controllo l’aereo viene dirottato verso Bologna, una disposizione alla cieca, senza conoscere la disponibilità delle piste del Marconi e la struttura del territorio.

Ci sarebbe stato anche il mare per cadere, per la verità. L’Adriatico. Le spiagge dei lidi ferraresi, non molto lontane, sarebbero state un punto di fuga isolato, vuoto e sicuro, specie in quei giorni di dicembre. L’unico danno sarebbe stato, per l’Erario, la perdita dell’aereo. Ma Viviani esegue gli ordini e prosegue, anche se scarica tutto il carburante per alleggerire l’aereo e depotenziare il più possibile i rischi della caduta ormai prossima. Quando la torre di controllo del Marconi di Bolgona lo avvista, alle 10.25, Viviani comunica “ho delle forti vibrazioni… Ho i comandi laschi, mi sa che mi lancio”. Sei minuti dopo, alle 10.31, l’ultima comunicazione radio tra l’aereo e la base di Villafranca: dal 3° Stormo l’indicazione di allineare il muso del MB-326 alla linea dell’orizzonte e orientarlo verso una zona disabitata. L’aereo ormai impazzito, invece, punta verso la periferia di Bologna, mentre Viviani aziona l’espulsione del suo seggiolino: nella caduta il pilota si romperà tre vertebre, nonostante il paracadute. Quel tipo di seggiolino – denominato 0/0 – poteva funzionare ed espellere in sicurezza il pilota a velocità e quota zero: ma Viviani aziona l’espulsione ad un’altezza considerevole, quindi con un margine ancora molto ampio per mettersi al sicuro. Perché non ha aspettato, continuando a governare nel frattempo l’aereo? Fatto sta che l’Aermacchi, abbandonato a se stesso, si dirige verso Casalecchio. Proprio sopra all’istituto Gaetano Salvemini, dove piomba come un castigo del cielo due minuti dopo, mentre la chioma di un pino lo smista atrocemente verso la finestra della classe 2A. Quel siluro colorato di arancione che qualche studente ha visto, prima di tremare per il boato dell’impatto e per la violenza delle conseguenze.

Tre militari alla sbarra

Il pilota Bruno Viviani durante il processo per l’incidente

Due giorni dopo l’apocalisse di fuoco e morte nella pancia della Salvemini, il pubblico ministero Massimiliano Serpi – che da magistrato inquirente si era già occupato del processo a Luigi Ciavardini per la strage alla stazione di Bologna – firma l’avviso di garanzia nei confronti del sottufficiale Bruno Viviani e nomina tre medici legali. Insieme al pilota, sono indagati anche il comandante del 3° Stormo di Villafranca, colonnello Eugenio Brega, e il responsabile della torre di controllo e delle operazioni, tenente colonnello Roberto Corsini. Vengono messi sotto accusa anche funzionari ed amministratori di Casalecchio, ipotizzando l’assenza di dispositivi antincendio nella scuola, e i meccanici addetti alla revisione e manutenzione dell’aereo. I loro fascicoli vengono poi archiviati, ma quello relativo ai tecnici dell’Aeronautica potrebbe essere stato stralciato in modo sbrigativo, per ragioni affiorate in tempi più recenti. Il giudice delle indagini preliminari (all’epoca si utilizzava nella fase istruttoria il codice di procedura precedente a quello attuale) è Aureliana Del Gaudio, al quale viene assegnato il fascicolo delle indagini. I tre militari, gli unici imputati, finiscono alla sbarra con le accuse di omicidio colposo plurimo, disastro aviatorio e lesioni. Il 28 febbraio 1995 vengono condannati in primo grado a due anni e sei mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali, al risarcimento e alle provvisionali alle parti civili che sono state costrette ad affidarsi ad avvocati privati perché l’Avvocatura dello Stato, rappresentata dal legale Mario Zito, ha negato loro il patrocinio per dedicarsi alla difesa dei militari imputati e del Ministero della Difesa: scelta che ha provocato non poche polemiche. Così come il fatto che il Consiglio di Istituto sia stato escluso dalle parti civili, in quanto non rappresentativo degli interessi della scuola. Il Ministero della Pubblica Istruzione, che ne avrebbe avuto la titolarità, scelse di non farla valere.

Un colpo di spugna in 8 giorni

Due anni dopo, nel gennaio 1997, il processo di appello che in appena otto giorni ribalta tutto: il 22 del mese la sentenza della Corte di Assise che spazza via la pronuncia di primo grado e assolve tutti “perché il fatto non costituisce reato”. Ci vogliono la bellezza di cinque mesi per leggere le motivazioni del dispositivo, nonostante le ripetute sollecitazioni del sindaco e del ministro di Grazia e Giustizia a rispettare i termini di legge che prevedono 90 giorni per il loro deposito. La Corte d’Appello stabilisce l’”imprevedibilità dell’evento e l’ineluttabilità del danno”, puntando il dito verso i giudici del primo grado, così come verso il pm della fase istruttoria, il Gip, il pubblico ministero del primo processo e il procuratore generale di quello di Appello. Tutti spinti da suggestioni “politiche”, mentre secondo i giudici dell’Appello il processo non sarebbe nemmeno dovuto iniziare, visto che gli imputati – secondo loro – non avevano nessuna colpa per le avarie dell’aereo e quindi per le catastrofiche conseguenze della sua caduta. Per la Corte di Appello di Bologna, la strage del Salvemini è stata imputabile solo al fato. Al destino. Una tragica fatalità che esclude ogni umana colpa. La Quarta sezione della Corte di Cassazione, il 26 gennaio 1998, ha confermato il giudizio di secondo grado, respingendo il ricorso delle parti civili (familiari e parenti delle vittime in primis) e dal Procuratore generale di Bologna, e prosciogliendo in via definitiva gli imputati. Per la giustizia italiana, la strage dei ragazzi del Salvemini è un fatto dovuto alla casualità. Peccato che quell’aereo, l’MB326 pilotato da Viviani, avesse avuto altre due “piantate” ai motori nel corso dello stesso anno: il 22 febbraio e l’8 novembre, un mese prima di schiantarsi sulla scuola di Casalecchio.

I misteri del jet revisionato

Ciò che resta del jet, rimosso dalla classe dai vigili del fuoco dopo l’incidente

Il comandante Mario Ciancarella, ufficiale pilota, ha pagato un prezzo molto alto alla sua caparbietà e alla sua ostinazione. Il suo impegno per creare un movimento democratico all’interno delle forze armate e per scoprire le verità inconfessabili della strage di Ustica, sulla quale si è impegnato per anni raccogliendo il testimone di amici commilitoni coinvolti e misteriosamente “suicidati”, gli sono costati, oltre ad una detenzione terrificante a Forte Boccea e ad una vita segnata per sé ed i propri familiari, la radiazione dal corpo di appartenenza, l’Aeronautica Militare. Che però è stata eseguita con un decreto a firma apocrifa dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, come accertato dalla magistratura in una battaglia giudiziaria durata decenni. Nella sua autobiografia, Si può si deve, edita da Pigreco, Ciancarella dedica alcune riflessioni sul sistema di manutenzione e revisione degli aerei da parte dell’Aeronautica: sono previsti tre livelli di interventi, l’ultimo dei quali denominato “Grande Ispezione”, eseguito da officine specializzate esterne alle forze armate e che costa milioni ai contribuenti. Prevede letteralmente che l’aereo sottoposto a revisione venga rivoltato da cima a fondo e riportato a condizioni pari al nuovo con una procedura meticolosa e rigorosamente documentata e certificata. Come è stato possibile, si chiede il comandante, che un velivolo come l’MB326 pilotato da Viviani, passato da poco attraverso il terzo livello di manutenzione, il più accurato e approfondito, potesse avere problemi di quel genere in volo, fino a subire la “piantata” dei motori? Come era possibile che un apparecchio riportato in teoria a condizioni di perfetta efficienza, potesse manifestare tali e tante avarie e problemi? I meccanici di Villafranca deputati alla manutenzione di quel jet da addestramento, inizialmente iscritti nel registro degli indagati da parte della magistratura, sono usciti di scena presto, prosciolti da ogni accusa. Forse troppo presto.

Progettato per volare anche senza il motore

Non è tutto, però. Su quel tipo di aereo, i collegamenti erano meccanici, e non idraulici. Ossia, per governare le superfici mobili come alettoni e timoni che possono essere le ancore di salvezza quando le cose si complicano, non era necessaria la rotazione del motore e la sua erogazione. Per farla breve, l’MB326 era stato progettato e realizzato per poter volare e soprattutto atterrare anche coi motori spenti. Infatti, era famoso proprio perché concepito per poter planare in condizioni estreme, gli allievi piloti erano messi alla prova proprio su questo e dovevano sviluppare le loro capacità, così come il sottufficiale Bruno Viviani. E allora, come si è potuto parlare di “aereo ingovernabile” per la strage del Salvemini? Siamo proprio sicuri che sia stato il destino ad abbattere quell’aereo che aveva avuto due guasti analoghi in pochi mesi? Quali sono state le vere cause di quell’avaria fatale che per i giudici è stato un evento imponderabile e che in tempo di pace ha provocato la più grave strage di adolescenti in questo Paese?