sabato 23 Novembre 2024
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Commissione Europea: ok ad altri 4 miliardi all’Ucraina

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La Commissione europea ha dato il semaforo verde a un nuovo pagamento di oltre 4 miliardi di euro a Kiev dall’Ukraine Facility, strumento dell’UE atto a garantire un sostegno finanziario prevedibile all’Ucraina nel periodo 2024-2027. Una volta adottata dal Consiglio, questa decisione porterĂ  a 16,1 miliardi di euro i fondi complessivamente erogati nel corso dell’anno a sostegno del piano per l’Ucraina. «Mentre ci avviciniamo al millesimo giorno dell’atroce guerra della Russia, aiuteremo a mantenere in funzione lo stato ucraino mentre il paese lotta per la sopravvivenza», ha dichiarato la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

Repressione, omicidi e brogli elettorali minacciano la democrazia in Mozambico

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Secondo quanto dichiarato da un portavoce di Human Rights Watch (HRW), in Mozambico «dal 19 ottobre al 6 novembre sono state uccise 30 persone e centinaia sono rimaste ferite durante le manifestazioni». I numeri sono destinati a salire. GiĂ  solo giovedì scorso sono stati segnalati tre morti nelle proteste a Maputo, la capitale. «Dei 66 feriti di giovedì, almeno 57 sono stati colpiti da armi da fuoco», ha riferito ai media Dino Lopes, direttore del pronto soccorso per adulti dell’ospedale centrale di Maputo. «La maggior parte delle vittime aveva un’etĂ  compresa tra i 25 e i 35 anni, ma alcuni avevano appena 15 anni», ha aggiunto. Il Paese è interessato in queste settimane da proteste che, con oltre 30 morti, centinaia di feriti e piĂą di 500 arresti, rappresentano la piĂą grande contestazione mai registrata contro il partito di governo.

I manifestanti, che intonavano slogan come «Potere al popolo» e «Il Frelimo deve cadere», hanno bloccato le strade bruciando pneumatici. Diverse organizzazioni per i diritti umani, sia nazionali che internazionali, hanno accusato le forze di polizia di usare munizioni vere contro i dimostranti, una pratica giĂ  emersa in passato. Il ministro degli Interni mozambicano ha difeso l’operato delle forze di polizia, dichiarandolo «necessario per ripristinare l’ordine».

Il 24 ottobre sono stati pubblicati i risultati finali delle elezioni, che hanno confermato ancora una volta la vittoria del Frelimo, al potere dal 1974, con oltre il 70% dei voti. Segue il partito di opposizione Podemos, con il 20%. Venâncio Mondlane, candidato indipendente sostenuto da Podemos, ha accusato il Frelimo di brogli, chiamando in piazza i mozambicani e indicendo uno sciopero generale che sarebbe dovuto concludersi la scorsa settimana con la marcia pacifica su Maputo. Prima del risultato ufficiale, Mondlane aveva pubblicato online i verbali originali che mostrerebbero una netta vittoria di Podemos. Alcuni osservatori internazionali, tra cui quelli dell’Unione Europea, hanno denunciato irregolaritĂ  nei verbali, come il conteggio di voti superiori al numero di elettori, oltre a intimidazioni e acquisti di voti. Il Consiglio costituzionale del Mozambico non ha ancora certificato i risultati elettorali e, martedì scorso, ha chiesto alla Commissione elettorale di chiarire le discrepanze nei numeri dei voti.

Le proteste non si sono fermate e si sono intensificate dopo l’omicidio dell’avvocato di Mondlane, Elvino Dias, e del rappresentante di Podemos, Paulo Guambe. I due avevano affermato di possedere prove dei brogli, che intendevano presentare alla Corte costituzionale. Il 18 ottobre sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco nelle trafficate vie del quartiere Barrio da Coop di Maputo. Due auto hanno bloccato davanti e dietro la vettura di Dias e Guambe, scesi dalle macchine degli uomini armati hanno aperto il fuoco. «Sono stati brutalmente assassinati a sangue freddo, con 10-15 proiettili», ha dichiarato Adriano Nuvunga, direttore del Centro per la Democrazia e i Diritti Umani (CDD) del Mozambico. L’Unione Europea e il Portogallo hanno condannato l’omicidio, chiedendo un’indagine «immediata, approfondita e trasparente». In un comunicato, l’UE ha ribadito che «in una democrazia non c’è spazio per omicidi politici», come riportato dal The Guardian. Il Frelimo ha respinto «con veemenza» l’atto e ha invitato le autoritĂ  a fare chiarezza. Anche Mondlane ha denunciato di essere «in pericolo di morte» dopo che un gruppo armato ha tentato di raggiungerlo nella sua casa a Johannesburg, ma non ha fornito prove delle sue affermazioni. Le autoritĂ  mozambicane non hanno ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali, mentre il governo sudafricano ha confermato che almeno sette esponenti dell’opposizione mozambicana hanno cercato rifugio in Sudafrica.

Il percorso democratico del Mozambico è iniziato nel 1992, con gli Accordi di pace di Roma che posero fine alla guerra civile tra Frelimo e Renamo (Resistenza nazionale mozambicana), conflitto che causò oltre un milione di morti. Da allora si sono svolte elezioni multipartitiche, alle quali il Frelimo ha sempre trionfato. Mondlane, ex membro della Renamo, ha rotto con il partito nel 2024 e ha ottenuto il sostegno di Podemos, guadagnando crescente popolarità tra i cittadini, stanchi delle promesse mancate e degli scandali di corruzione. Il Paese, governato da un’élite politica che ha concentrato la ricchezza nelle mani di pochi, è caratterizzato da una povertà diffusa: il 65% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Tuttavia, il Mozambico è anche il ventesimo Paese in Africa per numero di milionari. La corruzione, come nel caso dello scandalo Hidden Debt del 2015, ha visto funzionari governativi intascare mazzette milionarie mentre la popolazione vive in condizioni di estrema difficoltà. Nel nord del Paese, la guerra contro i gruppi jihadisti legati allo Stato Islamico ha causato centinaia di migliaia di sfollati dalla provincia di Capo Delgado, ricca di giacimenti di gas estratti da multinazionali come TotalEnergies, ExxonMobil ed Eni. La povertà estrema della popolazione è quindi in netto contrasto con le ricchezze che il governo centrale di Maputo e le grandi aziende straniere producono sulla pelle dei mozambicani.

[di Filippo Zingone]

Lettonia, terminata un’esercitazione NATO tra piĂą di 13 Paesi

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Dopo due settimane, oggi è terminata una grande esercitazione NATO a guida canadese tenutasi in Lettonia, denominata “Resolute Warrior”. L’operazione è iniziata l’1 novembre, e ha visto coinvolti 3.500 soldati provenienti da tredici diversi Paesi, con l’obiettivo di migliorare il coordinamento tra reparti in una simulazione di uno sfondamento di difese nemiche per l’ipotetico recupero di un territorio. La metĂ  dei soldati, guidati dal colonnello CĂ©dric Aspirault, era di nazionalitĂ  canadese, Paese che si è così reso protagonista della sua piĂą grande esercitazione NATO degli ultimi cinquant’anni. In sede di conferenza stampa, il Segretario Generale dell’Alleanza Atlantica, Mark Rutte, ha sollecitato i Paesi a spendere di piĂą per la difesa.

Meta multato dall’UE per 798 milioni: “Abuso di posizione dominante”

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La Commissione Europea ha multato Meta per 797,72 milioni di euro per violazioni antitrust, accusandola di abusare della sua posizione dominante collegando Facebook Marketplace al social network Facebook. Questa pratica, secondo la nota, dĂ  agli utenti un accesso automatico al Marketplace, conferendo a Meta un “vantaggio competitivo che i concorrenti non possono eguagliare”. Inoltre, Meta avrebbe imposto condizioni commerciali sleali agli altri fornitori di annunci online, sfruttando i dati per favorire il proprio Marketplace. Bruxelles ha ordinato a Meta di interrompere tali pratiche e di evitarne in futuro di simili. L’indagine, spiega la Commissione, era iniziata nel 2021 e ha visto la formalizzazione delle accuse a dicembre 2022.

Dalle carte della magistratura emergono le torture sistematiche nel carcere di Cuneo

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Non si trattava di situazioni «eccezionali ed episodiche», ma di «una prassi fuorviante improntata alla violenza». Così i giudici del tribunale del Riesame di Torino hanno definito le «crudeli, brutali e degradanti» condotte della polizia penitenziaria sui detenuti del carcere di Cuneo, nell’ambito di un’inchiesta, riferita al periodo compreso tra il 2021 e il 2023, che coinvolge 33 indagati. Il tribunale ha confermato la sospensione dal servizio, rispettivamente per 10 e 12 mesi, di due agenti di polizia penitenziaria accusati di ripetute violenze. Dalle indagini emerge che i detenuti venivano sistematicamente picchiati, umiliati e gettati in isolamento senza che la struttura prendesse alcuna misura disciplinare nei confronti dei responsabili. Si è inoltre evidenziato che uno degli indagati, l’ispettore Giovanni Viviani, «sia stato addirittura promosso, dopo i fatti, al grado di vice comandante della polizia penitenziaria».

Il Tribunale del Riesame non ha dubbi: il reato contestato dalla Procura, quello di tortura, sussiste. I giudici hanno spiegato che le condotte perpetrate dagli agenti all’interno della casa circondariale piemontese sarebbero state «frutto non giĂ  di una situazione eccezionale ed episodica, ma conseguenza di una prassi fuorviante improntata alla violenza» e «tenute in spregio ai principi costituzionali e che devono informare l’operato degli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, funzione altamente delicata, in cui le funzioni di custodia devono accompagnarsi a doti di umanitĂ  e rispetto per chi è privato della libertĂ  personale». Nello specifico, l’inchiesta si è focalizzata sulle violenze subite da un gruppo di detenuti, nel quale figuravano numerose persone di nazionalitĂ  pakistana, che sarebbero sfociate negli atti piĂą gravi nella notte tra il 20 e il 21 giugno del 2023. Dopo avere effettuato una perquisizione non autorizzata, i poliziotti – con la partecipazione anche di agenti liberi dal servizio – avrebbero in quel frangente brutalmente picchiato almeno cinque detenuti, nudi e scalzi, trascinandoli dalla cella all’infermeria e poi in isolamento. Dove, secondo quanto ricostruito dai pm, sarebbero rimasti «senza cibo nĂ© acqua, senza vestiti nĂ© coperte» fino al giorno seguente. Secondo i giudici, gli agenti avrebbero agito con tali modalitĂ  al fine di «impartire ai detenuti una lezione su come ci si doveva comportare» tra le mura carcerarie. Per i poliziotti sospesi dal servizio, secondo la Procura, sussisterebbe «un concreto e attuale pericolo di reiterazione», trattandosi «di soggetti attualmente in servizio presso lo stesso carcere e stabilmente a contatto con i detenuti».

Il reato di tortura, insieme alla previsione di un’aggravante nel caso in cui a commetterlo siano agenti delle forze dell’ordine, è stato introdotto nel nostro ordinamento, con grande ritardo, solo nel 2017. Contro tale fattispecie di reato, presente in piĂą di 100 Paesi del mondo, è però corso all’attacco Fratelli d’Italia, partito della premier Giorgia Meloni e principale azionista di governo, che ne ha proposto l’abrogazione e la derubricazione ad aggravante comune. Preoccupati dalle mosse dei partiti di maggioranza sul tema, lo scorso dicembre i membri del Consiglio d’Europa hanno invitato «caldamente» il governo Meloni a «garantire che qualsiasi eventuale modifica al reato di tortura sia conforme ai requisiti della Convenzione europea dei diritti umani e alla giurisprudenza della CEDU». Messo alle strette, l’esecutivo italiano ha riferito all’Ue di «non avere alcuna intenzione» di abrogare il reato, in una comunicazione che va a smentire mesi di dichiarazioni e proposte in senso contrario di molti esponenti di maggioranza.

[di Stefano Baudino]

Le proteste contro il turismo si diffondono in tutta Italia (e ottengono i primi risultati)

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Le proteste contro il turismo di massa stanno ormai raggiungendo tutto il Paese. A Milano, da mesi i cittadini hanno creato una mappatura dal basso delle keybox, le scatole contenenti le chiavi degli appartamenti dedicati ai turisti, marcandole con adesivi lilla e gialli. A Napoli, due mesi fa è stato organizzato un presidio contro il numero eccessivo di case destinate agli affitti brevi, e recentemente si sono mobilitate anche Roma, Firenze e Bologna. Da nord a sud, insomma, le proteste contro il turismo di massa stanno crescendo sempre di più, mentre nel frattempo arrivano i primi risultati: a Firenze, la sindaca, Sara Funaro, ha annunciato che nel 2025 entrerà in vigore il divieto di installare le cassette portachiavi fuori dalle case per turisti, e anche il Comune di Milano ha dichiarato che verranno rimossi i lock-box dallo spazio pubblico urbano.

Il movimento contro il fenomeno dell’overtourism in Italia è sempre piĂą ampio e coeso. Ormai ha raggiunto gran parte delle maggiori cittĂ  del Belpaese, diffondendosi da nord a sud tra cortei e atti di sabotaggio. Oggetto principale del boicottaggio turistico sono le cosiddette keybox (anche dette lockbox, o smartlock), piccole scatole chiuse contenenti le chiavi di un appartamento, sbloccabili unicamente attraverso un codice di verifica fornito dal proprietario dell’alloggio. Negli ultimi mesi, questo genere di “lucchetto intelligente” ha iniziato a comparire in grandi quantitĂ  in tutte le maggiori destinazioni turistiche del Paese, venendo affisso fuori dalle case o nelle aree a esse circostanti; a Roma, addirittura, ne sono stati messi alcuni sopra i pali della segnaletica stradale.

Tra chi si limita a segnalare i lucchetti con adesivi, come a Milano e a Firenze, e chi li rimuove con le tronchesi, come a Roma e a Bologna, il sabotaggio dei lockbox sembra ormai diventare strutturale. Gli attivisti cittadini, tuttavia, non si limitano a colpire gli smartlock, ma si stanno mobilitando anche attraverso cortei e altre azioni dimostrative. A Napoli, due mesi fa, un gruppo di attivisti mascherati ha affisso manifesti sulle serrande di un’edicola dismessa come segno di protesta contro i troppi b&b in cittĂ , lanciando una campagna di mobilitazione cittadina. Nello stesso periodo, a Bologna, i cittadini hanno bloccato un autobus per turisti «per denunciare la turistificazione e le contraddizioni dello sviluppo» della cittĂ . A Roma, al posto degli smartlock, sono comparsi dei cappelli di Robin Hood, per costruire un «Giubileo dei poveri» con cui soppiantare il «Giubileo dei ricchi», iniziativa poi ripresa anche a Bologna, «perchĂ© non diventi solo una cittĂ  per ricchi». A Milano, invece, lo scorso sabato il comitato dei Navigli, lo stesso che ha promosso la mappatura dei lucchetti intelligenti, ha organizzato un corteo per ricordare a tutti che «questa cittĂ  non è un albergo».

Mentre le proteste crescono e giungono in tutta Italia, la lotta all’overtourism inizia a ottenere i primi risultati. A Firenze, la sindaca, Sara Funaro, ha presentato un piano di dieci punti per contrastare il turismo di massa nel centro della cittĂ : questo prevede misure che vanno dal divieto di utilizzo delle keybox in area Unesco, alla limitazione dei veicoli atipici, fino al divieto di utilizzo di amplificatori e altoparlanti. Nella stessa Firenze, come a Genova e a Bologna, sono stati introdotti regolamenti per limitare le affittanze brevi. A Milano, invece, come nel capoluogo toscano, verrĂ  vietata l’installazione di lucchetti intelligenti nello spazio pubblico urbano; una prima piccola vittoria, che però gli attivisti intendono fare seguire ad altre: «Ora, come Chiediamo Casa, ci aspettiamo di andare avanti nei lavori sul tema degli affitti brevi attraverso la sperimentazione di una normativa locale che sappia immaginare, come giĂ  avvenuto nei comuni di Firenze, Genova e Bologna, l’approvazione di provvedimenti innovativi che mettano dei limiti all’esplosione degli alloggi turistici», hanno rivendicato gli attivisti.

[di Dario Lucisano]

Mafia, maxi-evasioni e false fatturazioni: 47 misure cautelari

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Frodi fiscali, riciclaggio e aggravante del metodo mafioso: sono le accuse che hanno portato all’arresto di 47 persone e al sequestro di beni per 520 milioni di euro, corrispondenti all’Iva evasa. L’operazione è stata condotta dalla Procura europea (Eppo) di Palermo e Milano e ha coinvolto 269 “missing traders”, 55 buffer e altre societĂ , che avrebbero generato false fatture per 1,3 miliardi di euro tra il 2020 e il 2023. Gli indagati, oltre 200, operavano in Italia e in vari paesi UE. Sono in corso perquisizioni in 30 province e in diversi paesi europei ed extraeuropei, mentre 34 degli inquisiti sono stati portati in carcere, altri 9 si trovano agli arresti domiciliari mentre per gli ultimi 4 sono state emanate misure interdittive.

Tremila morti e decine di paesi distrutti: il bilancio dell’aggressione israeliana al Libano

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Più di 3.000 morti e quasi 14.000 feriti: è questo, ad oggi, il bilancio dell’attacco israeliano in Libano da quando, nel settembre scorso, è scattata l’invasione di terra. L’operazione che Israele ha scatenato contro il Paese confinate è stata accompagnata dalla distruzione di decine di villaggi e paesi, alcuni dei quali demoliti con cariche esplosive, come testimoniato da immagini satellitari e video girati da droni dell’esercito israeliano. Mentre il sud del Libano viene man mano raso al suolo, si moltiplicano gli attacchi contro la capitale, Beirut, e molte altre città del Paese.

A questi dati va poi aggiunto quello sul numero degli sfollati, ormai più di un milione. Un quarto degli edifici nel sud del Paese è inoltre stato distrutto o danneggiato dai bombardamenti israeliani. Mentre l’esercito di Tel Aviv avanza da sud verso nord, decine di paesi sono stati distrutti dagli attacchi aerei e di artiglieria, così come dalle cariche esplosive piazzate per le demolizioni in simultanea di interi quartieri o villaggi, come testimoniato da immagini satellitari o da riprese aeree effettuate dai droni dell’esercito israeliano.

Mentre la guerra si trascina e aumenta la sua portata, con poche indicazioni di un potenziale cessate il fuoco, crescono i timori su tutti gli aspetti della vita in Libano e sul suo futuro sociale ed economico, giĂ  martoriato da cinque anni di feroce crisi. Come riportato da Middle Est Eye, l’Independent Task Force for Lebanon (ITFL), un gruppo di economisti e ricercatori libanesi, ha avvertito che le perdite economiche del Paese a causa dei bombardamenti israeliani potrebbero superare i 20 miliardi di dollari, mentre la percentuale di persone che vivono in condizioni di estrema povertĂ  potrebbe raggiungere l’80% nelle aree bombardate. Tutti i settori della vita sociale ed economica del Libano sono in gravi difficoltĂ  e l’elettricitĂ  è spesso razionata. L’organizzazione umanitaria internazionale Mercy Corps ha affermato che il PIL del Paese potrebbe contrarsi del 12,81% se la guerra continuasse in questo modo, o del 21,9% se Israele imponesse un blocco o espandesse i bombardamenti e i combattimenti di terra. Questo in un Paese in cui piĂą di 3 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria e il 25% della popolazione è composta da rifugiati, in gran parte provenienti dalla Siria.

Sebbene il governo israeliano abbia giustificato la decisione dell’invasione di terra con la volontĂ  di creare una zona cuscinetto tra il sud del Libano e il nord di Israele, con l’obiettivo di far così indietreggiare Hezbollah e permettere agli israeliani di tornare agli insediamenti abbandonati a causa degli attacchi dell’organizzazione sciita libanese, vale la pena di ricordare che molti dei componenti del governo israeliano sono sostenitori della Grande Israele, la quale comprenderebbe Gaza, Cisgiordania così come un pezzo di Egitto, di Arabia Saudita, di Siria e di Libano.

[di Michele Manfrin]

COP29: la prioritĂ  è, al solito, l’accordo sul mercato dei crediti di carbonio

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I primi risultati della COP29, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, non sembrano dare molta speranza in merito a una reale possibilitĂ  di cambiamento rispetto alle politiche ambientali. Numerosi tra i partner dell’evento sono coinvolti nel settore dell’energia fossile, mentre lo stesso presidente dell’Azerbaijan (Paese ospitante la COP), Ilham Aliyev, ha definito petrolio e gas un «dono di Dio». In questo contesto, i primi risultati della Conferenza sono stati una stima degli investimenti necessari, da parte delle Banche Multilaterali di Sviluppo (MDB), per il finanziamento delle politiche sostenibili entro il 2030 e il raggiungimento di un accordo ufficiale sul mercato del carbonio globale sotto l’egida delle Nazioni Unite. Quest’ultimo costituisce tuttavia una forma di vero e proprio neocolonialismo, in quanto basato sullo sfruttamento delle terre e delle risorse appartenenti alle comunitĂ  locali per permettere alle grandi aziende di continuare a inquinare indisturbate.

L’adozione di un mercato globale di carbonio è stata portata a termine grazie al lavoro di un ristretto gruppo di tecnici dell’Organo di Vigilanza e potrebbe essere in funzione giĂ  dal prossimo anno. Si tratta di una soluzione che non cambierebbe di una virgola il sistema alla base del problema ambientale, rischiando anzi di incentivarlo. Le grandi aziende potranno infatti contiunare a emettere indisturbate gas serra e ad inquinare grazie a imponenti operazioni di greenwashing: i ricavi delle quote di carbonio delle aziende climalteranti dovrebbero infatti, almeno in teoria, finanziare la decarbonizzazione, ma, secondo quanto rilevato dalle associazioni ambientaliste, meno del 58% dei proventi è stato fino ad ora reinvestito in progetti utili per il clima. In questo modo, quindi, non si fa altro che regolamentare un sistema che sfrutta le emissioni per creare un nuovo business e quindi nuovi profitti. Come riportato da Reuters, l’International Emissions Trading Association (gruppo imprenditoriale che sostiene i mercati globali di carbonio) ha affermato che il trading totale nel mercato sostenuto dalle Nazioni Unite potrebbe generare, entro il 2030, 250 miliardi di dollari all’anno. Il tutto senza tenere conto delle conseguenze politiche, sociali ed economiche che subiranno le popolazioni i cui territori sono parte dei progetti del mercato del carbonio e che verranno per questo depauperati delle proprie risorse. Il mercato dei crediti di carbonio mette infatti in moto meccanismi di vero e proprio neocolonialismo, in quanto si basa sulla sottrazione di terre e risorse alle comunitĂ  locali e alle popolazioni indigene per poter supportare progetti che operano all’interno di questo mercato.

In aggiunta a ciò, è stato stabilito che l’investimento delle MDB (che comprendono la Banca Mondiale, le banche di Sviluppo europea, asiatica, africana, interamericana e dell’Islam, oltre alla Banca Europea per gli Investimenti e alla Nuova Banca di Sviluppo) per finanziare le politiche sostenibili dovrebbe ammontare a un totale di 170 miliardi di dollari. Di questi, circa 120 miliardi serviranno per finanziare progetti per il clima ai Paesi a basso e medio reddito, mentre 50 miliardi sarano destinati ai Paesi ad altro reddito. Sono molto poche, tuttavia, le informazioni circa le modalitĂ  in cui verranno spesi i soldi, il che costituisce un segnale d’allarme soprattutto alla luce della poca trasparenza che contraddistingue organi come la Banca Mondiale quando si tratta di investimenti «per il clima».

[di Michele Manfrin]

Spagna: nuove alluvioni mettono in ginocchio Málaga e altre cittĂ  dell’Andalusia

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Nella giornata di ieri, 13 novembre, il passaggio della DANA dal nord del mar Mediterraneo si è abbattuto su numerose comunità autonome della penisola iberica, causando nuovamente forti piogge, inondazioni e alluvioni. Nella città andalusa di Málaga si sono visti gli effetti più gravi: in poche ore le arterie urbane sono state completamente inondate dall’acqua e il livello dei fiumi Málaga e Guadalmedina, quest’ultimo abitualmente secco, si è alzato vertiginosamente senza però mai esondare. Al contrario, l’esondazione dei fiumi Vélez e Benamargosa ha portato ad allagamenti nelle aree dell’omonimo paese e in vari comuni si sono dovute attuare operazioni di immediata evacuazione. Oltre alle piogge di carattere torrenziale, si è abbattuta una tromba marina lungo il litorale di Marbella e un tornado nel comune di Mijas.

Dopo il disastro nella Comunità valenziana, l’intervento di prevenzione da parte dei governi comunitari è stato immediato. In risposta alle segnalazioni dell’Agenzia metereologica spagnola (AEMET) dalle ultime ore di martedì 12 novembre, il governo autonomico andaluso, anch’esso governato dal Partito Popolare, e un totale di 81 comuni, in via precauzionale hanno diramato lo stato d’emergenza e sospeso tutte le lezioni di ogni grado scolastico, comprese le università. Inoltre, il ministero dei Trasporti ha sospeso il servizio ferroviario tra Málaga e Madrid, oltre alla percorrenza dei treni regionali nelle aree di Siviglia, Málaga e Antequera. Si è registrata anche una sospensione parziale del servizio della metropolitana malagueña, e la chiusura di numerose autostrade nelle province di Cádiz, Granada, Málaga e Almeria.

A causa del rischio di esondazione del fiume Guadalhorce, che già due settimane fa esondò nella località di Cártama, sono state evacuate tremila persone da un migliaio di abitazioni tra Málaga e vari comuni dell’omonima provincia.  

L’ospedale di Teatinos, sempre a Málaga, ha sofferto gravi danni a causa delle piogge e la precaria condizione infrastrutturale ha causato allagamenti nelle sale di laboratorio e vari corridoi, portando alla chiusura di numerosi reparti e limitando l’operatività a situazioni di emergenza. Nella serata di ieri l’AEMET ha decretato l’allerta rossa anche per i territori corrispondenti alle province di Granada, Huelva e Cadice in Andalusia e nuovamente per la Comunità Valenciana, in particolar modo lungo il litorale a sud della capitale e nella fascia corrispondente alle province di Alicante e Castellón.

Rapidamente, la Generalitat Valenciana ha diramato lo stato di allerta, ha imposto la chiusura degli istituti scolastici della zona durante la giornata di oggi e limitato la percorrenza dei mezzi pubblici durante la notte; inoltre è stato caldamente sconsigliato ogni spostamento privato dalle ore 22 di ieri e per tutta la durata di giovedì 14 novembre. La provincia di Tarragona in Catalogna e alcune aree delle Isole Baleari sono state interessate dal passaggio della DANA, ma non sono stati riscontrati particolari danni a strutture e popolazione.

Nonostante le istituzioni pubbliche e la popolazione abbiano dimostrato prontezza negli interventi e una corretta classificazione dell’entità del pericolo, ancora una volta si sono registrate denunce di lavoratrici e lavoratori costretti a recarsi sul posto di lavoro. Nella giornata di ieri si sono diffusi sui social network numerosi contenuti foto e video di automezzi dell’azienda alimentare Mercadona, intenti a circolare nonostante l’impraticabilità stradale. Appare quindi grottesca e quasi propagandistica la promessa di Juan Roig, il fondatore dell’azienda, che ha annunciato che entro la prossima settimana verranno versati indennizzi, fino a 50 mila euro, a tutte quelle persone che hanno subito i danni più gravi dall’alluvione della DANA del 30 ottobre, e che lavorano nella suddetta azienda.

Le istituzioni pubbliche, quindi, hanno apparentemente imparato qualcosa dalle gravi alluvioni di due settimane fa nella Comunità Valenziana, nella quale al momento si contano 216 vittime e 17 persone disperse, oltre che ai numerosi danni infrastrutturali per i quali si necessita ancora il lavoro delle forze dell’ordine e militari nella rimozione, tra le altre cose, di oggetti ingombranti e carcasse di automobili.

Nella giornata di ieri si è svolta, inoltre, la prima Sessione plenaria di Novembre del Congresso dei deputati dopo il disastro della DANA, alla quale non hanno presenziato, però, né il presidente dl Governo, Pedro Sánchez, né i principali rappresentati dell’opposizione, Alberto Núñez Feijóo del Partito Popolare e Santiago Abascal di Vox. Tra i vari interventi, quasi tutti incentrati sulla gestione e le responsabilità dietro all’alluvione nella Comunità Valenziana, le rappresentanze politiche del paese hanno nuovamente attivato il protocollo dello scaricabarile, a dimostrazione di quanto la classe politica spagnola sia ancora lontana dal prendersi realmente la responsabilità di quanto successo.

L’AEMET, nella mattinata di oggi, 14 novembre, ha ufficializzato la fine dei vari stati d’allerta, mantenendo esclusivamente un’allerta di livello arancione sui litorali di Castellón e Alicante. Per questa volta, il peggio sembra essere passato.

[di Armando Negro]