sabato 8 Novembre 2025
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Più sostanze, più solitudine: la Generazione Z secondo il rapporto Espad 2024

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solitudine sostanze ESPAD Generazione Z

Nei giovani d’oggi aumenta il consumo di sostanze e diminuiscono relazioni e condivisione. È la fotografia impietosa che emerge dall’ultimo rapporto EspadItalia, relativo al 2024, che, grazie al lavoro dei ricercatori dell’Istituto di fisiologia clinica del CNR, prova a restituire una fotografia dei comportamenti a rischio tra gli studenti delle scuole superiori di secondo grado. Con il titolo “Sotto la superficie – le nuove sfide degli adolescenti tra rischi e quotidianità” lo studio ha analizzato il comportamento di oltre 20mila studenti, 52% maschi e con il 62% di minorenni, che provengono in maniera equilibrata da aree urbane o rurali.

A maggio la EUDA (European Union Drugs Agency), l’agenzia europea che studia, monitora e coordina le politiche sulle droghe e le dipendenze in Europa nata dall’evoluzione dell’EMCDDA, aveva sottolineato che nel 2024 il progetto European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs (ESPAD) ha compiuto i 30 anni dalla nascita dell’iniziativa sul monitoraggio dei comportamenti a rischio degli adolescenti in Europa in 37 Paesi partecipanti. “Sebbene l’attenzione resti concentrata sui comportamenti e sulle tendenze connesse all’uso di sostanze”, spiegavano, “questa edizione introduce una nuova attenzione particolare per il benessere mentale e le attività di prevenzione, riconoscendo la crescente importanza di questi aspetti nel determinare gli esiti per la salute degli adolescenti. Con l’evolversi dei comportamenti di questa fascia di età, il monitoraggio a lungo termine ESPAD continua a fornire informazioni essenziali per orientare gli sforzi di prevenzione e di definizione delle politiche, garantendo che le risposte rimangano efficaci e pertinenti”. E infatti il rapporto, oltre ad analizzare l’utilizzo di stupefacenti, farmaci, e stimolanti, si sofferma sulle abitudini dei ragazzi nei confronti del gioco d’azzardo, di internet, delle relazioni sociali, del gaming, di tendenze come quella degli hikikomori e nei comportamenti violenti.

Soddisfazione personale, internet e digitale

La soddisfazione personale rimane stabile intorno al 60%, ma con un calo rispetto ai livelli pre-pandemici. Le ragazze riportano sistematicamente livelli più bassi di autostima e benessere, un segnale di un disagio psicologico che continua a crescere anche dopo l’emergenza sanitaria. Le relazioni familiari restano un punto di riferimento: quasi l’80% degli studenti si dichiara soddisfatto del rapporto con i genitori, anche se cresce la quota di chi segnala conflitti o mancanza di dialogo. Sul fronte delle amicizie, l’83% afferma di avere un buon rapporto con i propri coetanei, ma un terzo riferisce di aver avuto problemi significativi con gli amici, un dato che suggerisce un indebolimento del tessuto relazionale.

Il digitale è ormai un’estensione strutturale della vita quotidiana dei giovani. Il 93% utilizza Internet ogni giorno e la maggioranza trascorre oltre quattro ore online, soprattutto le ragazze. L’attività più diffusa è l’uso di chat e social network (90%), seguita dalla fruizione di contenuti multimediali (83%) e dalla ricerca di informazioni (79%). I ragazzi, invece, risultano più coinvolti nel gaming e nell’accesso a siti per adulti. Ma il dato più preoccupante riguarda l’uso problematico di Internet: irritabilità, ansia quando si è offline, perdita di sonno e isolamento sociale sono indicatori di una vera e propria dipendenza digitale. I ricercatori fanno notare che: “In generale, l’uso a rischio di internet tende a diminuire con l’aumentare dell’età. A 15 anni, il 13% degli studenti si colloca in una condizione di rischio (M=9,6%; F=16%), percentuale che raggiunge il picco a 16 anni con il 14% (M=12%; F=17%) e che si riduce progressivamente fino a toccare l’11% tra i 19enni (M=9,9%; F=12%).

Il rapporto segnala inoltre la crescita dei fenomeni come hikikomori, “ghosting” e le “challenge online”, le “prove” che mescolano vulnerabilità psicologica, pressione sociale e spettacolarizzazione del rischio. In particolare il fenomeno degli hikikomori, giovani “che scelgono di isolarsi in modo prolungato dalla società, rinunciando progressivamente a qualsiasi forma di contatto sociale diretto”, è considerato in aumento, così come il “ghosting”, pratica che si riferisce all’interruzione dei contatti con amici, partner e conoscenti, soprattutto attraverso i dispositivi elettronici. “Nel 2024, circa il 41% degli studenti tra i 15 e i 19 anni ha affermato di essere stato ghostato o di aver ghostato, soprattutto le ragazze (M=33%; F=49%) confermando quanto il fenomeno sia sempre più diffuso”.

Un capitolo cruciale del rapporto è dedicato alla violenza tra pari, che coinvolge una parte significativa degli adolescenti, con forme che vanno dalle zuffe alle aggressioni vere e proprie. Spesso la violenza viene ripresa e diffusa online, trasformandosi in spettacolo e strumento di consenso nel gruppo dei pari. Si delinea così un modello di socialità ambivalente, in cui l’approvazione digitale pesa più dell’empatia reale. Basti pensare che la metà degli studenti è stata vittima di cyberbullismo almeno una volta nella vita, e il 47% nel corso dell’ultimo anno.

Consumo di sostanze

A livello di consumo di sostanze la cannabis è ancora la sostanza illecita più comunemente consumata, sebbene la prevalenza di uso nella vita sia scesa al livello più basso dal 1995, con il 27% che ha detto di averla provata almeno una volta. Sei studenti su dieci dichiarano invece di aver consumato almeno un prodotto a base di nicotina nella vita. Le sigarette tradizionali sono in diminuzione, ma vengono sostituite da sigarette elettroniche, dispositivi a tabacco riscaldato e nicotine pouches, spesso percepiti come meno nocivi e quindi più accettabili. Il fenomeno mostra un chiaro spostamento dal consumo esclusivo al policonsumo, con una diffusione crescente tra le ragazze. L’industria della nicotina, attraverso la diversificazione aromatica e il marketing, sembra aver trovato nuovi canali per mantenere viva la dipendenza tra i giovani.

L’alcol continua a essere l’elemento più radicato della socialità adolescenziale: oltre tre quarti degli studenti ne fa uso regolarmente. Si abbassa anche l’età del primo episodio di ubriachezza, che per una quota crescente avviene prima dei 14 anni, segnale di una familiarità precoce con l’intossicazione e di un bisogno di sperimentazione che si accompagna a fragilità emotiva e a mancanza di modelli adulti credibili.

Uno dei dati più significativi del rapporto è l’aumento dell’uso di psicofarmaci senza prescrizione, che raggiunge il livello più alto di sempre, il 21%, soprattutto tra le ragazze.
Si tratta spesso di ansiolitici o sonniferi reperiti in famiglia o online, utilizzati per gestire ansia, insonnia o stress emotivo. Parallelamente, cresce la presenza di sostanze sintetiche, in particolare stimolanti di nuova generazione, che rappresentano una sfida crescente per la prevenzione: prodotti spesso facilmente reperibili sul web e difficili da individuare con i metodi tradizionali.

Energy drink e gioco d’azzardo

Altre sostanze in costante aumento, e lo si vede dalle lattine che i ragazzi hanno costantemente in mano, sono gli energy drink, utilizzati almeno una volta nella vita dal 67% degli studenti interpellati. Parliamo dio bevande che contengono un mix di caffeina, glucosio, taurina, creatina e guaranà, ideate per aumentare il livello di energia e le prestazioni fisiche e mentali di chi li consuma, che sono di facile reperibilità e che però non riportano “i rischi o gli effetti negativi per la salute, soprattutto quando se ne effettua un consumo smisurato”.  Nel rapporto infatti viene ricordato che: “A questo proposito, alcuni studi evidenziano un legame tra il consumo di energy drink e disturbi cardiovascolari, gastrointestinali e del sonno, senza tralasciare l’apporto calorico che questi hanno per l’elevata presenza di zuccheri e che possono causare problemi di obesità”.

Altro dato degno di grande preoccupazione: il gioco d’azzardo – tradizionale e online – raggiunge il livello più alto mai registrato dallo studio. Si diffonde tra entrambi i generi e mostra connessioni strette con altri comportamenti a rischio, come l’uso di sostanze e la violenza. La gamblification, cioè la fusione tra videogame, siti “informativi” e meccanismi di scommessa è un vettore sottile ma potente di dipendenza.

Gaza, riconsegnate le salme di altri 3 ostaggi israeliani

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Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha annunciato di aver ricevuto da Hamas e consegnato all’esercito israeliano i corpi di tre ostaggi israeliani morti nella Striscia di Gaza. Le salme saranno portate in Israele per l’identificazione, come già avvenuto in altri casi: finora Hamas ha restituito i corpi di 17 ostaggi, e con questi tre il totale salirebbe a 20. Gli accordi per il cessate il fuoco prevedono che per ogni ostaggio morto restituito, Israele consegni i corpi di 15 palestinesi. Finora ne ha restituiti 225, ma solo 75 sono stati identificati a causa delle difficili condizioni nella Striscia, dove mancano strutture e strumentazione per l’identificazione.

Chat Control: la Danimarca riscrive la norma, ma i problemi sulla privacy rimangono

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Dopo il mancato accordo tra i 27 Stati membri e il conseguente rinvio del voto, il “Chat Control” è tornato al centro dell’agenda digitale europea. Giovedì 30 ottobre la presidenza danese del Consiglio dell’Unione europea ha riaperto il dossier più controverso della legislatura, diffondendo un documento di discussione che riscrive la proposta di regolamento CSAR (Child Sexual Abuse Regulation). Il testo, nato per combattere la diffusione online di materiale pedopornografico, puntava a imporre alle piattaforme digitali l’obbligo di sorvegliare in modo automatico i messaggi privati, anche quelli cifrati end-to-end, portando a uno screening preventivo dei contenuti (audio, foto, video). La nuova bozza segna un’inversione di rotta: i controlli non sarebbero più imposti in maniera indiscriminata, ma lasciati alla discrezionalità dei singoli fornitori di servizi, introducendo una “facoltatività” che mira a salvare la norma dopo il naufragio del voto in seguito al veto della Germania.

Si tratta di una mossa che tenta di ricucire la spaccatura politica sull’equilibrio, sempre più fragile, tra tutela dei minori e diritto alla privacy. Il 9 ottobre 2025 il Consiglio dell’Unione europea aveva annunciato il rinvio del voto sulla norma. Non si era raggiunta la maggioranza qualificata necessaria e la proposta era rimasta sospesa a tempo indefinito. La Germania aveva guidato il fronte del “no”. Insieme a Berlino si erano schierati anche Austria, Olanda, Finlandia, Polonia e Repubblica Ceca, mentre altri Paesi, incerti o divisi al loro interno, avevano preferito non esporsi. Il Chat Control, nella sua formulazione iniziale, elaborata nel 2022, prevedeva l’obbligo per le piattaforme digitali di scansionare automaticamente i messaggi privati attraverso algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale in grado di individuare immagini, testi o video riconducibili ad abusi sessuali su minori. Una misura pensata per contrastare un fenomeno grave e dilagante, ma giudicata da molti governi e associazioni come una minaccia diretta alla riservatezza delle comunicazioni. Le obiezioni si concentrano su due punti cruciali: la possibile compromissione della cifratura e il rischio di instaurare una sorveglianza di massa. Gli esperti di sicurezza avvertono che l’apertura di “backdoor” per consentire la scansione dei contenuti cifrati renderebbe vulnerabile l’intero ecosistema digitale, esponendo gli utenti a intrusioni e abusi. Un simile sistema porterebbe a un controllo di massa, con una quantità altissima di falsi positivi e il rischio di criminalizzare conversazioni innocue e inciderebbe direttamente sulla libertà di stampa e sulla protezione delle fonti giornalistiche, oltre che sulla sicurezza di attivisti e whistleblower.

La presidenza danese sta ora cercando un compromesso che ammorbidisca la norma, salvi la legge e, al tempo stesso, preservi la fiducia dei cittadini in un’Europa che rischia di diventare il laboratorio della sorveglianza digitale. La revisione danese, pur attenuando l’obbligatorietà della scansione, non ne elimina le criticità: sposta semplicemente il baricentro del controllo dallo Stato alle piattaforme tecnologiche, delegando loro una funzione di vigilanza privata che sfugge a ogni reale controllo democratico. Il futuro del Chat Control rimane così incerto. Il Parlamento europeo ha già indicato la preferenza per un sistema di monitoraggio mirato, autorizzato da un giudice e non basato su controlli automatici. Se la nuova bozza dovesse essere approvata, si aprirebbe un precedente destinato a incidere sull’intero quadro normativo europeo in materia di privacy digitale. La logica preventiva, applicata oggi alle chat, potrebbe domani estendersi ad altri ambiti, dal contrasto al terrorismo al controllo dell’informazione. In gioco non c’è solo una legge: c’è l’idea stessa di cittadinanza digitale. Accettare la scansione dei messaggi invocando la scusa di un bene superiore, anche se su base volontaria, significherebbe introdurre una forma di sorveglianza permanente, un super-Panopticon elettronico in nome della sicurezza.

I dipendenti di Amazon chiedono alla Big Tech di assumere una posizione etica sull’IA

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C’è chi costruisce l’intelligenza artificiale e chi, dentro le sue stesse fabbriche, ne teme la direzione. I lavoratori di Amazon hanno deciso di parlare, chiedendo attraverso una lettera aperta all’azienda di adottare un approccio più responsabile e umano nei confronti dell’implementazione degli strumenti di intelligenza artificiale. Per loro, la corsa al dominio tecnologico non è solo una sfida d’innovazione, ma una minaccia concreta alla democrazia, al lavoro e all’intero pianeta. Non è una battaglia qualunque: Amazon Web Services (AWS), la piattaforma cloud del colosso, alimenta oggi gran parte dello sviluppo globale dell’IA — compreso quello che rifornisce le forze militari impegnate a Gaza.

Il comunicato, promosso dal collettivo Amazon Employees for Climate Justice (AECJ) e aperto a tutte le persone dipendenti dell’azienda che desiderassero sottoscriverlo, raccoglie una serie di critiche rivolte all’intero settore dell’IA, mettendone particolarmente in luce i collegamenti tra i problemi riscontrati e le politiche aziendali di Amazon. Il gruppo accusa la società di aver abbandonato le promesse legate agli obiettivi climatici, di aver aumentato le emissioni per mantenere i vasti data center, di aver contribuito alla militarizzazione degli strumenti di sorveglianza, di collaborare con produttori di armi autonome e di sorvegliare tanto i propri dipendenti quanto i clienti.

L’esempio più recente di questa tendenza risale appena al 16 ottobre, quando Ring — la controllata di Amazon specializzata in videocitofoni — ha “annunciato con entusiasmo” di condividere le registrazioni dei propri utenti con Nova, la piattaforma di Flock Safety utilizzata da forze di polizia e servizi di immigrazione statunitensi. Le autorità non dovranno ottenere un mandato per accedere alle clip: useranno invece la funzione Community Requests per chiedere ai cittadini, in modo volontario, di consegnare i file di loro interesse. Già ad aprile Ring aveva rivelato un accordo analogo anche con Axon Enterprise, azienda che fornisce dispositivi e software per la sicurezza pubblica, ma che è perlopiù nota per la produzione di taser e bodycam.

La AECJ esprime preoccupazione per la strategia di Amazon, che impone l’uso di strumenti di intelligenza artificiale al personale con l’obiettivo di consolidare una Big Tech che sia in grado di operare con meno dipendenti, ma la cui produttività sia enfatizzata da soluzioni tecnologiche mirate. Il CEO, Andy Jassy, dichiara infatti di voler usare gli agenti di IA per rendere il lavoro «ancora più eccitante e divertente», tuttavia pochi giorni fa ha non di meno annunciato esuberi pari a 14.000 posizioni professionali. Secondo quanto riporta Gizmodo, il dirigente avrebbe confessato agli investitori che questi licenziamenti non siano dovuti alla sostituzione dei lavoratori con IA, né a ragioni finanziarie, bensì «a una questione culturale».

In questo clima tutt’altro che accogliente, i lavoratori chiedono ad Amazon di assumere una posizione di leadership etica che possa imporsi come modello per l’intero settore tecnologico, una premessa che viene articolata in tre punti principali:

  1. Alimentare i sistemi di intelligenza artificiale esclusivamente con energie rinnovabili locali e sospendere la fornitura di strumenti di IA destinati ad accelerare l’estrazione di idrocarburi;
  2. Promuovere un’implementazione dell’IA che includa il contributo di tutti i gruppi di lavoro dell’azienda, non soltanto dei vertici manageriali;
  3. Cessare la vendita di tecnologie di intelligenza artificiale utilizzate per la sorveglianza, la violenza e la deportazione di massa.

“I dipendenti di Amazon che firmano questa lettera credono nella costruzione di un mondo migliore, non nella costruzione di bunker in cui potersi rintanare”, conclude il comunicato, riferendosi alla tendenza di alcuni superricchi a predisporre rifugi nel timore che un’ipotetica intelligenza artificiale generale possa destabilizzare la società in modo violento. “Vogliamo che i benefici promessi dall’IA diano a tutti più libertà di giocare e rilassarsi, di trascorrere del tempo con le proprie famiglie e con gli amici, di emozionarsi a contatto con la natura, di creare, di sentirsi al sicuro essendo chi siamo”.

 

Olanda: vittoria del centrista D66, Jetten verso la guida del governo

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Nel voto parlamentare svoltosi il 29 ottobre nei Paesi Bassi, la formazione centrista D66 è stata confermata vincitrice e guidata dal 38enne Rob Jetten acquisisce la leadership della trattativa per il governo. Il partito ha conquistato circa il 18% dei consensi e, pur non avendo la maggioranza in proprio, parte ora in pole position per guidare la coalizione. Al contrario, il partito di estrema destra Partito per la Libertà (PVV), guidato da Geert Wilders, ha visto un calo significativo dei consensi e, nonostante l’esito ravvicinato, resta isolato nel panorama delle alleanze. Inizia ora una fase complessa di negoziati: D66 dovrà trovare almeno altri tre partner per formare un governo stabile nella camera bassa di 150 seggi.

Stop all’accesso libero ai siti porno: servirà la verifica dell’età

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Dal 12 novembre entra in vigore la nuova regolamentazione dell’Agcom che impone a tutti i siti pornografici di verificare la maggiore età degli utenti. Per accedere ai contenuti per adulti sarà necessario un controllo tramite un soggetto indipendente che certifichi l’età, tramite il meccanismo del “doppio anonimato”, senza utilizzare documenti personali come lo Spid né caricare foto. L’obiettivo è impedire ai minori di accedere ai portali a luci rosse tutelando al tempo stesso la privacy degli utenti. Con questa misura l’Italia introduce un sistema di controllo simile a quello già sperimentato in altri Paesi europei.

Circa 100.000 giovani ucraini sono fuggiti per non arruolarsi negli ultimi mesi

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Negli ultimi due mesi è aumentato notevolmente il numero di giovani che fuggono dall’Ucraina per non arruolarsi nell’esercito, dopo che il presidente Volodymyr Zelensky ha modificato le regole di uscita per gli uomini che non sono ancora idonei al servizio militare, che inizia a 25 anni, alla fine agosto. Nel dettaglio, secondo i dati forniti dalla guardia di frontiera polacca al giornale statunitense Politico, negli ultimi due mesi quasi 100.000 ragazzi ucraini di età compresa tra i 18 e i 22 anni hanno lasciato il loro Paese per rifugiarsi negli Stati vicini o confinanti. Germania e Polonia sono le nazioni che ospitano la più grande popolazione di rifugiati ucraini all’interno dell’Unione europea, ma con l’esodo registrato negli ultimi mesi i due Paesi stanno pensando di porre delle restrizioni alle politiche di accoglienza. Le criticità circa la presenza di un gran numero di giovani ucraini è stata sollevata soprattutto dai partiti più conservatori sia in Germania che in Polonia.

«Non abbiamo alcun interesse che i giovani ucraini trascorrano il loro tempo in Germania invece di difendere il loro Paese», ha dichiarato Jürgen Hardt, un importante deputato del partito conservatore di Merz, aggiungendo che «L’Ucraina prende le sue decisioni, ma la recente modifica della legge ha portato a una tendenza all’emigrazione che dobbiamo affrontare». Similmente, il partito di destra polacco Confederazione in una dichiarazione ha affermato che «La Polonia non può continuare a essere un rifugio per migliaia di uomini che dovrebbero difendere il proprio Paese, mentre grava sui contribuenti polacchi i costi della loro diserzione». Secondo i dati della guardia di frontiera polacca, dall’inizio del 2025 fino ad agosto circa 45.300 uomini ucraini di età compresa tra 18 e 22 anni hanno attraversato il confine con la Polonia, mentre negli ultimi due mesi (settembre e ottobre) il numero è salito a 98.500, ovvero 1.600 al giorno. Prima della modifica della legge, agli uomini di età compresa tra 18 e 60 anni non era consentito lasciare il Paese.

La Germania ospita circa un milione e duecentomila persone fuggite dall’Ucraina in seguito allo scoppio del conflitto nel 2022, mentre la Polonia ne ospita un milione: si tratta di oltre la metà di tutti gli ucraini con status protetto nell’Unione, secondo i dati Eurostat. La questione dei costi per l’accoglienza e il dibattito sui benefici sociali però cominciano a diventare preminenti soprattutto tra i partiti di destra. Stando ai dati per l’agenzia dell’impiego della Germania, circa 490.000 cittadini ucraini in età lavorativa percepiscono indennità di disoccupazione di lungo periodo in Germania. Soprattutto il partito Alternativa per la Germania (AfD), in ascesa nei sondaggi, ha chiesto la sospensione dei sussidi sociali agli ucraini. Inoltre, il partito è noto per essere contrario agli aiuti militari all’Ucraina. Lo stesso governo Mertz, stando a quanto riporta Politico, starebbe preparando un disegno di legge che negherebbe agli ucraini tali prestazioni, vista anche la crescente pressione per ridurre la spesa sociale. Il presidente polacco Karol Nawrocki, invece, ha recentemente posto il veto alla legge sugli aiuti agli ucraini, sostenendo che solo chi lavora e paga le tasse in Polonia ha diritto ai sussidi.

Il caso delle diserzioni di soldati o futuri soldati ucraini all’estero non è un fenomeno nuovo: già nel 2023 Zelensky aveva approvato una legge che prevedeva il rafforzamento delle pene del personale militare in caso di diserzione, inosservanza o critiche degli ordini, provocando la ribellione di molti soldati. Inoltre, era già emerso come molti uomini non fossero disponibili a combattere e per questa ragione le autorità li reclutavano con la forza. L’apparente cambio di passo rappresentato dall’allentamento delle regole per lasciare la nazione da parte di Zelensky in realtà aveva l’obiettivo (fallito) di far rientrare i giovani ucraini dall’estero senza il timore che poi non fossero più autorizzati a partire. Un’altra ragione che ha spinto il governo a modificare le regole era quella di scoraggiare i genitori dal trasferire i figli all’estero all’età di 16 o 17 anni, una tendenza segnalata dalle autorità. «Se vogliamo che i ragazzi restino in Ucraina, dobbiamo prima fare in modo che finiscano la scuola qui e che i genitori non li portino via» aveva detto il presidente ucraino annunciando la modifica della norma in estate, aggiungendo che diversamente avrebbero perso «il loro legame con l’Ucraina».

La modifica del regolamento non ha però prodotto gli effetti sperati. Al contrario, ha incrementato i flussi verso gli Stati europei, confermando come la maggior parte degli uomini ucraini non voglia andare al fronte e, di conseguenza, sia contrario alla guerra a oltranza contro la Russia.

Valfurva (Sondrio): scuolabus esce di strada e precipita in un torrente

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Un autobus scolastico con nove studenti a bordo è uscito di strada nel territorio di Valfurva (Sondrio) ed è precipitato nel torrente Frodolfo. Quattro minori hanno riportato ferite lievi e sono stati portati all’ospedale di Sondalo; condizioni più serie per l’autista, un 39enne, che però non è in pericolo di vita. L’incidente sarebbe stato causato da un malore del conducente.

Sudan: gli interessi globali dietro alla guerra dimenticata

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Nella giornata di domenica le Rapid Support Forces (RSF), truppe ribelli che dall’aprile 2023 contendono il potere alla giunta militare guidata dal generale Al-Burhan, hanno preso il controllo della città di El-Fasher, capitale dello stato del Nord Darfur e ultima roccaforte delle Forze Armate Sudanesi (FAS) nelle regioni occidentali del Sudan. Immagini e testimonianze restituiscono una carneficina, con centinaia di cadaveri e scene di esecuzioni di massa anche nei pressi dell’ospedale. Ultima mattanza di una guerra che in due anni e mezzo ha provocato un numero imprecisato di vittime (tra 60 e 150 mila a seconda delle stime) e circa 11 milioni di sfollati. Un disastro che avviene in un silenzio internazionale che nasconde non solo indifferenza ma, soprattutto, i torbidi interessi attraverso cui molti attori globali supportano uno dei due eserciti in campo.

La presa di El-Fasher, posta sotto assedio per 18 mesi, segna una conquista cruciale per le RSF che, dopo oltre due anni di sanguinosissima guerra civile, controllano ormai un terzo del territorio nazionale. Ma la conquista non significa il silenzio delle armi: la situazione nella città peggiora di ora in ora e le violenze contro la popolazione civile aumentano. Diversi rapporti, tra cui quello pubblicato dallo Humanitarian Research Lab dell’Università di Yale, documentano attraverso immagini satellitari i massacri compiuti dai miliziani delle RSF. E non sono solo le immagini dal cielo a raccontare la brutalità della situazione: anche numerosi video diffusi sui social network mostrano uomini armati che aprono il fuoco su civili inermi. Mercoledì in uno di questi filmati si vedevano i miliziani delle RSF camminare per i corridoi del Saudi Maternity Hospital di El Fasher, dove i militari hanno ucciso più di 460 pazienti e il loro accompagnatori. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che da aprile 2023 si sono verificati 185 attacchi contro strutture sanitarie, con almeno 1.204 morti e oltre 400 feriti.   Secondo la Rete dei Dottori Sudanesi, le RSF stanno uccidendo decine di persone su base etnica, proseguendo la mai interrotta pulizia etnica dei sudanesi non arabi. Le Forze Congiunte, alleate dell’esercito sudanese, accusano le RSF di aver ucciso più di 2000 civili in 2 giorni.   

Milizie delle Rapid Support Forces

Si moltiplicano intanto gli appelli accorati di alti funzionari delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana e di diverse ONG internazionali che chiedono la protezione dei civili rimasti a El-Fasher e l’apertura di vie di fuga sicure. Tom Fletcher, coordinatore degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite, si è detto «profondamente allarmato» dalle notizie di uccisioni sommarie e ha invocato «un cessate il fuoco immediato a El-Fasher, in tutto il Darfur e in tutto il Sudan». Anche il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Mahmoud Ali Youssouf, ha espresso grande preoccupazione per la situazione umanitaria e ha condannato le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, commessi dalle RSF.

Ma la devastazione che si consuma a El-Fasher è solo l’ultimo capitolo di una guerra fratricida iniziata il 15 aprile 2023 e che con estrema difficoltà trova spazio sui media occidentali. In due anni di guerra civile, i dati parlano chiaro: almeno 150 mila morti e oltre 12 milioni di sfollati. Secondo il World Food Programme, oggi 24,6 milioni di sudanesi – quasi la metà della popolazione – si trovano in una condizione di insicurezza alimentare, mentre 630 mila persone – il numero più alto al mondo – affrontano un livello catastrofico di fame. Oltre un bambino su tre soffre di malnutrizione acuta, una percentuale superiore del 20% rispetto alla soglia che definisce la carestia. Una crisi, questa, che ha guadagnato al Sudan il triste primato di peggior emergenza umanitaria del pianeta.

Le radici della tragedia però, affondano nella storia tormentata del Paese del Corno d’Africa, che dal 1956, anno dell’indipendenza dal potere britannico, ha conosciuto un susseguirsi di dittature militari e brevi parentesi democratiche, con la guerra civile come costante. Quando nel 2019, dopo grandi proteste popolari, il trentennale dittatore Omar al-Bashir fu deposto con un colpo di stato guidato dal generale al-Burhan, Mohamed Hamdan Dagalo – detto Hemedti – comandante delle RSF – da sempre fedeli ad Al-Bashir- comprese che per mantenere il proprio potere doveva voltare le spalle al vecchio dittatore e schierarsi con al-Burhan. 

Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, dal 2013 è il comandante delle RSF

Dopo la formazione di un governo civile-militare di transizione, le proteste non cessarono: la popolazione continuava ad accusare i militari di ostacolare l’operato dei civili. Nel 2021 i due generali organizzarono un nuovo colpo di stato, giustificandolo con l’incapacità delle forze civili di trovare un accordo. Presto però, iniziarono i dissidi tra i due leader, soprattutto sul destino delle RSF e sul loro eventuale assorbimento nei ranghi delle FAS. Nel frattempo, le RSF avevano guadagnato sempre più potere, anche grazie al controllo di numerose miniere d’oro nel Darfur: la loro subordinazione ai comandi delle FAS era impensabile per Hemedti. Così, il 15 aprile 2023, la milizia da lui guidata attaccò le posizioni delle FAS nella capitale Khartoum.

Dopo i primi mesi, in cui le FAS subirono pesanti sconfitte – tra cui la perdita di Khartoum e lo spostamento della capitale a Port Sudan – le violenze si estesero a gran parte del Paese. Fino all’offensiva lanciata dalle FAS nel settembre 2024, le due forze si erano consolidate su due direttrici: le RSF controllavano il sud-ovest del Paese, con alcune sacche ancora in mano alle FAS, come era El-Fasher, mentre le FAS dominavano il nord-est. Con la riconquista di Khartoum da parte delle truppe di al-Burhan, nel marzo di quest’anno, è apparso chiaro che nessuna delle due parti contempla la fine delle ostilità – nonostante i tentativi di mediazione promossi da Stati Uniti e Arabia Saudita – se non attraverso una vittoria militare.

È difficile non vedere gli interessi esterni che alimentano la guerra, vista la ricchezza del Sudan, terzo produttore di oro del continente con almeno 90 tonnellate estratte ogni anno. Oltre all’oro, il Paese dispone di giacimenti petroliferi – ridotti dopo la secessione del Sud Sudan – e di un prezioso sbocco sul Mar Rosso, ambito da molte potenze. La guerra civile non esisterebbe senza questi interessi e senza le armi fornite dagli attori internazionali. Proprio di questo ha parlato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres che lunedì ha esortato tutti i paesi che stanno interferendo nel conflitto e coloro che «forniscono armi alle parti in guerra» a smettere di minare gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco 

Dietro al-Burhan si schierano Arabia Saudita, che compete con gli Emirati Arabi Uniti (EAU) per l’influenza sulla costa orientale africana, ma anche Iran, Egitto e Turchia, quest’ultima storicamente vicina alle FAS e, dalla fine dello scorso anno, fornitrice di droni che molti analisti considerano decisivi per l’offensiva delle Forze Armate Sudanesi. Dall’altra parte, Dagalo ha cercato di accreditarsi come un leader affidabile attraverso una serie di visite internazionali, ma le accuse di genocidio in Darfur hanno fatto cadere le sue ambizioni. Gli Emirati, principali importatori dell’oro sudanese, hanno interesse a sostenere le RSF, che controllano la maggior parte delle miniere del Darfur. Per questo sono oggi i maggiori fornitori di armi alle milizie di Hemedti, con forniture che transitano attraverso la Libia di Haftar e il Ciad, che nel 2023-24 ha ricevuto due miliardi di dollari dagli EAU nel quadro di un accordo di cooperazione militare.

Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, generale e leader delle Forze Armate Sudanesi (FAS), nonché presidente del Consiglio sovrano di transizione del Sudan.

Mentre le grandi potenze – Cina, UE e Stati Uniti – restano a guardare senza però perdere di vista i propri asset strategici nella regione, la Russia gioca su più tavoli: dall’inizio del conflitto ha fornito armi e uomini alle RSF in cambio dello sfruttamento delle miniere d’oro sotto il loro controllo, ma oggi fa affari anche con al-Burhan, puntando all’accesso diretto al Mar Rosso.

Al momento non sembra esserci alcuna prospettiva di soluzione diplomatica. I colloqui finora si sono conclusi senza risultati concreti. A settembre, il gruppo noto come Quad – formato da Stati Uniti, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti – ha presentato un piano in più punti per porre fine al conflitto, lanciato dopo l’emergere di una possibile frammentazione del Sudan, segnata dalla nascita di un governo in esilio, che controllerebbe le aree in mano alle milizie di Hemedti. Sarebbero anche iniziati dei colloqui indiretti a Washington la scorsa settimana, ma che come risultato hanno portato al massacro di El-Fasher. Il piano del Quad, accolto con speranza a livello internazionale, è stato invece respinto da al-Burhan, che ha ribadito tramite il Ministero degli Esteri «che qualsiasi discussione sul futuro del Paese deve avvenire con la partecipazione esclusiva dei sudanesi, senza interferenze o imposizioni da parte di soggetti esterni». E se da una parte arriva un rifiuto a sedersi al tavolo delle trattative, dall’altra le RSF lasciano parlare le armi: nell’ultimo mese, con il culmine nel massacro di El-Fasher, il conflitto si è ulteriormente inasprito. Difficile immaginare che le potenze del Quad possano perseguire una pace reale mentre continuano a sostenere, ciascuna, uno dei due schieramenti.

In tutto questo, come sempre, a pagare il prezzo più alto sono i civili: centinaia di migliaia di persone che vivono l’inferno quotidiano della guerra. In questi due anni, i media occidentali hanno dedicato poche e frammentarie attenzioni al conflitto sudanese, e solo in occasione dei massacri più atroci, come quelli di El Geneina e del campo profughi di Zamzam. Sembra che, nonostante le urla che arrivano dal Sudan, la comunità internazionale scelga di voltarsi dall’altra parte. Gli unici che davvero desiderano la pace sono coloro che nella guerra non hanno interessi: i milioni di civili torturati, stuprati, rapiti e uccisi, mentre il conflitto continua per il volere di pochi potenti Paesi.

Separazione delle carriere: cosa prevede la norma approvata in via definitiva

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Il Parlamento ha approvato in via definitiva il disegno di legge costituzionale che introduce la separazione delle carriere dei magistrati, uno degli storici cavalli di battaglia del centro-destra guidato da Silvio Berlusconi e ora del governo Meloni. La riforma, che modifica diversi articoli della Costituzione ed è stata fortemente promossa dal Guardasigilli Carlo Nordio, è al centro di un acceso dibattito in ambito politico e giuridico. Essendo una legge di revisione costituzionale, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione, non potrà essere promulgata prima che siano trascorsi tre mesi dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Se, in questo lasso di tempo, lo richiederanno almeno un quinto dei membri di uno dei due Rami del parlamento, 500mila elettori o cinque Consigli regionali, la riforma verrà sottoposta a referendum confermativo e dunque a decidere sulla sua entrata in vigore saranno direttamente i cittadini. Un destino che, numeri alla mano, appare sostanzialmente scontato.

I due Consigli Superiori

Il cuore della riforma è rappresentato dalla netta distinzione, a livello costituzionale, tra la carriera dei magistrati giudicanti (coloro che emettono sentenze) e quella dei magistrati requirenti (il Pubblico Ministero che svolge l’azione penale). Con le modifiche all’articolo 104 della Costituzione, si stabilisce che, al posto dell’attuale Consiglio Superiore della Magistratura unico, ne vengono istituiti due: il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente. Entrambi, come oggi accade con il CSM, saranno presieduti dal Presidente della Repubblica. La composizione prevede, di diritto, il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione rispettivamente per il CSM giudicante e requirente. Una delle novità più importanti riguarda il sistema dell’elezione diretta da parte dei magistrati, attualmente in vigore per la componente “togata” del CSM, che lascia posto al meccanismo del sorteggio. I due terzi dei componenti CSM della magistratura giudicante saranno infatti estratti a sorte tra i magistrati giudicanti, mentre i due terzi dell’altro CSM saranno estratti dalla lista dei magistrati requirenti. L’altro terzo dei membri, in entrambi i casi, sarà estratto da un elenco di professori universitari e avvocati con almeno 15 anni di esperienza, compilato dalle Camere in seduta comune. A detta dei promotori della riforma, il sorteggio mira a depoliticizzare le scelte e a superare il cosiddetto “governo delle correnti”; secondo i critici, affidare il governo della magistratura alla casualità potrebbe avere effetti deleteri sulla qualità delle decisioni.

L’Alta Corte Disciplinare

Anche l’articolo 105 della Costituzione viene riscritto. La giurisdizione disciplinare sui magistrati, oggi affidata in prima istanza al CSM e in appello alla Corte di Cassazione, viene infatti presa in carico da un nuovo organo, l’Alta Corte disciplinare. La sua composizione è mista, vedendo la presenza di 6 membri “laici”. Una metà è nominata dal Capo dello Stato, mentre gli altri 3 vengono estratti a sorte da un elenco di professori e avvocati con almeno 20 anni di esperienza compilato dal Parlamento. Vi sono poi 9 membri “togati”, nello specifico 6 magistrati giudicanti e 3 requirenti. Essi vengono sorteggiati tra coloro che hanno almeno 20 anni di servizio e hanno svolto funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione. Il mandato dei giudici dell’Alta Corte, che non sono rieleggibili, dura 4 anni. Contro le pronunce del nuovo organismo è consentito un solo grado di appello, sempre dinanzi alla stessa Alta Corte, ma con un collegio diverso da quello che ha emesso la pronuncia di primo grado.

Un “problema” che non c’è

Un dato di fatto messo sul tavolo da critici e osservatori è che una sostanziale separazione delle carriere, in realtà, nell’ordinamento italiano è già presente, rendendo la riforma costituzionale in questione una “soluzione” a un problema in gran parte inesistente. I cosiddetti passaggi di funzione, infatti, sono un fatto assai raro, e a confermarlo sono i dati: analisi su periodi pluriennali mostrano che, mediamente, i cambi di funzione si contano in poche decine l’anno rispetto a un organico di migliaia di magistrati. Nel 2006, la riforma Castelli ha infatti stabilito un limite massimo di quattro passaggi in carriera, rendendoli peraltro molto più problematici a livello logistico. Un giudice che vuole diventare pubblico ministero, o viceversa, deve infatti spostarsi in un altro distretto di Corte d’Appello, che peraltro non può essere quello che ha competenza sui reati commessi dai magistrati del proprio (costringendolo dunque a trasferirsi in un’altra regione, che spesso non può essere nemmeno quella confinante). Tra il 2011 e il 2016, tali passaggi hanno coinvolto rispettivamente lo 0,21% dei requirenti e lo 0,83% dei giudicanti. A infliggere il colpo finale è stata, nel 2022, la riforma Cartabia, che ha ridotto il numero massimo dei “traslochi” da quattro a uno, che deve essere obbligatoriamente messo in atto nei primi dieci anni di servizio. Per questo motivo chi contesta la riforma costituzionale afferma che essa incida soprattutto sul governo della magistratura (duplicazione dei CSM, nuove regole disciplinari) più che su una reale novità sostanziale nella quotidianità degli uffici: la separazione proposta formalizza e irrigidisce una distinzione che, in larga parte, già si dava per consolidata nei fatti.

L’incidenza sui processi

È cruciale sottolineare come questo provvedimento, per quanto epocale sotto il profilo dell’ordinamento giudiziario e del significato politico ad esso attribuito da promotori e detrattori, non contenga alcuna disposizione diretta finalizzata ad accelerare lo svolgimento dei processi, vero nodo problematico della giustizia nel nostro Paese. La separazione delle carriere e la riforma del governo della magistratura impattano infatti sul versante strutturale e organizzativo, riguardando le carriere dei magistrati, la loro governance (CSM) e il sistema disciplinare, ma non toccano le regole processuali (penali, civili o amministrative) che determinano la durata concreta di un’udienza o di un procedimento. Nello specifico, non si interviene sui fattori che tradizionalmente provocano i ritardi processuali: la cronica carenza di personale (magistrati e ausiliari), l’insufficienza di risorse materiali, la complessità burocratica delle procedure, il carico eccessivo di cause, gli effetti della prescrizione sul numero dei ricorsi.

Il referendum

Nei prossimi mesi, è praticamente certo che il provvedimento verrà sottoposto ai cittadini, che saranno chiamati alle urne per un referendum confermativo. Esso è lo strumento previsto dall’art. 138 della Costituzione per presentare al corpo elettorale una legge di revisione costituzionale approvata in seconda lettura con maggioranza assoluta, ma non con la maggioranza qualificata dei due terzi. Dovranno chiedere la consultazione un quinto dei membri di una Camera, 500mila elettori o cinque consigli regionali, e tecnicamente la richiesta dovrà essere presentata nei termini e nelle forme previste dalla legge n.352/1970; l’Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione verifica la regolarità delle sottoscrizioni e la legittimità delle istanze prima che l’esecutivo proponga al Presidente della Repubblica l’indizione della consultazione, formalizzata con decreto presidenziale. Differentemente da quanto accade con i referendum abrogativi, il referendum confermativo non richiede un quorum di partecipazione. La norma entra in vigore se ottiene la maggioranza dei voti validi espressi, qualunque sia l’affluenza alle urne.