BARCELLONA – La Generalitat della Catalogna ha diramato lo stato d’emergenza per contenere la diffusione di un nuovo focolaio della peste porcina africana. Il virus, per il momento, la situazione sembra essere sotto controllo, ma il rischio epidemico è tale da mettere gravemente in pericolo il settore della carne di suino, uno dei mercati essenziali dell’economia catalana e spagnola. I primi casi sono datati 26 novembre, quando a Bellaterra, in un’area limitrofa del Parco Naturale della Collserola (alla periferia di Barcellona), sono stati rivenuti i cadaveri di due cinghiali. Nel corso delle due settimane successive, fin quando è stata approvata l’applicazione dello stato di emergenza, i casi di cinghiali infetti sono saliti a tredici, spingendo le autorità a dichiarare l’emergenza e il blocco delle esportazioni di carne.
Immediatamente la Generalitat, in accordo con la Commissione Europea, ha adottato misure di contenimento per evitare che il virus possa diffondersi fuori dal perimetro nel quale sono stati ritrovati i vari cinghiali infetti. Per 91 municipi dell’area sono state imposte alla popolazione restrizioni d’accesso ai parchi naturali, alle zone boschive, ai prati, ai campi coltivati e ai sentieri di campagna esterni alle aree urbane, fatta eccezione per le aree di accesso delle case. Inoltre si proibisce il trasporto di mandrie fuori dall’area d’alto rischio e l’introduzione di maiali domestici e prodotti d’origine suina all’interno del territorio. A questo si aggiunge il divieto di caccia, escludendo l’attività necessaria per contrastare il virus.
Intanto nel perimetro circostante al rinvenimento dei due primi casi è stata definita una fascia di controllo di venti chilometri, che include il Parco Naturale della Collserola, nel quale è stata messa in moto una ricerca approfondita di eventuali altri cinghiali infetti o resti di cibo contaminato.
Il virus, che non rappresenta rischi per gli esseri umani, né per le specie animali che non siano suine, può presentare una carica virale molto alta e, in alcuni casi, la mortalità dovuta all’infezione raggiunge il 100% delle probabilità. Le vie di trasmissione possono essere oronasali, cutanee, subcutanee ed endovenose e il periodo di incubazione oscilla tra i tre e i ventuno giorni. Nonostante al momento non sia stato riscontrato alcun tipo di infezione in maiali, né d’allevamento, né domestici, la diffusione del virus può avvenire attraverso contatto tra animali, ingestione d’alimenti, trasporto, contatto con abbigliamento e parassiti.
Nonostante il virus non rischi di compiere il salto di specie e risultare così pericoloso per la salute degli umani, la diffusione tra i cinghiali si sta ripercuotendo rapidamente sull’economia legata al settore. La crisi ha portato alla sospensione delle esportazioni di prodotti derivati dal suino a più di quaranta paesi nel mondo, tra i quali si annoverano Russia, Brasile, Stati Uniti, Messico e Giappone. La Cina, invece, principale importatore di prodotti spagnoli derivati dal suino, continua a mantenere gli accordi commerciali, applicando delle restrizioni esclusivamente ai prodotti provenienti dalla provincia di Barcellona. Soltanto lo scorso novembre, in occasione della visite dei reali di Spagna a Pechino e dell’incontro tra Felipe VI e Xi Jinping, il colosso asiatico aveva approvato tre nuovi protocolli destinati a beneficiare il settore della pesca e della carne di suino. Nel 2024 le esportazioni spagnole verso la Cina hanno raggiunto le 540.000 tonnellate con un valore superiore al miliardo di euro.
Il blocco delle destinazioni d’esportazione si è riflesso rapidamente anche nel mercato interno: in poco più di due settimane il valore della carne di maiale all’ingrosso ha subito un calo drastico per tre volte, raggiungendo in queste ultime ore la cifra di 1,04 euro al chilo. La conseguenza diretta colpisce violentemente il settore dell’allevamento, che già per la prossima settimana stimano una perdita economica media di 31 milioni di euro, che si sommano ai 30 milioni persi dal ritrovamento dei cinghiali infetti. Inoltre, la crisi sta colpendo anche le persone che lavorano nel settore; negli ultimi giorni 458 persone impiegate nei macelli dell’area hanno subito una sospensione del contratto di lavoro da parte di Grupo Jorge, azienda aragonesa di prodotti carnici.
Resta da capire l’origine del virus: nonostante non sia ancora stata data una spiegazione ufficiale, il Ministero dell’Agricoltura ha annunciato l’apertura di un’investigazione. Difatti, il primo cadavere di cinghiale sarebbe stato rinvenuto a cento metri dal centro di ricerca IRTA CreSA che negli ultimi giorni stava lavorando sul virus. Nonostante ciò non si scartano altre ipotesi, tra le quali la possibilità che il virus provenga da resti di salumi infetti provenienti dall’estero gettati nella spazzatura in un’area vicina al parco naturale della Collserola.
Se da un lato questa situazione mette in evidenza il disastro economico che potrebbe esplodere in caso di epidemia tra gli allevamenti, dall’altro gli effetti e le responsabilità della crisi non sono da limitare alla diffusione del virus. Negli ultimi anni la Catalogna ha visto un incremento senza eguali della produzione di prodotti derivati dal suino attraverso un processo che ricalca le caratteristiche delle monocolture intensive. Come affermato da Javier Guzmán, direttore della ONG Justicia Alimentaria, il collasso scaturito dalla crisi è il risultato di un mercato gestito da poche aziende ma che fa sì che un intero territorio, tanto umanamente, quanto ambientalmente, sia organizzato verso un’unica attività economica. Questo processo, monopolizza la forza lavoro e si fonda su un paradossale circolo vizioso nel quale, a volte, due impostazioni economiche fondate su questo principio sono relazionate, come nel caso delle monocolture intensive di soia e mais che diventano il mangime destinato all’allevamento dei maiali.
Il settore della carne di maiale, motivo d’orgoglio per le istituzioni nazionali e comunitarie, si è dimostrato fragile. Nonostante la situazione non sia ancora divenuta tragica, l’affidabilità economica di questo colosso leader nel settore alimentare in Europa e nel mondo ha già iniziato a vacillare.
Il conto alla rovescia è quasi terminato: il 6 febbraio 2026 iniziano le Olimpiadi invernali Milano Cortina, appuntamento che è stato presentato attraverso un’unica parola d’ordine: sostenibilità. Come spesso accade i grandi eventi fanno però rima con costi elevati in termini economici, sociali e ambientali e le “nostre” Olimpiadi non fanno eccezione, a cominciare dalla pista da bob di Cortina la cui spesa da 47 milioni è lievitata a un totale di 124 milioni di euro. Quello dello Sliding Center “Eugenio Monti” – luogo dove si disputeranno le gare di bob, skeleton e slittino – è un caso così pa...
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Uno studio scientifico, secondo cui il cambiamento climatico costerebbe 38 trilioni di dollari all’anno entro il 2049, è stato ritirato in seguito a due commenti diffusi ad agosto sulla qualità dei dati e sulla metodologia adottata. The economic commitment of climate change, pubblicato il 17 aprile 2024 su Nature, analizzava l’impatto delle variazioni di temperatura e precipitazioni sulla crescita economica globale. Sotto accusa per aver sovrastimato gli effetti economici del cambiamento climatico, i ricercatori del Potsdam Institute for Climate Impact Research (PIK) hanno ammesso gli errori, aggiungendo che le modifiche sono «troppo sostanziali per una correzione» per una semplice rettifica, portando alla ritrattazione dell’articolo. Una decisione che comporta anche una botta alla reputazione dell’antica rivista scientifica britannica, affossando uno lavoro che è stato citato ben 168 volte e consultato oltre 300mila volte, ripreso da media, analisti finanziari e documenti sul rischio climatico, inclusi quelli di alcune banche centrali per giustificare politiche green.
Il lavoro, firmato da Maximilian Kotz, Leonie Wenz e Anders Levermann, si inseriva nel filone dell’economia climatica empirica, che tenta di quantificare l’impatto diretto delle variabili climatiche sulla crescita del PIL. Utilizzando dati storici su temperatura, precipitazioni e reddito pro capite di oltre 1.600 regioni nel mondo, lo studio applicava modelli econometrici non lineari per stimare come deviazioni climatiche persistenti influenzino la produttività economica. La tesi centrale era che una quota consistente dei danni futuri fosse già “incorporata” nel sistema economico, a causa delle emissioni passate, anche in scenari di rapida mitigazione. Da qui la cifra shock: 38 trilioni di dollari di perdite annue entro metà secolo, pari a circa il 19% del reddito globale. Si tratta di una delle stime più elevate mai apparse su una rivista scientifica generalista.
Le prime contestazioni sono emerse pochi mesi dopo, sotto forma di commenti tecnici (“Matters Arising”) pubblicati su Nature. I critici hanno individuato da subito problemi specifici: anomalie nei dati economici di alcuni Paesi – in particolare una serie storica dell’Uzbekistan tra gli anni Novanta e Duemila – che, per via della struttura del modello, esercitavano un peso sproporzionato sulle stime globali. Altri rilievi riguardavano la gestione dell’incertezza statistica, giudicata insufficiente rispetto all’ampiezza delle conclusioni. Secondo i commentatori, correggere quei problemi riduceva drasticamente l’entità dei danni stimati e ampliava gli intervalli di confidenza, rendendo le cifre headline molto meno solide. Dopo una rianalisi interna e la pubblicazione di una versione rivista come preprint, gli stessi autori hanno riconosciuto che le modifiche non erano compatibili con una semplice correzione, portando al ritiro completo dell’articolo. È il sesto articolo ritirato dalla rivista Nature quest’anno, dal 27 gennaio a oggi. Le ritrattazioni non rappresentano di per sé un fallimento del procedimento scientifico, ma uno dei suoi meccanismi fondamentali di autocorrezione. Il problema emerge quando studi ancora provvisori o metodologicamente fragili vengono rapidamente trasformati in strumenti di legittimazione politica, regolatoria o finanziaria, prima che il dibattito scientifico abbia fatto il suo corso. In questi casi, il danno non riguarda solo la qualità della ricerca, ma anche la fiducia del pubblico nelle istituzioni scientifiche.
La decisione di Nature di ritirare l’articolo ha avuto un’eco amplificata sui social media, dove molti utenti hanno bollato i ricercatori come “corrotti”, e utilizzato il caso per bollare l’intero cambiamento climatico come una “truffa politica”. Tuttavia, la ritrattazione di The economic commitment of climate change non dimostra che l’intera scienza del clima sia una farsa né che i danni economici del riscaldamento globale siano inventati, evidenzia semmai la necessità di distinguere tra ricerca scientifica, narrazione mediatica e uso politico dei risultati. Al di là del dibattito sulle origini antopriche o meno, la letteratura scientifica sull’impatto del “cambiamento climatico” su ecosistemi, agricoltura, salute umana e sistemi socio-economici comprende migliaia di studi indipendenti, modelli fisici, osservazioni satellitari e valutazioni interdisciplinari, che non dipendono da un singolo articolo. Detto ciò, stime estreme, se comunicate senza l’adeguata cautela metodologica, possono alimentare sensazionalismo e allarmismo, portando a strumentalizzazioni ideologiche, a maggior ragione su temi così controversi e divisivi. La lezione non è quella di screditare la scienza, ma di ricordarne i limiti e le responsabilità, in un periodo in cui essa, invece, è finita per assurgere a culto infallibile. Tra modelli complessi, incertezze statistiche e decisioni pubbliche esiste un passaggio delicato che richiede rigore, trasparenza e sobrietà comunicativa.
Almeno due persone sono morte nelle ultime ore dopo un attacco di droni ucraini contro la regione russa di Saratov, nel sud-ovest del Paese. Il governatore Roman Busargin ha riferito di danni a diversi appartamenti di un edificio residenziale e alla rottura di finestre in un asilo e in un policlinico, entrambi vuoti al momento dell’attacco. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato di aver abbattuto 41 droni ucraini durante la notte. In Ucraina, raid russi hanno colpito infrastrutture energetiche a Kherson e Odessa, causando blackout diffusi e almeno quattro feriti.
L’infanzia non è irreversibile. L’aurora della vita si può ripresentare ogni giorno nel ciclo stesso di ogni giornata, come una rinascita. Questo avviene, ad esempio, se decidiamo di tornare a scuola, se cioè ci prendiamo del tempo e assumiamo l’atteggiamento dello stupore che porta a un insegnamento continuo, a un ricominciare a imparare qualcosa di nuovo, senza porci il problema che rappresenti sempre una conferma – questa sì che è vecchiaia, una vecchiaia non anagrafica ma ideologica, che riduce i margini delle nostre espressioni, che ci fa sentire inadatti, prigionieri dello stress di aderire sempre a ciò che ci viene proposto o imposto.
La curiosità che ne può scaturire sta su due fronti: una curiosità oggettiva, verso le cose, verso tutto ciò che abita il mondo e una curiosità soggettiva, quella ad esempio che il bambino, l’essere bambino, il sentirsi bambino attira verso di sé come portatore di una logica differente dall’adesione automatica ai luoghi comuni.
Il bambino allora catalizza l’interesse degli altri che gli riconoscono una identità, un modo stupefatto di vedere le cose, di insegnarci un linguaggio che ha una sua logica imprendibile ma generosa. Un bambino che prende sul serio la realtà perché gioca, la smonta e ne esce per poi ricominciare a esplorare.
Partiamo dall’idea che il bambino non deve diventare qualcun altro. Altrimenti finirebbe come Pinocchio, che dopo aver attraversato le vicende più straordinariamente simboliche, aver incontrato i personaggi più strampalati e quelli più saggi, si trasforma irreversibilmente da burattino di legno a “burattino” in carne e ossa, perché deve gettare via se stesso come nel finale della storia di Collodi, quando Geppetto mostra al Pinocchio, diventato “buono” e “ragazzino perbene”, quella sua “buffa”, legnosa identità di prima, appoggiata a una seggiola. Ha osservato acutamente Giorgio Manganelli che Pinocchio, in realtà, «non sarebbe mai più stato né burattino né ragazzo. Pinocchio ritrova la felicità dinamica della puerizia, la sua vocazione ad iniziare».
Grande tema l’infanzia, tema filosofico, esistenziale che ci interroga sull’essere, e sul restare, umani in un mondo che impone passaggi come prove di inevitabile crescita, quasi di guarigione da quella condizione immaginifica, aperta all’imprevedibile che dovrebbe essere l’infanzia, quale condizione per scoprire e insieme immaginare: tenendo sempre, costantemente collegati questi due orizzonti.
Alessandro Gaudio ha scritto un libro che rappresenta anche una guida originale e importante su questi argomenti (Elogio dell’infanzia, Algra Editore 2025), incrociando le esperienze della soggettività tra apprendimento e lettura, mediante la letteratura ma nel superamento stesso del linguaggio. Il suo libro mi ha ricollegato a Wittgenstein e Popper maestri di scuola, a quella riforma scolastica nell’Austria di cent’anni fa, ispirata alla psicologia di Karl Bühler, che voleva andare contro l’idea di una scuola primaria diretta a formare piccoli uomini “delle classi lavoratrici del popolo, pii, buoni, docili e industriosi”. Andar contro per dare invece valore, nell’apprendimento, a fattori quali il contesto, il punto di vista, la reciprocità.
«Viaggiare fino all’isola remota e marginale dell’infanzia – scrive Gaudio – significa tentare di mantenersi in quello stato di assoluta libertà, staccarsi dal tempo in cui viviamo», attivare i contro-codici della memoria e della immaginazione, superando la repressione della fantasia che vorrebbe impedire qualsiasi legame «tra infanzia ed espressione artistica, tra infanzia e poesia». Anche per interrompere la catena distruttiva dell’istruzione permanente e di una obbediente pedagogia degli adulti.
Gli Stati Uniti hanno revocato le sanzioni imposte al giudice della Corte suprema brasiliana Alexandre de Moraes, che aveva presieduto il processo conclusosi con la condanna a oltre 27 anni di carcere dell’ex presidente Jair Bolsonaro per tentato colpo di Stato. Le sanzioni, introdotte a luglio mentre il procedimento era ancora in corso, prevedevano il congelamento di eventuali beni negli USA e il divieto di rapporti economici con cittadini statunitensi. Erano state applicate in base al Global Magnitsky Act, con l’accusa di censura, detenzioni arbitrarie e indagini politicizzate, in particolare contro Bolsonaro, alleato di Donald Trump.
Il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ha ordinato ispezioni ministeriali su due scuole della Toscana che hanno svolto incontri formativi con Francesca Albanese, la relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi occupati che ha dettagliato il genocidio israeliano a Gaza. Valditara ha dichiarato «di aver letto su organi di stampa che la relatrice avrebbe rilasciato dichiarazioni che, se comprovate, potrebbero costituire ipotesi di reato». Secondo l’accusa, Albanese avrebbe definito «fascista» il governo Meloni e lo avrebbe accusato di «complicità con il genocidio israeliano», invitando gli studenti a proseguire le occupazioni di protesta. Le ricostruzioni provengono esclusivamente da due quotidiani governativi – Il Giornale e Il Tempo – entrambi di proprietà del deputato leghista Antonio Angelucci. Il ministro ha evidentemente giudicato sufficienti queste ricostruzioni di stampa per avviare l’inquisizione ministeriale contro i dirigenti scolastici rei di aver invitato una relatrice ONU a parlare agli studenti.
Le iniziative sotto indagine si sono svolte presso il Liceo Montale di Pontedera (Pisa) e la scuola media dell’Istituto Comprensivo “Massa 6”. A chiedere l’intervento di Valditara era stata un’interrogazione parlamentare del deputato di Fratelli d’Italia, Alessandro Amorese, secondo cui «iniziative scolastiche di questo tipo, se svolte in assenza di un adeguato contraddittorio, rischiano di assumere il carattere di un indottrinamento ideologico, lontano dai principi di pluralismo, equilibrio formativo e imparzialità che devono guidare l’attività educativa nelle scuole italiane». Da qui la richiesta a Valditara di «accertare che, pur nel rispetto dell’autonomia scolastica, le modalità con cui è stato organizzato l’incontro siano state svolte nel rispetto della salvaguardia dell’equilibrio formativo e dell’imparzialità».
A criticare fortemente l’azione del governo è la Rete “Docenti per Gaza”, rete di insegnanti che da mesi propone nelle scuole gli incontri con Albanese come momenti di informazione agli studenti. In un comunicato hanno parlato di «ingerenze e intimidazioni». In un duro comunicato i docenti per Gaza hanno chiesto al governo se è a conoscenza dell’esistenza dell’articolo 33 della Costituzione – che garantisce la libertà d’insegnamento – e «come sia possibile invocare il contraddittorio davanti a chi rappresenta con carica ufficiale il Diritto internazionale». La rete degli insegnanti ha inoltre denunciato il clima di censura che vige nelle scuole.
Nei suoi tre anni in carica come ministro dell’Istruzione del governo Meloni, Giuseppe Valditara ha più volte attirato le critiche di studenti e docenti per aver introdotto un clima di censura, controllo e repressione nelle scuole e nelle università italiane. Il ministro nel recente passato ha emesso una circolare in cui chiede alle scuole di sanzionare e bocciare gli studenti che occupano le scuole per protesta; ha più volte ordinato ispezioni e controlli disciplinari su professori accusati di essere critici nei confronti di Israele; e appena un mese fa si è spinto fino a vietare un corso di formazione per la pace e contro il riarmo organizzato dall’Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole e delle Università.
La giustizia boliviana ha disposto la detenzione preventiva per cinque mesi dell’ex presidente Luis Arce, al termine di un’udienza durata oltre sei ore. Arce è indagato per Inadempienza degli obblighi e Comportamento anti-economico, in relazione a presunti episodi di corruzione risalenti al periodo in cui era ministro dell’Economia. Secondo la Procura, avrebbe autorizzato trasferimenti illeciti di fondi del Fondo Indigeno verso conti privati, senza verificare l’attuazione dei progetti finanziati. Il giudice anticorruzione Elmer Laura ha ravvisato un grave danno economico e rischi di fuga e inquinamento delle prove. Arce si è dichiarato innocente, denunciando un’azione politicamente motivata.
Alle 16.37 di un venerdì come tanti altri di quel 1969, cinquantasei anni fa, nel cuore di Milano che come sempre pulsava forte di lavoro ed energia, a due passi dalla stazione delle corriere dove i pendolari si travasavano dentro la grande città, è cominciata in un modo devastante e orrendo quella che proprio in quei giorni il settimanale inglese The Observer ha definito la “strategia della tensione”. La strage di Piazza Fontana, definita anche “la madre di tutte le stragi”, ha inaugurato col sangue e con l’orrore il copione di morte e di paura che in Italia è poi andato in scena per molti anni a venire. Una lunga stagione di terrore e incertezza che è passata tra varie tappe del dolore, come l’attentato alla Questura milanese cinque anni dopo, e poi l’Italicus, Piazza della Loggia, la stazione di Bologna e tutti gli altri eventi insanguinati della cronologia arrivata agli anni ’80, come in una macabra geografia degli eccidi di vittime innocenti che avrebbero dovuto preparare e soprattutto giustificare una svolta autoritaria nel Paese. Erano del resto un’epoca e un’Italia di forti tensioni sociali, con gli autunni caldi e i cortei in piazze che brulicavano rabbia e tensioni, un impegno diffuso e consapevole in larghe fette della società a fare fronte comune per il diritto al lavoro e allo studio, ma anche per divorzio e aborto che per tanti divennero buoni motivi per prendere le botte nelle manifestazioni e nelle scene di guerriglia urbana, dura e cupa, che hanno poi dato ispirazione ad una copiosa narrativa di libri e film.
Fermare il PCI a tutti i costi
In quegli anni, il Partito Comunista Italiano era il più grande e solido al di fuori del Patto di Varsavia e questo non poteva non preoccupare gli americani, oltre che innescare una reazione delle forze moderate che hanno costruito, nell’ombra, una strategia militare e piani di assalto alla democrazia con l’apporto di forze eversive di matrice nera, così come di apparati deviati dello Stato che le hanno utilizzate e piegate ai propri scopi. Ma in quella sciagurata compagnia di assassini e depistatori, in quell’opaco sottobosco composto da estrema destra, terrorismo e ambienti paramilitari, tra sicari e bombaroli, tra chi ha preparato congegni esplosivi, chi li ha piazzati nei luoghi della società civile e chi ha coperto o cancellato le tracce, c’erano anche uomini di potenze straniere che in Italia avevano una posizione strategica, come gli agenti della CIA che hanno costellato, nell’ombra e sotto mentite spoglie, tutte le vicende luttuose e oscure di questo paese nel Dopoguerra. Tanto da diventare i registi e i mandanti di progetti eversivi come il Piano Solo del 1964, o il Golpe Borghese del 1974. Ma anche gli organizzatori e gestori delle reti armate clandestine come Gladio, che coi suoi “gladiatori” e i suoi depositi di armi avrebbe dovuto tamponare il fronte orientale, fare da argine all’avanzata dei comunisti e frenare la loro ascesa. Impedire loro, comunque, di arrivare al governo del Paese, con le buone o con le meno buone.
L’edificio della Banca Nazionale dell’Agricoltura, all’interno del quale ebbe luogo l’attentato terroristico di Piazza Fontana
In questo clima, con queste premesse, la strategia della tensione per seminare morte e paura nel Paese e approfittare delle conseguenti devastazioni nella società civile: Piazza Fontana non è stato solo la prima tappa di un calvario, è stata l’inaugurazione in grande stile di un massiccio progetto eversivo che era stato costruito nei dettagli nei mesi precedenti. Da aprile a dicembre, in quell’anno, si erano contati 17 attentati che hanno fatto da prove generali a quello che è successo nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in un tranquillo pomerggio d’inverno. Fino, appunto, a quel boato che ha sollevato tutto il palazzo e il marciapiede davanti, lasciando 17 cadaveri senza vita perfino tra i passanti, così come tra i clienti presenti in quel momento negli uffici e nel personale della filiale.
Una scatola di acciaio dentro una borsa di pelle
Una banca trasformata in un mattatoio da un ordigno ad altissimo potenziale, le stime parlavano di sette chili di tritolo: “portavamo fuori i feriti con gli zerbini perché non c’erano barelle a sufficienza”, ha raccontato uno dei soccorritori accorsi sul luogo. Una specie di perdita di innocenza collettiva, quella di un Paese che improvvisamente ha dovuto fare i conti con la paura di attacchi indiscriminati, costruita con una bomba messa dentro ad una scatola di metallo, e tutto insieme all’interno di una borsa di pelle, una delle tante borse portate per affari e per lavoro in quello e altri posti. Le ricostruzioni dei periti e degli artificieri, le indagini dei magistrati che sono arrivati in quella devastazione con gli occhi sgranati e increduli, hanno accertato che l’esecutore materiale dell’attentanto ha piazzato la borsa sotto ad una sedia, su cui poi ci si è seduto per fingere di compilare qualche scartoffia. La sigaretta accesa che teneva fra le dita è servita come innesco per incendiare il pezzo di miccia che fuoriusciva dalla stessa borsa, e una volta accesa il killer ha avuto tutto il tempo di alzarsi, posare i fogli e uscire dalla banca. Dietro di sé ha lasciato un urugano di potenza e di morte: il “fornello” sul pavimento che è servito per la deflagrazione, un cratere di novanta centrimetri di diametro, ha provocato un’esplosione con onda d’urto dal basso verso l’alto che ha scosso il palazzo dalle fondamenta. I clienti che erano impegnati nelle tradizionali contrattazioni del venerdì sono stati letteralmente travolti e falciati dalla forza dell’esplosione. I soccorritori giunti sul posto erano convinti di trovare una caldaia esplosa, perché nessuno immaginava o voleva credere ad una bomba, hanno trovato urla, disperazione, corpi martoriati, sangue, muri anneriti e divelti.
Cinque bombe in cinquanta minuti
Le indagini sono iniziate a 360 gradi, come si diceva all’epoca, in un clima di indignazione e di attonito stupore. “Dobbiamo capire prima di tutto se si è trattato di un fatto con una dimensione politica”, disse a caldo Ugo Paolillo uno dei magistrati impegnati nei sopralluoghi, per misurare la distanza che c’era nella loro testa e nella testa dei cittadini dal clima di tensione che sarebbe diventato d’ora in avanti la quotidianità italiana. Gli attentatori non avevano lasciato nulla al caso: la lamiera di acciaio della scatola che custodiva la bomba era di tipo “martellato”, ossia non permetteva di lasciarci sopra impronte digitali, un artigiano di Lainate che le produceva ha visto il suo prodotto in un’immagine del tg serale e l’ha riconosciuto, chiamando i carabinieri. La preparazione meticolosa di questo e di tutti gli attentati preparatori nei mesi precedenti, è stata riconosciuta nelle lunghe e tormentate vicende giudiziarie che hanno fatto seguito ai fatti. In particolare, il coinvolgimento degli estremisti neofascisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura all’organizzazione della strage, anche se le loro vicende processuali si sono risolte con un’assoluzione in secondo grado. E’ stato accertato il loro coinvolgimento nelle fasi preparatorie, con l’acquisto di 50 timer, la ricerca delle scatole di metallo e l’acquisto a Padova di borse in pelle simili a quelle utilizzate per contenere gli ordigni. Perché Piazza Fontana, atto primo della strategia di tensione che ha poi imprigionato il Paese, non è stata un atto isolato. Nello stesso giorno, il piano prevedeva altri quattro attentati tra Milano e Roma. Alla Banca Commerciale di Piazza della Scala fu ritrovato un ordigno inesploso, mentre contemporaneamente a Roma tre bombe sono esplose alla BNL di Via San Basilio, a Piazza Venezia e all’altare della Patria. Altri esplosivi, per fortuna ritrovati inerti, furono trovati alla Cassazione e alla Procura generale della capitale, così come al tribunale di Milano e in alcuni uffici giudiziari di Torino. Un attacco simultaneo su larga scala che in 53 minuti ha distrutto la serenità di un Paese che, pur lacerato da scontri sociali e politici, non avrebbe mai immaginato di diventare per anni un teatro di una guerra clandestina condotta da forze oscure contro i fondamenti della Repubblica e della Costituzione.
Il neofascista Giovanni Ventura, inizialmente accusato insieme a Franco Freda: entrambe furono assolti in secondo grado.
Otto processi, nessun colpevole
Infinita e avvilente l’Odissea giudiziaria che ha preso il via nel febbraio 1972 col primo processo a Roma: il primo di otto procedimenti giudiziari in 28 anni, l’ultimo avviato nel 2000 e conclusosi come tutti gli altri con assoluzioni per tutti gli imputati. Solo in tempi più recenti, però, è stata accertata la responsabilità del movimento di Ordine Nuovo che nella sua ala veneta ha incubato e coltivato questi progetti stragistici e distruttivi. Il filo nero che lega le stragi e che è stato tirato fuori dal giudice istruttore Guido Salvini, nell’ultimo capitolo di questa infinita vicenda giudiziaria. Tre giorni dopo la strage viene arrestato Franco Freda, che per i carabinieri è il “mostro” di Piazza Fontana, ed è il caso di ricordare che quel 15 dicembre è anche il giorno in cui Giuseppe Pinelli è volato giù da una finestra al quarto piano della Questura di Milano: “la diciottesima vittima innocente di Piazza Fontana”. Tra le procure di Milano e Roma c’è un braccio di ferro nelle istruttorie sulla strage: la prima è orientata a seguire la pista nera, mentre nella capitale si punta a scavare nel mondo degli anarchici. Fatto sta che a Roma la Corte si dichiara incompetente e rimanda gli atti a Milano, dove però il procuratore generale chiede il trasferimento ad altra sede per motivi di ordine pubblico, in un clima incandescente e con i cittadini ancora storditi per gli effetti della strage. La Cassazione allora decide di assegnare il processo al tribunale di Catanzaro dove vengono unificati i due tronconi di indagine.
Finalmente, il 18 gennaio 1977 prende il via il processo a Catanzaro, dove due anni più tardi Freda e Ventura vengono condannati all’ergastolo insieme a Guido Giannettini che era un agente del Sid, il servizio segreto in funzione fino al 1977, quando vennero creati SISMI e SISDE. Condanna anche per due agenti dei servizi. Due anni dopo, però, dopo che Freda e Ventura sono scappati all’estero (in Costarica e Argentina), la Corte di appello calabrese annulla le condanne per insufficienza di prove. La Suprema Corte annulla la pronuncia e rinvia il processo a Bari, dove però il tribunale nel 1985 conferma le assoluzioni e la Cassazione mette la parola fine nel 1987, quando viene a Caracas viene arrestato Stefano Delle Chiaie, neofascista, terrorista e fondatore di Avanguardia Nazionale che nell’ottobre dello stesso anno, insieme a Massiliano Fachini, va a processo a Catanzaro (il settimo): il procedimento si conclude con un’assoluzione per non aver commesso il fatto, con sentenza confermata nel 1991.
La pista nera del giudice Salvini
I funerali di Stato delle vittime nel Duomo di Milano, 15 dicembre 1969
Sette processi e 23 anni per tornare daccapo, come in un beffardo gioco dell’oca. Bisogna attendere il 1998 con l’inchiesta del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, che punta decisamente la barra delle indagini sugli ambienti dell’estrema destra e dell’eversione nera legata a Ordine Nuovo, associata nel corso degli anni a diverse altre stragi ed eventi terroristici. Vengono imputati di strage Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni, Delfo Zorzi e Carlo Digilio. Il procedimento si conclude con l’assoluzione degli imputati, Digilio che ha collaborato con la giustizia è l’unico teoricamente colpevole, avendo ammesso le proprie responsabilità come esperto di esplosivi e logistica. Ma è intervenuta la prescrizione a fare piazza pulita. La figura di Digilio, in particolare, è emblematica e racchiude sfumature che la dicono lunga sugli ambienti dove è stato preparato l’attentato di Piazza Fontana. Romano di adozione veneziana, soprannominato “Zio Otto” per la sua passione per una pistola denominata Otto Label e deceduto per una macabra coincidenza proprio il 12 dicembre (2005), da universitario era entrato a far parte del Centro Studi Ordine Nuovo. Più avanti, è stato uno degli informatori italiani della basi NATO in Veneto, seguendo le orme del padre Michengelo che da tenente della Guardia di Finanza, col nome in codice di “Erodoto”, era un informatore dell’Oss, rete di intelligence americana che poi sarebbe diventata la Cia.
Un filo nero da Milano alla stazione di Bologna
“Zio Otto” ha tenuto l’alias di suo padre ed era stipendiato con 300mila lire dagli americani, ma non ingannino le note di colore. Partendo da Piazza Fontana, “Zio Otto” al secolo Digilio è stato un personaggio di primissimo piano nella galassia dell’eversione nera, come ha avuto occasione di ribadire anche in un libro il giudice Salvini. Il quale è stato poi sottoposto a inchiesta da parte del collega veneziano Felice Casson per le sue indagini su Piazza Fontana e per un dossier di intercettazioni finite poi in una bolla di sapone: “Ho passato più tempo a difendermi davanti al Csm che a occuparmi delle indagini su queste vicende”, disse poi l’interessato raccontando di una guerra intestina tra magistrati impegnati nelle inchieste sulle stragi. Digilio era operativo in una triangolazione diretta con Ordine Nuovo e con Gilberto Cavallini, ex Nar, che riforniva di armi e che è stato condannato all’ergastolo per la strage alla stazione di Bologna per concorso in strage “nel contributo di agevolazione fornito sul piano logistico e organizzativo” a Fioravanti, Mambro e Ciavardini già condannati come esecutori materiali. Il filo nero che ha trovato il giudice Salvini, da Milano a Bologna. Da Piazza Fontana al 2 agosto 1980.
Per l’illustre settimanale TIME la “persona” dell’anno è l’Intelligenza Artificiale, insieme ai suoi creatori. La scelta, decretata con la copertina più prestigiosa che il magazine nato nel 1923 realizza ogni anno dal 1927, è dovuta al fatto che la tecnologia «sta influenzando, nel bene o nel male, le nostre vite». Nella pratica, le copertine realizzate sono due: la prima riproduce la famosa foto del 1932, Lunch atop a skyscraper(pranzo su un grattacielo), ma al posto degli operai che pranzano a 250 metri da terra vi sono i protagonisti della rivoluzione tecnologica in atto: Mark Zuckerberg (Meta), Lisa Su (Advanced Micro Devices), Elon Musk (Tesla, Space X), Jensen Huang (NVIDIA), Sam Altman (Open AI), Demis Hassabis (Google DeepMind), Dario Amodei (Anthropic) e Fei-Fei Li (ImageNet). Nella seconda, invece, le stesse personalità sono inserite in una struttura gigante che forma le lettere “AI”, con una grande impalcatura intorno, come a suggerire i grandi lavori in corso nel mondo delle cosiddette Big Tech.
Se guardiamo ai CEO che hanno in mano una buona fetta del futuro dell’umanità, bisogna notare che è la terza volta che la rivista mette in copertina un gruppo di persone: prima di loro erano stati protagonisti “I Guardiani”, giornalisti che per il loro lavoro rischiavano la vita, e poi “Silence Breakers”, le donne che erano uscite allo scoperto dando il là al movimento Me Too. Se invece guardiamo alla scelta dell’IA, anche qui è la terza volta che la scelta cade su oggetti o concetti: dal personal computer nel 1982 al pianeta terra nel 1988, per arrivare al 1996 quando la rivista puntò sulla rivoluzione degli utenti dei social con un “Tu” (“You”) a caratteri cubitali sulla cover.
Al di là delle questioni stilistiche, è un’incoronazione che lascia molto su cui riflettere. Ci troviamo in un passaggio storico particolarmente delicato. Mentre l’intelligenza artificiale comincia a mostrare in modo concreto il proprio potenziale – dalla capacità di analizzare enormi quantità di dati all’automazione di processi complessi – emergono con sempre maggiore chiarezza anche i rischi connessi a questa tecnologia, spesso sottovalutati nel dibattito pubblico. Il problema non è l’innovazione in sé, ma la velocità con cui viene adottata senza regole certe, senza un’adeguata riflessione collettiva e senza chiarire che, quando si parla di tecnologia, il vero discrimine non è lo strumento, ma l’uso che se ne fa. L’IA non è neutra, perché riflette intenzioni, interessi e modelli culturali di chi la progetta e la utilizza. Promette efficienza, semplificazione e comodità, ma il prezzo potrebbe essere più alto di quanto sembri: una progressiva delega decisionale agli algoritmi, una riduzione dello spazio per il dubbio e il pensiero critico, un controllo sempre più pervasivo dei comportamenti individuali. Il rischio concreto è quello di guadagnare qualche vantaggio immediato, perdendo però libertà, autonomia e capacità di giudizio. In un contesto simile, interrogarsi oggi sui limiti e sulle responsabilità dell’intelligenza artificiale non è un esercizio teorico, ma una necessità. E le notizie degli ultimi due mesi impongono una riflessione.
Il 22 ottobre scorso, il Future of Life Institute ha lanciato un’iniziativa che chiede ai governi di tutto il mondo di introdurre «un divieto che blocchi lo sviluppo della super-intelligenza [artificiale]» fino a quando «non ci sarà un ampio consenso scientifico sul fatto che la tecnologia sarà sviluppata in maniera affidabile e controllabile». Sempre ad ottobre una inchiesta del Financial Times ha svelato come l’intelligenza artificiale abbia reso estremamente semplice e rapida la creazione di contenuti visivi realistici favorendo le truffe online: secondo le stime di Deloitte, l’impatto complessivo delle frodi basate su intelligenza artificiale, nel solo settore finanziario, potrebbe arrivare a toccare i 40 miliardi di dollari entro il 2027. A novembre, invece, la notizia ha riguardato i primi licenziamenti di massa negli USA: secondo l’ultimo rapporto di Challenger, Gray & Christmas, solo nel mese di ottobre 2025 sono stati annunciati 153.074 licenziamenti, un aumento del 175% rispetto all’anno precedente e il dato più alto dal 2003. Accade perché, in nome dell’efficienza e dell’automazione, interi comparti produttivi stanno sostituendo la manodopera con sistemi basati sull’AI. Sempre a novembre abbiamo assistito all’appello nazionale “IA BASTA!”, con gli insegnanti che denunciano quello che definiscono «l’attacco finale alla scuola della Repubblica» da parte del ministero dell’Istruzione, accusato di voler imporre strumenti di IA centralizzati nelle attività didattiche.
L’ultima notizia riguarda Spotify, al centro del boicottaggio di band e utenti perché Daniel Ek, cofondatore e CEO, attraverso il suo fondo di investimento ha finanziato un’azienda europea di tecnologia militare basata su intelligenza artificiale per sistemi di difesa, inclusi droni e applicazioni militari avanzate. Sta accadendo che diverse band, dopo aver abbandonato la piattaforma, vengono sostituite dall’IA, che ricostruisce le canzoni imitando il suono, la struttura e persino nei testi. Forse è questo il vero spartiacque del nostro tempo: sistemi capaci di neutralizzare il conflitto culturale trasformandolo in simulazione. Alla fine, il rischio non è solo ascoltare musica senza artisti, ma abituarsi a un mondo in cui anche il dissenso può essere “automatizzato” e digerito senza creare nessun problema.
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