Nelle ultime ore, ad Haiti, le forze di polizia keniote hanno avuto uno scontro a fuoco con bande armate durante un’operazione finalizzata a liberare la città di Gauthier. Gli scontri sono avvenuti nella cornice della Missione di sicurezza multinazionale, approvata alcuni mesi fa dal Consiglio di sicurezza delle Nazione Unite per stabilizzare la regione, in preda all’influenza delle gang. La polizia è stata aggredita dopo che gli agenti hanno preso il controllo della Strada Due, dove i membri delle bande criminali avevano eretto posti di blocco. Contro la squadra d’élite keniota sono state lanciate anche bombe molotov.
Raccolta firme contro l’autonomia differenziata: oltre 100.000 adesioni
La raccolta firme online per il referendum contro la legge sull’autonomia differenziata ha superato le 100mila adesioni in meno di due giorni, raggiungendo il 20% delle 500.000 richieste. Il Comitato promotore “Sì all’Italia, unita – libera – giusta”, di cui fanno parte Cgil, M5S e PD, parla di «un risultato che va al di là delle nostre migliori aspettative – hanno dichiarato i membri del comitato promotore – e che testimonia una larghissima condivisione della nostra battaglia in difesa dell’unità del Paese».
Tiziano Terzani, 20 anni senza il viaggiatore alla ricerca della verità
Sono passati vent’anni da quando Tiziano Terzani, circondato dall’amore di sua moglie, Angela Staude, e dei suoi figli, Folco e Saskia, immerso nella natura della valle dell’Orsigna ha «lasciato il corpo», come amava dire. Fiorentino, nato nel 1938 da una famiglia operaia, ha fin da subito mostrato uno spiccato interesse verso lo studio; difatti con ottimi risultati e grandi sacrifici uscì con il massimo dei voti dal Liceo Classico e ottenne, per merito, la borsa di studio in Giurisprudenza dalla Scuola Normale di Pisa. Disinteressato alla carriera d’avvocato, venne assunto a Ivrea dall’Olivetti, che gli diede l’occasione di mettersi in marcia e soddisfare il bisogno di evasione che lo contraddistinse. Fu proprio grazie all’esperienza in azienda che, dopo essere stato in Sudafrica, scrisse i suoi primi reportage, per la rivista L’Astrolabio, fondata da Ferruccio Parri. Fu allora che il giornalismo si insediò nella sua vita.
La necessità di conoscere da vicino anche ciò che più detestava, lo portò a vincere un’altra borsa di studio alla prestigiosa Columbia University di New York. Qui si avvicinò alla politica e alla guerra, seguì l’esplosione delle lotte sociali e le proteste contro la guerra in Vietnam. Ma fu alla Stanford University di Los Angeles che approfondì quella che diverrà la sua passione e la sua ragione di vita: la lingua e la cultura cinese.
Tornato in Italia, Tiziano aveva chiaro che il suo lavoro doveva portarlo in Asia. Dopo aver girato le redazioni di mezza Europa, a realizzare il suo sogno fu il settimanale tedesco Der Spiegel, che lo invierà come corrispondente e per il quale lavorerà per trent’anni, vivendo tra Singapore, il Vietnam, la Cambogia, la Cina, il Giappone, la Thailandia e infine l’India.
Terzani ha espresso pienamente la necessità di fare un giornalismo «diverso», attento al dettaglio e rigorosamente ossessionato dalla realtà dei fatti; ha dimostrato il bisogno per un giornalista di rifiutare l’obiettività del giornalismo anglosassone, calandosi nella Storia con tutte le scarpe, lasciandosi emozionare dal racconto e finendo per commuoversi davanti all’ingresso dei carri armati vietcong a Saigon, dove lui fu uno dei pochi giornalisti rimasti per raccontare la fine di quel conflitto.
A muoverlo fu spesso l’obbligo morale di conoscere anche «l’altro», ciò che nella stampa occidentale veniva generalmente definito come «nemico» e questa fu una delle peculiarità principali della sua missione; fu tra i primi a passare le rive del Mekong ed entrare nei villaggi per conoscere i vietcong; si mimetizzò per avvicinarsi all’antica cultura cinese schiacciata dalla censura del Partito Comunista; partì alla volta dell’Unione Sovietica per osservare da vicino i risultati immediati del crollo comunista e l’origine del fondamentalismo islamico e, dopo l’11 settembre, quando gli Stati Uniti, spesso con l’aiuto di firme autorevoli, proclamavano la necessità di esportare la «civiltà», Terzani, ormai cessata l’attività di giornalista, si perse tra i deserti dell’Afghanistan e le scuole coraniche del Pakistan per conoscere quei talebani disumanizzati dal racconto della stampa occidentale.
Tiziano Terzani non dimostrò solo la curiosità di andare a vedere la Storia da vicino, ma ebbe il coraggio di correggersi, spesso con delusione, su quelle ideologie che avevano fatto sognare la sua generazione. Sinceramente felice per la vittoria degli oppressi vietnamiti contro la strapotenza statunitense, non poté far altro che ricredersi quando tornò in Vietnam e vide il seguito di quella storia. Da curioso ammiratore di Mao, non appena realizzò il suo sogno e arrivò nel 1980 nella Cina di Deng Xiaoping, dovette scontrarsi con tutt’altra realtà.
«Mi fu subito chiaro che la realtà era meno affascinante dei sogni. Andai a cercare quella speciale forma di socialismo che si diceva fosse stata costruita in Cina, ma non trovai altro che un esperimento fallito malamente» scrisse in La porta proibita. Iniziò così a raccontare gli aridi frutti della devastazione causata dalla rivoluzione maoista, la distruzione di ogni elemento dell’antica cultura imperiale e l’estrema povertà nella quale versava la cittadinanza cinese. Viaggiò in lungo e in largo, scappando dallo stretto controllo della polizia, inerpicandosi tra le valli del Tibet e immergendosi tra i deserti dello Xinjiang, non solo per scovare cosa restasse di quella Cina oramai perduta, ma soprattutto per scriverne. Questo lo costrinse, nel 1984, a un mese di rieducazione e all’espulsione dalla Repubblica Popolare per «crimini controrivoluzionari».
La curiosità di raccontare un’Asia diversa, lontana dalle guerre e dalla povertà, lo portò a Tokyo, nella quale visse cinque anni. Il Giappone, in piena esplosione capitalista, non gli permise di dimenticare la delusione cinese. La soffocante vita dei salaryman, l’obiettivo nazionale di vincere la guerra economica contro gli Stati Uniti e la difficoltà nell’entrare in contatto con una cultura troppo nascosta, scatenarono in lui una profonda depressione, che riuscì ad alleviare solo dieci anni dopo, attraverso l’esperienza di viaggio raccontata in Un indovino mi disse. Era il 1993 e Terzani, ricordatosi di una profezia ricevuta nel 1976 da un indovino a Hong Kong, che gli sconsigliava di volare durante tutto l’anno, colse l’opportunità di svolgere il suo mestiere lentamente, via terra, attraversando con ogni mezzo possibile l’intero continente asiatico, accostando al proprio lavoro un racconto, quasi antropologico, della divinazione.
Ormai stanco della professione, si trasferì in India nella speranza di incontrare un mondo lontano dai ritmi del consumismo, legato alla spiritualità e alla tradizione. L’ultima parte della sua vita venne sconquassata dalla diagnosi di un cancro all’intestino, ma anche in questo caso, Tiziano sfruttò l’occasione per rimettersi in viaggio, alternando le cure al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York alla scoperta della medicina tradizionale asiatica. Ormai in pensione e pronto ad intraprendere l’ultima parte della sua vita, Terzani non poté esimersi dallo schierarsi vigorosamente contro la guerra; all’indomani dell’attentato al World Trade Center, Longanesi pubblicò Lettere contro la guerra, una raccolta di lettere di Tiziano, dedicate a suo nipote Novalis, frutto del viaggio in Asia centrale e finalizzate a restituire uno sguardo umano sulla militanza islamica.
A vent’anni dalla sua morte, il suo lavoro ci porta ad una riflessione sullo stato di salute di questa professione. Forse il giornalismo d’oggi, perennemente informato, saturo di contenuti e breaking news, affollato per qualche giorno su una notizia, ha dimenticato la lezione di Tiziano. Dovremmo prenderci il tempo per approfondire, soffermandoci sui dettagli, riprendendo in mano il lascito di un maestro che passò la vita a «scrutare i fiori da un cavallo in corsa».
[di Armando Negro]
Libano, nella notte raid aerei israeliani su 5 città
Nelle ore notturne Israele ha condotto pesanti bombardamenti almeno su 5 città e villaggi nel sud del Libano, in risposta al mortale attacco missilistico contro la città drusa di Majdal Shams attribuito dalle forze israeliane e dall’intelligence USA a Hezbollah (che ha negato ogni addebito). Lo ha riferito il canale tv Hezbollah AlManar. Gli aerei da guerra dell’IDF «hanno effettuato attacchi su El-Khiyam e Kfar Qila nel Libano meridionale», così come «alla periferia di Abbasiya e Burj alShimali nel distretto di Tiro». Secondo lo stesso organo di informazione, inoltre, un missile è stato lanciato contro il villaggio di Tair Kharfa.
Al G20 per la prima volta si parla di una patrimoniale globale sui super ricchi
L’incontro dei ministri delle finanze del G20 a Rio de Janeiro si è chiuso con quella che è stata definita come la prima storica «dichiarazione fiscale autonoma e completa che che riflette i risultati trasformativi ottenuti fino a oggi dalla cooperazione fiscale internazionale»: su proposta dello stesso Paese ospitante, i ministri hanno riconosciuto l’importanza “che tutti i contribuenti, inclusi gli individui con un patrimonio netto molto elevato“, paghino la giusta quota di tasse. Dopo anni, insomma, i Paesi del G20 hanno iniziato a mettere sul piatto l’eventualità di introdurre misure fiscali che colpiscano i patrimoni dei cosiddetti “super-ricchi”: una svolta che nel suo piccolo si configura come una prima presa di posizione nei confronti della tassazione dei patrimoni degli ultra-miliardari, che arriva in un momento storico in cui la forbice dell’iniquità nella distribuzione della ricchezza si restringe sempre più.
Il vertice del G20 tra i ministri dell’economia si è tenuto a Rio de Janeiro tra giovedì 25 e venerdì 26 luglio. In occasione dell’incontro, il Brasile aveva lanciato la proposta di introdurre una tassa globale sui patrimoni degli ultra-miliardari, fissandola al 2%. Molti Paesi, primo fra tutti gli Stati Uniti, si sono mostrati sin da subito contrari alla proposta; nonostante ciò, il documento finale introduce effettivamente una discussione sulla eventualità di tassare i “super-ricchi”. I ministri, nello specifico, oltre a riconoscere la necessità di colpire i patrimoni dei miliardari, si impegnano ad attuare – “nel pieno rispetto della sovranità fiscale” e in maniera coordinata – le misure adeguate per assicurarsi che i più ricchi paghino veramente le tasse, tra le quali figura l’eventualità di mettere a punto sistemi di controllo anti-evasione di maggiore efficacia. Malgrado la dichiarazione finale discuta del tema in maniera molto generale, e non proponga effettive istanze pratiche, essa si potrebbe configurare come un primo piccolo passo verso la tassazione dei patrimoni degli individui più ricchi del mondo.
Se nei confronti delle multinazionali sono già presenti forme di tassa globale minima, l’eventuale introduzione di una misura fiscale verso i patrimoni individuali dei “super-ricchi” risulta ancora oggetto di discussione. A favore di essa si sono mossi molti Paesi e altrettante associazioni, tra cui Oxfam, che in Italia ha anche lanciato una raccolta firme per “introdurre un’imposta europea sui grandi patrimoni” così da “finanziare sanità, scuola, lavoro e lotta ai cambiamenti climatici”; analoga proposta – che ha raggiunto un milione e mezzo di firme – è stata lanciata dalla piattaforma globale di Oxfam assieme ad altre organizzazioni, proprio in occasione degli incontri di Rio. In generale, i promotori di queste iniziative portano a sostegno dell’introduzione di una tassa sui patrimoni la sostanziale iniquità nella distribuzione della ricchezza. Secondo uno studio pubblicato dalla stessa Oxfam giusto qualche giorno dopo la proposta del Brasile, il famoso 1% più ricco avrebbe infatti accumulato nell’ultima decade 42 milioni di milioni di dollari, circa 34 volte la ricchezza accumulata nello stesso periodo dal 50% più povero. Se la ricchezza media accumulata dall’1% è infatti pari a circa 400.000 dollari, quella del 50% più povero ammonta a 335 dollari. Un rapporto reso noto questo gennaio, invece, mostra come la maggior parte dei grandi ricchi si concentri in poche aree del mondo, e che le disparità paiono destinate ad aumentare sempre più.
[di Dario Lucisano]
Sardegna: il turismo naturalistico minacciato dalla speculazione energetica
A inizio luglio la giunta regionale sarda ha approvato una moratoria che blocca l’autorizzazione di nuovi impianti per l’estrazione di energia rinnovabile. Una decisione, seppur giudicata timida e poco risolutiva nei termini in cui è stata adottata, che rappresenta la prima vittoria di un vasto movimento nato e cresciuto negli ultimi mesi che si definisce «contro la speculazione energetica» e contro «l’assalto delle multinazionali» al territorio sardo. Un movimento che non si accontenta e chiede che siano fermati anche i progetti già approvati, che stanno riempiendo la Sardegna di impianti eolici e solari che serviranno non a generare energia per il territorio, ma a fare della regione un centro per l’esportazione di energia verso l’Italia continentale e l’estero. A scendere in campo nella protesta ora sono anche oltre 60 imprese e guide che si occupano di turismo sostenibile e naturalistico, che hanno inviato una lettera per spiegare le ragioni della loro protesta. Abbiamo deciso di pubblicarla integralmente, nella convinzione rappresenti un prezioso contributo per comprendere le ragioni di quella parte di Sardegna che si oppone alle pale e per capire come queste manifestazioni non siano affatto «per il petrolio» e contro l’ambiente come alcuni hanno scritto, ma in favore di una transizione ecologica diversa, al servizio dei cittadini prima e non degli interessi economici di pochi.
“«Benvenute e benvenuti in Sardegna, la terra dal paesaggio elettrico». Rischia di essere questo lo slogan col quale accoglieremo i gruppi nelle prossime stagioni turistiche, almeno fino a quando esisteranno prossime stagioni, dato che con l’andare del tempo nessuno spenderà più i propri risparmi per vacanze senza paesaggio. Siamo guide e aziende turistiche del settore naturalistico e sportivo, alcune giovani e altre meno, spaventate dalle politiche che stanno trasformando il paesaggio della Sardegna e che causeranno la crisi del settore. Il nostro lavoro e guadagno dipende da una particolare categoria turistica, dalle persone interessate alla Sardegna per la bellezza della sua natura. Per così dire, noleggiamo paesaggi, con una ricaduta economica positiva sul territorio, dato che sul territorio mangiamo, dormiamo, visitiamo monumenti e musei, ci spostiamo con i vettori locali.
Fra noi c’è chi ha iniziato nei primi anni Duemila, lavorando più di vent’anni per fare della Sardegna una destinazione del turismo naturalistico di rilievo europeo, con promozione territoriale, collaborazione con Enti locali, lavoro in rete, investimenti in beni strumentali, destagionalizzazione.Tutto potrebbe finire, perché nessuno ama camminare o pedalare in mezzo alle pale eoliche, fare yoga tra i pannelli fotovoltaici o scattare foto su un orizzonte trafitto da una selva di enormi pali, visibili per chilometri.
La maggior parte di noi non ha mai preso un euro di contributo pubblico, abbiamo costruito una nuova economia in Sardegna soltanto con le nostre forze e i nostri risparmi, perché la Regione, pur con tutte le sue contraddizioni, sembrava marciare nella stessa direzione: Rete Cicloturistica della Sardegna, nuovi parchi come quelli di Gùturu Mannu e di Tepilora, Rete Escursionistica della Sardegna, bandi per la realizzazione di ippovie, Borsa internazionale del turismo attivo, convegni, corsi di formazione professionale per guide escursionistiche e cicloturistiche…
Vent’anni di lavoro che vogliono farci buttare nella spazzatura, per trasformare la Sardegna in una grande centrale elettrica al servizio di altre regioni, senza neanche prendersi il disturbo di offrirci posti di lavoro di operai e operaie, come almeno si degnavano di fare in passato nel settore minerario, petrolchimico e turistico. Anziché andare avanti vogliono farci tornare indietro, all’Ottocento, con la distruzione del territorio senza alcuna contropartita: a loro il nostro legname per farsi le loro ferrovie, a noi il nostro territorio desertificato dalle loro imprese.
Certamente bisogna fare la transizione energetica, ma questa è soltanto una parte della più vasta transizione ecologica, che per noi è pane quotidiano, dato che per esempio la mobilità sostenibile, in bicicletta e a piedi, è il nostro stesso lavoro. Transizione ecologica significa anche e soprattutto sostenibilità sociale, a cominciare dalle direttive europee per il coinvolgimento delle comunità nei processi decisionali e per i principi di prossimità e proporzionalità: l’energia si produce dove serve e se ne produce la quantità che serve. Del resto non si spiegherebbero i provvedimenti europei a sostegno dell’agricoltura e degli habitat naturali della Sardegna, se poi si volesse convertire tutto alla monocultura elettrica destinata all’esportazione, senza alcun beneficio per la popolazione locale, distrutta nei suoi legami con il territorio, come nelle peggiori tradizioni coloniali.
Lavoriamo fisicamente nella natura ogni giorno, la conosciamo molto più e molto meglio di chi si limita a citarla nelle proprie dichiarazioni prodotte col copia e incolla. Della natura conosciamo la sofferenza e della sua sofferenza patiamo le conseguenze, non soltanto nelle nostre vite personali ma anche nel nostro lavoro, quindi siamo favorevoli alla transizione energetica, da sempre, anche quando non andava di moda nei ministeri e negli assessorati. Per questo sappiamo bene come si fa: con i processi partecipativi e con le reti di comunità. Occorre finanziare e realizzare prima di tutto le reti di comunità, finché non ne esisterà almeno una per ogni paese della Sardegna. Dopo, forse, se non bastassero, si potrà pensare a qualche centrale, ma sempre nel rispetto del processo partecipativo.
In conclusione non prendiamo lezioni di transizione energetica ed ecologica dalla classe politica. Destra e sinistra hanno dimostrato di non potercene dare, piuttosto dovrebbero fare il lavoro per il quale sono profumatamente retribuite: comporre i diversi interessi sociali ed economici, affinché lo sviluppo di uno non vada a scapito di un altro. Nel rispetto dei principi che la stessa classe politica europea si è data, senza travisarli nell’applicazione concreta come il ceto politico italiano e sardo sta facendo. Ancora una volta siamo propositive e propositivi, pronte e pronti a fare la nostra parte: ci troveranno nelle strade e nelle campagne, per lavorare e per sostenere il nostro popolo che difende la Sardegna dall’assalto degli speculatori”.
[Sardegna, 24 luglio 2024]
L’Unione Europea ha cominciato a donare all’Ucraina i soldi sequestrati ai russi
È di 1,5 miliardi di euro il primo pagamento erogato dall’Unione Europea all’Ucraina proveniente dai fondi congelati della Russia. Lo stanziamento dei fondi è avvenuto ieri, venerdì 26 luglio, e prevede la fornitura della somma interessata attraverso il già attivo strumento europeo per la pace, e la sua assegnazione allo strumento per l’Ucraina “per sostenere le capacità militari dell’Ucraina e la ricostruzione del Paese“. «Non esiste simbolo o utilizzo migliore per il denaro del Cremlino che rendere l’Ucraina e tutta l’Europa un posto più sicuro in cui vivere», ha commentato trionfante la da poco rieletta Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Dalla Russia non pare invece essere ancora arrivata nessuna dichiarazione, anche se giusto qualche giorno fa, la portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova aveva avvisato che l’Occidente avrebbe «sentito la furia della risposta russa» in caso di utilizzo dei fondi moscoviti.
L’annuncio dell’erogazione dei fondi provenienti dai beni russi congelati è accompagnato da una breve sezione di domande e risposte in cui la Commissione chiarisce caratteristiche e modalità del finanziamento. Stando a quanto si legge sul sito dell’organo comunitario, i fondi non saranno distribuiti direttamente a Kiev, ma le verranno garantiti mediante due distinti strumenti di cui Bruxelles si avvale ogniqualvolta deve fornire aiuti all’Ucraina: lo strumento europeo per la pace e lo strumento per l’Ucraina. Di preciso, il 90% del contributo finanziario proveniente da quelle che la Commissione definisce come “entrate straordinarie” sarà destinato al primo e il 10% al secondo; i fondi sosterranno rispettivamente le esigenze militari e quelle di ricostruzione del Paese. I membri UE si sono comunque riservati la facoltà di rivedere la ripartizione a gennaio 2025.
Le entrate straordinarie generate dagli operatori dell’Unione Europea sono detenute dai cosiddetti depositari centrali di titoli (CSD). Esse derivano dal blocco di attività della Banca Centrale di Russia, per mezzo di cui “si accumulano disponibilità liquide inattese e straordinarie, da cui derivano entrate inattese e straordinarie”. La rata da 1,5 miliardi all’Ucraina, nello specifico, è stata messa a disposizione della Commissione da Euroclear, il colosso finanziario belga fondato da JP Morgan, ed è arrivata in risposta alla richiesta di contributi finanziari in data 23 luglio. La prossima richiesta di contributo finanziario sarà presentata nel marzo 2025. In generale le riserve stimate ammontano a circa 210 miliardi di euro, e la Commissione ha in piano di garantire a Kiev circa 3 miliardi l’anno.
La possibilità di utilizzare i beni russi congelati per elargire fondi all’Ucraina è al centro delle discussioni comunitarie da mesi. Un primo accordo sul loro impiego è stato trovato lo scorso maggio, e poi discusso, e a suo modo confermato, a giugno, durante il vertice del G7. In tale occasione, i Paesi hanno trovato sin da subito convergenza riguardo allo sblocco dei fondi russi per inviare aiuti militari a Kiev per un valore di 50 miliardi di dollari, e hanno messo nero su bianco la volontà di “sostenere la lotta dell’Ucraina per la libertà e la sua ricostruzione per tutto il tempo necessario”.
[di Dario Lucisano]
UE, aperta procedura di infrazione contro l’Italia
Dopo mesi di avvisi, Il Consiglio Europeo ha avviato la procedura di infrazione per disavanzo eccessivo nei confronti dell’Italia. Oltre a Roma, colpiti anche Belgio, Francia, Malta, Polonia, Slovacchia, e Ungheria. La procedura contro il deficit viene aperta nei confronti di quei Paesi il cui il disavanzo supera il 3% del PIL annuo, e a quelli che presentano un debito complessivo al di sopra della soglia del 60%. Ora l’Italia ha tempo fino al 20 settembre per presentare piani strutturali di bilancio nazionali volti a ridurre la spesa pubblica e rispettare i parametri europei. Roma potrebbe anche essere sottoposta a meccanismi di sorveglianza rafforzata.
“Noi che facciamo?”, Una poesia di Rocco Scotellaro (1949)
Ci hanno gridata la croce addosso i padroni
per tutto che accade e anche per le frane
che vanno scivolando sulle argille.
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pecore.
Neppure dovremmo ammassarci a cantare,
neppure leggerci i fogli stampati
dove sta scritto bene di noi!
Noi siamo i deboli degli anni lontani
quando i borghi si dettero in fiamme
dal Castello intristito.
Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
Noi che facciamo?
Ancora ci chiamano fratelli nelle Chiese
ma voi avete la vostra cappella
gentilizia da dove ci guardate.
E smettete quell’occhio
smettete la minaccia,
anche le mandrie fuggono l’addiaccio
per qualche stelo fondo nella neve.
Sentireste la nostra dura parte
in quel giorno che fossimo agguerriti
in quello stesso Castello intristito.
Anche le mandrie rompono gli stabbi
per voi che armate della vostra rabbia.
Noi che facciamo?
Noi pur cantiamo la canzone
della vostra redenzione.
Per dove ci portate
lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione.
Noi siamo le povere
pecore savie dei nostri padroni
Una ballata politica, certamente. E soprattutto la ballata della terra padrona e dei suoi servi silenziosi. Le pecore tacciono, non fuggono come le mandrie inquiete, scontano il loro destino contadino e proletario, pregano però più vicini all’altare quel Dio che in chiesa i padroni contemplano da lontano, in galleria. Loro stanno sul palcoscenico ogni giorno, aspettano sulla piazza che qualcuno li prenda a lavorare per quella giornata e quando cantano sono innocue canzoni non versi di lotta.
Qui però s’innalza la poesia non c’entra la storia, sono le corde del cantore che ha voce per tutti, per i braccianti che non saprebbero leggere, qui un giovane poeta vede i suoi fratelli che alla sera tornano dal lavoro scortati come carcerati. E trasforma la pena in versi, cercando di spegnere quella fatica reale, quell’abbandono al destino ed elevarlo come uno spiritual o un blues delle piantagioni.
Ma è Italia non è Alabama. Noi italiani del 2024 siamo chiamati a capire, a cercare ragioni in questa Italia del ’49 che ha ancora tutto da fare. Dobbiamo amare con stupore, con rabbia, senza dimenticare quanto ci è costato crescere.
Dostoevskij nelle Memorie del sottosuolo (1864) si chiedeva: «Può darsi che l’uomo non ami la sola prosperità. Può darsi che ami esattamente altrettanto la sofferenza. Può darsi che proprio la sofferenza gli sia esattamente altrettanto vantaggiosa quanto la prosperità».
Strada ne è stata fatta sul cammino sognato da Rocco e i suoi fratelli ma, come ha cantato vent’anni fa Simin Behbahani, la attivista poetessa iraniana: bisogna sempre che si scriva dei «giorni tenebrosi,/ scrivi il sacrificio della vita, la baraonda del giovane e del vecchio,/ del bambino e della donna,/ scrivi di una casa, di una dimora, del più e del meno,/ di tutto ciò che hai./ Scrivi il lancio di una pietra di un bambino che gioca, /scrivi il colpo di un piccone di un anziano che assiste». La vita prende così le sue curve e le sue alture, i suoi sguardi di silenzio e di passione, i suoi tempi di ripetizioni e di canti.
[di Gian Paolo Caprettini]