Il Regno Unito è diventato il primo Paese ad autorizzare la vendita di un prodotto a base di carne coltivata in tutto il continente europeo. La concessione è stata data alla compagnia britannica di cibo sintetico per animali domestici Meatly, e per ora è riservata alla sola azienda e al solo prodotto per animali. L’annuncio pubblico fa seguito alla assicurazione di conformità fornita alla stessa Meatly da vari organismi di regolamentazione del Regno Unito, tra cui figurano l’Agenzia per gli standard del cibo, il Dipartimento per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali, e l’Agenzia per la salute di animali e piante. «La giornata di oggi si configura come una significativa pietra miliare per l’industria europea della carne coltivata; sono incredibilmente orgoglioso che Meatly sia la prima azienda in Europa ad ottenere il via libera per vendere carne coltivata; stiamo dimostrando che esiste un modo sicuro e a basso capitale per portare rapidamente la carne coltivata sul mercato», ha dichiarato l’Amministratore Delegato dell’azienda Owen Ensor.
La concessione per la vendita di carne coltivata è stata rilasciata a Meatly mercoledì 10 luglio, e ha reso la stessa compagnia la prima al mondo a ricevere una autorizzazione per la vendita di carne sintetica per animali. Nello specifico, il prodotto interessato sarà a base di carne di pollo, per la quale Meatly ha dichiarato di avere condotto vari test “per dimostrare che il suo pollo allevato è sicuro e salutare per gli animali domestici”. Tra di essi, test sulla cellula di partenza e sul prodotto finale, tra cui esami batteriologici e legati alla sicurezza dell’alimento prodotto in vitro. L’azienda ha dichiarato di avere intenzione di iniziare a commercializzare il prodotto entro la fine del 2024. La carne di Meatly inizierà le dovute prove di alimentazione ad agosto.
La carne coltivata (anche detta carne sintetica) è prodotta senza uccidere animali ma con una tecnologia molto più costosa e che richiede l’impiego di quantità maggiori di energia. Il processo produttivo, nello specifico, prevede la coltivazione in laboratorio di cellule animali in un liquido che contiene tutti i nutrienti di cui le cellule hanno bisogno per crescere e moltiplicarsi. Le cellule sono prese da un tessuto muscolare di un animale vivo, quindi non è necessario ucciderlo. Queste cellule vengono lasciate moltiplicarsi, di modo che si possano produrre quantità di carne abbastanza grandi. A oggi l’unico Paese in cui è consentita la vendita di carne coltivata è Singapore, che nel 2022 ha dato il via al commercio di carne di pollo sintetica, ma una norma in tale direzione è stata approvata, sempre per la carne di pollo, anche negli USA; in Israele, invece, è stata concessa la vendita di carne bovina sintetica alla compagnia Aleph Farms, che dovrebbe essere perfezionata entro fine anno; nei Paesi Bassi, invece, sono consentite le degustazioni.
Mentre gli aerei prendono giornalmente il volo, carichi di abiti prodotti dall’altra parte del globo, l’ultima campagna di Vestiaire Collective ci ricorda che gli stessi abiti, una volta dismessi, potrebbero riempire chilometri di spiaggia lungo le coste di mezzo mondo. È davvero questa l’estate che vogliamo?
Il gruppo spagnolo Inditex, titolare di marchi come Zara, Massimo Dutti e Oysho (tra gli altri), continua a far viaggiare via aerea enormi quantità di prodotti di fast fashion, incrementando le emissioni di CO2 dei suoi trasporti aerei del 37%. A poco è servita la raccolta firme inoltrata alla dirigenza dell’azienda da oltre 26.000 persone, con la quale si chiedeva un’ inversione di rotta sostanziale e che è stata totalmente ignorata. Per tentare di raggiungere gli azionisti, si sono movimentatePublic Eye, Campagna Abiti Puliti ed altre organizzazioni europee della Clean Clothes Campaign che, lo scorso 9 Luglio, in vista dell’assemblea generale, hanno fatto arrivare le richieste al colosso spagnolo, per invitarlo a prendersi le proprie responsabilità ed intraprendere un percorso più ecologico non solo di facciata. Le richieste avanzate, nello specifico riguardavano in primis la trasparenza sul reale impatto ambientale prodotto dai voli (con dettagli onesti sulle emissioni); a seguire un impegno concreto per l’eliminazione totale o una immediata riduzione drastica dei trasporti per via aerea (con obiettivi perseguibili ed una strategia indicata); la riprogettazione della logistica dell’azienda in termini più funzionali per il rispetto del clima. Ambiente sì, ma anche persone: la richiesta di una garanzia di un salario degno è da sempre nelle battaglie della Clean Clothes Campaign; anche in questo caso ha ribadito il concetto, suggerendo caldamente a Inditex una revisione dei tempi di consegna, più lunghi, in grado di garantire una produzione (ed una vita) sostenibile per chi la fa. Il consiglio, per fare tutto questo in maniera concreta, sarebbe usare gli extra profitti per finanziare una trasformazione sostanziale.
Dal 2018 al 2023 le emissioni dei trasporti sono aumentate in maniera esponenziale, con una piccola decrescita nel 2022 dovuta principalmente alle sanzioni economiche introdotte in seguito al conflitto russo-ucraino. In generale agli aumenti delle vendite dei prodotti sono corrisposte le emissioni di CO2, con il trasporto aereo responsabile di più del 12% delle emissioni totali dell’azienda. Il numero dei cargo settimanali è circa di 50 voli, un dato che tenderà ad aumentare entro il 2025, vista la prossima apertura di un centro logistico di 286.000 mq nei pressi dell’attuale situato a Saragozza. A sua discolpa l’azienda sostiene che il trasporto aereo è destinato solo alle rotte intercontinentali e quando non sono fisicamente possibili altri tipi di mezzi (o quando questi ultimi sarebbero troppo lenti rispetto alle folli tempistiche aziendali). Inoltre hanno messo in luce una nuova misura per ridurre le emissioni degli aerei, elaborata in collaborazione con la Repsol (compagnia petrolifera), per sostituire un 5% del cherosene usato dagli aeromobili con dei biocarburanti. Una mossa minuscola e in parte sprecata, vista la capacità attuale ridotta nel produrre carburanti da rifiuti biodegradabili. Fare a meno degli aerei è possibile ed auspicabile; come già hanno dimostrato altre aziende del settore, basta volerlo. Lasciando l’aria libera da abiti volanti che continuano a volare, liberi e leggeri, andando ad appesantire le spiagge più belle e conosciute del mondo. Da Bondi Beach in Australia fino a Saint Tropez, passando da Positano, Miami, Santa Monica e disturbando perfino i surfisti di Biarritz. Sono le immagini dell’ultima campagna di Vestiaire Collective che, dopo aver eliminato dal proprio sito di rivendita di capi di seconda mano i marchi di fast fashion, ed aver “invaso” le capitali mondiali di rifiuti tessili con la precedente provocazione visiva, ha deciso di lanciare la sua versione “cartolina estiva”.
Cartoline che raccontano di mare, sole e sabbia tappezzati di abiti, quelli che si buttano via giornalmente e che potrebbero riempire la Croisette di Cannes ben 197 volte oppure il lido di Positano 5251 volte. Un invito alla riflessione, al non agire d’impulso, soprattutto nei mesi estivi, dove la voglia di vacanza e gli sconti stagionali danno una spinta importante all’acquisto del superfluo in maniera immediata. Questo il proposito della campagna: trasportare i rifiuti nei luoghi conosciuti e blasonati, dove i posti instagrammabili diventano discariche a cielo aperto e sotto il sole cocente. Chissà che così non si riesca ad urtare la sensibilità dei compratori compulsivi invitandoli a pensare prima e comprare poi (che va anche bene fare shopping in vacanza, con la certezza che quell’abito comprato a Ibiza si possa riutilizzare molte altre volte anche a casa prima di farlo finire in un cassonetto).
Oggi il Brasile ha bloccato le vendite di pollame all’estero verso 44 Paesi, tra cui quelli dell’Unione Europea. La decisione arriva dal Ministero dell’Agricoltura e segue la rilevazione di un focolaio di malattia di Newcastle (o pseudopeste aviaria), una delle più pericolose patologie virali che colpiscono gli uccelli domestici e selvatici. L’allevamento interessato, è collocato nello Stato brasiliano di Rio Grande do Sul, e i suoi polli, a detta dello stesso ministro dell’Agricoltura, sarebbero stati isolati. Ai sensi dei protocolli internazionali, gli animali saranno abbattuti per impedire la diffusione della malattia. Il Brasile è uno dei maggiori produttori ed esportatori di pollame al mondo.
Dal 19 luglio e fino all’11 agosto, giorno in cui si chiuderanno i Giochi Olimpici, per poter circolare nel centro di Parigi sarà necessario, in alcuni casi, esibire un QR Code. Le autorità francesi hanno infatti messo in atto misure di sicurezza che limitano l’accesso ad alcune zone della città, al fine di garantire la sicurezza dei luoghi in cui si svolgeranno le Olimpiadi. Fino al 26 luglio, giorno della cerimonia d’inaugurazione, sono attive due zone di sicurezza, che diventeranno quattro dal momento dell’inizio della manifestazione sportiva. Le limitazioni maggiori riguardano le auto e tutti coloro che non sono residenti e non hanno acquistato biglietti per assistere alle gare olimpiche o che non hanno validi motivi dimostrabili per accedere alla zona designata. Secondo la prefettura parigina, sono quasi 300.000 le persone ad aver dovuto fare richiesta per il QR Code.
Sono state designate delle zone che, a seconda del loro colore, limitano l’accesso ai veicoli e alle persone che dovranno quindi essere munite QR Code “Pass Jeux”. Come comunicato dalla prefettura di Parigi, sono 300.000 le persone che hanno già ottenuto il codice QR, necessario per chiunque dai 13 anni in su. Ad averne diritto saranno unicamente residenti locali, professionisti e visitatori che possano attestare prenotazioni in hotel, ristoranti, musei, oltre alle persone che necessitano di accedere a visite mediche in quest’area. Per accedere alla zona rossa, invece, non sarà necessario il Pass Jeux, ma le auto non potranno circolarvi. Il 26 luglio, giorno della cerimonia d’inaugurazione, le disposizioni per queste due zone restano pressoché identiche, salvo l’impossibilità di accedere in auto alla zona grigia.
Dall’inizio della competizione olimpica i perimetri di sicurezza diventeranno quattro (grigio, nero, rosso e blu) e saranno attivati ogni giorno dell’evento, a partire da due ore e mezzo prima dell’inizio fino ad un’ora dopo la sua fine. In questo periodo si potrà accedere alla zona grigia esibendo il QR Code solo a piedi, in bicicletta o in monopattino e solo presentando l’accredito di Parigi 2024, quindi se si è uno spettatore con un biglietto d’ingresso a un evento oppure se sei un residente locale. I veicoli motorizzati non sono ammessi in questo perimetro. Le stesse condizioni sono valide per la zona nera. Per quanto concerne la zona rossa, i veicoli a motore sono vietati, ma è possibile il libero accesso, senza dover presentare il QR Code, a pedoni, ciclisti o persone su monopattino. Nella zona blu le restrizioni decadono anche per i veicoli a motore, ma la prefettura ha specificato che sarà necessario dimostrare il legittimo interesse a recarsi in quella zona.
Non solo. Le stazioni della metropolitana che hanno entrate e uscite entro il perimetro della zona grigia saranno chiuse al pubblico, come dichiarato dalla prefettura di polizia di Parigi. In totale, saranno 13 le stazioni della metropolitana inaccessibili fino al giorno della cerimonia inaugurale. Alcune di queste stazioni riapriranno dopo il 26 luglio, altre rimarranno chiuse, mentre altre ancora apriranno e chiuderanno secondo necessità, man mano che i Giochi proseguiranno. Anche le linee di autobus e tram sono interessate dalle limitazioni previste dal piano di sicurezza che le autorità francesi e parigine hanno posto in essere.
Per ottenere il pass digitale, è necessario fare domanda su una piattaforma in rete, ove servirà esibire una copia di un documento d’identità, una foto e una copia della carta di circolazione e del numero di immatricolazione, qualora la domanda serva per poter guidare un veicolo a motore. A seconda delle limitazioni imposte dalla zona di accesso, occorre fornire la prova di residenza, di alloggio temporaneo, di lavoro o di prenotazione ad un museo, ristorante e così via. Il QR Code non viene rilasciato immediatamente, ma viene effettuata una ricerca e una verifica per capire se la persona richiedente è ritenuta idonea, ricevendo successivamente, via email, il pass digitale – ricalcando quanto, almeno in Italia, abbiamo sperimentato in periodo di emergenza Covid. Sono molti i francesi che sono infastiditi per tali misure giustificate con il pretesto della sicurezza.
Sebbene la manifestazione olimpica sia senz’altro un evento catalizzatore per decine, se non centinaia di migliaia di persone, e quindi con il rischio della possibilità di azioni terroristiche, l’utilizzo di certi sistemi di sicurezza, come il QR Code, sembrano proseguire sulla strada tracciata in epoca pandemica, facendo credere che ciò potrà ripetersi per ogni evento e/o fenomeno per cui si ritenga necessario porre limitazioni e controlli delle attività sociali umane.
Procede senza sosta la rivolta degli studenti in Bangladesh, dove da giorni il popolo bengalese è sceso in piazza per protestare contro la scelta di reintrodurre il sistema di quote nell’assegnazione dei posti di lavoro statali. Vista la situazione di incessante mobilitazione, ieri la Premier Sheikh Hasina ha deciso di imporre un coprifuoco nazionale e di dispiegare anche l’esercito per sedare le rivolte. Intanto il numero di morti pare essere salito a 105, e oggi stesso la polizia avrebbe aperto il fuoco sui dimostranti, come testimonia un giornalista di AFP presente sul posto.
Roberto Iannuzzi è un analista di politica internazionale, già ricercatore presso l’UNIMED (Unione delle Università del Mediterraneo). Il suo libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda”, pubblicato da Fazi Editore, è un testo importante in quanto rappresenta la prima opera in lingua italiana che mette in fila i fatti sugli attacchi condotti dalle sigle della resistenza palestinese contro Israele, che hanno poi fornito il pretesto a Tel Aviv per iniziare la guerra genocida tutt’ora in corso. L’autore ricostruisce, attraverso l’uso di fonti solide e sempre citate, tutti i clamorosi errori di valutazione israeliani. Leggendo il libro, scopriamo, ad esempio, che da settimane – sotto gli occhi delle soldatesse israeliane di guardia al confine con la Striscia di Gaza – i miliziani di Hamas conducevano addestramenti in cui sperimentavano le tecniche di attacco messe in atto il 7 ottobre. Scopriamo, inoltre, che l’intelligence egiziana aveva avvisato Israele su un possibile attacco imminente, avvisi sistematicamente ignorati dai vertici israeliani. «Davvero l’intelligence israeliana, considerata una delle più efficienti e sofisticate al mondo, era all’oscuro del piano di Hamas? Perché i segnali premonitori dell’attacco, pur numerosi, sono stati ignorati?» sono alcune delle domande alle quali il libro cerca di dare risposta.
Di seguito l’introduzione del libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda”:
“Solo partendo dalla ricostruzione della verità e dalla contestualizzazione storica di un evento che ha scatenato un conflitto si può sperare di giungere a una risoluzione pacifica di quest’ultimo. Ciò vale anche per l’attacco subito da Israele il 7 ottobre 2023 per mano di Hamas e di altri gruppi palestinesi. Esso è stato definito l’attacco più sanguinoso agli ebrei dai tempi dell’Olocausto e certamente va annoverato fra i più letali compiuti contro Israele dalla fondazione dello Stato nel 1948. I sanguinosi eventi del 7 ottobre hanno profondamente traumatizzato la popolazione israeliana. Ne è nata una narrazione dalla quale il governo guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu ha tratto giustificazione per lanciare, con il pieno consenso popolare, una durissima campagna militare contro la Striscia di Gaza, l’enclave palestinese controllata da Hamas da cui l’attacco era provenuto. L’enorme impatto emotivo che il bilancio di questa operazione, terribile in termini di perdita di vite umane e di distruzione materiale, ha avuto sui paesi circostanti, e il turbamento degli equilibri regionali che essa ha prodotto, sono stati all’origine di una gravissima destabilizzazione estesa dal Mediterraneo al Mar Rosso, dal Libano all’Iran.
Alla tragedia israeliana del 7 ottobre si è contrapposta quella di Gaza dei mesi successivi. Ne è sorto uno scontro di narrazioni, nel quale a sofferenza è stata contrapposta sofferenza, a lutto si è aggiunto lutto. In Occidente, i principali mezzi di informazione hanno dato voce soprattutto alla narrazione ufficiale israeliana. All’immane catastrofe abbattutasi su Gaza, soverchiante quantomeno in termini numerici, è stata contrapposta la descrizione minuziosa delle storie delle vittime israeliane di Hamas. Si è dato risalto alle singole tragedie personali, oltre che al trauma collettivo degli israeliani. Le vittime palestinesi, invece, sono perlopiù rimaste senza volto. A Hamas è stata attribuita essenzialmente sia la colpa dell’attacco del 7 ottobre che quella delle conseguenze prodotte dalla devastante invasione israeliana di Gaza nei mesi successivi. Sebbene presentasse diversi punti oscuri, la narrazione ufficiale del governo Netanyahu è stata accolta e rilanciata senza tentennamenti da gran parte dei media occidentali. Chi ne metteva in discussione taluni aspetti è stato tacciato di cospirazionismo, se non di negazionismo, e accusato di parteggiare per i “terroristi” di Hamas.
Tuttavia, se si ripercorrono gli eventi di quel giorno fatale, emergono alcuni interrogativi che paiono legittimi. Essi meritano una risposta. Davvero l’intelligence israeliana, considerata una delle più efficienti e sofisticate al mondo, era all’oscuro del piano di Hamas? Perché i segnali premonitori dell’attacco, pur numerosi, sono stati ignorati? Se fossero state adottate contromisure adeguate, naturalmente il bilancio dell’attacco sarebbe stato molto meno tragico. Se la risposta dell’esercito israeliano fosse stata meno confusa e improvvisata, se esso non avesse fatto ricorso a elicotteri da combattimento e carri armati in contesti urbani, il numero delle vittime civili sarebbe stato probabilmente inferiore. Quanti civili israeliani sono morti a causa della sproporzionata potenza di fuoco a cui fecero ricorso le forze armate di Tel Aviv?
Sui media occidentali sono apparse storie di indicibili atrocità attribuite agli uomini di Hamas. Molti degli episodi più efferati si sono tuttavia rivelati falsi, sono stati smentiti dalla stessa stampa israeliana. Ciò non sminuisce la gravità dell’azione di Hamas. Ma sorge il dubbio che ingigantire ulteriormente gli orrori perpetrati dai miliziani palestinesi sia servito a giustificare l’inconcepibile distruzione che la successiva campagna militare israeliana avrebbe prodotto a Gaza. Non si tratta dunque di accettare o negare la narrazione ufficiale del 7 ottobre. Non siamo di fronte a una scelta binaria e mutuamente esclusiva. Né si tratta di una scelta fideistica, di schierarsi da una parte o dall’altra. Si tratta invece di indagare ciò che è realmente accaduto quel giorno, perché ciò non è stato fatto dalle autorità israeliane e, salvo alcune lodevoli eccezioni, neanche dalla stampa, tantomeno quella occidentale. Il presente volume non intende essere una ricostruzione completa ed esaustiva di quanto è accaduto il 7 ottobre, perché una simile ricostruzione potrà essere solo il risultato di indagini meticolose e approfondite, che in gran parte restano da compiere.
Esso intende più semplicemente mettere in risalto alcuni elementi chiave che possono contribuire a dare risposta almeno a una parte degli interrogativi citati sopra. Allo stesso modo, esso cerca di arricchire di una (seppur rapida) contestualizzazione storica la narrazione di quegli eventi, poiché tale contestualizzazione è in gran parte mancata nella descrizione ufficiale, così come in quella compiuta dai nostri mezzi di informazione. La questione israelo-palestinese evidentemente non è nata il 7 ottobre, l’attacco di Hamas non è avvenuto in una dimensione astorica. Esso ha avuto delle motivazioni che possono essere comprese solo se si risale alle origini del conflitto, e solo se si conosce il contesto politico locale e regionale. Quest’ultimo, in particolare, è essenziale per comprendere perché gli eventi del 7 ottobre non abbiano avuto solo una portata limitata, bensì ripercussioni che hanno coinvolto l’intera regione.
Una corretta ricostruzione degli eventi e del loro legame con il passato è a sua volta imprescindibile per giungere a una risoluzione dei conflitti, contrastando l’inasprirsi delle contrapposizioni e il cristallizzarsi di visioni tanto fittizie quanto irreconciliabili. Rimane l’amara constatazione che fin troppo spesso, e sempre più negli ultimi anni, i mezzi di informazione occidentali non hanno contribuito a una simile operazione, indulgendo invece in descrizioni parziali, manipolate e fantasiose della realtà, che ostacolano la comprensione degli eventi internazionali da parte dell’opinione pubblica e portano inevitabilmente a esacerbare le crisi”.
Si è concluso con quattro assoluzioni e un proscioglimento il processo contro i cinque ex capi di Stato maggiore accusati di disastro ambientale nell’ambito delle esercitazioni militari nel poligono di Teulada, in Sardegna. La procura ha infatti confermato la devastazione della Penisola Delta dovuta al massiccio impiego di armi e munizioni durante le esercitazioni avvenute tra il 2008 e il 2016, ma (per la seconda volta) il pm ha chiesto l’archiviazione a causa dell’insufficienza di elementi probatori. «Non abbiamo mai riposto la nostra fiducia nello Stato italiano e sapevamo che si sarebbe arrivati a un proscioglimento» ha commentato il comitato A Foras, che ha annunciato nuove iniziative di lotta.
Il processo si è tenuto presso la seconda sezione penale del tribunale di Cagliari, e ha visto assolti i generali Giuseppe Valotto, 76 anni di Venezia, Danilo Errico, 69enne residente a Torino, Domenico Rossi, 71 anni di Roma, e Sandro Santroni, di 72, di Ancona. Prosciolto invece Claudio Graziano, ex Presidente di Fincantieri morto suicida nella sua casa di Roma nel giugno dello scorso anno. A costituirsi parte civile del processo sono stati il Comune di Teulada, il collettivo antimilitarista A Foras, il WWF Sardegna, e gli ambientalisti del Gruppo d’Intervento Giuridico. Al termine di esso, il tribunale ha accolto la richiesta della difesa e ha assolto tutti gli imputati senza nemmeno avviare il dibattimento.
Il procedimento contro i cinque generali è stato avviato dopo una serie di indagini iniziate nel 2012, quando una ventina di residenti sardi aveva presentato esposto segnalando l’insorgenza di alcune patologie riconducibili alle attività belliche praticate nel poligono. In sede di udienza preliminare, l’ipotesi di omicidio colposo era tuttavia stata accantonata quasi subito, e archiviata per la presunta impossibilità di dimostrare un nesso causale tra decessi e attività del poligono; a seguito dell’inchiesta, però, la Procura aveva comunque accertato lo stato di devastazione della Penisola Delta, zona di tre chilometri quadrati dove, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2016, sono stati sparati 860mila colpi di addestramento, con 11.875 missili, pari a 556 tonnellate di materiale bellico. A giugno 2023, i cinque sono dunque stati rinviati a giudizio dal Gup di Cagliari con l’accusa di disastro colposo.
Secondo il gruppo pacifista e antimilitarista A Foras, in realtà “il nesso causale tra gli agenti inquinanti prodotti dalle esercitazioni militari e l’insorgenza” delle patologie sarebbe “ampiamente dimostrato e documentato dalla letteratura scientifica internazionale”. A mancare, piuttosto, è “uno studio epidemiologico accurato che dimostri l’aumento di incidenza di queste patologie in prossimità dei Poligoni”. Eppure, “questo genere di studi può essere condotto esclusivamente dalle istituzioni Sarde o Italiane” che a oggi non hanno ancora adempiuto ai loro doveri. È per tale motivo, che la stessa A Foras non sembra essere stupita dalla decisione del tribunale di Cagliari, tanto che già prima dell’udienza aveva preannunciato che il processo si sarebbe configurato come “l’ennesima assoluzione dello Stato verso se stesso”.
Nella giornata di ieri, nei pressi della città di Shangluo, situata nella provincia cinese nordoccidentale di Shaanxi, un ponte collocato su un’autostrada è parzialmente collassato a causa delle piogge torrenziali, causando almeno 11 morti e oltre 30 dispersi. La notizia è stata data oggi dalle autorità locali, ed è stata condivisa dall’agenzia di stampa governativa Xinhua, che comunica che l’incidente è avvenuto attorno alle 20.40 locali (14.40 italiane). Secondo Xinhua, il crollo ha fatto precipitare alcuni veicoli nel fiume Jinqian sottostante il ponte, ma la quantità di veicoli coinvolti resta ancora ignota; è dunque probabile che il numero delle vittime aumenti. Al momento sono attive le operazioni di soccorso.
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha stabilito che gli insediamenti israeliani in Palestina violano il diritto internazionale. Il parere della Corte, che non è vincolante (come invece lo sono le risoluzioni ONU al riguardo, che hanno già determinato che l’occupazione israeliana è illegale), è giunto a seguito di una richiesta avanzata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 dicembre 2022, che chiedeva alla Corte di esprimersi in merito alle «conseguenze legali della continua violazione da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione palestinese, dalla prolungata occupazione, insediamento e annessione dei Territori Palestinesi occupati dal 1967», inclusa Gerusalemme, e dell’adozione, da parte di Tel Aviv, di «leggi e misure discriminatorie» e in che modo tali pratiche «influiscono sullo status giuridico dell’occupazione e quali sono le conseguenze giuridiche che ne derivano per tutti gli Stati e le Nazioni Unite».
L’opinione della CIG è dunque che, come già stabilito da varie risoluzioni delle Naizioni Unite, l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi è illegale e che lo Stato di Israele è obbligato a portarla a termine «nel più breve tempo possibile». Israele è tenuto inoltre a interrompere i nuovi tentativi di insediamento e ad «evacuare» tutti i coloni presenti dai Territori Palestinesi Occupati. Lo Stato è inoltre «obbligato» a «riparare al danno causato» durante l’occupazione. Per quanto riguarda gli Stati, questi sono «obbligati a non riconoscere come legale la situazione generata dalla presenza illecita dello Stato di Israele nei Territori Palestinesi Occupati» e a non fare niente che possa ulteriormente favorire questa situazione. Gli stessi obblighi sono previsti per le organizzazioni internazionali. Per questo motivo, l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza ONU dovrebbero prendere iniziative concrete per porre fine a tale situazione, ha dichiarato la CIG.
Mentre intensifica sempre di più l’aggressione a Gaza, massacrando ogni giorno centinaia di civili, Israele sta parallelamente proseguendo i piani di colonizzazione della Cisgiordania. L’ONG israeliana anti coloniale Peace Now ha recentemente rilevato che «il 2024 segna il picco dell’estensione delle dichiarazioni di terreni statali» da parte del governo di Tel Aviv. Dall’inizio dell’anno il governo di Netanyahu, secondo quanto riportato da Peace now, avrebbe dichiarato 2.373 ettari di terre, sulla carta palestinesi, come terre statali israeliane. A questo si aggiunge il fatto che la rioccupazione permanente della Striscia di Gaza, ormai quasi del tutto rasa al suolo, è già di fatto cominciata, come mostrano le immagini satellitari.
Il parere della CIG, insomma, non fa che ribadire quanto già riconosciuto a livello internazionale. Tra le righe di questo documento, tuttavia, si sottolinea tutto il peso dell’ignavia della “comunità internazionale”, che non ha ad oggi adottato alcuna soluzione concreta per impedire un’occupazione (e un massacro) che tutti formalmente riconoscono come illegale. Poche settimane fa, inoltre, la stessa CIG aveva accusato Israele di non adottare alcuna misura a tutela dei civili nell’aggressione in corso, ma che, al contrario, le azioni del governo e dell’esercito israeliano autorizzerebbero la messa in atto di nuove misure di emergenza nell’ambito del caso aperto contro Israele per genocidio.
«La Knesset si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese», perché «rappresenterebbe un pericolo esistenziale per lo Stato di Israele e i suoi cittadini, perpetuerebbe il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerebbe la regione». Questo il testo di una risoluzione approvata ieri dal parlamento israeliano. Una decisione che ha trovato pochissimo spazio sui media, ma che dimostra una volta per tutte due cose che sono chiare da tempo a chiunque voglia vederle. La prima è che Israele non ha alcuna intenzione di rispettare il diritto internazionale, che sancisce il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato, a meno che questo non gli venga imposto. La seconda è che la politica israeliana è assolutamente concorde: l’idea che esista in Israele una forte opposizione politica a questo disegno è una palla fomentata dai media occidentali per stemperare le critiche contro lo Stato ebraico. La risoluzione ha infatti ricevuto 68 voti favorevoli e solo 9 contrari (tutti di deputati arabi). In favore della prosecuzione illimitata del progetto coloniale ha votato anche quella che in occidente viene pompata come “l’opposizione democratica” guidata dal Partito di Unità Nazionale di Benny Gantz, che di fatto si distingue dal progetto genocida di Netanyahu solo per la richiesta di fermare i bombardamenti su Gaza per il tempo necessario a liberare gli ostaggi, per poi riprenderli successivamente.
Ma questa votazione dimostra anche altro. Mentre sui media liberali i pochi spunti critici si concentrano sulla figura del premier Benjamin Netanyahu e sulla “deriva estremista” del suo governo, è interessante notare come la risoluzione della Knesset non fa altro che mettere nero su bianco il progetto storico del sionismo. L’idea che le élite israeliane desiderino abitare in pace al fianco dei palestinesi è un falso storico totale. Per comprenderlo basta riportare alla luce alcune dichiarazioni dei leader storici israeliani.
Nel 1937 David Ben Gurion, primo premier israeliano e considerato dagli israeliani il padre della patria, affermava: «Noi dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto». «Non esiste una cosa come il popolo palestinese. Non è che noi siamo venuti e li abbiamo cacciati e preso il loro Paese. Essi non esistono», diceva invece nel 1969 Golda Meir, primo capo del governo donna di Israele e iscritta al Partito Laburista (storicamente considerato il volto moderato di Israele). «I palestinesi sono bestie che camminano su due gambe», disse invece nel 1982 il suo successore, Menachem Begin. Una non esaustiva rassegna di brutalità, disegni coloniali e propositi genocidi che coinvolge praticamente tutti i leader israeliani succedutisi dal 1948 a oggi e che può concludersi con le parole di Yitzhak Shamir, primo ministro israeliano a più riprese tra il 1983 e il 1992: «I palestinesi saranno schiacciati come cavallette, con le teste sfracellate contro i massi e le mura».
Questa è, attraverso le dichiarazioni dei propri leader, l’essenza del progetto sionista. Rileggendola, è chiaro come la decisione del parlamento israeliano non sia altro che la ratifica in legge di una convinzione suprematista che guida da sempre l’élite israeliana. Un proposito formalmente approvato ora come sfida alle istituzioni internazionali, come l’ONU e la Corte Penale Internazionale che a breve potrebbe emettere un mandato di arresto per crimini di guerra contro Netanyahu.
C’è quindi un’ultima conseguenza, che chiama in causa quei governi, come quello italiano, che, seguendo la posizione degli USA, si oppongono ad ogni iniziativa risoluta per forzare la nascita dello Stato Palestinese, opponendosi in sede ONU alla proclamazione della sua nascita, ad ogni sanzione contro Israele nonché evitando di approvare il riconoscimento dello Stato di Palestina in sede nazionale. La posizione americana (e del governo Meloni) è che la soluzione “a due Stati” deve essere stabilita in trattati di pace tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, senza nessuna forzatura. Una posizione che, data la realtà del contesto, si traduce nell’appoggio indiretto a qualsiasi azione israeliana. Come su L’Indipendenteavevamo spiegato già all’indomani degli attacchi del 7 ottobre.
In questo senso la risoluzione israeliana ha anche una conseguenza positiva: finalmente getta la maschera sulla menzogna ancora diffusa dai governi occidentali e dai media dominanti sul fatto che i politici israeliani vorrebbero una trattativa di pace, ma questa è resa impossibile dai “terroristi” di Hamas. E ci mette di fronte a quella che è l’unica possibilità da parte dell’autoproclamata “comunità internazionale” per mettere fine al massacro e promuovere la pace e il rispetto del diritto internazionale. Se si vuole la pace e la giustizia l’unica possibilità è imporre a Israele la fine dell’occupazione: il suo ritiro all’interno dei territori che gli sono legalmente assegnati e il riconoscimento immediato dell’esistenza di uno Stato di Palestina libero e indipendente nei confini sanciti dall’ONU nel lontano 1948. Ogni iniziativa che non va in questo senso, come il rifiuto del governo italiano di riconoscere lo Stato di Palestina, è complicità con l’occupazione israeliana e con il genocidio del popolo palestinese.
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