Si è concluso con quattro assoluzioni e un proscioglimento il processo contro i cinque ex capi di Stato maggiore accusati di disastro ambientale nell’ambito delle esercitazioni militari nel poligono di Teulada, in Sardegna. La procura ha infatti confermato la devastazione della Penisola Delta dovuta al massiccio impiego di armi e munizioni durante le esercitazioni avvenute tra il 2008 e il 2016, ma (per la seconda volta) il pm ha chiesto l’archiviazione a causa dell’insufficienza di elementi probatori. «Non abbiamo mai riposto la nostra fiducia nello Stato italiano e sapevamo che si sarebbe arrivati a un proscioglimento» ha commentato il comitato A Foras, che ha annunciato nuove iniziative di lotta.
Il processo si è tenuto presso la seconda sezione penale del tribunale di Cagliari, e ha visto assolti i generali Giuseppe Valotto, 76 anni di Venezia, Danilo Errico, 69enne residente a Torino, Domenico Rossi, 71 anni di Roma, e Sandro Santroni, di 72, di Ancona. Prosciolto invece Claudio Graziano, ex Presidente di Fincantieri morto suicida nella sua casa di Roma nel giugno dello scorso anno. A costituirsi parte civile del processo sono stati il Comune di Teulada, il collettivo antimilitarista A Foras, il WWF Sardegna, e gli ambientalisti del Gruppo d’Intervento Giuridico. Al termine di esso, il tribunale ha accolto la richiesta della difesa e ha assolto tutti gli imputati senza nemmeno avviare il dibattimento.
Il procedimento contro i cinque generali è stato avviato dopo una serie di indagini iniziate nel 2012, quando una ventina di residenti sardi aveva presentato esposto segnalando l’insorgenza di alcune patologie riconducibili alle attività belliche praticate nel poligono. In sede di udienza preliminare, l’ipotesi di omicidio colposo era tuttavia stata accantonata quasi subito, e archiviata per la presunta impossibilità di dimostrare un nesso causale tra decessi e attività del poligono; a seguito dell’inchiesta, però, la Procura aveva comunque accertato lo stato di devastazione della Penisola Delta, zona di tre chilometri quadrati dove, nel periodo compreso tra il 2008 e il 2016, sono stati sparati 860mila colpi di addestramento, con 11.875 missili, pari a 556 tonnellate di materiale bellico. A giugno 2023, i cinque sono dunque stati rinviati a giudizio dal Gup di Cagliari con l’accusa di disastro colposo.
Secondo il gruppo pacifista e antimilitarista A Foras, in realtà “il nesso causale tra gli agenti inquinanti prodotti dalle esercitazioni militari e l’insorgenza” delle patologie sarebbe “ampiamente dimostrato e documentato dalla letteratura scientifica internazionale”. A mancare, piuttosto, è “uno studio epidemiologico accurato che dimostri l’aumento di incidenza di queste patologie in prossimità dei Poligoni”. Eppure, “questo genere di studi può essere condotto esclusivamente dalle istituzioni Sarde o Italiane” che a oggi non hanno ancora adempiuto ai loro doveri. È per tale motivo, che la stessa A Foras non sembra essere stupita dalla decisione del tribunale di Cagliari, tanto che già prima dell’udienza aveva preannunciato che il processo si sarebbe configurato come “l’ennesima assoluzione dello Stato verso se stesso”.
Nella giornata di ieri, nei pressi della città di Shangluo, situata nella provincia cinese nordoccidentale di Shaanxi, un ponte collocato su un’autostrada è parzialmente collassato a causa delle piogge torrenziali, causando almeno 11 morti e oltre 30 dispersi. La notizia è stata data oggi dalle autorità locali, ed è stata condivisa dall’agenzia di stampa governativa Xinhua, che comunica che l’incidente è avvenuto attorno alle 20.40 locali (14.40 italiane). Secondo Xinhua, il crollo ha fatto precipitare alcuni veicoli nel fiume Jinqian sottostante il ponte, ma la quantità di veicoli coinvolti resta ancora ignota; è dunque probabile che il numero delle vittime aumenti. Al momento sono attive le operazioni di soccorso.
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha stabilito che gli insediamenti israeliani in Palestina violano il diritto internazionale. Il parere della Corte, che non è vincolante (come invece lo sono le risoluzioni ONU al riguardo, che hanno già determinato che l’occupazione israeliana è illegale), è giunto a seguito di una richiesta avanzata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 dicembre 2022, che chiedeva alla Corte di esprimersi in merito alle «conseguenze legali della continua violazione da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione palestinese, dalla prolungata occupazione, insediamento e annessione dei Territori Palestinesi occupati dal 1967», inclusa Gerusalemme, e dell’adozione, da parte di Tel Aviv, di «leggi e misure discriminatorie» e in che modo tali pratiche «influiscono sullo status giuridico dell’occupazione e quali sono le conseguenze giuridiche che ne derivano per tutti gli Stati e le Nazioni Unite».
L’opinione della CIG è dunque che, come già stabilito da varie risoluzioni delle Naizioni Unite, l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi è illegale e che lo Stato di Israele è obbligato a portarla a termine «nel più breve tempo possibile». Israele è tenuto inoltre a interrompere i nuovi tentativi di insediamento e ad «evacuare» tutti i coloni presenti dai Territori Palestinesi Occupati. Lo Stato è inoltre «obbligato» a «riparare al danno causato» durante l’occupazione. Per quanto riguarda gli Stati, questi sono «obbligati a non riconoscere come legale la situazione generata dalla presenza illecita dello Stato di Israele nei Territori Palestinesi Occupati» e a non fare niente che possa ulteriormente favorire questa situazione. Gli stessi obblighi sono previsti per le organizzazioni internazionali. Per questo motivo, l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza ONU dovrebbero prendere iniziative concrete per porre fine a tale situazione, ha dichiarato la CIG.
Mentre intensifica sempre di più l’aggressione a Gaza, massacrando ogni giorno centinaia di civili, Israele sta parallelamente proseguendo i piani di colonizzazione della Cisgiordania. L’ONG israeliana anti coloniale Peace Now ha recentemente rilevato che «il 2024 segna il picco dell’estensione delle dichiarazioni di terreni statali» da parte del governo di Tel Aviv. Dall’inizio dell’anno il governo di Netanyahu, secondo quanto riportato da Peace now, avrebbe dichiarato 2.373 ettari di terre, sulla carta palestinesi, come terre statali israeliane. A questo si aggiunge il fatto che la rioccupazione permanente della Striscia di Gaza, ormai quasi del tutto rasa al suolo, è già di fatto cominciata, come mostrano le immagini satellitari.
Il parere della CIG, insomma, non fa che ribadire quanto già riconosciuto a livello internazionale. Tra le righe di questo documento, tuttavia, si sottolinea tutto il peso dell’ignavia della “comunità internazionale”, che non ha ad oggi adottato alcuna soluzione concreta per impedire un’occupazione (e un massacro) che tutti formalmente riconoscono come illegale. Poche settimane fa, inoltre, la stessa CIG aveva accusato Israele di non adottare alcuna misura a tutela dei civili nell’aggressione in corso, ma che, al contrario, le azioni del governo e dell’esercito israeliano autorizzerebbero la messa in atto di nuove misure di emergenza nell’ambito del caso aperto contro Israele per genocidio.
«La Knesset si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese», perché «rappresenterebbe un pericolo esistenziale per lo Stato di Israele e i suoi cittadini, perpetuerebbe il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerebbe la regione». Questo il testo di una risoluzione approvata ieri dal parlamento israeliano. Una decisione che ha trovato pochissimo spazio sui media, ma che dimostra una volta per tutte due cose che sono chiare da tempo a chiunque voglia vederle. La prima è che Israele non ha alcuna intenzione di rispettare il diritto internazionale, che sancisce il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato, a meno che questo non gli venga imposto. La seconda è che la politica israeliana è assolutamente concorde: l’idea che esista in Israele una forte opposizione politica a questo disegno è una palla fomentata dai media occidentali per stemperare le critiche contro lo Stato ebraico. La risoluzione ha infatti ricevuto 68 voti favorevoli e solo 9 contrari (tutti di deputati arabi). In favore della prosecuzione illimitata del progetto coloniale ha votato anche quella che in occidente viene pompata come “l’opposizione democratica” guidata dal Partito di Unità Nazionale di Benny Gantz, che di fatto si distingue dal progetto genocida di Netanyahu solo per la richiesta di fermare i bombardamenti su Gaza per il tempo necessario a liberare gli ostaggi, per poi riprenderli successivamente.
Ma questa votazione dimostra anche altro. Mentre sui media liberali i pochi spunti critici si concentrano sulla figura del premier Benjamin Netanyahu e sulla “deriva estremista” del suo governo, è interessante notare come la risoluzione della Knesset non fa altro che mettere nero su bianco il progetto storico del sionismo. L’idea che le élite israeliane desiderino abitare in pace al fianco dei palestinesi è un falso storico totale. Per comprenderlo basta riportare alla luce alcune dichiarazioni dei leader storici israeliani.
Nel 1937 David Ben Gurion, primo premier israeliano e considerato dagli israeliani il padre della patria, affermava: «Noi dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto». «Non esiste una cosa come il popolo palestinese. Non è che noi siamo venuti e li abbiamo cacciati e preso il loro Paese. Essi non esistono», diceva invece nel 1969 Golda Meir, primo capo del governo donna di Israele e iscritta al Partito Laburista (storicamente considerato il volto moderato di Israele). «I palestinesi sono bestie che camminano su due gambe», disse invece nel 1982 il suo successore, Menachem Begin. Una non esaustiva rassegna di brutalità, disegni coloniali e propositi genocidi che coinvolge praticamente tutti i leader israeliani succedutisi dal 1948 a oggi e che può concludersi con le parole di Yitzhak Shamir, primo ministro israeliano a più riprese tra il 1983 e il 1992: «I palestinesi saranno schiacciati come cavallette, con le teste sfracellate contro i massi e le mura».
Questa è, attraverso le dichiarazioni dei propri leader, l’essenza del progetto sionista. Rileggendola, è chiaro come la decisione del parlamento israeliano non sia altro che la ratifica in legge di una convinzione suprematista che guida da sempre l’élite israeliana. Un proposito formalmente approvato ora come sfida alle istituzioni internazionali, come l’ONU e la Corte Penale Internazionale che a breve potrebbe emettere un mandato di arresto per crimini di guerra contro Netanyahu.
C’è quindi un’ultima conseguenza, che chiama in causa quei governi, come quello italiano, che, seguendo la posizione degli USA, si oppongono ad ogni iniziativa risoluta per forzare la nascita dello Stato Palestinese, opponendosi in sede ONU alla proclamazione della sua nascita, ad ogni sanzione contro Israele nonché evitando di approvare il riconoscimento dello Stato di Palestina in sede nazionale. La posizione americana (e del governo Meloni) è che la soluzione “a due Stati” deve essere stabilita in trattati di pace tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, senza nessuna forzatura. Una posizione che, data la realtà del contesto, si traduce nell’appoggio indiretto a qualsiasi azione israeliana. Come su L’Indipendenteavevamo spiegato già all’indomani degli attacchi del 7 ottobre.
In questo senso la risoluzione israeliana ha anche una conseguenza positiva: finalmente getta la maschera sulla menzogna ancora diffusa dai governi occidentali e dai media dominanti sul fatto che i politici israeliani vorrebbero una trattativa di pace, ma questa è resa impossibile dai “terroristi” di Hamas. E ci mette di fronte a quella che è l’unica possibilità da parte dell’autoproclamata “comunità internazionale” per mettere fine al massacro e promuovere la pace e il rispetto del diritto internazionale. Se si vuole la pace e la giustizia l’unica possibilità è imporre a Israele la fine dell’occupazione: il suo ritiro all’interno dei territori che gli sono legalmente assegnati e il riconoscimento immediato dell’esistenza di uno Stato di Palestina libero e indipendente nei confini sanciti dall’ONU nel lontano 1948. Ogni iniziativa che non va in questo senso, come il rifiuto del governo italiano di riconoscere lo Stato di Palestina, è complicità con l’occupazione israeliana e con il genocidio del popolo palestinese.
Secondo il censimento del 1° gennaio 2023 la seconda popolazione extracomunitaria più numerosa nella città di Milano è quella filippina, che conta all’incirca 37.000 individui ed è seconda solo alla comunità egiziana. La cultura filippina in Italia e a Milano ha ottenuto gradualmente un suo spazio espressivo, grazie alla nascita di festival, luoghi d’aggregazione, ristoranti ed eventi. Però, uno dei punti distintivi di questa comunità in tutto il mondo è senza ombra di dubbio la pallacanestro.
Il basket nelle Filippine
Dopo l’ottenimento dell’indipendenza dalla Spagna nel 1896, le Filippine, con il trattato di Parigi del 1898 e dopo tre anni di conflitto tra popolazione locale e forze coloniali, passarono ufficialmente sotto la sfera d’influenza statunitense, la quale, nonostante l’indipendenza ufficiale del 1946, perdura ancora oggi a causa del ruolo fondamentale del paese nel contesto geopolitico del Mar Cinese. Fu in questa maniera che il basket giunse sull’arcipelago filippino nei primi anni del XX secolo e da allora, divenne parte integrante della cultura pinoy. Inizialmente considerato come sport prettamente femminile e fortemente osteggiato dalla Chiesa cattolica filippina, nel 1913 la prima selezione maschile nazionale del paese, la Gilas Pilipinas, vinse il suo primo titolo internazionale e nel 1936, oltre a far parte dei paesi membri nella fondazione della FIBA (Federazione Internazionale Pallacanestro), si posizionò al quinto posto al torneo di basket dei Giochi Olimpici di Berlino. Attualmente l’ordinamento cestistico del paese prevede sette tornei professionistici, tre dilettantistici e nove collegiali, e, in ambito internazionale, l’arcipelago è stato la sede di due coppe del mondo FIBA, la prima nel 1978 e la seconda, in condivisione con Giappone e Indonesia, nel 2023.
Milano e i basketball court
«Questa tripla la metto per te» mi dice con non poca spavalderia Mila, un ragazzo di 28 anni, nato a Milano e originario della zona di Manila. Alla proposta di uno contro uno, la sfida che vede due persone affrontarsi su chi fa più punti, non si tira indietro. «Ormai non gioco più come prima, tu sei più allenato, io sto sempre a lavorare» Siamo al campetto adiacente alla linea verde della metropolitana di Milano, in zona Cimiano, uno dei luoghi più frequentati dai giovani cestisti filippini. Generalmente, durante i lunghi pomeriggi primaverili ed estivi, questo campetto ospita numerosi giocatori di tutte le età, che aumentano considerevolmente di numero durante i fine settimana. A causa del maltempo degli ultimi giorni, oggi finalmente hanno potuto riorganizzare uno dei tantipickup game, le partitelle nello slang anglofono. Una decina di persone siedono lungo le ringhiere e osservano i movimenti degli altri dieci in campo. Uno mette della musica da un altoparlante portatile e gli altri, pronti per ricominciare a giocare, commentano goliardicamente le azioni più emblematiche del match. Tra gli spettatori, uno siede sulla cima di una scala, mentre fuma una sigaretta. «Perché lui sta sulla scala?» Chiedo, incuriosito. «Abbiamo aggiustato le retine prima di iniziare». Il campetto diventa infatti un’occasione d’impegno civico; in una città che si apre sempre di più alle privatizzazioni e, come è avvenuto in altri campetti, alla brandizzazione, la cura di chi lo frequenta, attraverso la pulizia dei rifiuti e l’attenzione verso i canestri è una forma di resistenza a difesa di uno spazio libero e pubblico. Poco prima del tramonto la partita volge al termine, i giocatori calzano delle più comode ciabatte e si muovono, chi verso casa, chi verso altri campetti dotati di illuminazione, per continuare a giocare.
È comune vedere famiglie intere in queste occasioni, con numerosi bambini che fin dai primi anni di vita si avvicinano alla pallacanestro, dimostrando notevoli abilità nel palleggio, o ball handling. «Tu quanti anni hai?» Chiedo a un bambino che si diverte a prendere i rimbalzi dei ragazzi più grandi che tirano, circondando la linea da tre punti. «Undici», mi dice, dopo essersi riappropriato finalmente di un pallone e pronto per tirare a canestro. Alle altre domande che gli rivolgo non risponde. «Non parla l’italiano» interviene Mila, il quale, quasi come un fratello maggiore, gli mostra qualche trucco e la meccanica migliore per tirare da lontano.
«Qua fa freddo in confronto a casa sua, gli mancano le Filippine» mi racconta Mila, mentre osserva il frutto dei suoi insegnamenti. «È nato a Milano, ma subito dopo si è trasferito a Santa Rosa – nelle Filippine – con la sua famiglia. Sono tornati qui da poco più di due mesi». Mark, come molti giovani filippini, segue prevalentemente la NBA e tifa i Boston Celtics, finalisti dell’attuale stagione 2023/24, e il suo giocatore preferito è Jayson Tatum, stella della franchigia nordamericana. La lega statunitense è sempre stata un punto di riferimento per i giovani filippini, sono i playmaker statunitensi, più bassi e rapidi nel palleggio, i giocatori ai quali vogliono aspirare. Difatti molto spesso le canotte sfoggiate nei campetti sono dei rifacimenti delle più famose jersey NBA, delle quali usano il lettering e i colori per le divise delle proprie squadre; le scarpe sono un altro dei tratti peculiari delle giornate trascorse al campetto: utilizzate esclusivamente per giocare, sono le scarpe di giocatori come Kyrie Irving, Kobe Bryant o Steph Curry quelle più viste sul cemento e sul parquet. Sul calar del sole, il campetto si svuota definitivamente. Mark torna correndo dalla sua mamma che insieme ad altre famiglie, una cinquantina di persone in tutto, trascorre la domenica al parco, ballando e mangiando in un contesto festoso, organizzato all’aria aperta nel parco. Solo un ragazzo continua a tirare incessantemente, provando e riprovando i movimenti dei grandi campioni oltreoceano.
Summer Madness, quando la passione si organizza
Oltre ai lunghi pomeriggi passati nei campetti all’aperto, la comunità italo-filippina ha dato vita a numerosi eventi legati alla pallacanestro, primi fra tutti i tornei durante i quali si sfidano varie squadre composte da italiani di origine filippina e persone di prima generazione. Fra questi spicca la Summer Madness, che ha luogo nella polisportiva comunale di Pero, nell’hinterland milanese. Durante i fine settimana di maggio e giugno, diverse squadre suddivise in categorie in base all’età, dai più giovani Under 13, ai senior, si affrontano in un contesto vivace, una festa alla quale la comunità filippina accorre numerosa. Gli spalti della palestra sono pienissimi e già dalla strada adiacente alla struttura si possono sentire le urla della tifoseria dopo un canestro.
Non appena si entra si viene accolti da un banchetto allestito dalle famiglie dei giovani cestisti, che, per pochi euro, danno la possibilità di rifocillarsi con snack tipici della tradizione culinaria filippina. Dalle 9 di mattina fino a tarda sera, i giocatori si danno il cambio incessantemente, dedicando l’intera giornata alla pallacanestro. Tra i cestisti che compongono le squadre, prevalentemente italiani di origine filippina, è possibile vedere qualche ragazzo italiano di prima generazione. «Un mio compagno di scuola mi ha invitato a partecipare» mi racconta Stefano, il centro degli I’m a Baller U15 «Avevo iniziato a giocare in un’altra squadra prima del Covid, ma poi ci siamo dovuti fermare. Con loro mi trovo bene». Le ultime partite vedono impegnati i giocatori più grandi, tra queste, il primo match ha visto giocare i Tiger, la selezione U25 degli I’m a Baller, contro l’Universal Basket di Milano; l’atmosfera si fa immediatamente più intensa, il livello sale e la partita si risolve, dopo quattro quarti punto a punto, solo nell’ultimo minuto di gioco. È la Tiger ad avere la meglio, chiudendo la partita con un vantaggio di sei lunghezze. «Ho portato mio figlio a giocare, lui è piccolo, io mi godo la partita» mi dice Domingo, seduto al mio fianco sugli spalti. Nato a Batangas, nelle Filippine, vive in Italia da vent’anni. «Nelle Filippine giocavo a basket, adesso non più; ho 50 anni, le ginocchia mi fanno male».
Stream, un ponte fra comunità
Con il fine di diffondere la cultura filippina ed aprirsi al tessuto sociale milanese, nel 2021 due giovani italiani, Germelyn e Luca, hanno fondato Stream, un’associazione culturale che, attraverso lo sport, sta gradualmente permeando nella comunità filippina. «La nostra idea è quella di far conoscere la cultura filippina nella città di Milano» mi racconta Germelyn, «attraverso i nostri progetti cerchiamo di unire le varie comunità filippine della città; vogliamo fare da ponte, che è sicuramente meglio che costruire muri. Questa è la nostra missione». La lotta contro gli stereotipi e contro il rischio di ghettizzare una comunità, per lungo tempo tenuta ai margini del tessuto sociale, è il nucleo fondante del progetto; con il tempo, Stream è riuscita a raccogliere l’entusiasmo di giovani italo-filippini di seconda generazione, inserendosi in contesti istituzionali, come l’Arch Week e ottenendo l’appoggio del consolato filippino a Milano.
Lo sport rappresenta uno dei mezzi principali di diffusione culturale e unione sociale, grazie ai vari tornei, l’associazione sta vedendo aumentare la partecipazione di giovani con alle spalle numerose eredità culturali differenti. Inoltre, organizzano corsi di italiano e stanno pensando di proporre corsi di tagalog. «La seconda generazione parla generalmente in italiano, anch’io, per esempio – mi spiega Germelyn – se mia madre mi parla in tagalog, le rispondo in italiano. Purtroppo, in alcuni casi il tagalog si sta perdendo». La pallacanestro è parte attiva di questo processo; Luca, dopo aver intercettato il desiderio di molte ragazze di giocare a basket, ha deciso di allenare una squadra, le Proudly Pinoy Lady Warriors. «Nelle Filippine sono ancora un po’ indietro su questo» lamenta Germelyn «lo stereotipo è ancora presente; già a tre anni avevo la palla in mano, ma quando ho iniziato a fare basket i miei genitori non volevano».
Un’altra problematica che questa comunità deve affrontare è il limite imposto dalla Federazione Italiana Pallacanestro sulla presenza di stranieri in squadra. Purtroppo, tutte queste squadre non possono andare oltre l’amatorialità. «Si parla di livello amatoriale perché la legge permette di far giocare in una squadra solo due persone straniere». Anche se nate e scolarizzate in Italia e nonostante parlino l’italiano come prima lingua, finché queste persone non raggiungono i diciotto anni d’età, non possono fare richiesta per ottenere la cittadinanza italiana. Chiunque abbia il sogno di giocare professionalmente, non può farlo e non ha altra opportunità che rimanere nei circuiti UISP o CIS.
«La comunità di prima generazione forse non capisce a fondo il nostro progetto» mi svela Germelyn. «Loro adesso vivono bene, hanno il loro gruppo e per quanto non si oppongano, non capiscono la ragione del nostro impegno». La pallacanestro, sport che spesso finisce in secondo piano nei media italiani, all’interno di questa comunità occupa un ruolo principale. La palla a spicchi non rappresenta solo l’opportunità di veicolare i valori dello sport, ma è capace di preservare l’eredità di una comunità giunta in Italia a partire dagli anni Settanta, di trasmettere una cultura ai figli nati a migliaia di chilometri di distanza, i quali si impegnano a condividerla nel tessuto sociale al quale appartengono. È così che la pallacanestro diventa un baluardo dell’identità filippina, attraverso la voglia di farsi conoscere, nelle grida del pubblico sugli spalti di un torneo, nell’incessante rimbalzare di una palla in un campetto.
All’albeggiare del 19 luglio, il popolo australiano si è svegliato e ha scoperto che molti dei computer di aziende e istituzioni, semplicemente, non funzionavano. Al posto dei soliti programmi e finestre, i terminali presentavano quella che in gergo viene chiamata la “schermata blu della morte”, che sui dispositivi Windows segnala un errore di sistema critico che non può essere risolto autonomamente. Con il passare delle ore, sempre più nazioni si sono rese conto di star patendo lo stesso problema: Malesia, India, Olanda, Regno Unito, Germania, Spagna, Stati Uniti e molti altri. Banche, Borse, media d’informazione, ospedali e compagnie aeree stanno subendo rallentamenti o interruzioni nei servizi. Il danno economico è difficile da stimare. Ciò che è più chiaro, sono le cause: stando alle prime ricostruzioni, il pesante disagio sarebbe stato causato da un aggiornamento difettoso di un programma informatico.
A essere finito sotto accusa è infatti il software Falcon Sensor, prodotto e distribuito dall’impresa di cybersicurezza Crowdstrike. L’azienda in questione non è certamente tra le più rappresentate nella cultura di massa, tuttavia non stiamo parlando di una realtà piccola o priva di mezzi: lo scorso giugno, Crowdstrike è stata inserita nel prestigioso indice di Borsa Standand & Poor’s 500, mentre nel 2020 l’azienda avuto un ruolo rilevante nell’identificare nel Governo russo il sospettato numero uno per gli attacchi hacker subiti dagli USA durante le elezioni del 2016.
Il fatto che un’entità tanto potente possa banalmente aver messo online per errore un update dannoso ha indotto alcuni osservatori a pensare che Crowdstrike fosse caduto vittima di un cyberattacco di natura politica. Tuttavia, il coordinatore della National Cyber Security australiana, Michelle McGuinness, e l’Agenzia nazionale francese per la sicurezza dei sistemi informatici (ANSSI) hanno immediatamente bocciato l’ipotesi, sostenendo che non ci siano indizi che promuovano la pista del cyberterrorismo. Quali che siano le cause, gli effetti sembrano però essere ben definiti: Falcon Sensor, una volta aggiornato, sarebbe entrato in conflitto con il servizio cloud di Microsoft, Microsoft Azure, rendendo inoperabili i computer dei propri clienti.
Un problema non da poco, se si considera l’ampio spettro di aziende che si sono appoggiate a Crowdstrike per tutelare i propri sistemi informatici da ogni forma di accesso illecito. Tra le imprese ed entità coinvolte figurano Sky News, Ryanair, Sisal, Wizz Air, Delta Airlines, United Airlines, American Airlines, Turkish Airlines, il sistema sanitario nazionale britannico, la Borsa di Londra. E poi gli aeroporti di Melbourne, Singapore, Vienna, Milano, Catania, Los Angeles e altri ancora. Stando ai dati diffusi da Cirium, azienda specializzata nell’analisi aviaria, nella sola Italia si parla già di almeno 45 voli cancellati. Alla luce di quanto sta succedendo, le quotazioni statunitensi di Crowdstrike hanno subito un tracollo di più del 20%, con una perdita di valore stimata in 16 miliardi di dollari.
Microsoft, dal canto suo, ha riferito genericamente che i disagi siano stati causati “da un aggiornamento di un software di terze parti”, ma anche che le “cause fondamentali” del problema siano state risolte. Tuttavia, riferisce cautamente la Big Tech, “l’impatto residuo” continuerà a colpire i servizi per un tempo non meglio definito. Probabilmente giorni. Questi disagi planetari saranno comunque quasi certamente al centro di varie indagini mirate a identificare cosa abbia spinto Crowdstrike a distribuire un update obbligatorio tanto disastroso. Nel frattempo, l’episodio ha ricordato ai popoli e ai legislatori di tutto il mondo come la “cloud economy” non sia priva di insidie, e come anche i software più superficiali siano ormai tanto integrati nelle Reti informatiche che basta una svista per creare un disastroso effetto domino.
Dopo che almeno 50 persone sono state uccise nelle proteste iniziate il 20 giugno contro un disegno di legge che aumenterebbe le tasse, la polizia keniota ha vietato le proteste anti-governative nel centro della capitale Nairobi fino a nuovo avviso. Il provvedimento, tuttavia, è già stato sospeso da un tribunale del Paese, che è passato ora a esaminare il ricorso presentato da un’organizzazione per i diritti civili. Le proteste in Kenya vanno avanti da giorni, e dopo un iniziale periodo in cui si limitavano a contestare la proposta di legge del Presidente William Ruto, sono in breve tempo arrivate a chiedere le dimissioni del Governo e dello stesso Presidente.
Aromi e coloranti sono sostanze ampiamente usate dall’industria alimentare nella fabbricazione di molti prodotti. Gli aromi vengono considerati dalle normative europee come veri e propri ingredienti di base del cibo industriale, quindi si possono impiegare senza limiti di quantità e come substrato di base del prodotto, specialmente quando è necessario mascherare la scarsa qualità di partenza delle materie prime. Invece i coloranti sono equiparati per legge a degli additivi, si possono impiegare solo a dosaggi prestabiliti dall’Autorità Europea sulla Sicurezza Alimentare (EFSA), sulla base di soglie e quantità fissate appunto nei regolamenti europei. Queste soglie sono fissate per legge, ma questo è valido solo in teoria. In pratica invece, per diverse sostanze usate come colorante alimentare, non è nemmeno mai stata fissata una soglia limite per i produttori, e quindi l’impiego e la quantità è lasciata alla discrezione del produttore stesso: è il caso per dell’ossido di ferro (E172), del carbone vegetale (E153) o del litolrubino (E180), fra gli altri. Va specificato subito che i coloranti non hanno alcuna funzione nutritiva ma esplicano nel cibo una funzione meramente estetica, per rendere il prodotto più accattivante e gradito agli occhi del consumatore. In pratica, potremmo anche eliminarli completamente e non ci sarebbe alcuna diminuzione di qualità nel cibo. Ma all’industria queste sostanze servono come l’ossigeno, come potete immaginare, per tenere alti i propri profitti e massimizzare le vendite. Chi comprerebbe una bevanda alla cola incolore, ad esempio, o un campari color grigio acqua di rubinetto? Probabilmente nessuno. E anziché fare ricorso a dei coloranti naturali, più costosi per l’industria, si fa ampio uso di quelli artificiali, soprattutto nei prodotti destinati ai bambini, come dolciumi, caramelle e bevande analcoliche.
E sebbene non sempre artificiale equivalga a qualcosa di pericoloso o nocivo, in alcuni casi – proprio per chiarire la differenza – l’EFSA ha specificato che è obbligatorio indicare in etichetta l’eventuale presenza di coloranti artificiali dannosi per la salute dei bambini. Vediamo allora insieme quali sono i coloranti artificiali realmente da evitare e come difendere i bambini da questo rischio.
Alcuni coloranti sono dannosi per la salute dei bambini
Il ruolo dell’EFSA è quello di riesaminare periodicamente tutti gli additivi chimici contenuti negli alimenti, che chiaramente comprendono anche i coloranti artificiali. Il ruolo dell’EFSA è quello di fornire il proprio parere scientifico alla Commissione Europea, dopo tutte le analisi, poi sarà la Commissione o il Parlamento europeo a stabilire quali additivi possono essere impiegati o meno, e a quali dosaggi. In questo caso, dopo il riesame dell’EFSA, per alcune sostanze coloranti è scattato addirittura il divieto di utilizzo con esplicita menzione di grave tossicità (è il caso del noto E171, il colorante bianco biossido di titanio, che tuttavia l’industria alimentare ha utilizzato per diversi decenni e su cui le autorità sanitarie e politiche si erano sempre mostrate tranquillizanti e permissive).
Le sostanze coloranti artificiali, da sempre, possono però comportare problemi di salute in generale anche per gli adulti, come allergie, asma, rinite, orticaria e tutta una serie di intolleranze anche alimentari. La tossicità di queste sostanze coloranti è maggiore in individui più vulnerabili come i bambini, gli anziani, le donne in gravidanza, le persone immunodepresse che hanno già problematiche di salute (tumori, malattie autoimmuni, chi fa chemioterapie ecc.). Oltre a ciò bisogna sapere che sin dal 2008 a livello europeo sono state fissate delle norme su alcuni coloranti alimentari artificiali molto specifici, chiamati coloranti azoici e considerati particolarmente nocivi e insidiosi per la salute dei bambini.
Il Regolamento (CE) n. 1333/2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio europeo, emanato il 16 dicembre 2008, ha voluto proprio normare tutto il mondo degli additivi alimentari, coloranti inclusi. Nell’Allegato V del suddetto Regolamento è possibile consultare l’elenco dei coloranti alimentari per i quali l’etichettatura dei prodotti che li impiegano deve obbligatoriamente riportare la seguente dicitura: «Può influire negativamente sull’attività e l’attenzione dei bambini».
In questo elenco sono compresi i seguenti coloranti artificiali, ovvero sintetici, con relativi codici:
Sunset yellow (E110);
Giallo di chinolina (E104);
Carmoisina (E122), colorante rosso con sfumature bluastre, detto anche azorubina;
Rosso allura (E129);
Giallo Tartrazina (E102);
Rosso cocciniglia o Ponceau (E124), da non confondere col colorante rosso cocciniglia naturale, E120, estratto dall’insetto della cocciniglia .
In che senso questi coloranti sono pericolosi per la salute dei bambini? Diversi studi hanno provato degli effetti sul comportamento dei bambini, dimostrando un nesso tra l’ingestione di additivi coloranti azoici e sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività. E l’autorità inglese per la sicurezza alimentare (Food Standards Agency) fu la prima autorità, nel 2008, ad affermare nero su bianco l’esistenza di parecchi studi ed evidenze scientifiche che attestavano un nesso tra il consumo di alcuni additivi alimentari e il comportamento dei bambini: «We conclude that the results of this study are consistent with, and add weight to, previous published reports of behavioural changes occurring in children following consumption of particular food additives». Va rilevato che oggi sia l’industria alimentare (i produttori che utilizzano i coloranti) che le autorità europee sulla sicurezza alimentare (EFSA) tendono ad essere molto rincuoranti e a minimizzare l’impatto negativo delle sostanze coloranti, ma la verità è che la letteratura scientifica attuale e del passato fornisce una notevole quantità di prove che il consumo di coloranti alimentari sintetici è associato a esiti neurocomportamentali negativi nei bambini. Come sempre, si cerca di sottostimare i rischi per favorire l’azione dell’industria e il commercio economico ormai interamente basato sulla produzione di cibo industriale, piuttosto che puntare ad un principio di precauzione che metta al bando totale le sostanze su cui sono già emerse delle problematiche di salute. Sappiamo ormai che questa dinamica è una costante nel mondo agroalimentare e anche in altri settori economici.
In quali alimenti è possibile trovare questi coloranti?
Intanto si tratta di coloranti ampiamente utilizzati nei preparati industriali: sono usati, ad esempio, in pasticceria per fare gelati, creme pasticcere e ripieni. Ma non solo, li possiamo ritrovare anche in diversi prodotti comuni che acquistiamo al supermercato. Dal 2008 la UE impone delle diciture di avvertimento su alimenti che utilizzano i coloranti azoici, e che sono destinati in particolar modo ai bambini, ma poche mamme ancora ne sono consapevoli dal momento che le industrie alimentari non informano di certo il consumatore sull’argomento. Anzi, se ne guardano bene dal farlo, pena una drastica riduzione delle vendite. I prodotti alimentari in questione sono: caramelle, lecca-lecca, gelati, yogurt, budini, dolcetti vari come gli orsetti gommosi, frappè, milkshake, bevande colorate, bevande energetiche, decorazioni colorate come le cialde per torte che ritraggono personaggi dei fumetti molto amati dai piccoli come i Minions, i Paw Patrol, Topolino, Barbie ecc.
Come difendere i bambini dal pericolo legato ai coloranti artificiali?
La soluzione più concreta per evitare che i bambini possano entrare in contatto con queste sostanze è quella di non comprare cibi preconfezionati o in generale prodotti come merendine, bibite gassate e caramelle; piuttosto, meglio preferire cibi fatti in casa con ingredienti biologici. Qualora questo non fosse possibile, ricordiamo sempre che le etichette sono i nostri migliori alleati per un acquisto consapevole e sicuro: cerchiamo i codici dei coloranti e rifuggiamo il prodotto se individuiamo uno o più coloranti indicati come potenzialmente dannosi dall’Unione Europea.
Banche, istituti finanziari, ospedali, servizi cloud, ma anche aeroporti, e stazioni ferroviarie: da stamattina aziende, infrastrutture, e servizi di tutto il mondo stanno vivendo problemi di natura informatica, e sono finite in mezzo al caos a causa di quello che per ora sembrerebbe un errore di aggiornamento di un antivirus fornito da CrowdStrike, società americana di tecnologia di sicurezza informatica che presta i propri servizi a Microsoft. Al momento gli aeroporti paiono essere le strutture più colpite: a Roma Fiumicino e Ciampino i voli stanno subendo cancellazioni e ritardi, e aerei di tutto il mondo stanno rimanendo a terra.
Nella notte appena trascorsa, tra giovedì 18 e venerdì 19 luglio, un drone ha superato le difese israeliane, e si è abbattuto su un palazzo situato a un centinaio di metri dal consolato statunitense di Tel Aviv, causando un morto e almeno dieci feriti. L’attacco è avvenuto attorno alle 2.00 ed è stato successivamente rivendicato dal gruppo armato yemenita degli Houthi, che da mesi presidiano il Mar Rosso in solidarietà alla Palestina. Il portavoce militare dell’organizzazione Yahya Sare’e ha dichiarato che a venire utilizzata è stata una inedita tecnologia che risulta invisibile ai radar: l’ha chiamata simbolicamente “Yafa“, lo stesso nome attribuito alla «area occupata di Giaffa, a cui gli ‘israeliani’ si riferiscono con il nome di ‘Tel Aviv’». In seguito all’attacco, il gruppo yemenita ha dichiarato «zona non sicura» la stessa «area occupata di Giaffa», annunciando una «operazione speciale» contro la capitale israeliana e tutte le zone sensibili raggiungibili dai nuovi droni.
L’offensiva yemenita ha colpito Tel Aviv poco dopo le 2.30, ed è stata rivendicata dallo stesso gruppo attorno alle 4.00 del mattino. Il drone si è abbattuto su un edificio a meno di 100 metri dal consolato statunitense, ma per ora non vi sono prove certe che dimostrino che l’obiettivo primario fosse l’edificio USA. Dalle descrizioni che gli stessi Houthi forniscono dell’attacco, l’offensiva pare piuttosto configurarsi più come una sorta di monito a Tel Aviv, che come un’offesa diretta agli USA. Video amatoriali registrati in seguito allo schianto mostrano vetri rotti sparsi sui marciapiedi e resti dell’ala del drone sparpagliati a terra, e ritraggono una folla di spettatori radunata vicino a un edificio che pare essere stato colpito anche solo indirettamente dall’esplosione. L’operazione è stata lanciata «a supporto della popolazione palestinese oppressa e dei suoi combattenti, e in risposta ai massacri commessi dalla aggressione ‘israeliana’ contro i nostri fratelli a Gaza».
Proprio in solidarietà alla causa palestinese, gli Houthi hanno inoltre dichiarato l’apertura di una operazione militare su scala maggiore, che avrà nella stessa Tel Aviv un «obiettivo primario», ma che si rivolgerà a numerosi altri bersagli militari sensibili, di cui avrebbero già pronta una lista: «ci concentreremo sul prendere di mira il fronte interno del nemico sionista, e sul penetrare in profondità nel suo territorio». L’operazione speciale durerà «fino a quando l’aggressione non si fermerà, e l’assedio del popolo palestinese a Gaza non verrà revocato». In seguito all’attacco, le autorità israeliane hanno aperto una serie di indagini per comprendere come sia possibile che il drone sia riuscito a superare i sistemi di rilevazione aerea, mentre intanto Yair Lapid, leader del partito di opposizione centrista Yesh Atid, si è scagliato contro Netanyahu e il suo esecutivo affermando che l’attacco di questa notte costituisce «un’ulteriore prova che questo governo non sa e non può garantire la sicurezza ai cittadini israeliani».
È ormai mesi che gli Houthi lanciano operazioni militari in sostegno della causa palestinese. Sin da novembre, il gruppo militare presidia il Mar Rosso per non fare passare le navi recanti bandiera israeliana, o che viaggiano da – o verso – Israele. Solo a gennaio, l’organizzazione yemenita aveva causato danni enormi al traffico sui canali marittimi, riducendo del 53% il fluire delle merci. Per tale motivo, gli Stati Uniti hanno lanciato una operazione militare internazionale contro gli stessi Houthi, a cui l’Unione Europea ha deciso di affiancare una sua personale missione “di difesa” nella zona, con a capo proprio l’Italia.
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