sabato 23 Novembre 2024
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Un guasto informatico sta mandato in tilt i sistemi di tutto il mondo

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Banche, istituti finanziari, ospedali, servizi cloud, ma anche aeroporti, e stazioni ferroviarie: da stamattina aziende, infrastrutture, e servizi di tutto il mondo stanno vivendo problemi di natura informatica, e sono finite in mezzo al caos a causa di quello che per ora sembrerebbe un errore di aggiornamento di un antivirus fornito da CrowdStrike, società americana di tecnologia di sicurezza informatica che presta i propri servizi a Microsoft. Al momento gli aeroporti paiono essere le strutture più colpite: a Roma Fiumicino e Ciampino i voli stanno subendo cancellazioni e ritardi, e aerei di tutto il mondo stanno rimanendo a terra.

Gli Houthi attaccano Israele con i droni: “continueremo fino alla fine del massacro di Gaza”

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Nella notte appena trascorsa, tra giovedì 18 e venerdì 19 luglio, un drone ha superato le difese israeliane, e si è abbattuto su un palazzo situato a un centinaio di metri dal consolato statunitense di Tel Aviv, causando un morto e almeno dieci feriti. L’attacco è avvenuto attorno alle 2.00 ed è stato successivamente rivendicato dal gruppo armato yemenita degli Houthi, che da mesi presidiano il Mar Rosso in solidarietà alla Palestina. Il portavoce militare dell’organizzazione Yahya Sare’e ha dichiarato che a venire utilizzata è stata una inedita tecnologia che risulta invisibile ai radar: l’ha chiamata simbolicamente “Yafa“, lo stesso nome attribuito alla «area occupata di Giaffa, a cui gli ‘israeliani’ si riferiscono con il nome di ‘Tel Aviv’». In seguito all’attacco, il gruppo yemenita ha dichiarato «zona non sicura» la stessa «area occupata di Giaffa», annunciando una «operazione speciale» contro la capitale israeliana e tutte le zone sensibili raggiungibili dai nuovi droni.

L’offensiva yemenita ha colpito Tel Aviv poco dopo le 2.30, ed è stata rivendicata dallo stesso gruppo attorno alle 4.00 del mattino. Il drone si è abbattuto su un edificio a meno di 100 metri dal consolato statunitense, ma per ora non vi sono prove certe che dimostrino che l’obiettivo primario fosse l’edificio USA. Dalle descrizioni che gli stessi Houthi forniscono dell’attacco, l’offensiva pare piuttosto configurarsi più come una sorta di monito a Tel Aviv, che come un’offesa diretta agli USA. Video amatoriali registrati in seguito allo schianto mostrano vetri rotti sparsi sui marciapiedi e resti dell’ala del drone sparpagliati a terra, e ritraggono una folla di spettatori radunata vicino a un edificio che pare essere stato colpito anche solo indirettamente dall’esplosione. L’operazione è stata lanciata «a supporto della popolazione palestinese oppressa e dei suoi combattenti, e in risposta ai massacri commessi dalla aggressione ‘israeliana’ contro i nostri fratelli a Gaza».

Proprio in solidarietà alla causa palestinese, gli Houthi hanno inoltre dichiarato l’apertura di una operazione militare su scala maggiore, che avrà nella stessa Tel Aviv un «obiettivo primario», ma che si rivolgerà a numerosi altri bersagli militari sensibili, di cui avrebbero già pronta una lista: «ci concentreremo sul prendere di mira il fronte interno del nemico sionista, e sul penetrare in profondità nel suo territorio». L’operazione speciale durerà «fino a quando l’aggressione non si fermerà, e l’assedio del popolo palestinese a Gaza non verrà revocato». In seguito all’attacco, le autorità israeliane hanno aperto una serie di indagini per comprendere come sia possibile che il drone sia riuscito a superare i sistemi di rilevazione aerea, mentre intanto Yair Lapid, leader del partito di opposizione centrista Yesh Atid, si è scagliato contro Netanyahu e il suo esecutivo affermando che l’attacco di questa notte costituisce «un’ulteriore prova che questo governo non sa e non può garantire la sicurezza ai cittadini israeliani».

È ormai mesi che gli Houthi lanciano operazioni militari in sostegno della causa palestinese. Sin da novembre, il gruppo militare presidia il Mar Rosso per non fare passare le navi recanti bandiera israeliana, o che viaggiano da – o verso – Israele. Solo a gennaio, l’organizzazione yemenita aveva causato danni enormi al traffico sui canali marittimi, riducendo del 53% il fluire delle merci. Per tale motivo, gli Stati Uniti hanno lanciato una operazione militare internazionale contro gli stessi Houthi, a cui l’Unione Europea ha deciso di affiancare una sua personale missione “di difesa” nella zona, con a capo proprio l’Italia.

[di Dario Lucisano]

La Commissione Europea finanzierà la TAV e il progetto del Ponte sullo Stretto

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La Commissione europea finanzierà lo studio di fattibilità della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina per il quale saranno elargiti dall’Ue 24,7 milioni di euro. La progettazione della grande opera sullo stretto che collegherà la Calabria alla Sicilia rientra in una lista più ampia di 134 progetti per la Mobilità intelligente e sostenibile che la Commissione Ue ha deciso di finanziare con sette miliardi di euro. La nota tecnica dei servizi della Commissione evidenzia che il progetto «mira a completare la progettazione tecnica del ponte ferroviario-stradale sullo stretto di Messina, per collegare la Regione Calabria e l’isola di Sicilia». Si tratta, dunque, degli studi propedeutici per i cantieri futuri, il cui vantaggio principale «sarà quello di preparare la futura costruzione del ponte». Ad oggi, il finanziamento riguarderà la sola dimensione ferroviaria della struttura, come ha chiarito la commissaria per i Trasporti, Adina Valean. Un risultato degno di nota per il governo Meloni e per Matteo Salvini, che da quando è ministro delle Infrastrutture è diventato grande sostenitore del progetto, dopo averlo avversato per anni quando era all’opposizione.

I tempi per l’avvio della costruzione della grande opera sono ancora lunghi, considerato che si devono ancora svolgere gli studi di fattibilità e non c’è quindi un inizio certo dei lavori. Diversi esperti, inoltre, hanno già messo in luce le criticità dell’infrastruttura e gli interessi nascosti dietro la stessa. Il Comitato esterno incaricato dal ministero di valutare il progetto, ad esempio, in un rapporto di 51 pagine specifica che vi sono ben 68 mancanze da sanare prima di procedere: tra queste, l’acciaio da utilizzare, gli esami sismici, la tenuta in caso di forte vento. Nella relazione si legge che il Comitato “ritiene opportuno che nell’aggiornamento delle analisi strutturali vengano riesaminati scenari che tengano conto dell’azione combinata del vento e dei carichi di traffico ferroviario e stradale” ed è richiesto anche un aggiornamento della “zonizzazione microsismica”, cioè la verifica della resistenza degli elementi strutturali in relazione a sismi di forte intensità, considerato che la zona è definita come una delle aree più a rischio nel continente europeo.

Il presidente dell’ANAC (Autorità Nazionale Anti Corruzione), Giuseppe Busia, invece, durante un’audizione alla Camera ha criticato l’assenza di un progetto «unitario e completo» prima dell’inizio dei lavori, cosa che a suo dire potrebbe innescare aumenti dei costi oltre i limiti previsti dalle normative UE e la conseguente necessità di ricorrere a un nuovo bando di gara. Allo stesso modo, ha posto l’accento sull’avvio disomogeneo dei lavori che renderebbe difficile avere un «quadro chiaro e complessivo dell’effettiva realizzabilità dell’opera e dei relativi costi», con il probabile effetto di «trasferire in capo alla parte pubblica rischi che invece competono contrattualmente al privato». Da ultimo ha criticato l’assenza di un termine per l’approvazione del progetto esecutivo.

Oltre agli aspetti di carattere tecnico ed economico, il giornalista antimilitarista Antonio Mazzeo ha messo in luce gli interessi di tipo militari dietro all’infrastruttura: più che a migliorare la mobilità civile, infatti, il ponte sullo Stretto servirebbe a migliorare la mobilità e i collegamenti delle basi militari del sud Italia, dove l’Alleanza atlantica gestisce le principali operazioni americane nel Mediterraneo. Questo è uno dei motivi per cui l’opera è richiesta a gran voce dall’UE e dalla Nato. A conferma di questa lettura c’è una relazione presentata il 31 marzo dal governo Meloni, in cui si specifica che il ponte sullo Stretto rappresenta «un’infrastruttura fondamentale rispetto alla mobilità militare, tenuto conto della presenza di basi militari Nato nell’Italia meridionale».

Il ponte sullo Stretto è solo uno dei progetti italiani compreso nel pacchetto di investimenti da sette miliardi dell’UE: in totale sono sette i progetti che riguardano la mobilità e le infrastrutture italiane, tra cui anche la TAV Torino-Lione a cui la Commissione destinerà 700 milioni di euro.

[di Giorgia Audiello]

USA, Biden pare sempre più vicino a dimettersi

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Continuano a spuntare indiscrezioni su un eventuale ritiro dalla corsa per le elezioni presidenziali USA del candidato democratico e attuale Presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Secondo la rivista statunitense Axios, il suo ritiro dovrebbe avvenire proprio nel fine settimana, mentre intanto importanti membri del partito come Hakeem Jeffries e Chuck Schumer starebbero spingendo perché Biden faccia un passo indietro. Secondo il Washington Post anche Barack Obama starebbe “riflettendo attentamente” sulla sua candidatura, notizia non smentita dall’ex Presidente degli Stati Uniti.

L’ONU stilerà un Trattato per garantire l’istruzione gratuita a tutti i bambini del mondo

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scuola

Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (OHCHR) ha compiuto un significativo passo avanti verso l'istruzione obbligatoria e gratuita per milioni di bambini, finora privati del diritto di andare a scuola principalmente per ragioni economiche. Il Consiglio ha approvato una proposta presentata da Lussemburgo, Repubblica Dominicana e Sierra Leone, con il sostegno di altri 29 Stati, per creare un gruppo di lavoro incaricato di redigere un nuovo trattato che riconoscerà esplicitamente il diritto di ogni bambino all'istruzione prescolare, primaria e secondaria, pubblica e gratuita.
Nel 2...

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Bangladesh, media: salgono a 25 i morti nelle proteste studentesche

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Secondo quanto riferito da media locali, 19 persone sono morte in Bangladesh nella sola giornata di oggi, durante le rivolte studentesche contro le nuove politiche del lavoro. Le autorità non hanno ancora confermato il dato. Polizia e sostenitori del governo si sarebbero scontrati con i manifestanti, che oggi avevano annunciato l’intenzione di bloccare i trasporti in tutto il Paese. La rivolta è scoppiata in seguito alla decisione del governo di reintrodurre un sistema che garantisce che il 30% dei posti di lavoro nel pubblico sia riservato ai familiari dei veterani della guerra di indipendenza del 1971.

Sono state diffuse nuove immagini dei Mashco Piro, il popolo incontattato più grande al mondo

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Decine di indigeni si riuniscono sulla riva di una spiaggia ed entrano in acqua circondati dagli altri membri della tribù. Queste le nuove immagini diffuse nella giornata di ieri, che mostrano oltre cinquanta persone appartenenti alla tribù dei Mashco Piro nei pressi del villaggio yine di Monte Salvado, nel Perù sudorientale. Secondo l’organizzazione umanitaria Survival International, i Mashco Piro, con oltre 750 persone, sarebbero il popolo indigeno incontattato  più numeroso del mondo, eppure la loro integrità territoriale risulta in pericolo. L’area in cui vivono, infatti, è densa di foreste, per le quali il governo peruviano ha elargito una serie di concessioni per il taglio per legno. Secondo Alfredo Vargas Pio, Presidente dell’organizzazione indigena locale FENAMAD, le immagini di ieri non sarebbero altro che una «prova incontrovertibile» della presenza di un cospicuo numero di Mascho Piro nella zona, che per tale motivo vanno tutelati; «i taglialegna potrebbero portare nuove malattie che sterminerebbero i Mashco Piro, e c’è anche il rischio di violenze su entrambi i fronti: per questi motivi è molto importante che i diritti territoriali dei Mashco Piro siano riconosciuti e protetti per legge».

Le immagini che ritraggono i Mascho Piro seguono un altro episodio in cui un ulteriore gruppo di 17 persone comparve nei pressi del vicino villaggio di Puerto Nuevo. L’area in cui sono state scattate le immagini si trova giusto a pochi chilometri da quella di una delle concessioni per il taglio del legno elargita dal Governo peruviano. Per estrarre il legname, Canales Tahuamanu, una delle maggiori compagnie che ha ottenuto le concessioni, ha costruito oltre 200 chilometri di strade in modo da permettere ai propri mezzi di accedere al territorio interessato. Come comunica Survival, otto anni fa, lo stesso Governo peruviano avrebbe riconosciuto che «l’azienda abbatte alberi all’interno del territorio della tribù», ma nonostante ciò essa ha addirittura ricevuto la certificazione del Forest Stewardship Council (FSC) per attività sostenibili ed etiche, che la stessa Survival sta sollecitando a revocare. I Mascho Piro sono in contatto con un’altra popolazione indigena locale, gli Yine, che parlano una lingua imparentata con la loro; a detta di questi ultimi, gli indigeni incontattati hanno più volte denunciato con rabbia la presenza di taglialegna nella loro terra, mostrando dunque coscienza di causa e insofferenza per la presenza delle compagnie peruviane sul loro territorio.

I Mascho Piro sono un popolo indigeno di, secondo le stime di Survival International, oltre 750 persone. Essi abitano nel profondo Perù sudorientale, e sono stati protagonisti di una tragica storia di massacri e schiavitù. Invasi dai cosiddetti baroni della gomma nel 1880, i Mascho Piro furono ridotti in schiavitù, uccisi, e privati delle loro case. Alcuni, tuttavia, riuscirono a fuggire, disperdendosi nella foresta e raggiungendo le aree più remote del territorio. Oggi i loro discendenti rimangono incontattati e vivono in isolamento, ma si trovano nuovamente invasi dalle compagnie di taglio del legno. Nel 2002, su appello della locale FENAMAD, il Governo istituì la Riserva Territoriale Madre de Dios per proteggere la foresta dei Mashco Piro, che si estende tra diversi bacini fluviali al confine con il Brasile; la riserva, tuttavia, copre a oggi solo un terzo dell’area proposta da FENAMAD, mentre la restante parte del territorio dei Mascho Piro è stata resa oggetto di concessioni e svenduta alle compagnie. Per assicurare l’integrità territoriale della tribù, varie organizzazioni indigene pervuiane hanno fatto pressione alle autorità perché venisse ampliata la riserva dei Mashco Piro; nel 2016 era stato redatto un decreto presidenziale, ma a oggi non è ancora stato firmato, mentre invece il disboscamento continua.

[di Dario Lucisano]

credits foto e video: Survival International

Israele, il parlamento vota contro la nascita dello Stato di Palestina

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Nella giornata di oggi la Knesset, il Parlamento monocamerale israeliano, ha votato una risoluzione contro la nascita di uno Stato palestinese. In sede di votazione, che ha visto 68 voti a favore e 9 contrari, il partito di opposizione Yesh Atid, con alla guida il politico Yair Lapid, è uscito dall’aula parlamentare. Con la risoluzione di oggi, già preannunciata con una analoga votazione a febbraio, il Parlamento israeliano “si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest del Giordano”, sostenendo che questa “rappresenterebbe un pericolo esistenziale per lo Stato di Israele e i suoi cittadini, perpetuerebbe il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerebbe la regione”.

Oristano: sgomberi e denunce al presidio dei cittadini contro la speculazione energetica

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La polizia è intervenuta per sgomberare con la forza il presidio permanente nel porto di Oristano, organizzato dai cittadini per protestare contro il transito di mezzi speciali che trasportano le pale eoliche. Gli agenti hanno sgomberato con la forza le decine di cittadini che erano accampati in tenda, sequestrando tutti i materiali utilizzati per l’accampamento. Non solo, secondo quanto si apprende dai media locali sardi, almeno 12 manifestanti sarebbero stati identificati e denunciati per possesso di “oggetti contundenti” e fumogeni. In Sardegna, nelle ultime settimane, si stanno moltiplicando le proteste contro il proliferare di grandi progetti di energia rinnovabile, eolico e fotovoltaico, al fine di fermare quello che è stato definito “assalto speculativo delle multinazionali” al suolo sardo.

Lo sgombero del presidio è iniziato ieri attorno alle 14.00, quando un folto gruppo di forze dell’ordine composto da guardia costiera, carabinieri, capitaneria di porto, polizia, e finanza è arrivato presso l’ingresso dell’area portuale di Oristano-Santa Giusta, dove era allestita la manifestazione. Come ci spiega Alessandro Mereu del Gruppo per la Tutela del Territorio Sardo, le forze dell’ordine avrebbero iniziato il sequestro dei cinque gazebi presenti sul posto, in piena esposizione del sole, motivandola con il fatto che essi si trovassero sul suolo di pertinenza della capitaneria di porto. Una scusa, secondo Alessandro, visto che, da quel che comunica, i gazebi si trovavano all’interno degli «spazi del consorzio industriale». Nonostante i sequestri dell’attrezzatura, il presidio persiste, e ha anzi chiesto l’autorizzazione per diventare permanente. Nella sera i manifestanti – circa una sessantina – hanno infatti continuato a provare a fermare i convogli trasportanti le pale, ma sono stati ostacolati dalla presenza di «un centinaio» di agenti della polizia.

La speculazione dell’eolico è da tempo contestata dal popolo sardo per gli ingenti danni ambientali ed economici che colpirebbero direttamente il territorio. Abbiamo sentito l’agronomo Maurizio Fadda, che ci ha spiegato, dal punto di vista di un tecnico e di un abitante sardo, che cosa potrebbe causare la creazione di questi maxi-parchi eolici sul suolo della regione. I problemi principali che ha rilevato Maurizio sono due: quello «paesaggistico» e quello «rurale-agricolo». Sul lato paesaggistico l’impatto delle pale risulta devastante «e ‘devastante’ è un termine efuemistico»: le pale già presenti in Sardegna sono alte 40-70 metri, ma quelle di cui si discute nell’ambito del nuovo potenziamento energetico raggiungono fino a 240 metri di altezza. I progetti presentati per l’approvazione sono inoltre 860, e avranno effetti sulla flora e sulla fauna a dir poco considerevoli, «come succede ad esempio, in Spagna, dove la prima causa di morte dei rapaci sono le pale eoliche». Tra l’immensa quantità di suolo occupato e la mastodontica altezza delle opere, l’impatto sul paesaggio risulterebbe enormemente gravoso. Questo porterebbe a due principali conseguenze: la prima sul lato turistico, poiché la presenza di simili eco-mostri nell’entroterra sardo sposterebbe tutti i visitatori della regione sulle già affollate spiagge, e la seconda sulla stessa identità del popolo dell’isola; «noi sardi non facciamo distinzione tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’. Se ci distruggono il paesaggio esterno, distruggono la nostra stessa essenza», fondata sull’equilibrio e la sintonia con l’intero territorio sardo, sottolinea Maurizio.

Sul versante rurale-agricolo, Maurizio sottolinea che per quanto sia «vero che l’agricoltura in Sardegna non sia particolarmente florida», non si può dire lo stesso per quanto riguarda il reparto zootecnico: la Sardegna è una regione dalla grande produzione agropastorale e dotata di una stessa «cultura agropastorale». Quei pochi terreni definiti come marginali che verrebbero rubati dalle pale, «sono i nostri pascoli», e sono le case degli alberi di ulivo e di quercia da sughero che costellano il territorio e sostengono l’economia locale. La presenza di simili opere allontanerebbe il bestiame, che risulterebbe «perlomeno disturbato» dal fragoroso rumore delle pale, consumerebbe il suolo, danneggerebbe le falde idriche sotterranee, e – oltre al danno la beffa – scaricherebbe la responsabilità dello smaltimento sugli stessi proprietari terrieri. A tal proposito, Maurizio ci spiega come le compagnie incaricate di costruire le pale, non acquistino direttamente il terreno, ma si limitino piuttosto a ottenere i diritti di superficie per costruire e gestire le opere: questo scade dopo trent’anni, al termine dei quali (forse) le stesse compagnie si opererebbero per togliere le pale; destino diverso invece sarebbe riservato agli enormi basamenti in cemento armato, dai costi di smantellamento particolarmente onerosi e «grandi quanto mezzo campo di calcio», che rimarrebbero lì, nelle mani del proprietario della terra fino a data da destinarsi «e quindi per sempre, perché nessuno affronterà quei costi».

In Sardegna è mesi che la popolazione lotta contro la speculazione delle multinazionali dell’eolico: il presidio presso il porto di Oristano è iniziato circa una settimana fa, e già lunedì si erano registrate le prime tensioni con le forze dell’ordine. Poco più di una settimana fa, nell’entroterra cagliaritano, alcuni cittadini hanno dato il via alla Rivolta degli Ulivi, una sollevazione popolare spontanea che risponde agli espropri coattivi dei terreni dei contadini (dove dovranno sorgere i parchi eolici) piantando ulivi e altre specie vegetali. Nel frattempo, è ufficialmente partita la raccolta firme per fermare i progetti di parchi eolici e fotovoltaici nell’isola in assenza di un adeguato piano energetico regionale.

[di Dario Lucisano]

Ursula von der Leyen è stata rieletta presidente della Commissione UE

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Il Parlamento europeo ha riconfermato Ursula von der Leyen nel ruolo di presidente della Commissione. A votare a favore del suo secondo mandato sono stati 401 eurodeputati, 41 in più rispetto alla soglia richiesta per la maggioranza. I contrari si sono fermati a 284. Ha retto, dunque, alla prova dei franchi tiratori il blocco composto da Popolari, Socialdemocratici e Liberali. Poco prima del voto il gruppo dei Verdi ha reso noto il suo sostegno formale al von der Leyen bis, conquistati forse dalle promesse sul Green Deal, tra i punti fermi del programma presentato a Strasburgo dalla politica tedesca. Nel discorso durato poco meno di un’ora sono poi comparsi riferimenti alla difesa dei confini europei e dunque alla prosecuzione delle politiche anti-migratorie, al centro di critiche da parte delle organizzazioni per i diritti umani. Politiche giudicate ad ogni modo non sufficientemente risolute dai gruppi di destra dell’europarlamento, che hanno confermato il voto contrario. Presente anche l’evergreen della Difesa, per cui verrà nominato un apposito commissario, nel solco della militarizzazione dell’UE. In politica estera è stato poi rinnovato il sostegno militare all’Ucraina, su cui ieri si è espresso anche l’Europarlamento, stabilendo che Kiev potrà usare le armi occidentali per colpire il territorio russo.

Stando agli impegni presi questa mattina a Strasburgo, Ursula von der Leyen presenterà entro i cento giorni del suo secondo mandato un libro bianco (un documento contenente azioni mirate e concrete) sul futuro della Difesa europea. Tra le misure annunciate in anteprima figurano la creazione di un Fondo per investire in capacità di difesa di alto livello e la realizzazione di uno scudo aereo europeo. Il futuro dell’UE non riserverà dunque nulla di diverso dal passato recente, con il dirottamento di risorse sociali verso la militarizzazione. Ai socialisti sono state fatte comunque delle promesse circa l’edilizia abitativa, per far fronte all’emergenza rincari che ha travolto il settore. In Italia la Lega ha giocato d’anticipo avanzando la riforma “salva casa” basata sui “micro monolocali” alti appena 2,4 metri (meno degli standard del 1896). Il partito guidato da Matteo Salvini ha più volte ribadito la contrarietà alla rielezione di Ursula von der Leyen. Scelta opposta a quella dei forzisti, partner di maggioranza in Italia. Meloni ha scelto, invece, la strategia del silenzio. Il governo è in buona compagnia, dal momento che anche l’opposizione si è spaccata sul sostegno al von der Leyen bis: favorevoli Partito democratico e Verdi, contrari Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana.

Il voto di oggi si è tenuto a poche ore da una sentenza storica per l’Unione europea, che ha visto la Corte di Giustizia (ECJ) condannare la Commissione per non aver “concesso al pubblico un accesso sufficientemente ampio ai contratti di acquisto di vaccini contro il Covid-19”. A quanto pare Ursula von der Leyen, a capo di quella Commissione, non ha però risentito del colpo giuridico, finendo per ottenere un ampio sostegno dal Parlamento europeo e dunque la rielezione per un secondo mandato da presidente. La politica tedesca ha provato anche ad accattivarsi il gruppo europeo della sinistra (LEFT), inserendo nel discorso un riferimento a Gaza, dove «lo spargimento di sangue deve fermarsi, qui e ora. L’umanità non può sopportare oltre». Un’espressione neutra, priva di soggetti attivi (Israele) e passivi (popolazione palestinese), in un tentativo di edulcorare il genocidio in atto in Palestina.

Ursula von der Leyen e Benjamin Netanyahu, incontro del 13 ottobre 2023.

Parole sbiadite che non a caso giungono dopo mesi di impegno inesistente dell’Unione europea, che non ha ancora messo in campo alcuna pressione diplomatica ed economica nei confronti dell’alleato israeliano e ha ottenuto in cambio – proprio nella persona di Ursula von der Leyen – una denuncia alla Corte Penale Internazionale per complicità nel genocidio. «Lei ha speso parole per Gaza ma si è fatta fotografare con il criminale Netanyahu», ha tagliato corto sulla questione la capogruppo della Sinistra UE, la francese Manon Aubry, che ha poi aggiunto: «In mezz’ora lei non ha mai parlato di povertà e disoccupazione, lei guadagna più di 30mila euro al mese ma un europeo su tre salta un pasto, esca dalla sua torre d’avorio».

[di Salvatore Toscano]