sabato 23 Novembre 2024
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Google e Microsoft nel 2023 hanno consumato più energia di oltre 100 nazioni

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Nel 2023, i colossi tech Google e Microsoft hanno consumato più energia di oltre 100 nazioni, tra cui Islanda, Ghana e Tunisia. Nel complesso, secondo un’analisi condotta dal sito Tom’s Hardware, il fabbisogno delle due aziende americane può essere paragonato a quello dell’Azerbaijan, che ha oltre 10 milioni di abitanti, pari a 24 terawattora (Twh). Inserendo le multinazionali nella classifica dell’utilizzo di elettricità, si posizionerebbero subito dietro la Slovacchia e la Libia. Per ridurre il loro impatto ambientale, entrambi i colossi della tecnologia avevano pianificato di ridurre i propri consumi entro il 2030, ma non avevano fatto i conti con l’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) generativa, la quale è altamente energivora soprattutto nelle fasi di addestramento. L’IA si sta rapidamente trasformando in un business molto redditizio, tanto che gli analisti attribuiscono il successo economico e finanziario di Microsoft ai suoi investimenti precoci in questo settore che hanno permesso alla società di diventare uno dei colossi più quotati al mondo con una valutazione di mercato di oltre tre trilioni di dollari. L’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella, ha attribuito l’aumento dei ricavi, del reddito operativo e dell’utile netto alla «nuova era della trasformazione dell’IA». Tuttavia, la nuova tecnologia non è esente da pesanti ripercussioni in ambito energetico e ambientale: lo stesso Elon Musk ha affermato che saremmo sul punto della più grande svolta tecnologica con l’IA, ma che, allo stesso tempo, entro il 2025 non ci sarà abbastanza energia per sostenerla. Per questo motivo i giganti della tecnologia stanno cercando fonti di energia alternative per continuare a sviluppare e a lavorare con l’IA.

OpenAI, ad esempio, vorrebbe utilizzare la fusione nucleare per soddisfare il fabbisogno energetico dei suoi data server. Anche Microsoft sta cercando soluzioni alternative meno energivore e impattanti e, a tal fine, ha stretto un accordo con Helion per generare energia nucleare attraverso la fusione entro il 2028. Le Big Tech si starebbero, dunque, impegnando per ridurre al minimo il loro impatto ambientale, ma fino a quando non riusciranno a raggiungere l’obiettivo, le loro attività resteranno tra le più nocive a livello ambientale. Un paradosso se si pensa che sono proprio alcuni dei magnati fondatori di queste società i principali sostenitori della transizione energetica e i paladini della battaglia climatica, come ad esempio Bill Gates. Eppure, non si fanno scrupoli a portare avanti una tecnologia fortemente dannosa per l’ambiente non solo per via dell’utilizzo di energia elettrica prodotta per ora da fonti non rinnovabili, ma anche per l’utilizzo di milioni di litri di acqua dolce necessari per raffreddare i componenti elettronici nei data center. Alcuni di questi ultimi sono peraltro dislocati in aree colpite da siccità, dove l’acqua usata per il raffreddamento è la stessa che occorre alla popolazione per dissetarsi e non solo. Mentre, dunque, il filantrocapitalismo spinge sulla transizione energetica e alimentare e sulla sostenibilità per limitare le conseguenze del cambiamento climatico, allo stesso tempo non esita a fare profitti con una delle tecnologie attualmente più dispendiose e impattanti. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, nel 2022 i consumi di elettricità a livello globale per i data center ammontava a circa 460 TWh, una cifra destinata a più che raddoppiare fino a 1.000 TWh entro il 2026. Allo stesso tempo, un rapporto ONU ha evidenziato come il consumo stimato di elettricità da parte di 13 dei maggiori operatori di data center – tra cui Amazon, Alphabet, Microsoft e Meta – sia più che raddoppiato tra il 2018 e il 2022.

[di Giorgia Audiello]

L’Ucraina può usare le armi per colpire in Russia: è il primo atto votato dal nuovo Europarlamento

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Ieri il nuovo Europarlamento ha votato la prima risoluzione riguardo al sostegno all’Ucraina, ribadendo un appoggio incondizionato a Kiev in qualsiasi forma richiesta «per tutto il tempo necessario a garantire la vittoria dell’Ucraina» e stabilendo che l’Ucraina potrà usare le armi occidentali per colpire il territorio russo. Un punto, quest’ultimo, particolarmente rilevante e sensibile, considerato che costituisce un elemento importante di escalation con la Russia implicando la cobelligeranza degli Stati europei: l’Europarlamento «sostiene fermamente l’eliminazione delle restrizioni all’uso dei sistemi di armi occidentali forniti all’Ucraina contro obiettivi militari sul territorio russo», si legge nella Proposta di risoluzione. È la prima volta che il Parlamento europeo chiede ufficialmente che l’Ucraina possa colpire il territorio russo con le armi fornite dagli alleati del blocco euro-atlantico. Il documento, non vincolante e approvato con 495 voti favorevoli, 137 contrari e 47 astensioni, conferma il sostegno verso l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale; invita a mantenere ed estendere le sanzioni verso la Russia e la Bielorussia, a monitorarne l’efficacia e ad affrontare il problema dell’elusione delle sanzioni da parte delle aziende europee, di terze parti e di Paesi terzi.

Inoltre, la risoluzione fa suoi i principali punti emersi al 75° summit NATO della scorsa settimana, tra cui il processo, definito «irreversibile», di adesione dell’Ucraina all’Alleanza atlantica. In questo contesto, i deputati europei hanno chiesto agli Stati membri di aumentare il loro sostegno militare all’Ucraina, e alla Commissione europea di proporre «un’assistenza finanziaria a lungo termine per la ricostruzione dell’Ucraina». Non c’è spazio, dunque, per una soluzione diplomatica del conflitto: l’unica via indicata dall’Europarlamento è quella delle armi: in quanto vittima di aggressione, infatti, l’Ucraina «ha il diritto legittimo di autodifendersi conformemente all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite», si legge al punto 2 della risoluzione. La stessa sostiene anche i recenti sforzi dell’UE per dirigere le entrate provenienti dai beni russi immobilizzati verso il sostegno dello sforzo bellico ucraino e «invita l’UE a istituire un solido regime giuridico per la confisca dei beni di proprietà dello Stato russo congelati dall’UE». Non è poi mancata la condanna al primo ministro ungherese Viktor Orban, accusato di violare le posizioni comuni dell’Unione europea, a causa della sua visita al presidente della Federazione russa Vladimir Putin e del suo appoggio al piano di pace cinese. Inoltre, il documento dell’Europarlamento, «deplora il fatto che l’Ungheria abbia abusato del suo potere di veto in seno al Consiglio al fine di impedire la concessione di aiuti essenziali all’Ucraina» ed «esorta l’Ungheria a revocare il blocco dei finanziamenti a favore dell’Ucraina nell’ambito dello strumento europeo per la pace, compreso il rimborso concordato agli Stati membri per l’assistenza militare già fornita».

Tra i partiti della maggioranza di governo, a votare contro la risoluzione è stata la Lega, segnando così le prime divisioni all’interno dell’esecutivo: secondo gli esponenti del Carroccio, infatti «chiedere di togliere le restrizioni all’uso delle armi contro obiettivi sul territorio russo è una richiesta che appare in contraddizione con la linea dello stesso Governo italiano: per questi motivi la Lega al Parlamento europeo non può condividere la risoluzione della maggioranza, alquanto strumentale, e sostiene invece il testo dei Patrioti per l’Europa», il nuovo partito europeo fondato da Viktor Orban e nato agli inizi di luglio, a cui la Lega ha recentemente aderito. Contrario alla Risoluzione anche il Movimento 5 Stelle: «La prima risoluzione della nuova legislatura, votata oggi al Parlamento europeo, rappresenta un’occasione mancata per cambiare strategia nella guerra in Ucraina e affermare finalmente la pace», ha scritto in una nota l’europarlamentare Danilo Della Valle. Grande imbarazzo, invece, per Fratelli d’Italia che si è trovata a dover sostenere una risoluzione che condanna “l’amico” Orban. Il capodelegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento europeo, Carlo Fidanza, ha dovuto quindi spiegare che il partito ha votato contro la prima parte del documento che conteneva un «attacco strumentale» al governo ungherese che non c’entra con le sorti dell’Ucraina, ribadendo però il proprio sostegno a Kiev.

Nonostante il clima a livello internazionale stia cambiando, l’Ue è inamovibile nelle sue posizioni di sostegno a Kiev e indica come unica strada possibile la vittoria sul campo di battaglia, nonostante le evidenti difficoltà dell’Ucraina dal punto di vista logistico, militare e del numero di uomini al fronte. Lo scontro con la Russia è ora inasprito dal primo via libera ufficiale a colpire il territorio russo con armi occidentali, una decisione che non farà altro che esasperare le tensioni tra Russia ed Europa.

[di Giorgia Audiello]

Calcio: il Comune di Udine nega il patrocinio alla partita Italia-Israele

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Il Sindaco di Udine Alberto Felice De Toni ha deciso di non concedere il patrocinio alla partita di Nations League Italia-Israele in programma per il prossimo 14 ottobre. Il patrocinio per l’incontro calcistico era stato chiesto dal Presidente della FIGC Gabriele Gravina, ed è stato negato perché «la scelta di patrocinare la partita sarebbe stata divisiva, essendo Israele uno Stato in guerra». Nello specifico, l’amministrazione comunale ha spiegato che «il patrocinio si concede a iniziative che non hanno scopo di lucro», salvo nei casi di eventi benefici o di «eventi che portino particolare prestigio all’immagine dell’amministrazione», cosa che, secondo il Sindaco, la partita non avrebbe fatto.

Napoli: misure cautelari per chi protesta contro la censura della RAI su Gaza

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Crediti: Dronaut
Crediti: Dronaut

Il tribunale di Napoli ha emesso misure cautelari nei confronti di quattro cittadini che il 13 febbraio scorso avevano partecipato alle proteste sotto la sede cittadina della RAI, contro la censura in atto sulla TV pubblica riguardo al genocidio israeliano in corso in Palestina. Secondo i giudici, i quattro avrebbero commesso atti di “resistenza e violenza” contro i poliziotti schierati per impedire l’irruzione dei manifestanti dentro la sede RAI. Questo nonostante le immagini mostrino chiaramente come la carica sia partita dalle forze di polizia, che hanno manganellato i manifestanti, alcuni dei quali si sono difesi utilizzando calci e aste delle bandiere.

A denunciare il provvedimento del giudice è un gruppo di attivisti napoletano, che ha raccontato l’inaspettato risveglio dei quattro cittadini interessati. Secondo quanto spiega il gruppo, gli attivisti coinvolti sarebbero stati svegliati verso le 6.00 di mattina dall’arrivo delle forze dell’ordine, che li avrebbero condotti in questura per la consegna di quattro obblighi di firma, con conseguente identificazione. In aggiunta a ciò, sarebbero state richieste misure cautelari anche per altri 14 partecipanti alla manifestazione del 13 febbraio, per i quali nello specifico pare sia stata richiesta l’emanazione di una serie di divieti di dimora, non ancora convalidati dal GIP. «Questa vicenda ci porta ancora una volta a ragionare sullo stato della democrazia del nostro Paese», e si configura come «l’ennesimo tentativo di criminalizzarre le lotte», hanno dichiarato gli attivisti. Essa si pone sulla scia della sempre più serrata stretta contro le manifestazioni di dissenso che sta portando avanti l’attuale esecutivo, tra leggi di criminalizzazione della disobbedienza (come quella contro gli ecoattivisti), e sempre più frequenti episodi di violenza (come il recentissimo caso dei No TAV). Per tale motivo, il gruppo di attivisti ha lanciato un presidio, che si terrà oggi stesso a Napoli, alle ore 10.00 davanti alla sede Rai.

I 18 cittadini finiti sotto il mirino della questura sono accusati di avere commesso atti di “resistenza e violenza” contro le forze dell’ordine in occasione dei fatti del passato 13 febbraio, quando i cittadini napoletani si sono mobilitati per protestare contro gli episodi di censura portati avanti dalla RAI. Le manifestazioni di dissenso contro la televisione di Stato si sono poi diffuse in tutta Italia, arrivando anche a Bologna, Palermo, Firenze, Roma, Milano, e tante altre città. In quelle settimane, la società civile si era riunita per contestare la narrazione a senso unico condotta dal servizio pubblico d’informazione a sostegno di Israele nella copertura mediatica del genocidio che quest’ultimo sta compiendo a Gaza. Una linea editoriale che si palesava, e palesa tutt’ora, ogni giorno attraverso servizi parziali e approfondimenti di parte, volti a deumanizzare le 38 mila vittime civili palestinesi. A febbraio, questa stessa linea editoriale si è fatta carne nel particolare clima di silenziamento che si è respirato a Sanremo, dove i cantanti Dargen D’Amico e Ghali hanno chiesto il cessate il fuoco e lo stop al genocidio, finendo di tutta risposta censurati. Le loro prese di posizione hanno infatti scatenato le critiche dell’ambasciatore israeliano a Roma, a seguito delle quali l’ad della RAI Roberto Sergio ha ribadito che «ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano – e continueranno a farlo – la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas, oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele ed alla comunità ebraica è sentita e convinta». Nel comunicato non ha invece trovato spazio alcun riferimento al genocidio realizzato da Tel Aviv nella Striscia di Gaza

[di Dario Lucisano]

Antitrust contro Google per pratiche commerciali scorrette

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L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCOM) ha avviato un’istruttoria contro Google e la sua società capogruppo Alphabet per pratiche commerciali scorrette. «Le richieste di consenso che Google invia ai propri utenti per il collegamento dei servizi potrebbe rappresentare una pratica commerciale ingannevole e aggressiva» riferisce l’Autorità in una nota. Anche le modalità di presentazione della richiesta di consenso e i meccanismi volti a richiederlo potrebbero presentare profili di irregolarità, in quanto indurrebbero il cliente ad assumere decisioni che altrimenti non avrebbe preso.

L’Italia ha fatto segnare un nuovo record nel riciclo di carta e cartone

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L'Italia, nel 2023, ha segnato un nuovo record per la raccolta differenziata di carta e cartone. Il settore ha infatti superato le 3,7 milioni di tonnellate, con un aumento di quasi il 3% rispetto al 2022. L’aumento della raccolta ha avuto influenze positive anche sul riciclo: gli imballaggi cellulosici avviati a nuova vita sono ora il 92,3%, una cifra di gran lunga superiore agli obiettivi UE al 2030 dell’85%. A rendere noti questi dati che confermano la solidità del sistema di raccolta e riciclo italiano, il nuovo rapporto del Consorzio nazionale recupero e riciclo degli imballaggi a base ce...

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Salvini riporta al 1896 le norme sugli appartamenti, e la chiama riforma “salva casa”

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“Se non hanno più case, che abitino in quelle alte 2,4 metri e con una superficie di 20 metri quadri”. Sarà andata più o meno così in via Bellerio quando i cervelli della Lega hanno elaborato la riforma “salva casa”, dando il via libera ai «micro monolocali» (sic!). Il colpo di mano è contenuto in un emendamento al decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, recante disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica, la cui conversione in legge è attualmente in discussione alla Camera. La misura, subito rivendicata da Matteo Salvini come la soluzione alle necessità di studenti e lavoratori, «supera una legge in piedi dal 1975 (!)». Il segretario della Lega dimentica però di aggiungere che così facendo si annulleranno le modifiche alle disposizioni del 1896, quando il governo era guidato da Antonio Starabba, marchese di Rudinì. L’emendamento approvato in Commissione Ambiente della Camera cancella dunque oltre un secolo di vittorie sociali e fa rivivere agli italiani i tempi in cui il popolo era assoggettato ai privilegi nobiliari.

Il caro-affitti continua a sgretolare il potere di acquisto di chi vive in Italia, l’unico Paese europeo in cui i salari reali non sono cresciuti negli ultimi trent’anni. Per rispondere all’emergenza abitativa la Lega ha pensato bene di «riabilitare finalmente tante proprietà, rendendo abitabili anche quelle con 2,40m di altezza e con una superficie di 28 mq per 2 persone e di 20 mq per 1 persona», scrive Salvini su X. Se la proposta dovesse passare alla Camera prima e al Senato poi verrebbe abrogata la normativa vigente, la quale prevede che “l’alloggio monostanza, per una persona, deve avere una superficie minima, comprensiva dei servizi, non inferiore a mq 28, e non inferiore a mq 38, se per due persone”. Il decreto ministeriale Sanità 5 luglio 1975 fissa inoltre a 2,70 metri l’altezza minima per le abitazioni, migliorando la situazione risalente al 1896, quando l’articolo 122 delle istruzioni ministeriali stabiliva che “l’altezza delle camere d’abitazione non [dovesse] essere inferiore a 2,50 metri”. I micro monolocali della Lega scendono sotto questa soglia, per un tuffo a piè pari nel passato.

Il decreto ministeriale Sanità 5 luglio 1975 – recante modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 – venne adottato dal governo Moro IV, al culmine di un’intensa mobilitazione promossa da collettivi di base, sindacati e partiti dell’area socialcomunista. Si ricordano, tra le varie iniziative per ottenere la tutela del diritto alla casa, le occupazioni di edifici sfitti e in disuso, spesso represse violentemente dalle forze dell’ordine. Iniziative che vanno inquadrate in un più ampio filone di mobilitazioni capace di portare in Italia, tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70, un’inedita ventata di diritti, come quello riguardante il divorzio (1970), il lavoro (con lo Statuto del ’70) o l’aborto (1974).

Il diritto alla casa, funzionale al godimento di una vita dignitosa, è tra i temi più costanti delle agende, tanto mediali quanto del pubblico. Un tema oggi associato all’emergenza, vista la crescita vertiginosa dei prezzi degli alloggi: stando alle ultime rilevazioni, affittare una stanza singola a Venezia costa in media 577 euro, a Roma 610 euro e a Milano 730 euro. Un tema che la narrazione dominante bolla come divisivo (per usare una parola di moda ultimamente), mettendo di fronte chi vorrebbe un tetto sulla testa a un prezzo umano e chi invece, in nome della “libertà economica”, pretende di poter possedere senza alcun vincolo decine di case, in bilico tra l’affittarle per lunghi periodi o il caricarle su AirBnB, moltiplicando in questo caso i guadagni. I turisti (e la trasformazioni delle città in mega souvenir) ringraziano; studenti, lavoratori e famiglie un po’ meno.

Lasciato a sé, l’homo economicus tende a massimizzare i profitti e a non curarsi delle questioni sociali che comportano le proprie azioni. La Costituzione italiana, però, non prevede come unica libertà quella economica; andrebbe ad esempio riletto l’articolo 42, che assegna un preciso scopo sociale alla proprietà privata. C’è poi tutta una schiera di diritti civili, sociali e politici che vengono quotidianamente invalidati dalle disuguaglianze economiche e dalla mancanza di pari opportunità. In Italia gli interventi delle istituzioni latitano o lasciano il tempo che trovano, mentre il resto del mondo si muove: poche settimane fa il comune di Barcellona ha annunciato che dal 2029 vieterà gli affitti brevi nel centro; l’anno scorso il Portogallo ha annunciato un piano per affittare o acquistare oltre 700mila edifici abbandonati per poi subaffittarli a prezzi sociali.

In Italia l’edilizia residenziale pubblica (riguardante le cosiddette case popolari) rappresenta soltanto il 4% dello stock abitativo, a fronte di una media europea del 20%. C’è poi la questione degli studentati, che in teoria dovrebbe essere affrontata attraverso i fondi del PNRR, legati alla realizzazione, entro il 30 giugno 2026, di 60 mila posti letto. Un obiettivo ambizioso, il cui raggiungimento (almeno formale) a tutti i costi rischia di passare dal favore alla speculazione privata. Il decreto ministeriale del 26 febbraio scorso, con cui è stato lanciato il bando da 1,2 miliardi di euro, presenta infatti diversi coni d’ombra: gli alloggi saranno affittati agli studenti con uno sconto del 15 per cento rispetto al prezzo di mercato, la quota degli alloggi da destinare “agli studenti meritevoli e provenienti da famiglie a basso reddito” è stata fissata al 30 per cento, i privati avranno l’obbligo di impegnare i posti letto – per ciascuno dei quali riceveranno subito 20 mila euro – per 12 anni.

[di Salvatore Toscano]

La Commissione UE ha violato la legge sulla trasparenza dei vaccini

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La Commissione Europea “non ha concesso al pubblico un accesso sufficientemente ampio ai contratti di acquisto di vaccini contro la Covid-19”. Così tuona la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (ECJ) a un solo giorno dalla elezione del prossimo Presidente dell’esecutivo comunitario che, dati i pronostici e salvo inaspettati stravolgimenti, dovrebbe terminare proprio con una riconferma di Ursula von der Leyen. La stessa Ursula von der Leyen alla guida di quell’organo che, secondo il Tribunale, avrebbe “concesso solo un accesso parziale” a contratti e documenti relativi ai vaccini, “che sono stati messi in rete in versioni oscurate”. Con ogni probabilità, la sentenza dell’ECJ, in cui tra l’altro non figurano riferimenti diretti alla persona di Ursula von der Leyen, non influirà sulla sua rielezione a capo dell’esecutivo europeo, ma allo stesso tempo rischia di pesare sulla posizione dei Verdi, tra i firmatari del ricorso.

Come comunica il Tribunale, l’infrazione riconosciuta alla Commissione Europea riguarda le clausole dei contratti di acquisto dei vaccini contro il Covid-19 relative all’indennizzo, così come le “dichiarazioni di assenza di conflitto di interessi dei membri della squadra negoziale per l’acquisto dei vaccini”. Nella stipula dei contratti “circa 2,7 miliardi di euro sono stati rapidamente resi disponibili per effettuare un ordine fermo di oltre un miliardo di dosi di vaccino”, ma, nonostante le richieste di trasparenza da parte di privati ed eurodeputati, la Commissione ha mancato di soddisfare tali richieste. Il Tribunale si è inoltre espresso “per quanto riguarda le clausole dei contratti relative all’indennizzo delle imprese farmaceutiche da parte degli Stati membri per eventuali risarcimenti”, sottolineando “che il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto e la sua responsabilità non può essere soppressa o limitata, nei confronti del danneggiato, da una clausola esonerativa o limitativa di responsabilità”.

La sentenza dell’ECJ arriva a un solo giorno da quella che pare la preannunciata rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Europea. Commissione e von der Leyen sono ormai da mesi sotto i riflettori per la questione dei vaccini, tanto da essere già state interrogate più di una volta, anche dal Parlamento Europeo. La decisione del Tribunale, comunque, può essere impugnata entro due mesi e dieci giorni a decorrere dalla data della sua notifica. Non è tuttavia ancora noto se la Commissione si opporrà alla decisione della Corte.

[di Dario Lucisano]

Orban svela i piani di Trump per porre fine alla guerra in Ucraina

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In una lettera indirizzata ai rappresentanti dell’Unione Europea, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha avvertito che un’eventuale rielezione di Trump il prossimo 5 novembre comporterebbe un cambiamento radicale della posizione degli Stati Uniti circa il conflitto in Ucraina. Secondo il politico magiaro, una volta eletto, Trump dovrebbe dare priorità alle questioni interne rispetto alla politica estera e, dunque, non ci dovrebbe essere alcuna iniziativa di pace sull’Ucraina fino all’anno prossimo. Tuttavia, Orban ha fatto sapere che «Trump ha piani dettagliati e ben fondati su questo». All’interno di questa cornice, dunque, secondo il primo ministro ungherese l’Unione Europea dovrebbe cambiare al più presto posizione per non rimanere sola a sostenere finanziariamente e militarmente l’Ucraina e, soprattutto, per non rimanere isolata: la rielezione dell’esponente repubblicano, infatti, modificherebbe le dinamiche finanziarie tra Stati Uniti ed Europa, lasciando quest’ultima a sostenere l’onere maggiore di sostegno a Kiev. Dopo aver sintetizzato brevemente il contenuto dei colloqui con i capi di Ucraina, Russia, Cina e Turchia e con lo stesso Trump, Orban ha chiesto all’UE di avviare colloqui politici di alto livello con la Cina per definire le modalità di una nuova conferenza di pace sull’Ucraina e di riaprire i canali diplomatici diretti con la Federazione Russa.

Il capo ungherese ha apertamente criticato la strategia europea sull’Ucraina, in quanto priva di pianificazione e indipendenza e ha quindi esortato i vertici europei a sfruttare il possibile nuovo corso della politica americana per rivedere le loro posizioni e cambiare approccio sulla guerra, sostenendo il cessate il fuoco e lavorando per avviare trattative diplomatiche. Già nella sua “missione di pace” che ha lo ha portato a incontrare Putin e Xi Jinping, il capo di Budapest era stato fortemente criticato e screditato dalle istituzioni comunitarie, le quali ora hanno deciso di sabotare apertamente il semestre di presidenza ungherese del Consiglio dell’UE: «Alla luce dei recenti sviluppi che hanno segnato l’inizio della presidenza ungherese, la presidente [Ursula von der Leyen] ha deciso che la Commissione europea sarà rappresentata a livello di alti funzionari solo durante le riunioni informali del Consiglio», ha annunciato lunedì sera il portavoce capo dell’esecutivo, Eric Mamer. Secondo la Commissione, i viaggi di Orban sarebbero stati un affronto all’unità del blocco europeo. Mentre, dunque, il clima a livello internazionale sta evidentemente cambiando, tanto che anche Zelensky recentemente ha aperto alla possibilità di invitare la Russia al prossimo vertice di pace, l’Ue pare statica sulle sue posizioni, incapace di cambiare atteggiamento o prospettiva e di analizzare il contesto per fare le scelte più convenienti e oculate per la prosperità e la sicurezza del Continente.

[di Giorgia Audiello]

Ferrara, incendio in una fabbrica di plastica: 5 feriti

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Stamattina nel ferrarese è scoppiato un incendio in una fabbrica di materiale plastico, che ha causato cinque feriti di cui due gravi. Il rogo è partito attorno alle 7.30 e ha interessato lo stabilimento della Alipar di Migliarino di Fiscaglia. Secondo le prime ricostruzioni, le fiamme sarebbero divampate a causa di una scintilla partita da un flessibile, che avrebbe colpito e fatto esplodere una bombola di acetilene. In seguito all’incidente sono arrivati sul posto i vigili del fuoco, che sono riusciti a impedire che l’incendio si estendesse alle strutture vicine; i due feriti gravi, invece, sono stati trasportati a Bologna e a Cesena in elicottero.