sabato 23 Novembre 2024
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In Bangladesh gli studenti sono in rivolta contro le politiche del lavoro

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Sono almeno cinque le persone morte nel corso delle proteste che stanno agitando da ormai due settimane il Bangladesh, dove i cittadini (molti dei quali studenti) stanno manifestando contro il sistema di quote per i posti di lavoro statali. In tutto il Paese, le forze dell’ordine hanno risposto alle migliaia di persone scese in piazza per bloccare strade e ferrovie con il lancio di lacrimogeni e cariche. In varie città, tra le quali la capitale Dacca, la polizia è entrata nei campus in rivolta e ha sparato proiettili di gomma contro gli studenti per rispondere al lancio di pietre. Ieri sera, il ministero dell’Istruzione ha comunicato che «tutte le scuole superiori, le università, i seminari islamici, i politecnici rimarranno chiusi fino a nuovo ordine, a tutela della sicurezza degli studenti», mentre i manifestanti hanno annunciato nuove iniziative e cortei.

Le proteste in Bangladesh sono scoppiate in seguito alla reintroduzione del sistema di quote riservate ai familiari dei reduci della guerra di indipendenza dal Pakistan del 1971 nell’ambito degli impieghi pubblici. Tale sistema, in vigore dal 1972, era stato precedentemente sospeso nel 2018 in seguito ad analoghe proteste, ma è stato reintegrato con una decisione dell’Alta Corte del Paese, che con una sentenza ha dichiarato illegale l’ordine del 2018 e stabilito che il 30% dei posti di lavoro nel pubblico spettasse proprio ai familiari dei reduci di guerra. In seguito alla decisione della Corte, migliaia di studenti provenienti dalle maggiori università del Bangladesh sono scesi in piazza per protestare, e le manifestazioni si sono accese tra lunedì e martedì, quando i dimostranti si sono scontrati con esponenti del ramo studentesco della Lega Popolare Bengalese, il Partito di maggioranza. In seguito agli scontri, estesisi poi anche alle forze dell’ordine, centinaia di persone sono state ferite e almeno cinque persone sono morte. Visti i sempre più frequenti episodi di violenza, il Governo ha deciso di chiudere le scuole e le università fino a data da destinarsi. Un portavoce del movimento studentesco ha invece dichiarato che le marce e le manifestazioni continueranno fino a che il Governo non soddisferà le richieste degli studenti, riformando il sistema delle quote.

Nello specifico, le proteste sono partite con maggiore intensità nella capitale Dacca, ma hanno coinvolto sin da subito tutte le maggiori città universitarie del Paese. Proprio Dacca è stata sede dell’escalation di lunedì, in cui i due gruppi studenteschi hanno ingaggiato una serie di scontri armati di pietre, bastoni, e spranghe di ferro; nella capitale, molti studenti avrebbero lasciato i dormitori per paura di venire attaccati dai colleghi filogovernativi; sempre a Dacca, la polizia ha assaltato la sede del principale partito di opposizione, arrestando sette attivisti, tra cui un leader del movimento studentesco; in seguito al raid, il capo della sezione investigativa della polizia ha inoltre detto di aver recuperato 100 bombe grezze e diverse bottiglie di benzina, e che un autobus era stato dato alle fiamme vicino allo stesso ufficio del partito di opposizione. Nella capitale, la polizia si sarebbe infine schierata davanti allo stesso campus universitario, e uno studente sarebbe inoltre stato trovato morto disteso in una pozza di sangue. Le altre aree del Bangladesh non sono state risparmiate dalle rivolte: a Rangpur, nel nord-ovest del Paese, gli studenti hanno lanciato pietre contro le forze dell’ordine, che hanno risposto con proiettili di gomma, uccidendo uno studente; tre persone, tra cui due studenti, sono state uccise nella città portuale di Chittagong, anche se non sono ancora chiare le dinamiche della loro morte; vista l’intensità degli scontri, a venire impiegata è stata anche la forza paramilitare della Guardia di frontiera del Bangladesh, attiva in tutto il Paese.

In Bangladesh i posti pubblici sono molto ambiti a causa delle condizioni di lavoro precarie e stagnanti a cui la popolazione va incontro nel settore privato. Il pubblico, di contro, garantisce un impiego stabile e sicuro, e un’entrata fissa ed equilibrata. La maggior parte dei posti pubblici, tuttavia, sono regolati attraverso il sistema delle quote, contro cui gli studenti, i più colpiti dalla disoccupazione, si scagliano da anni. Questo è stato introdotto nel 1972 e riserva il 56% dei posti di lavoro pubblico a categorie protette: il 30% è appunto riservato ai figli dei reduci di guerra, il 10& alle donne, il 10% a persone provenienti da determinati distretti, il 5% alle minoranze etniche e l’1% alle persone con disabilità. I manifestanti dicono di non volere smantellare completamente il sistema delle quote, ma di avere l’intenzione di riformarlo: il loro obiettivo, infatti, sarebbe quello di tenere solo il 6% delle quote riservate a minoranze e persone con disabilità.

[di Dario Lucisano]

Gli investimenti degli italiani in criptovalute mettono in allarme la Banca d’Italia

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Il 2024 è già l’anno record per il numero di investimenti in criptovalute da parte degli italiani, che ammontano ad oggi a ben 2,7 miliardi di euro. La Banca d’Italia ha per questo lanciato l’allarme, in particolare in riferimento alle criptovalute «non garantite» (come Bitcoin). Queste si trovano infatti al di fuori del controllo dell’autorità e sono quindi utilizzabili anche per scopi negativi – quali elusione delle tasse, riciclaggio di denaro e finanziamento al terrorismo -, oltre che essere rischiose per la loro alta volatilità e la possibilità di incappare in truffe. Tuttavia, se da un lato è vero che l’utilizzo di queste criptovalute può nascondere operazioni oscure, dall’altro esse permettono la decentralizzazione del potere finanziario ed economico.

Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha lanciato un monito agli investitori, spiegando che presto il Paese sarà dotato di tutte le normative UE in materia di criptovalute. Nel corso dell’intervento del 9 luglio scorso all’assemblea annuale dell’Associazione Bancaria Italiana, Panetta ha illustrato i pericoli che si celano dietro a questi strumenti economico-finanziari digitali, in particolare quelli che definisce «non garantiti», tra i quali l’alta possibilità di incorrere in truffe, l’alta volatilità e la mancanza di requisiti propri di una valuta a corso legale. Panetta ha spiegato che, mentre le stablecoins (quali Tether e USD Coin) sono strumenti digitali il cui valore è legato a quello di un portafoglio di attività (le cosiddette attività di riserva quali valute, depositi, titoli), le criptovalute «non garantite» (quali Bitcoin ed Ethereum) non sono emesse da alcun operatore, sono prive di valore intrinseco e non generano flussi di reddito come cedole o dividendi. Esse sono infatti create mediante procedure informatiche e non vi è alcun soggetto né attività reale o finanziaria che ne assicuri il valore. I detentori di valute digitali «non garantite», ha spiegato il governatore della Banca d’Italia, hanno spesso come obiettivo principale quello di rivenderle a prezzi maggiori oppure di eludere le norme in materia fiscale, di lotta al riciclaggio del denaro o legate al contrasto del terrorismo. Queste attività rappresentano di fatto un contratto speculativo ad alto rischio, ha spiegato Panetta, motivo per il quale il loro valore registra fortissime oscillazioni e quindi un’alta volatilità. Inoltre, ha riferito il governatore, queste valute virtuali non posseggono le caratteristiche per svolgere le tre funzioni proprie della moneta: mezzo di pagamento, riserva di valore e unità di conto.

Secondo i dati pubblicati da OAM (Organismo Agenti e Mediatori), nel primo trimestre del 2024, 1,8 milioni di soggetti hanno inviato i propri dati identificativi all’organismo e il 75% di questi detiene criptovalute, per un controvalore complessivo di 2,7 miliardi di euro. Pertanto, spiega OAM nel suo rapporto, «il valore medio delle criptovalute detenute dai clienti è pari a 2.030,81 euro. Nel primo trimestre del 2024 sono state effettuate 3.320.172 operazioni di conversione da valuta legale a virtuale (in media 9,4 operazioni per cliente con un importo di 309 euro) e 2.977.422 operazioni di conversione da valuta virtuale a legale (in media 9,3 operazioni per cliente con un importo di 928 euro). La maggior parte dei clienti nella forma di persone fisiche è compresa tra i 18 e i 29 anni (36%) e tra i 30 e i 39 anni (28%). Per quanto riguarda la distribuzione geografica dei clienti nella forma di persone giuridiche, la maggior parte si trova nel Nord Italia (49%) e all’estero (31%), mentre il Centro e il Sud rappresentano rispettivamente l’11% e l’8%. Sembrerebbe, quindi, che le attività degli exchange siano più concentrate nelle Regioni economicamente più sviluppate e con maggiore apertura internazionale. Dai dati pubblicati da OAM si evince poi che i grandi operatori dominano il mercato secondo ogni punto di vista. Per quanto concerne le operazioni di conversione da valuta virtuale a legale, i grandi operatori coprono l’82,3% del totale, per un controvalore di oltre 2,2 miliardi di euro. Giganti quali BlackRock, infatti, investono enormi quantità di risorse in queste criptovalute.

Banca d’Italia e Consob, in collaborazione OAM, hanno condotto, tra l’8 e il 24 novembre 2023, un’indagine conoscitiva al fine di comprendere il potenziale livello di interesse a svolgere in Italia attività rientranti nell’ambito applicativo di MiCAR (il Market in Crypto Asset Regulation), il regolamento europeo relativo ai mercati delle cripto-attività, la cui applicazione si completerà quest’anno. Dall’indagine, risulta esserci un certo interesse a sviluppare il mercato all’interno del nostro Paese, sebbene non in tutte le attività finanziarie possibili. Come spiegato da Panetta il 9 luglio scorso, Banca d’Italia e Consob, sulla base dello schema di decreto legislativo recentemente approvato, saranno chiamate a esercitare le funzioni di vigilanza previste dal nuovo assetto. MiCAR individua le tipologie di strumenti rappresentati sotto forma digitale (tokens) soggetti alla sua disciplina: i tokens di moneta elettronica (electronic money tokens, EMT), il cui valore è legato a quello di una sola valuta ufficiale, quelli collegati a una o più attività sottostanti (asset-referenced tokens, ART) e le criptoattività non garantite e gli utility tokens. Dato il loro ancoraggio ad attività sottostanti, solo gli EMT e gli ART appartengono alla categoria delle stablecoins. MiCAR interviene in modo diverso su queste tipologie di criptoattività. Nel caso degli EMT e degli ART, la nuova legislazione europea che entrerà in funzione stabilisce precisi requisiti per i tokens e obblighi puntuali a carico sia degli intermediari che li emettono o li distribuiscono, sia degli operatori che partecipano a vario titolo al mercato. Al contrario, nel caso delle criptoattività non garantite e degli utility tokens, la disciplina rimane per lo più confinata a meri obblighi di notifica preventiva e pertanto tali prodotti rimangono di fatto al di fuori del perimetro regolamentare. Secondo Panetta, «le nuove disposizioni contribuiscono a dare ordine al mercato delle criptoattività, anche se in alcuni casi la loro efficacia si scontra con la complessità e la continua evoluzione dei fenomeni trattati».

Sebbene sia del tutto comprensibile la cautela e l’attenzione che gli organismi competenti chiedono agli investitori, come sulla possibilità di truffe e raggiri o su l’alta volatilità delle criptovalute, nondimeno sono le stesse precauzioni e avvertenze che possono riguardare una grande varietà di prodotti finanziari i quali sono caratterizzati dalla loro natura del rischio, più o meno elevato. Certamente, gli Stati non guardano di buon occhio le criptovalute in quanto, fino al momento, sono perlopiù operanti al di fuori dei confini del proprio controllo. Se è vero che dietro ciò si possono nascondere operazioni che riguardano organizzazioni criminali e terroristiche, è altrettanto vero che tali monete permettono una decentralizzazione del potere finanziario ed economico, attualmente accentrato nelle mani di poche persone che controllano organismi e istituzioni che nel tempo hanno dimostrato di sostenere maggiormente gli interessi delle classi più agiate, le stesse che cercano in ogni modo di mantenere le regole del gioco affinché il potere rimanga nelle loro mani.

[di Michele Manfrin]

Birmania, il Paese che non è mai uscito dalla guerra civile

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La Birmania è attraversata, ormai da tre anni, da un cruento conflitto civile scatenatosi in seguito al colpo di Stato militare del 2021, che ha soppresso ogni aspirazione democratica del Paese dell’Asia sudorientale, reprimendo con la forza ogni forma di opposizione. Il rovesciamento del governo democraticamente eletto e la violenza dei metodi di quello golpista – guidato dal generale Min Aung Hlaing, capo del Tatmadaw (le forze armate birmane) – hanno generato ampie proteste nel Paese, portando alla formazione di gruppi armati di resistenza e a una guerra civile che si è intensificata soprat...

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Francia, Macron accetta le dimissioni di Attal

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A poco più di una settimana dalla chiusura delle elezioni legislative tenutesi in Francia, il Presidente Emmanuel Macron ha accettato le dimissioni del Primo Ministro Gabriel Attal. Attal aveva già presentato le proprie dimissioni al Presidente francese, il quale tuttavia, in un primo momento, non le aveva accettate; ora il Premier rimarrà in carica per gestire gli affari correnti in attesa che la sinistra, uscita vincitrice dalle elezioni, decida chi sarà il leader del prossimo esecutivo. La coalizione del Nuovo Fronte Popolare, a guida de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, risulta infatti ancora indecisa sulla scelta del nuovo Premier, che guiderà un governo di minoranza.

I biosensori 3D potrebbero fornire la cura per le malformazioni congenite

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Sono stati realizzati e studiati nuovi biosensori 3D direttamente nel cervello in via di sviluppo e nel midollo spinale degli embrioni di pollo che aprono a nuove strade per comprendere meglio e prevenire alcune malattie: è quanto emerge da un nuovo studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature Materials da un team internazionale di scienziati composto da ricercatori dell’Università di Padova e dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare in collaborazione con l’University College London. Si tratta di sensori di forza meccanica adibiti a studiare i parame...

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Nel Kenya in rivolta spuntano resti di corpi torturati vicino alla caserma militare

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Colorati sacchi della spazzatura, ciascuno legato con sottili fili di nylon, vengono prelevati da una sorta di discarica, adagiati a terra, e aperti: dentro si trovano i resti smembrati di una serie di irriconoscibili corpi in decomposizione, con evidenti segni di mutilazione e tortura. Questa, la raccapricciante scena che da giorni è stampata negli occhi dei cittadini kenioti. Nella giornata di venerdì 12 luglio sono stati trovati i resti di sei persone, successivamente identificate come donne, in una vecchia cava oggi ricoperta dalla spazzatura, situata a due passi da una caserma della polizia nei sobborghi della capitale Nairobi. Dei fatti si sa ancora molto poco, se non appunto che la maggior parte dei cadaveri, compresi gli altri almeno tre trovati nei giorni successivi, pare essere di persone di genere femminile. Le ipotesi sul piatto sono diverse: secondo le autorità potrebbe trattarsi di un serial killer, così come anche di una setta, visti soprattutto i precedenti che contraddistinguono il Paese; non manca neanche, però, chi ritiene che, data la vicinanza e le rivolte recenti, a essere coinvolta potrebbe essere la stessa polizia keniota, contro la quale l’autorità di controllo della polizia statale pare avere già avviato un’indagine.

Dietro ai ritrovamenti di venerdì aleggia ancora un’atmosfera di mistero e incertezza. I corpi inizialmente trovati erano sei, avvolti da sacchi e sacchetti di polietilene di colori assortiti, legati principalmente con fili di nylon secondo quello che viene definito “uno schema di imballaggio” ricorrente. I cadaveri sono stati recuperati da una cava piena di spazzatura di fronte alla stazione di polizia di Kware, vicino alla baraccopoli di Mukuru Kwa Njenga, nei sobborghi sud di Nairobi. Dopo i fatti di venerdì sono stati trovati altri corpi, la maggior parte di persone di genere femminile; tutti quanti erano mutilati, seviziati e con evidenti segni di tortura. Al di là di una eventuale “pista serial killer“, su cui ancora non pare esserci alcun indizio, un’altra delle interpretazioni sul piatto è quella che dietro agli omicidi e alle torture vi sia una setta. Il Kenya, dopo tutto, non sarebbe nuovo a questo genere di pratiche, tanto che solo una settimana fa è iniziato un processo contro Paul Mackenzie, un predicatore accusato di aver convinto oltre 400 persone a lasciarsi morire di fame.

L’ipotesi che sta causando più allarme, tuttavia, è quella secondo cui dietro agli omicidi di massa vi sia la polizia. A tal proposito, il Police Reforms Working Group (Gruppo di lavoro per le riforme della polizia, PRWG) keniota rimarca come il ritrovamento dei corpi sia avvenuto a pochi giorni dai turbolenti moti di protesta che hanno investito il Paese, sollevatisi contro la nuova finanziaria proposta – e poi ritirata – dal Presidente Ruto. In seguito a essi, numerosi contestatori sono stati uccisi e feriti, e altrettanti sono stati arrestati indiscriminatamente, sparendo in circostanze ancora ignote. In seguito alle sue analisi, il PRWG ha avanzato delle richieste a Governo e autorità keniote; esso, nello specifico: ha chiesto al Governo di indagare con urgenza sull’accaduto, in modo che i responsabili vengano trovati nel più rapido tempo possibile; si è appellato alle autorità competenti chiedendo che vengano smistati i resti dei corpi, e che si proceda, in coordinazione con un soggetto terzo e indipendente, con le identificazioni; ha proposto che venga aperto un database delle persone smarrite, domandando alla popolazione di fornire assistenza e informazioni; ha infine chiesto la chiusura di tutte le discariche, e che quella di Kware venga resa scena del crimine.

Parallelamente al PRWG, anche l’Independent Police Oversight Authority (Autorità di vigilanza indipendente della polizia, IPOA) ha redatto un documento in cui avanza le proprie richieste alle autorità e in cui annuncia l’apertura di una indagine volta a investigare su ogni possibile coinvolgimento delle forze dell’ordine negli omicidi di massa. Dopo i tanti appelli, il Presidente Ruto si è limitato a condividere una frase su un post su X dedicato a quattro argomenti diversi. Nel Paese, il malcontento nei suoi confronti è ormai crescente, e le accuse rivolte alle autorità – nonostante non sia ancora possibile stabilire cosa sia successo – non fanno che aumentare il senso di sfiducia nelle istituzioni che aleggia tra i cittadini kenioti.

[di Dario Lucisano]

Una nuova ricerca sul DNA ha compreso meglio come si comporta il cancro al pancreas

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Un team di scienziati composto da studiosi britannici e statunitensi, ha condotto una ricerca sul DNA, arrivando a una importante scoperta sul funzionamento del cancro al pancreas che potrebbe rivoluzionare il nostro modo di concepire e affrontare questa precisa forma di tumore: nello specifico, gli studiosi hanno rilevato come il cancro al pancreas sia in grado di disattivare le molecole di uno dei geni più importanti del corpo umano, portando la malattia a crescere e a diffondersi rapidamente. Questa nuova scoperta si configura come un avanzamento particolarmente importante nello studio del tumore pancreatico, tanto che, a detta degli stessi studiosi, essa potrebbe fornire una nuova base da cui partire per sviluppare una cura di quella che risulta una delle più mortali forme di cancro fra tutte.

Il nuovo studio è apparso sulla rivista scientifica Gastro Hep Advances ed è stato condotto da un team composto da ricercatori provenienti da quattro diverse università statunitensi e britanniche. Dalle analisi, condotte sia su tessuto pancreatico sano che tumorale, i medici hanno rilevato come il gene HNF4A aiuti a contenere il tumore al pancreas, “regolandone la crescita e l’aggressività”. Esso, tuttavia, viene disattivato dallo stesso tumore ai primi stadi della malattia mediante un processo denominato “ipermetilazione del DNA”, che permette così al cancro di crescere e diffondersi rapidamente. Lo studio, inoltre, rileva una coincidenza tra la disattivazione del gene e la scarsa probabilità di sopravvivenza del paziente, e conclude che tra le due vi sarebbe una piena correlazione. L’articolo chiude proprio sottolineando che “il silenziamento di HNF4A, mediato dalla metilazione del DNA del promotore, guida lo sviluppo e l’aggressività del cancro pancreatico, portando a una scarsa sopravvivenza del paziente“.

Il cancro al pancreas risulta uno dei più mortali e diffusi tipi di tumori al mondo. Secondo l’Agenzia Internazionale per le Ricerche sul Cancro (IARC), esso sarebbe la dodicesima forma di cancro più comune, e la sesta per numero di morti. In Italia, secondo i dati più recenti, esso risulta il sesto per incidenza (il numero di nuovi casi) con oltre 15.000 casi nuovi nel 2022, e il quarto per numero di morti con poco meno di 15.000 decessi nel 2022. Il cancro al pancreas, inoltre, registra il più alto rapporto di morti per incidenza, tanto che in Italia ogni anno per ciascun nuovo caso di tumore al pancreas, si registra poco meno di un morto, il che significa che ogni volta che una nuova persona si ammala di tumore al pancreas ne muore poco meno di una che già ce lo aveva. Nel Belpaese, inoltre, esso risulta più comune tra le donne che tra gli uomini, per le quali tuttavia la forma di tumore che si rileva con maggior frequenza resta di gran lunga il cancro al seno. Nonostante i numerosi casi e le altrettanto frequenti morti, in Italia la gestione delle persone malate di cancro risulta ancora ben al di sotto delle aspettative, tanto che a chi si ammala di cancro servono 1.800 euro l’anno per cure non garantite.

[di Dario Lucisano]

Terremoto dell’Aquila, nessun risarcimento per gli studenti morti: “furono incauti”

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Non vi sarà alcun risarcimento per le famiglie dei sette studenti fuorisede morti durante il terremoto che ebbe luogo a L’Aquila nel 2009. Secondo i giudici, governo e istituzioni sono innocenti. La Corte d’Appello ha infatti confermato la sentenza emessa in primo grado nel 2022, che attribuiva ai comportamenti dei ragazzi residenti nella palazzina in via Gabriele D’Annunzio 14 (la Casa dello Studente) la responsabilità della propria sorte. Secondo i giudici, gli studenti sono morti per via della decisione «incauta» di rimanere nello stabile e non per la gestione dell’emergenza da parte della Protezione Civile o delle istituzioni. I famigliari dovranno inoltre pagare l’intero ammontare delle spese processuali, per un valore di circa 14 mila euro.

Furono 13, in tutto, le persone che persero la vita nel crollo della Casa dello Studente, dove si trovavano i sette giovani. La sentenza del tribunale non ha infatti riconosciuto una qualche responsabilità da parte delle istituzioni per il fatto di aver adeguatamente informato sui rischi la popolazione cittadina in merito alla gravità della situazione – nonostante l’allora vice capo della Protezione Civile, Bernardo de Bernardinis, sia stato condannato nel 2022 a due anni di carcere, confermati in Cassazione, per le dichiarazioni rilasciate in un’intervista televisiva, nella quale tranquillizzava i cittadini prima del terremoto. Secondo quanto stabilito dalla sentenza del tribunale, questi non uscirono di casa in base a una scelta «incauta» presa autonomamente e non perché «rassicurati» dalla Protezione Civile. In base a quanto definito dai giudici, infatti, l’insieme delle prove acquisite «ha smentito o, comunque, non ha dato conferma della tesi che gli esperti partecipanti alla riunione del 31 marzo – ad esclusione del De Bernardinis, vice di Bertolaso [allora capo della Protezione Civile, ndr], il quale, peraltro, alla stessa non diede alcun contributo scientifico – avessero, a priori, l’obiettivo di tranquillizzare la popolazione e, quindi, di contraddire o minimizzare quanto desumibile dai dati oggetto della loro valutazione scientifica». In primo grado, il tribunale de L’Aquila aveva condannato a sei anni tutti i membri della Commissione Grandi Rischi, riunitasi nel capoluogo il 31 marzo 2009, a una settimana dal terremoto. In seguito, erano stati quasi tutti assolti in appello, mentre De Bernardinis fu condannato.

Una sentenza simile fu emessa nel 2022, quando il Tribunale de L’Aquila determinò una colpa al 30% attribuibile alle vittime del crollo della palazzina di via Campo di Fossa (nel quale morirono 24 persone) in quanto queste mantennero una «condotta incauta» non essendo uscite in strada una volta cominciate le scosse di terremoto.

L’evento sismico de L’Aquila ebbe luogo alle 3.32 del 6 aprile 2009. In quel momento, una scossa di magnitudo 6.3 scosse la terra intorno al capoluogo abruzzese e a 56 altri borghi, causando la morte di 309 persone e il ferimento di altre 1.500. Gli sfollati furono circa centomila.

[di Valeria Casolaro]

Ultima Generazione, due attiviste annunciano lo sciopero della fame

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Questa mattina, alle ore 11.00, due attiviste di Ultima Generazione aderenti alla campagna Fondo di Riparazione si sono incatenate davanti alla prefettura di Padova con la bocca ricoperta di rosso, iniziando così uno sciopero della fame. La protesta arriva dopo giorni di azioni dimostrative, e intende chiedere un incontro con il prefetto per discutere “a proposito della repressione subita da diversi movimenti politici e sociali” a Padova e in tutta Italia. Il prefetto aveva precedentemente accettato un incontro con le attiviste da svolgersi a porte chiuse, ma “la richiesta di Ultima Generazione rimane di avere un incontro pubblico con la stampa presente”.

Le idee di J.D. Vance: il vicepresidente “ultra-radicale” scelto da Trump

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Dopo mesi di attesa per sapere il nome del candidato Vicepresidente per i repubblicani, Donald Trump ha annunciato la figura che lo affiancherebbe nei prossimi quattro anni nel caso in cui dovesse spostare nuovamente la residenza alla Casa Bianca: si tratta di James David Vance, meglio noto come J.D., trentanovenne già senatore repubblicano e, dopo un primo periodo di forte ostilità nei confronti del tycoon, trumpiano di spicco dal 2018. L’annuncio è arrivato all’apertura della convention nazionale del Partito Repubblicano iniziata lunedì 15 luglio a Milwaukee, nel Wisconsin, ma era già nell’aria da tempo. La sua candidatura a Vicepresidente risulta particolarmente interessante: nonostante infatti di solito la scelta del Vicepresidente abbia almeno in parte anche una valenza elettorale, e serva insomma a coprire territori, ambiti, potenziali elettori, aree e microaree politiche in cui il candidato Presidente è scoperto, J.D. Vance non parrebbe essere la persona più adatta a svolgere il compito di portare voti. Egli, piuttosto, sembra essere il vice ideale per promuovere un’idea di trumpismo radicale, e giocare ancora di più sulla frattura con il resto della politica statunitense.

J.D. Vance ha trentanove anni, quasi quaranta, ed è nato a Middletown, in Ohio, Stato in cui è stato eletto senatore nelle cosiddette Midterm Elections (elezioni di metà mandato) del 2022. Capitalista di ventura di stampo conservatore e neo-reazionario, Vance finisce al centro dei riflettori nel 2016, dopo la pubblicazione della sua autobiografia Hillbilly Elegy, in cui descrive degli Stati Uniti spezzati e in crisi, attribuendo – da repubblicano – allo stesso Trump una buona parte delle responsabilità. Col tempo si fa sempre più strada all’interno del mondo intellettuale di destra, portando avanti una fervente campagna anti-trumpiana, arrivando a definire il tycoon «l’Hitler americano». Nel 2018, tuttavia, cambia radicalmente opinione, e, dopo avere avanzato le proprie scuse all’allora Presidente, diventa uno dei suoi più convinti sostenitori. Teorico politico dalle grandi doti comunicative, Vance inizia a dominare i dibattiti pro-Trump, difendendo il proprio Presidente a spada tratta, e finisce così sotto l’ala del tycoon venendo riaccolto da figliol prodigo.

Le posizioni politiche di Vance sono molto simili a quelle di Trump, anche se su alcune questioni vi si discostano ponendosi sulla scia di un repubblicanesimo alternativo per certi versi opposto all’ortodossia di partito, e più vicino a una sorta di destra sociale: sul fronte della politica interna, proprio in ambito sociale, Vance è a favore di un aumento dei salari minimi, di una maggiore presenza delle rappresentazioni sindacali, ed è a favore di un interventismo statale in ottica antimonopolistica. Egli risulta invece ben più allineato nella maggior parte delle questioni di natura civile, specialmente per quanto riguarda l’aborto, le questioni di genere e l’immigrazione: in materia di interruzione volontaria di gravidanza, Vance ritiene che la legiferazione sull’ambito dovrebbe spettare ai singoli Stati, anche se in passato si era detto a favore di una legge federale che vietasse la pratica dopo le 15 settimane di gravidanza; in merito ai diritti LGBT, egli si oppone al matrimonio tra omosessuali e agli interventi di affermazione di genere nei minori; per quanto riguarda l’immigrazione, Vance ha sostenuto l’idea di Trump di costruire un muro tra USA e Messico, ed è contro l’idea di concedere l’amnistia legale agli immigrati irregolari.

In politica estera, Vance si oppone all’interventismo statunitense, specialmente per quanto concerne la questione Ucraina. Egli si è detto a più riprese assolutamente contrario a fornire aiuti militari a Kiev, ed è stato spesso critico nei confronti della gestione del conflitto da parte di Biden. Vance non mette in discussione la presenza statunitense nella NATO, ma ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi maggiormente sull’Asia e che le questioni relative all’Europa dovrebbero essere lasciate in mano agli europei. Proprio sul fronte orientale, risultano infatti differenti le sue posizioni in merito al conflitto israelo-palestinese: dall’escalation del 7 ottobre, Vance ha promosso con forza una politica filo-israeliana, criticando svariate volte Biden per la sua eccessiva morbidezza nella fornitura di aiuti a Tel Aviv, tanto da sostenere che il Presidente abbia «impedito a Israele di finire il lavoro». Egli incolpa Hamas di tutte le morti civili e sostiene – similmente allo stesso Trump – Israele in tutto e per tutto.

Piuttosto che riunire il fronte repubblicano scegliendo un candidato capace di tirare a sé gli elettori meno convinti, Trump ha preferito proporre come Vicepresidente il suo più strenuo difensore e portavoce nei dibattiti politici. La scelta di Trump di candidare una figura di spessore nell’elaborazione politica di destra che tuttavia non si discosta troppo dalle sue posizioni, pare configurarsi come una ferma riaffermazione dei principi del trumpismo. Le elezioni statunitensi si terranno a novembre, e per ora Trump viene dato favorito dalla maggior parte dei giornali e dei sondaggi. Contro di lui, per i democratici, correrà l’attuale Presidente Joe Biden, mentre l’ex democratico Robert Kennedy Jr. ha preferito presentarsi come indipendente. A fine giugno si è tenuto il primo dibattito tra i due principali candidati alla Casa Bianca, in seguito al quale Biden è uscito clamorosamente sconfitto. Di contro Trump ha rischiato di venire escluso dalla corsa per i fatti di Capitol Hill del 2021, ed è recentemente stato oggetto di un attentato, dal quale si è salvato venendo colpito all’orecchio da un colpo di arma da fuoco.

[di Dario Lucisano]