domenica 20 Aprile 2025
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Georgia, Mikheil Kavelashvili è il nuovo presidente

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Dopo giorni di proteste, il collegio elettorale georgiano ha eletto un nuovo presidente: si tratta dell’ex calciatore e cofondatore del Partito Popolare Mikheil Kavelashvili. Kavelashvili, sostenuto dal governo del partito Sogno Georgiano, vincitore delle elezioni dello scorso 26 ottobre, risultava l’unico candidato. L’opposizione ha infatti tentato di boicottare il voto perché non ha riconosciuto il nuovo parlamento. Nel Paese, intanto, continuano le proteste, che adesso hanno anche preso una piega più ironica, con manifestanti che hanno portato un pallone in piazza giocando a calcio, per criticare il nuovo presidente. Kavelashvili è il primo presidente eletto dal collegio e non dal popolo, dopo la riforma costituzionale del 2017 voluta da Sogno Georgiano.

Il governo alza di tremila euro al mese lo stipendio dei ministri non eletti

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Con un blitz pre-natalizio, il governo Meloni cerca di piazzare un ricco dono sotto l’albero di alcuni dei suoi componenti. Nascosto nel cuore della Manovra 2025, è infatti spuntato un emendamento depositato dai relatori di maggioranza che stabilisce un aumento di stipendio per i ministri e i sottosegretari che non ricoprono al contempo la carica di deputati e senatori, equiparando il loro «trattamento economico complessivo» a quello dei colleghi eletti in Parlamento. Una decisione che ha immediatamente scatenato un coro di indignazione da parte delle opposizioni, sollevando interrogativi sulla priorità degli interventi del governo in un momento in cui la crisi economica e sociale sta investendo il Paese.

La proposta di modifica alla Legge di Bilancio, depositata ieri sera, prevede che, dal 2025, i ministri non eletti ricevano uno stipendio mensile lordo di 12.400 euro, in linea con quello dei capi dei dicasteri che sono anche parlamentari. Oltre all’indennità, uguale per tutti, lo stipendio prevederà anche le altre voci, come la diaria e i rimborsi spese. Il costo complessivo dell’operazione per le casse dello Stato ammonta a circa 1,3 milioni di euro all’anno, che saranno coperti mediante tagli al Fondo per interventi strutturali di politica economica, alimentato peraltro dalla riapertura del condono edilizio. I ministri interessati dall’adeguamento degli stipendi, che ad oggi percepiscono circa 9.200 euro lordi al mese, sono in particolare Matteo Piantedosi (Interno), Andrea Abodi (Sport), Guido Crosetto (Difesa), Marina Calderone (Lavoro), Alessandro Giuli (Cultura), Giuseppe Valditara (Istruzione), Orazio Schillaci (Salute) e Alessandra Locatelli (Disabilità). Complessivamente, il numero dei membri dell’esecutivo che potrebbero beneficiare della misura si alza a 18 unità se si contano anche viceministri e sottosegretari.

A indignare è soprattutto il tempismo con cui l’emendamento ha visto la luce. La Manovra 2025 ha infatti già provocato numerose polemiche per misure giudicate inadeguate, tra cui l’aumento di appena 1,80 euro sulle pensioni minime e il mancato intervento sul salario minimo. L’adeguamento degli stipendi ai componenti del governo ha acceso un’ulteriore miccia, con le opposizioni che sono ora sulle barricate. Daniela Torto, capogruppo del M5S in Commissione Bilancio, ha definito l’emendamento «una vergogna», evidenziando come il Paese conti milioni di poveri assoluti, lavoratori in cassa integrazione e famiglie che faticano ad arrivare alla fine del mese. Sulla stessa scia Ubaldo Pagano del Partito Democratico, che ha censurato la scelta «indecente» del governo Meloni di innalzare gli stipendi a ministri, viceministri e sottosegretari «invece di investire in sanità, scuola, lavoro e casa».

[di Stefano Baudino]

Gaza, raid notturni sulla Striscia: morti e feriti in varie città

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È di diversi morti e feriti il bilancio degli attacchi sferrati nella notte dalle forze militari israeliane su varie città della Striscia di Gaza. Lo riportano i media locali. A Jabalia, quattro persone componenti della stessa famiglia sono rimaste uccise nel bombardamento della loro abitazione. Altre due sono state ferite dopo un’incursione militare in una casa. Ci sono morti e feriti anche in una scuola di Yaffa, a nord-est di Gaza City, bersaglio di un attacco israeliano. Un’altra persona è stata uccisa nel raid su una tenda che ospitava sfollati a sud di Khan Yunis.

Il nuovo segretario NATO chiede più soldi e “mentalità di guerra” ai Paesi membri

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Il nuovo segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha affermato che la soglia del 2% per le spese militari fissata dall’alleanza atlantica non è più sufficiente e che occorre «passare a una mentalità di guerra» a causa di quella che definisce la minaccia russa. «Avremo bisogno di molto di più» in quanto «il pericolo si muove verso di noi a tutta velocità» ha spiegato durante un evento organizzato dal Carnagie Europe di fronte a una platea composta da giornalisti, funzionari europei, imprenditori ed esperti del settore della difesa. La nuova soglia di spesa in armi da raggiungere non è ancora stata stabilita «ma è evidente che nei prossimi mesi dovremmo accordarci su quale sarà la nuova soglia», ha asserito il segretario. Rivolto ai pochi Paesi che non hanno ancora raggiunto il 2% – tra cui l’Italia – ma anche a banche, fondi pensione e opinione pubblica, Rutte, ha detto che «è inaccettabile rifiutarsi di investire nella difesa». Anche se questo «significa spendere meno per le altre priorità», tra cui compaiono le pensioni, la sanità e la previdenza sociale.

Per tradurre in pratica le raccomandazioni del segretario della NATO sarà necessario rafforzare l’industria della difesa europea, ma anche “sensibilizzare” l’opinione pubblica, convincendola del pericolo di un’imminente minaccia militare. Rutte ha spiegato che quest’ultima non è immediata e che «Per ora il nostro deterrente è buono, ma tra tre o quattro anni potrebbe non esserlo più». Il pericolo evocato da Rutte non riguarda solo la Russia, ma l’intero blocco di Paesi che si oppone alle politiche di Washington, comprese Cina, Iran e Corea del Nord. L’ex capo di governo dei Paesi Bassi ha puntato il dito in particolare contro la Cina, che a suo dire starebbe «aumentando in modo sostanziale le sue forze, comprese le armi nucleari, senza trasparenza e limitazioni».

Già da tempo, i Paesi europei stanno lavorando nella direzione di un aumento delle spese militari, anche sulla scia di quanto raccomandato dal cosiddetto “piano Draghi”, a scapito di altri investimenti e mentre le principali economie europee stanno subendo un grave crollo politico e economico. In questo senso, Rutte ha ribadito la necessità di insistere sugli acquisti congiunti a livello europeo, per evitare un «enorme» impatto finanziario. Una proposta già avanzata mesi fa dalla stessa Commissione europea all’interno della Strategia dell’Industria Europea della Difesa (EDIS), i cui obiettivi sono quelli di aumentare la produzione di materiale bellico in tutto il continente e di rendersi indipendenti da altri fornitori, tra cui gli Stati Uniti. L’idea, presentata dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, con l’appoggio di Draghi, è quella di creare un mercato comune con un sistema di investimenti e acquisti congiunti su scala europea, sul modello degli acquisti per i vaccini. Nella stessa direzione si inserisce il recente piano dei ministri degli Esteri di Germania, Francia, Polonia, Italia, Spagna e Regno Unito di istituire un debito comune per la Difesa. Sempre contestato dagli esponenti più rigoristi dell’UE – i cosiddetti falchi del nord – il debito comune è ben visto solo se serve a riarmarsi.

Il destino dei Paesi europei all’interno di UE e NATO, Italia in primis, è segnato, dunque, da due parametri ineludibili: austerità e corsa al riarmo con relativo aumento delle spese per la difesa. In particolare, in Italia, la spesa militare è in crescita da anni: secondo i dati dell’Osservatorio Milex, negli ultimi dieci anni c’è stato un incremento di investimenti in questo settore del 12%. Esaminando il disegno di legge di bilancio del 2025, l’Osservatorio ha stimato un aumento di fondi destinati a questo settore di oltre due miliardi, raggiungendo il record di oltre 32 miliardi, di cui 13 solo per nuove armi. Alla Difesa sono destinati parte dei fondi provenienti dai tagli di tutti gli altri ministeri. Con l’aumento a 32 miliardi, l’Italia ha raggiunto l’1,57% del PIL per la difesa, ancora distante, dunque, dall’obiettivo minimo – è già non più sufficiente – del 2% stabilito dalla NATO.

Legato all’aspetto finanziario, vi è poi quello del convincimento ideologico delle masse alla guerra, che fa leva sulla presunta minaccia militare della Russia e di altri Paesi, generando così un sentimento di paura nella popolazione. Già all’inizio della guerra in Ucraina nel 2022, commentatori, analisti e politici occidentali agitavano la possibilità, piuttosto inverosimile, che Putin avrebbe invaso l’intera Europa se non fosse stato fermato in Ucraina, descrivendo al contempo l’esercito russo come un esercito allo sbaraglio dotato solo di vecchie armi sovietiche. Come sempre accade in questi casi, chi detiene il potere ha bisogno del consenso delle masse per non risultare delegittimato e la campagna d’informazione legata a ritrarre la Russia come un pericolo per i Paesi europei ha esattamente questa funzione, nonostante le nazioni europee abbiano intrattenuto sempre ottime relazioni commerciali con lo Stato eurasiatico fino al 2022.

Benché il presidente eletto Donald Trump abbia confermato di voler avviare i negoziati tra Russia e Ucraina, l’Europa sembra in ogni caso avviata sulla strada dello scontro con Mosca, fomentando un clima bellico nel Vecchio continente e predisponendo i cittadini all’idea della guerra.

[di Giorgia Audiello]

Corea del Sud, passa la mozione di impeachment contro il presidente

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Con 204 voti a favore e 85 contrari, il Parlamento sudcoreano ha approvato la mozione di impeachment contro il presidente Yoon. Per essere approvata, la mozione richiedeva il voto favorevole di due terzi dell’Assemblea, composta da 300 membri. Ora si attende il giudizio della Corte Costituzionale, che ha sei mesi di tempo per confermare o respingere l’impeachment del presidente. La mozione era stata già sottoposta a votazione, ma non era stata approvata a causa dell’opposizione del Partito del Potere Popolare, il partito del presidente. Yoon è stato oggetto di impeachment in seguito al tentativo di instaurare la legge marziale lo scorso 3 dicembre.

Diritti negati e condizioni disumane: il rapporto Consiglio d’Europa sui CPR italiani

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Maltrattamenti fisici, nessuna assistenza sanitaria adeguata, somministrazione in segreto di quantità ingenti di psicofarmaci e nessun monitoraggio «rigoroso e indipendente» degli interventi delle forze dell’ordine: sono queste e molte altre le criticità riscontrate dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura o dei Trattamenti o Punizioni Inumani e Degradanti (CPT, organo del Consiglio d’Europa) all’interno dei Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR) italiani e raccolte in un report, pubblicato questa mattina. Una realtà agghiacciante, per quanto già ampiamente documentata dal lavoro di alcune ONG sul territorio e di diverse indagini giudiziarie. In generale, il Comitato si è detto «molto critico» della generale gestione delle prigioni amministrative italiane, esprimendo dubbi su come questo modello possa essere riprodotto all’estero, come nel caso dell’Albania.

Le strutture italiane, scrive il CPT, somigliano molto «alle unità di detenzione che ospitano i detenuti in regime speciale», in ragione delle misure di sicurezza eccessive delle quali sono dotate – come le triple reti metalliche applicate alle finestre e le strutture esterne simili a gabbie. In un tale regime di messa in sicurezza, la totale assenza di attività ricreative o di qualsiasi altro genere, come di personale preparato a gestire le situazioni di forte stress contribuisce in maniera significativa allo scoppio di eventi critici e di violenza. Secondo il Comitato, che ha esaminato le condizioni dei CPR di Milano, Gradisca d’Isonzo, Potenza e Roma, appare evidente che gli appaltatori abbiano investito «sforzi minimi» nell’offerta di «attività di natura propositiva», fattore che può risultare estremamente deleterio in un contesto in cui la detenzione può durare mesi, se non anni interi. A tutto ciò va aggiunto il cibo avariato spesso servito alle mense, l’assenza di una adeguata assistenza sanitaria, le «pessime condizioni materiali», fino alla «carenza di scorte di articoli da toilette».

Lo stesso sistema di supervisione delle forze dell’ordine, riporta il CPT, dovrebbe essere rivisto. Nei CPR vengono infatti inviati a rotazione gruppi antisommosa e d’intervento, mentre sarebbero necessarie figure professionali appositamente preparate e in grado di riconoscere i sintomi di possibili reazioni da stress. Ai migranti non vengono nemmeno garantiti diritti basilari come l’accesso a un avvocato, le informazioni sui propri diritti e la notifica del loro trattenimento a terzi. In un tale contesto di estrema criticità, spesso le società non rispettono i capitolati d’appalto e gestiscono le strutture in modo non trasparente, mentre sono numerose le indagini penali aperte contro i gestori dei centri. Tali presupposti «mettono in discussione l’applicazione di tale modello da parte dell’Italia in un contesto extra-territoriale, come quello albanese».

Il ricorso a psicofarmaci in quantità eccessive e in segreto, somministrati ai detenuti al fine di tenerli sotto controllo, era già stato documentato dalle autorità in almeno due centri, ovvero quello di via Corelli di Milano e quello di Palazzo San Gervasio di Potenza. Le testimonianze dei detenuti, raccolte dalle organizzazioni che chiedono la chiusura definitiva dei CPR, raccontano di trattamenti analoghi anche nei CPR di Torino e di Gradisca d’Isonzo. Nel dicembre dello scorso anno le autorità avevano disposto il sequestro di Martinina srl, l’azienda che dal 2022 gestiva il CPR di via Corelli, a Milano, dopo un’indagine per frode e turbativa d’asta condotta dalla Guardia di Finanza. Nel corso delle operazioni, un medico aveva denunciato le condizioni aberranti nelle quali le persone erano trattenute. Tra queste, la somministrazione di cibo andato a male, le camere sporche e generali condizioni igieniche «vergognose», oltre alla presenza di persone detenute senza cure anche in caso di malattie gravi (come tumori al cervello o epilessia o disturbi di tipo psichiatrico) e l’assenza di attività ricreative o luoghi di culto.

Nemmeno un mese dopo, decine di persone erano state indagate per la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio, a Potenza. Tra queste, una trentina in tutto, vi erano per lo più agenti delle forze dell’ordine e medici, oltre ai rappresentanti legali della cooperativa che aveva gestito fino a pochi mesi prima il centro (Engel Italia srl). Anche qui era finito sotto indagine l’abuso di psicofarmaci, somministrati ai detenuti a loro insaputa allo scopo di «renderli innocui e quindi neutralizzare ogni loro possibile lamentela per le condizioni disumane in cui spesso si trovavano a vivere».

Il tutto avviene mentre è sempre più evidente come il sistema dei CPR sia fallimentare anche dal punto di vista dell’obiettivo che si prefigge, ovvero il rimpatrio dei migranti espulsi dal Paese. A fronte degli ingenti costi di gestione per le strutture (si parla di milioni di euro in Italia, ma di quasi un miliardo di euro in cinque anni per le strutture in Albania), il tasso dei rimpatri effettivamente portati a termine si attesta, negli ultimi 8 anni, su una media inferiore al 50%. Insomma, un enorme spreco di risorse pubbliche per strutture che non solo violano la dignità e i diritti dei reclusi, ma non portano nemmeno a termine ciò che si propongono.

In risposta a quanto rilevato dal CPT, le autorità italiane si sono limitate ad ammettere di non aver mai condotto indagini penali sui casi di maltrattamento citati dal Comitato e che le autorità sanitarie avevano già ispezionato il CPR di Potenza in relazione al problema degli psicofarmaci. Le eccessive misure di sicurezza messe in piedi all’interno dei centri, poi, dipenderebbero «dall’alto tasso di vandalismo». Mentre nei centri di Shengjin e Gjader sarebbero adottate tutte le misure preventive necessarie per tutelare le condizioni di vulnerabilità. Un dato ancora tutto da dimostrare, dal momento che la maggior parte dei migranti inviati in Albania sono stati, per il momento, riportati indietro proprio perchè non idonei al trattenimento.

[di Valeria Casolaro]

Le bugie nel mondo dei cosmetici: non è tutto buono ciò che è bio

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L’ecologia di facciata (o greenwashing) è appannaggio di quasi tutte le industrie: da quella alimentare a quella della moda, passando per quella tecnologia fino a quella dell’energia. Non si salva nessuno. Nemmeno il mondo dei cosmetici, nonostante confezioni colorate di verde e preziose diciture “bio” sui prodotti. Tutto ciò accade, come sempre, per la mancanza di regolamentazioni chiare riguardo a cosa significhi «naturale» o «biologico» nei cosmetici, andando ad alimentare la confusione tra i consumatori e, nello stesso tempo,  permettendo alle aziende di presentare i loro prodotti come più sostenibili di quanto non siano realmente.

Creare confusione con le parole (e con l’opacità)

Osservando il proliferare di confezioni che ammiccano alla sostenibilità, tra prodotti «puliti» e bollini «cruelty free», il dubbio sulla veridicità delle informazioni riportate è sorto più di una volta. I vaghi termini del marketing, come succede nella moda, sono spesso uno specchietto per attirare consumatori distratti. Secondo un rapporto della piattaforma Good on You, che si occupa di valutare la veridicità dei criteri di sostenibilità millantati dalle aziende, dopo aver analizzato circa 240 marchi di cosmetica, ha rilevato che «c’è un livello generale di trasparenza inferiore nel settore della bellezza rispetto alla moda». Questo perché la filiera della cosmesi è frammentata quanto, se non di più, quella del fashion. Un singolo tubetto di crema, ad esempio, potrebbe essere stato progettato  in Italia  e riempito in Cina prima di essere venduto in Canada. Al suo interno si possono trovare tantissime materie prime, ciascuna delle quali proveniente da una catena di approvvigionamento differente, alla quale spesso è difficile risalire. Tante volte i marchi fanno addirittura fatica a fornire le informazioni sugli ingredienti di base che compongono i prodotti! Una mancanza importante, visto che i cosmetici entrano in contatto con l’organo più esteso del nostro corpo: la pelle! Inutile dire che l’impatto di questa carenza (o omissione volontaria) di informazioni ha delle notevoli ripercussioni sulla salute umana. Così come a livello ambientale.

Materie prime come l’olio di palma, ad esempio sono connesse con lo sfruttamento e la distruzione ambientale, ma anche con la violazione dei diritti umani. Tutti i marchi analizzati utilizzano questo materiale ma meno della metà conosce la provenienza

Molte delle materie prime utilizzate, infatti, sono connesse con lo sfruttamento e la distruzione ambientale, ma anche con la violazione dei diritti umani. A partire dall’olio di palma, utilizzato comunemente per le sue qualità idratanti, e responsabile della deforestazione di intere zone. Secondo il report, tutti i marchi analizzati utilizzano questo ingrediente, ma meno della metà conosce la sua provenienza; solo il 17% usa olio da fonti certificate. Stessa carenza di dati è stata rilevata anche per quanto riguarda i test sugli animali: quasi l’80% dei  marchi analizzati non aveva alcuna certificazione che dimostrasse di non testare sugli animali. Tra opacità, carenza di informazioni ed etichette ingannevoli, destreggiarsi nel reparto cosmetica sta diventando sempre più complicato.

Oltre le apparenze: cosa cercare nelle etichette

Non lasciarsi abbindolare dall’estetica «verde» delle confezioni, andare oltre alle parole di facciata come «consapevole», «ecobio», «sostenibile» o «amico dall’ambiente», sono i due primi passi fondamentali per approcciarsi in maniera critica ai prodotti di bellezza. In seconda battuta, controllare la lista degli ingredienti (il famoso “inci” – International nomenclature of cosmetic ingredients), per verificare la presenza e la quantità dei presunti ingredienti di origine naturale. Un prodotto che si auto-definisce green, per essere di buona qualità, dovrebbe contenere almeno il 98/99% di questi elementi, mentre la minima parte restante sono stabilizzanti e conservanti, indispensabili per la sicurezza e la durata del cosmetico. Gli ingredienti naturali, inoltre, dovrebbero essere in alto nella lista, dimostrando di essere la percentuale maggiore contenuta nel prodotto (più gli ingredienti eco sono in alto, più il cosmetico può definirsi naturale). 

Altro aspetto da valutare è la presenza o meno di sostanze non biodegradabili all’interno del prodotto; queste ultime sono molto impattanti sia per l’ambiente sia per gli organismi che lo abitano. Tra gli inquinanti più dannosi, oltre ai profumi, ci sono siliconi, petrolati e le microplastiche (al momento vietate per legge nei detergenti ed esfolianti a risciacquo, ma ancora presenti in altre formule) che spesso, nella lista ingredienti, appaiono con nomi insospettabili come Polyethylene (PE), Polymethyl methacrylate (PMMA), Nylon, Polyethylene terephthalate (PET) o Polypropylene (PP). 

Tra le sostanze sintetiche da tenere d’occhio, ci sono anche silossani, tensioattivi anionici e parabeni. Questi ultimi, sospettati di fungere da interferenti endocrini (ovvero disturbare la normale funzionalità ormonale del corpo umano), oltre che danneggiare l’ecosistema marino, dovrebbero essere completamente assenti in un prodotto che si dichiara bio o eco-friendly. Conservanti sì, ma che almeno siano biocompatibili, come acido benzoico, sodio benzoato, acido sorbico e i suoi sali, potassio sorbato e sodio sorbato, tocoferolo (vitamina E) oppure oli essenziali come il tea tree oil (che in buone percentuali può funzionare da conservante). 

In generale, meno ingredienti sono presenti e più informazioni dettagliate ci sono, minore è il rischio di incorrere in operazioni di greenwashing. In caso di dubbio, affidarsi a strumenti come la app Good on You o controllare gli ingredienti sul Biodizionario Cosmetico presente online, può essere un ulteriore supporto per scelte consapevoli e ben ponderate da chi ha davvero a cuore la propria pelle (e anche l’ecosistema in cui vive). 

[Marina Savarese]

Sciopero generale, scontri a Torino tra studenti e forze dell’ordine

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Questa mattina a Torino si sono verificati alcuni scontri tra le forze dell’ordine e gli studenti che manifestavano nell’ambito dello sciopero nazionale contro il governo. Gli agenti avrebbero infatti reagito con cariche al lancio di uova e pietre da parte dei manifestanti di fronte alla sede del Politecnico. Successivamente, il corteo si è spostato di fronte alla sede della Rai in via Verdi, per contestare la disinformazione diffusa dalla televisione di Stato in merito agli eventi in Medio Oriente. Uno studente si troverebbe in stato di fermo. «La repressione ha colpito duro sulle teste degli studenti che rivendicavano soldi alla formazione e non alla guerra», hanno scritto i collettivi sui social.

Bruxelles salva la pesca a strascico: altra vittoria contro l’ambiente del governo Meloni

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Per l’intero 2025 i pescherecci italiani a strascico non dovranno ridurre i giorni di pesca. È questo il risultato ottenuto dall’Italia e un’altra manciata di Stati Membri a Bruxelles. «È la prima volta che l’Italia ottiene un simile successo», ha commentato soddisfatto il ministro dell’Agricoltura italiano, Francesco Lolloobrigida. La proposta iniziale prevedeva per l’Italia il 39% di riduzione dei giorni di pesca a strascico per il 2025 ma, grazie a un articolato pacchetto di misure di compensazione, l’Italia ha potuto in pratica annullare l’intero taglio proposto dalla Commissione, con il plauso di tutto le associazioni di categoria. Un traguardo però tutt’altro che positivo per l’ecosistema marino dato che la pesca a strascico, in quanto tecnica non selettiva, è in assoluto la più impattante sulla fauna e i fondali.
La decisione è stata presa dal Consiglio UE Agricoltura a seguito del raggiungimento di un accordo tra i ministri UE dell’Agricoltura, arrivato dopo giorni di intensi negoziati segnati dalle richieste di Italia, Francia e Spagna di limitare il taglio dei giorni di pesca nel Mediterraneo proposto dalla Commissione europea alla fine di novembre. Le riduzioni proposte dall’esecutivo UE saranno mantenute, in media -66% per i pescherecci a strascico, di cui -79% per la Spagna, -40% per la Francia e -39% per l’Italia, ma i Paesi potranno attuare una serie di misure per compensare queste riduzioni. Il che vale a dire che i giorni in cui i pescherecchi potranno operare mediante reti a strascico resterà invariato rispetto al 2024. L’accordo in particolare introduce dei meccanismi che consentono ai Paesi di continuare a pescare indisturbati se adottano alcune misure di gestione, come il miglioramento della dimensione delle maglie, le chiusure stagionali e gli attrezzi da pesca selettivi. Tuttavia, che l’adozione di tali misure mitighi effettivamente i danni della pesca a strascico è tutt’altro che accertato.

La pesca a strascico è una tecnica di pesca industriale che sfrutta grandi reti trainate sul fondo del mare o sospese nella colonna d’acqua. Tali reti sono spesso dotate di pesi per mantenerle a contatto con il fondale e possono essere lunghe centinaia di metri. Nella pesca a strascico demersale, le reti vengono trascinate direttamente sul fondale marino, catturando le cosiddette specie bentoniche, ovvero quelle che hanno rapporti con il fondo del mare, sia in maniera permanente che temporanea. Nella pesca a strascico pelagica, le reti vengono invece trascinate nella colonna d’acqua, senza toccare il fondale, per catturare pesci che vivono a mezz’acqua. In entrambi i casi le catture portano al prelievo di grandi quantità di esemplari ittici, ma nelle reti finiscono anche molte specie non bersaglio, che vengono rigettate a mare, spesso morte o ferite. Il movimento delle reti disturba inoltre i sedimenti marini, rilasciando il carbonio precedentemente immagazzinato nei fondali, al punto che ogni anno si stimano emissioni pari a 370 milioni di tonnellate di CO₂ causate da questa pratica. Nel complesso, come è noto già da decenni, la pesca a strascico ha un impatto profondamente distruttivo sugli ecosistemi marini, determinando direttamente l’alterazione degli habitat, delle reti alimentari, dei cicli naturali e, in definitiva, la riduzione della biodiversità. La stessa biodiversità, paradosso vuole, che è fondamentale per il mantenimento degli stock ittici tanto difesi dalla politica.

Si è stimato che nel Mediterraneo il 96% degli stock ittici sia sovrasfruttato e pescato principalmente utilizzando reti a strascico. In Europa, tra il 2015 e il 2023, sono state registrate 4,4 milioni di ore di pesca a strascico, anche in aree marine protette. Il risultato, senza mezzi termini, è che tra qualche decennio potrebbe non esserci più pesce da pescare. Se da un lato, nel breve periodo, la riduzione di tale pratica darebbe un bel colpo economico al settore ittico, dall’altro, rappresenta l’unica via per garantire la sostenibilità a lungo termine della pesca. E, si badi bene, sostenibilità non indica solamente la solita svolta “verde” tanto richiesta dall’Europa. In questo caso, sostenibilità è anche un termine tecnico che significa pescare quantità tali da permettere alle popolazioni biologiche di recuperare attraverso la riproduzione i numeri persi, quindi, di continuare a rappresentare delle risorse per l’umanità. Un concetto che tuttavia viene difficilmente afferrato, l’importante è difendere l’economia ora e ad ogni costo.

«Ogni anno – ha commentato ciecamente Lollobrigida – la Commissione Europea propone tagli che minacciano la sopravvivenza della flotta peschereccia, ma questa volta gli interessi della Nazione sono stati difesi con fermezza, dimostrando l’efficacia della strategia negoziale adottata. Le ragioni italiane sono state fatte valere in Europa, garantendo stabilità e prospettive di crescita a un comparto essenziale per l’economia». Una posizione che non guarda oltre e che contrasta con le stesse prospettive di crescita citate. Coerentemente con la linea politica ambientale dell’esecutivo Meloni, già l’anno scorso l’Italia era stato l’unico Paese UE ad opporsi all’eliminazione della pesca a strascico. “Ambientalismo non ideologico”, lo chiamano. Tradotto: l’ambiente va tutelato a patto che non interferisca in alcun modo con gli interessi economici ed industriali. Eppure a dire che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno all’ambiente non lo dice l’ambientalista di turno, bensì la nostra stessa Costituzione.

[di Simone Valeri]

“Costretti a dormire in fabbrica”: gli operai di Forlì bloccano l’azienda

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Immaginate di essere stati assunti come operai per una ditta che produce mobili. Siete disoccupati, il lavoro è a 200 km da casa, ma vi promettono un alloggio e uno stipendio adeguato. Accettate l’offerta e partite alla ricerca di un futuro migliore. Invece vi ritrovate a lavorare 12 ore al giorno, venendo pagati solo per 8, per sei giorni alla settimana. Le condizioni di lavoro sono prive di sicurezza e vi tocca dormire nello stesso capannone in cui lavorate, senza riscaldamento, su materassi buttati per terra. È quanto accaduto a un gruppo di operai pakistani reclutati a Prato da una ditta, la Sofalegname, che produce mobili imbottiti a Forlì. «Avevano detto che col tempo ci avrebbero trovato una casa – racconta uno di loro – ma il tempo passava e noi restavamo sempre lì, nel magazzino». Dopo otto mesi, con l’arrivo dell’inverno, la situazione è diventata insostenibile. Così i 17 operai della ditta hanno occupato gli uffici riscaldati dello stabilimento, dove ora dormono, e hanno allestito un presidio davanti alla Gruppo 8, l’azienda madre che subappalta il lavoro alla Sofalegname. La sede della Gruppo 8 si trova a poche centinaia di metri di distanza.

Da sabato 7 dicembre, ogni mattina, gli operai accendono un fuoco per scaldarsi e si siedono davanti ai cancelli, bloccando di fatto la produzione di entrambi gli stabilimenti. Sopra di loro sventolano alcune bandiere con scritto «8 X 5». «Significa 8 ore per 5 giorni di lavoro – spiega Sarah Caudiero, sindacalista di Sudd Cobas – è questa la loro richiesta, oltre naturalmente a ottenere una sistemazione dignitosa». Richieste che rappresenterebbero il minimo sindacale in una situazione normale. «Stiamo parlando della semplice applicazione del contratto collettivo nazionale – continua Caudiero – invece ci troviamo davanti a una realtà pianificata per abbattere i costi, a scapito della dignità dei lavoratori».

Una forma di sfruttamento alla luce del sole, ben nota ai sindacalisti di Sudd Cobas che operano a Prato. In quella città gli alloggi di fortuna ricavati direttamente nelle fabbriche per gli operai cinesi sono stati una prassi fino al 2013, quando un incendio nell’azienda tessile Teresa Moda causò la morte di otto persone, sorprese nel sonno dalle fiamme. Per quella tragedia le due titolari dell’azienda sono state condannate, ma nel frattempo sono tornate in Cina. Anche la Gruppo 8 di Forlì ha legami con la Cina: fa capo alla multinazionale della moda HTL, con sede a Singapore. «A Prato, nel corso degli anni, i controlli sono aumentati e le condizioni di lavoro sono migliorate, anche se persistono turni massacranti e sottopagati – continua Caudiero – mentre a Forlì regna la confusione».

Forlì si trova infatti in una delle zone dove, negli ultimi anni, il settore del mobile è cresciuto significativamente. Secondo un rapporto di Intesa Sanpaolo, nel 2023 le esportazioni sono aumentate del 63,3% rispetto al 2019. La Romagna rappresenta infatti un “Distretto del’imbottito” composto da oltre 300 aziende, molte delle quali piccole o piccolissime, le quali operano in un contesto fertile – anche grazie, secondo la CGIL, alla mancanza di controlli. «Queste persone vengono qui per lavorare, ma si trovano in condizioni disumane – spiega Antonella Arfelli di Fillea CGIL – Giovedì scorso abbiamo partecipato a un tavolo con la Prefettura, chiedendo maggiore attenzione da parte delle forze dell’ordine, affinché casi come questo emergano più spesso».

E l’azienda? Gruppo 8, attraverso il suo legale Massimiliano Pompignoli, consigliere comunale di Fratelli d’Italia, respinge le accuse, dichiarandosi estranea alla vicenda, scaricando la colpa sulla Sofalegname e minacciando di prendere provvedimenti. Durante l’incontro con i sindacati, avvenuto giovedì mattina, si è persino ipotizzata la cassa integrazione per tutti gli operai, a causa del blocco dello stabilimento e delle consegne che non vengono portate a termine. Una sorta di scaricabarile tra Gruppo 8 e Sofalegname, mentre i lavoratori restano nel mezzo. «Si sta interrompendo l’attività dell’azienda senza alcun fondamento, creando enormi disagi sia dal punto di vista lavorativo che economico», ha dichiarato Pompignoli.

Una parola, «disagi», che sembra un insulto alla realtà, di fronte alle condizioni di vita di 17 persone costrette, da otto mesi, a dormire in un magazzino.

[di Fulvio Zappatore]