lunedì 7 Aprile 2025
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In Francia un gruppo di militari minaccia la “guerra civile”

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Domenica 9 maggio 2021, la rivista conservatrice Valeurs Actuelles ha pubblicato una lettera redatta da un gruppo di militari in servizio. Questi si dichiarano offesi dalle scelte governative della Francia, che giudicano ipocritamente islamiste, e annunciano un’insurrezione civile. La lettera (qui il testo integrale in francese) è indirizzata al presidente della repubblica, ai ministri, ai parlamentari e agli ufficiali. Il mittente, l’autoproclamata “generazione del fuoco” (génération du feu).

La generazione del fuoco è un gruppo di militari in servizio, uomini e donne, di varie tipologie e gradi. Si definiscono come «soldati che meritano di essere rispettati», cui è stato però «calpestato l’onore». Sono servitori della Francia, che hanno «dato gli anni più belli della loro vita per difendere la nostra libertà, obbedire ai vostri ordini, per portare avanti le vostre guerre o applicare le vostre restrizioni di bilancio». Ciò che li accomuna tutti: l’amore per il proprio paese e il rancore verso chi vorrebbe, secondo loro, infangare l’immagine della Francia e demonizzarne la storia. Come scrivono nella lettera, l’odio per la Francia sarebbe ormai divenuto la norma.

E se la Francia è oggetto d’odio, sostiene la generazione del fuoco, è colpa del governo, che ne ha fatto un paese «fallito» nonostante le conquiste degli avi. Hanno mandato loro, militari patrioti, a combattere l’Islamismo in giro per il mondo, a vedere i propri compagni morire, e nel frattempo sul suolo francese fanno «concessioni» all’Islam. La generazione del fuoco sostiene di essersi battuta per gli interessi del paese, solo per poi ritrovarsi, in patria, nel degrado, nella criminalità, a vivere in quartieri in cui a valere è la legge del più forte.

Gli autori della lettera si schierano anche contro il comunitarismo, che a loro dire si è insediato nello spazio pubblico e nel dibattito pubblico. Si definiscono però apolitici. La loro lettera è carica di rancore, ma questi militari chiariscono che non si pianifica nessun “pronunciamento militare”. Si limitano ad osservare l’incombenza di una, ben giustificata, insurrezione civile, e la annunciano minacciosamente. Apparentemente un monito che molti osservatori leggono però come un invito alla sollevazione. 

Ad oggi, 250.000 persone hanno firmato la lettera. Si tratta del secondo tentativo. Già il 21 aprile del 2021 la stessa rivista aveva pubblicato una lettera redatta da una ventina di militari in pensione (qui il testo ingrale in francese). Questa prima lettera era stata duramente criticata e rifiutata dal governo come contraria ai principi della Repubblica e ai doveri dell’esercito. Al momento non si sa quale sarà la sorte della seconda.

[di Anita Ishaq]

Genova: i lavoratori del porto sfidano la repressione per fermare i carichi di armi

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Un nuovo carico di armi e carri armati in partenza verso una dittatura è stato individuato al porto di Genova: si tratta della nave cargo della compagnia Bahri, battente bandiera dell’Arabia Saudita. Nella stiva dell’imbarcazione i lavoratori aderenti al sindacato Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) hanno scoperto un carico di carri armati ed armi, ed è scattata la protesta, asserendo che gli armamenti siano destinati ad alimentare il sanguinoso conflitto in Yemen nel quale la monarchia saudita è coinvolta. Un’iniziativa, quella dei lavoratori, tanto più coraggiosa perché molto di loro si trovano ancora sotto indagine della magistratura per casi analoghi avvenuti in passato.

Il 24 febbraio scorso, infatti, cinque portuali – secondo quanto rivelato dagli stessi lavoratori – subirono una perquisizione in casa da parte della Digos e il sequestro di computer e materiale vario e contro di loro è stata aperta un’inchiesta per “associazione a delinquere” e “attentato ai mezzi di trasporto”, per avere lanciato alcuni razzi luminosi verso la fiancata di una delle navi della flotta Bahri. Un caso avvenuto due anni fa, sempre allo scopo di contrastare la partenza della medesima nave, che all’epoca trasportava un altro carico di armi.

Secondo quanto riporta il quotidiano genovese Il Secolo XIX l’amministratore delegato del terminale genovese, Andrea Bartalini, non ha voluto commentare il carico della nave. Il presidente dell’Autorità portuale Genova-Savona, Paolo Emilio Signorini, sostiene che l’Autorità non è competente della merce in transito, né di quella imbarcata in porto. Una posizione che non soddisfa i lavotori del Calp – che nella lotta sono affiancati da varie associazioni come Emergency a Medici senza Frontiere – che sottolineano come: «Il traffico di armi deve uscire dal porto di Genova. In passato ci siamo sempre opposti a questo tipo di traffico e continueremo a farlo. Non solo per una questione etica ma pure di sicurezza».

Ex Ilva: a Roma manifestazione dei cittadini di Taranto

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Questa mattina a Roma, in piazza San Silvestro, si è tenuta la manifestazione dei cittadini di Taranto: decine di croci bianche sono state posizionate in ricordo delle vittime dell’inquinamento, di cui è accusata l’ex Ilva di Taranto. Su molte di esse sono state apposte foto dei bambini che hanno perso la vita. Il sit-in è stato organizzato in vista dell’udienza di domani del Consiglio di Stato, chiamato a decidere se confermare o annullare la sentenza del Tar Lecce, che nei mesi scorsi aveva decretato la pericolosità dei fumi emanati dalle ciminiere dell’acciaieria.

Da oggi inizia una settimana di iniziative contro l’Eni in tutta Italia

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A partire da oggi si terrà il “#ManyAgainstENI“, una settimana di iniziative contro l’Eni in tutta Italia organizzata da Rise Up 4 Climate Justice, un movimento politico che lotta per la giustizia climatica ed agisce contro i colossi responsabili della crisi ambientale. Nella giornata di oggi, infatti, avrà luogo l’assemblea degli azionisti di Eni, in occasione della quale inizieranno le mobilitazioni: gli attivisti hanno organizzato cinque appuntamenti a Milano, Ravenna, Stagno (LI), Presenzano (CE) e Licata (AG), a cui sono stati invitati anche altri movimenti ambientalisti ed i comitati territoriali, per denunciare il ruolo dell’estrattivismo fossile nella crisi climatica e l’immobilità di Eni di fronte alle reali esigenze di transizione ecologica. Quest’ultima è accusata di attuare un ecologismo di facciata, il cosiddetto greenwashing, e di aver inquinato e distrutto comunità ed ecosistemi impunemente per decenni: Eni rientra infatti tra le aziende più inquinanti del pianeta per emissioni di gas serra.

Ma nonostante ciò, con il Recovery Plan alle porte (progetto economico avente ad oggetto riforme ed investimenti per far ripartire il Paese) Eni si sta garantendo una fetta importante di finanziamenti pubblici. Probabilmente ciò è legato alle relazioni esistenti tra il governo italiano e l’Eni: a tal proposito un accordo segreto siglato nel 2008 e recentemente rivelato da un’inchiesta di Re:Common, dimostra la forte intesa tra il Ministero degli Esteri Italiano ed il gigante energetico.

Ad ogni modo, però, ciò che preoccupa gli attivisti è che molte di queste risorse possano essere utilizzate dalla multinazionale del fossile per la sua campagna comunicativa, la quale ha come unico fine quello di ristrutturare la propria immagine pubblica. Per questo, Rise Up 4 Climate Justice pretende da Eni delle risposte concrete e chiede che siano attuati cambiamenti radicali, tra cui: fermare tutti i nuovi progetti di estrazione, trasporto e raffinazione di combustibili fossili in Italia e nel mondo, pianificare la chiusura e la transizione di quelli già esistenti, smettere di offrire «false alternative» come l’idrogeno blu (fatto con combustibili fossili) e «risarcire i paesi del Sud Globale con cui Eni e le altre multinazionali energetiche hanno contratto un enorme debito climatico».

L’iniziativa creata da Rise Up 4 Climate Justice si inserisce in un contesto globale di mobilitazioni simili. In tal senso, oltre alle cinque città italiane, molti altri movimenti che lottano per la giustizia climatica protesteranno contro le assemblee degli azionisti di diverse multinazionali energetiche. In tanti Paesi, tra cui Argentina, Colombia, Mozambico e Congo è stata lanciata la campagna denominata “#ShaleMustFall” contro il fracking, una tecnica che consente di estrarre dal sottosuolo idrocarburi (gas e petrolio) da formazioni non convenzionali, tra cui soprattutto le cosiddette rocce di scisto.

[di Raffaele De Luca]

Controlli dei Nas nelle Rsa: chiuse 6 strutture

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I controlli effettuati da parte dei carabinieri del Nas in 572 strutture sanitarie e socio-assistenziali per anziani in tutta Italia hanno determinato la chiusura di 6 di esse per abusivismo e gravi criticità. È stata anche rilevata la presenza di irregolarità in 141 strutture, e sono state contestate 197 violazioni penali ed amministrative, per un valore totale di 43 mila euro. Inoltre, sono state denunciate 36 persone, mentre altre 136 sono state segnalate alle autorità amministrative.

Da un anno viviamo quasi senza germi: è un bene o un male?

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Tra le conseguenze del Covid c’è stato anche un effetto meno evidente ad una prima analisi: ha colpito il nostro sistema immunitario e in particolare il nostro rapporto con germi e batteri. Come spiega l’immunologo e microbiologo Brett Finlay a The Atlantic, in un articolo ripreso da Internazionale, i nostri corpi sono delle megalopoli di batteri. Sulla nostra pelle e nei nostri organi albergano diversi trilioni di microbi, collettivamente chiamati il nostro “microbiota.” Questi microbi interagiscono con le nostre cellule immunitarie, insegnando loro a rispondere alle minacce proveninenti dall’esterno. L’isolamento improvviso a cui siamo stati sottoposti potrebbe aver interrotto questa importantissima catena di reazioni, impoverendo, a lungo termine, il nostro microbiota.

Ad avere un impatto sul nostro microbiota sono il cibo che consumiamo, i saponi con cui ci laviamo, le cose che tocchiamo e in generale tutto l’ambiente esterno con cui entriamo in contatto. È da più di un anno ormai che disinfettiamo tutto con gel a base d’alcol e che viviamo semi-rinchiusi nelle nostre abitazioni (almeno nei periodi di lockdown più duri). Soprattutto, abbiamo ridotto moltissimo l’intensità e la frequenza dei nostri rapporti sociali, smettendo di baciarci, stringerci la mano e limitandoci a innocui contatti di gomito. Molti scienziati si sono interrogati sugli effetti a lungo termine di questa condizione, in cui l’ambiente che ci circonda è reso così asettico (e per ottime ragioni) da mettere in pericolo la diversità del nostro microbiota.

In quanti si sono presi anche solo un raffreddore nell’ultimo anno? Insieme al Covid, stiamo evitando anche tutti gli altri patogeni esistenti. L’isolamento però non è l’unico fattore. Ci sono anche gli antibiotici a fare la loro parte nella riduzione di diversità del nostro microbiota. Proprio per questa ragione, alcuni scienziati hanno suggerito che, al contrario, meno malanni uguale meno antibiotici, e che questo potrebbe addirittura essere un bene per la nostra salute. Oltretutto, sembra che i cambiamenti negativi non siano del tutto irreversibili, almeno nel caso di bambini più grandi e adulti, con un microbiota già ben formato. Ci sono poi fattori che possono aiutare a contrastare gli effetti negativi: la dieta, per esempio, se ricca di fibre, può aiutare a mantenere la diversità del microbiota, come anche passare del tempo all’aria aperta o in compagnia di animali.

Non solo rispetto al Covid, quindi, ma anche rispetto a questi particolari effetti a lungo termine del Covid, sembra esserci una condizione di disuguaglianza. Già le persone più stressate, che lavorano di più, e povere, con meno possibilità di seguire una dieta sana, hanno un microbiota meno diversificato. Ovviamente sono le stesse persone che non sono uscite molto di casa durante la pandemia, o che non hanno una seconda casa a disposizione per cambiare aria e riposarsi un po’.

[di Anita Ishaq]

Egitto: trovate 250 tombe di 4200 anni fa

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In seguito ad una missione del Consiglio supremo delle antichità egiziane condotta nel governatorato di Sohag, sono state rinvenute 250 tombe rupestri risalenti a 4200 anni fa. Precisamente, sono state scoperte tombe “a pozzo” e tombe con “una rampa che termina con una camera funeraria”. Le tumulazioni appartengono, nello specifico, ad un periodo che va dalla fine dell’Antico Regno alla fine del periodo tolemaico. Inoltre, sono stati trovati anche molti vasi di ceramica, di alabastro e resti di ossa umane ed animali. A renderlo noto è stato il ministero delle Antichità egiziano tramite la sua pagina Facebook.

Covid, nuovo studio mette in dubbio mascherine e distanziamento in ambienti chiusi

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Un nuovo studio condotto da due professori del Massachusetts Institute of Technology ha dimostrato che la possibilità di contrarre il Covid-19 in ambienti chiusi in cui l’aria è «ben miscelata» non dipenda dalla distanza tra le persone. Si tratta di Martin Z. Bazant, professore di ingegneria chimica e matematica applicata, e John WM Bush, insegnante di matematica applicata, i quali hanno sviluppato un metodo per calcolare il rischio di esposizione all’interno, dal quale emerge che una distanza di 1,8 metri così come una di 18 metri non incida sulla possibilità di contrarre il virus, e tutto ciò a prescindere dall’utilizzo della mascherina. Anzi, gli studiosi sono arrivati alla conclusione che, specialmente quando le persone indossano il dispositivo di protezione, la distanza di 1,8 metri non produca vantaggi in quanto l’aria che l’individuo respira mentre indossa la mascherina tende a «salire e scendere in altre parti della stanza», esponendo le persone distanziate al contagio. Ciò non significa, però, che le mascherine siano sempre inutili: secondo gli studiosi esse servono in generale a prevenire la trasmissione poiché bloccano le goccioline più grandi, motivo per cui tali goccioline non costituiscono la causa della maggior parte delle infezioni da Covid quando le persone indossano i dispositivi di protezione.

In pratica, gli studiosi hanno semplicemente sottolineato come, quando si è al chiuso, oltre alla distanza e all’utilizzo della mascherina debbano essere considerati altri fattori, tra cui il tempo di permanenza, i sistemi di filtraggio e la circolazione dell’aria. Infatti, proprio in base alla valutazione di tali fattori i professori sono arrivati alla conclusione secondo cui il tempo trascorso nei luoghi chiusi giochi un ruolo fondamentale: più a lungo qualcuno resta in un luogo chiuso con una persona infetta, maggiore è la possibilità di trasmissione. Quest’ultima, poi, secondo quanto emerso dallo studio può essere scongiurata non tanto tramite la distanza di sicurezza, bensì tramite la ventilazione dei locali: aprire finestre o installare dei ventilatori per mantenere l’aria in movimento ridurrebbe infatti il rischio di contrarre il virus.

Dunque, sulla base di quanto rilevato dallo studio, i professori hanno criticato le politiche sul distanziamento sociale attuate dall’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dal Cdc (Centers for Disease Control and Prevention). «La distanza non aiuta più di tanto e dà anche un falso senso di sicurezza, perché se si è al chiuso e l’aria viene mantenuta in movimento si è al sicuro ad 1,8 metri così come lo si è a 18 metri. Quindi questa enfasi sulla distanza è stata davvero fuori luogo sin dall’inizio. Il Cdc o l’Oms non hanno mai realmente fornito una giustificazione, hanno solo detto che questo è ciò che devi fare e l’unica giustificazione di cui sono a conoscenza si basa su studi di tosse e starnuti, in cui si osservano le particelle più grandi che potrebbero sedimentare sul pavimento, ma anche in questo caso è tutto molto approssimativo, ci può certamente essere un raggio più lungo o più corto», ha dichiarato Bazant.

Altra diretta conseguenza della ricerca dei professori è che non vi sia la reale necessità di chiudere alcuni luoghi, cosa che tuttavia è stata fatta in questi mesi. Ad esempio, riferendosi alle aule universitarie, Bazant ha affermato che in alcune di esse lo spazio sia sufficientemente grande, la ventilazione abbastanza buona e la quantità di tempo che le persone trascorrono insieme sia tale da far sì che esse «possono essere gestite in sicurezza anche a capienza piena». Infine, «anche il supporto scientifico che giustifica la riduzione della capienza in spazi del genere non è molto valido», ha aggiunto il professore.

[di Raffaele De Luca]

Ue: nuova azione legale contro AstraZeneca

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Una seconda azione legale è stata avviata da parte della Commissione Ue nei confronti di AstraZeneca. Secondo quanto dichiarato da un portavoce dell’Unione europea, infatti, Bruxelles sostiene che la società non abbia rispettato gli obblighi previsti dal contratto. Nello specifico, si tratta del mancato rispetto della consegna delle dosi stabilite. «Chiediamo ad AstraZeneca la consegna entro giugno delle 90 milioni di dosi che sarebbero dovute arrivare alla fine del primo trimestre, visto che ne abbiamo ricevuto solo 30 su 120», ha aggiunto il portavoce.

Un ragazzo croato ha studiato il modo per salvare i mari dalla plastica 

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Tutto è iniziato nel 2013 quando, a soli diciotto anni, Boyan Slat ha lanciato la startup The Ocean CleanUp, basata sull’idea rivoluzionaria che lo ha reso famoso in tutto il mondo: edificare un raccoglitore di plastiche per ripulire il Pacifico. Il progetto è stato spiegato e illustrato in uno studio di oltre 500 pagine, pubblicato proprio da The Ocean CleanUp nel 2014. Con il suo team, Slat ha elaborato un sistema di ripulitura dell’acqua, consistente in un cordone galleggiante a forma di U, in grado di muoversi per mezzo delle correnti oceaniche e di filtrare anche le microplastiche millimetriche, senza danneggiare l’ecosistema marino.

Nel 2020, l’inventore ha annunciato che il progetto, dopo essere stato testato tra il 2016 e il 2018 nei mari del Nord, ha concluso la prima raccolta di spazzatura nell’oceano Pacifico, in particolare nei pressi della Great Pacific Garbage Patch, l’isola di plastica grande quanto il doppio della stato del Texas, che galleggia tra la California e le Hawaii. Non solo. Sempre l’anno scorso, Slat ha dichiarato l’intenzione di costruire una nuova versione del raccoglitore, più robusta e potente, in grado così di trattenere i rifiuti inquinanti anche fino ad un anno prima che una nave cargo li prelevi. Per finanziare tale evoluzione, il giovane ha annunciato alla stampa di voler riciclare la plastica raccolta, per trasformarla e immetterla nel mercato sotto forma di gadget e oggetti da regalo ecosostenibili.

Oggi, il giovane inventore e la sua The Ocean CleanUp – diventata ormai un’associazione non-profit al cui interno lavora un team di oltre ottanta persone, compresi due italiani, l’ingegnere Roberto Brambini e il biologo marino Francesco Ferrari – hanno annunciato un’altra importantissima ideazione, questa volta per ripulire i fiumi. Si tratta di Interceptor, una barca ad energia solare in grado di raccogliere e trattenere i rifiuti galleggianti all’interno di una grande gola. Ciascuna chiatta sarebbe in grado di inghiottire, quotidianamente, trenta tonnellate di plastica, preservando i fiumi e, di conseguenza, i nostri mari. Per Boyan Slat infatti, è questa la chiave di tutto, poiché i fiumi costituiscono il percorso principale attraverso cui le plastiche e le microplastiche raggiungono i mari e gli oceani. Stando infatti ad uno studio pubblicato su Science Advances, l’80% dei rifiuti di plastica (tra gli 0.8 e i 2.7 milioni di tonnellate annue) riversati negli oceani, deriva da più di 1000 fiumi.

Dallo scorso novembre, Interceptor naviga sulle rive di Klang, in Malesia, e ogni giorno raccoglie tonnellate di rifiuti. Nei prossimi mesi, nuove imbarcazioni verranno messe in azione nel Rio Ozama (Repubblica Dominicana) e uno nel Vietnam del Sud.

 

[di Eugenia Greco]