Migliaia di persone, a Firenze, sono scese in strada insieme al Collettivo di Fabbrica dei lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, in quella che è la seconda manifestazione nazionale lanciata con lo slogan “Insorgiamo”. Sigle, associazioni, forze politiche della sinistra e sindacati di base si sono infatti affiancate ai lavoratori, che chiedono la reindustrializzazione della fabbrica nonché un vero e proprio cambio di sistema. “Vogliamo sconfiggere tutte le delocalizzazioni, rimettere al centro la questione salariale, il carovita e le bollette, la riduzione d’orario a parità di salario, l’abolizione del precariato, rivendicare un polo pubblico per la mobilità sostenibile” – si legge in un comunicato del collettivo – nel quale si sottolinea altresì che la volontà sia quella “rimettere al centro” la condizione di tutti i lavoratori e le lavoratrici “incontrate in questi mesi”.
Recensioni indipendenti: Strange Fish (documentario)
Un documentario di 54 minuti (visibile sulla piattaforma streaming di RaiPlay) della regista Giulia Bertoluzzi premiato dalla Commissione Europea con il Migration Media Award e mansione speciale della giuria al Festival Internazionale del Documentario Visioni dal Mondo nel 2018. Strange Fish racconta di ciò che succede sull’altra sponda del Mar Mediterraneo. Siamo nel sud della Tunisia nella cittadina di Zarzis al confine con la Libia in quel tratto di costa che ogni giorno è scenario di conflitti e disperazione. Un documentario girato con estrema sensibilità e che senza alcuna retorica ci fa entrare intimamente e delicatamente in contatto con la comunità locale e da un punto di vista inedito, descrive la triste attività dei pescatori di Zarzis.
Tramite le loro voci commosse e i loro tristi sguardi, l’autrice ci fa scoprire il forte impegno civile e di incredibile umanità quasi di “pietas” con cui da anni e solo con i propri mezzi, soccorrono i migranti che da quelle coste partono per un incerto viaggio verso l’Europa, ma più spesso sono costretti a raccoglierne i corpi senza vita riportati a riva dalle correnti. Danno loro una degna sepoltura nel cimitero dei “senza nome”, fra le sabbie e le dune di quella piccola città della costiera tunisina. A riva anche barche abbandonate e semi distrutte, misere tracce di vita, oggetti di ogni tipo che un giorno erano appartenuti a qualcuno. “Eroi misconosciuti” come Chamseddine Baurassine, Salaheddine Mcherek, Chamseddine Marzoug e gli altri pescatori, gente semplice, gente di mare ma che ne conosce bene le imprescindibili leggi, sono diventati la vera resistenza contro la disumanità e l’indifferenza che in più di 20 anni ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero.
«Tra il 2002 e il 2011 non c’era nessuno a salvare gli emigranti, ne l’Unione Europea ne Medici Senza Frontiere ne le Organizzazioni Non Governative. Solo noi pescatori». «Quando c’era Ben Ali al potere (dal 1987 al 2011) la Guardia Nazionale ci diceva di non portarli a riva, di lasciarli in mare, ci siamo sempre rifiutati, a costo di essere arrestati». Così raccontano alla telecamera quanto è successo e quanto ancora succede mentre affrontano le grandi difficoltà di un lavoro sempre più precario che ha subito negli ultimi anni un calo del 70% a causa della decisione della Libia che ha stabilito come sua zona commerciale esclusiva 74 miglia marine dalla cosata e dove ogni sconfinamento è considerato un grave reato. Tutto ciò non ha fatto che aumentare le già ataviche condizioni di povertà, con la logica conseguenza di un forte aumento della disoccupazione per cui anche alcuni fra i più giovani sono stati costretti a emigrare clandestinamente così come i figli di uno dei protagonisti. Ciò nonostante questi pescatori che mai abbandoneranno la loro terra, continuano la loro compassionevole opera.
Questo contesto ai più sconosciuto ce lo rivela la giovane regista Giulia Bertoluzzi giornalista d’inchiesta con una passione ben fondata per il cinema di realtà, e sceglie un titolo per il suo documentario che rievoca, come essa stessa dice, una brano musicale di Billy Holiday del 1939, “Strange Fruit”, che denunciava negli Stati Uniti l’indifferenza delle gente nel vedere i corpi di persone di colore impiccate agli alberi e lasciati lì appesi proprio come “Strani Frutti”, La stessa indifferenza di tanti verso gli “Strani Pesci” nel nostro mare.
[di Federico Mels Colloredo]
Lo Sri Lanka sta affrontando la peggiore crisi economica della sua storia recente
Lo Sri Lanka sta affrontando la peggiore crisi economica dall’indipendenza dalla corona britannica, nel 1948. La pandemia da Covid ha infatti avuto un impatto devastante sul turismo, settore economico chiave per l’isola, e causato una diminuzione delle rimesse da parte dei lavoratori all’estero, che hanno comportato una grave mancanza di valuta estera. In questo modo la capacità di importazione di beni essenziali, tra i quali carburante, generi alimentari e medicine, è stata gravemente compromessa. Lo scoppio della guerra in Ucraina e la conseguente impennata nei prezzi del carburante ha contribuito a peggiorare la situazione. Il presidente singalese si è trovato per questo motivo costretto a chiedere l’intervento del Fondo Monetario Internazionale, per il quale i colloqui avranno inizio ad aprile.
Lo Sri Lanka è stato travolto da una crisi economica che non ha precedenti nella storia recente del Paese. La pandemia da Covid ha infatti impattato duramente sull’economia dell’isola, soffocando il settore del turismo e riducendo sensibilmente l’entità delle rimesse provenienti dai lavoratori singalesi all’estero. Le riserve in valuta estera sono crollate drasticamente, passando dai 7,5 miliardi di dollari del novembre 2019, quando l’attuale governo entrò in carica, ai 2,3 miliardi di febbraio, un crollo di circa il 70% in poco più di due anni. La mancanza di valuta estera ha comportato la svalutazione della moneta locale e colpito l’importazione di generi fondamentali quali il carburante, le medicine e il cibo. Lo scoppio della guerra in Ucraina, in seguito al quale è stato registrato un ingente aumento dei prezzi del carburante e un ulteriore crisi del settore turistico, ha contribuito a esasperare ulteriormente la situazione.
I’m in Sri Lanka, which is currently seeking an IMF bailout from an escalating financial crisis. Rolling blackouts are in force, food costs are skyrocketing, queues for petrol stretch around the block and protests are gathering steam in the capital Colombo pic.twitter.com/Mf180JsJpD
— Sean Gleeson (@seanjgleeson) March 24, 2022
La crisi riguarda tutti i settori: alcuni quotidiani, tra i quali il The Lancet e il corrispettivo in singalese Divaina, hanno annunciato il proseguimento della propria attività solamente via web, dal momento che la mancanza di carta ne rende impossibile la stampa. Altri quotidiani, per ragioni analoghe, hanno dovuto ridurre il numero delle proprie pagine. In tutto il Paese si registrano da settimane interminabili code alle pompe di distribuzione del carburante. Diverse persone hanno accusato malori durante l’attesa e almeno quattro sono morte questa settimana, secondo quanto riporta Al Jazeera. Il governo ha disposto la presenza di almeno due membri dell’esercito per ogni stazione di servizio, non per controllare la folla ma per aiutare con la distribuzione del carburante. Nella giornata di venerdì il ministro dell’Energia Gamini Lokuge ha dichiarato che tutte le stazioni di servizio hanno avuto l’ordine di riservare il carburante per i mezzi di emergenza, come quelli adibiti ai servizi medici e al trasporto di carburante.
Domenica 20 marzo l’unica raffineria di carburante del Paese ha dovuto sospendere le proprie attività a causa dell’esaurimento delle scorte di greggio. Numerose famiglie a basso reddito, in seguito all’aumento dei prezzi del gas determinati dalla guerra in Ucraina, hanno cominciato a utilizzare il cherosene. Per tre milioni di studenti verranno rimandati gli esami di fine anno a causa della mancanza di carta e inchiostro. Per lo stesso motivo l’azienda elettrica dell’isola non stamperà le bollette mensili dei consumatori. La mancanza di dollari ha causato carenze energetiche che hanno toccato tutti i settori, portando l’inflazione al 17,5% nel mese di febbraio.
Il fine ultimo di quelli del WEF
Massicce proteste in Sri Lanka mentre il paese affronta la peggiore crisi economica dal 1948 con carenza di carburante, medicine, cibo ed elettricità oltre all’elevata inflazione. pic.twitter.com/p23qV79RWU
— El Gusty ⭐⭐⭐ 🧱 (@ElGusty99523701) March 26, 2022
Non intravedendo altra via d’uscita, il presidente attuale dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa, si è trovato costretto a chiedere l’intervento del Fondo Monetario Internazionale (FMI). I negoziati al riguardo dovrebbero essere avviati in aprile. In tutto il Paese, tuttavia, cresce lo scontento per l’operato del presidente e sono in molti a chiederne le dimissioni. Numerose sono state le proteste, con i manifestanti che hanno tentato anche di assaltare il palazzo presidenziale.
Il FMI, in un rapporto rilasciato a Washington venerdì 25 marzo, avrebbe sottolineato come “il consolidamento fiscale necessario per portare il debito a livelli di sicurezza richiederebbe un aggiustamento eccessivo nei prossimi anni, indicando un chiaro problema di solvibilità”. Secondo i calcoli effettuati da Bloomberg, sulla base dei dati forniti dalla banca centrale, ammonterebbe a circa 4 miliardi il debito in valuta dello Sri Lanka estera per il 2022. L’intervento del FMI, tuttavia, non è da tutti visto di buon occhio. Il governatore della banca centrale Ajith Nivard Cabraal avrebbe infatti dichiarato che il Paese dovrà prepararsi a “gestire gli aspetti negativi” che porterà con sé l’inserimento in un programma del FMI.
[di Valeria Casolaro]
Crisi Ucraina: Biden incontra due ministri di Kiev a Varsavia
Nella giornata di oggi, a Varsavia, il presidente Usa Joe Biden ed i ministri degli esteri e della difesa statunitensi Antony Blinken e Lloyd Austin hanno incontrato, per la prima volta dallo scoppio della guerra, i ministri degli esteri e della difesa ucraini, Dmytro Kuleba e Oleksii Reznikov. Secondo quanto comunicato dalla Casa Bianca, durante il colloquio le parti avrebbero discusso degli “ulteriori sforzi per aiutare l’Ucraina a difendere il suo territorio” e delle “azioni in corso da parte degli Stati Uniti, in coordinamento con alleati e partner, atti a rendere il presidente russo Vladimir Putin responsabile della brutale aggressione della Russia”.
30 anni di riforme hanno progressivamente posto la scuola italiana al servizio del mercato
Negli ultimi trent’anni si è assistito ad una serie di riforme che hanno radicalmente trasformato l’istruzione pubblica, orientandola sempre di più ad assecondare le esigenze e le richieste del mondo del lavoro, piuttosto che a promuovere l’amore per il sapere. Questa progressiva trasformazione del sistema educativo risponde a logiche ben precise che riguardano la volontà non tanto di formare culturalmente le generazioni future, quanto piuttosto di plasmarle secondo le esigenze del “mercato” e i desideri delle “classi dominanti”, all’interno di un contesto storico e culturale permeato interamente dalla forma mentis produttivo-capitalistica. Proprio per questo, le istituzioni scolastiche e universitarie si sono orientate sempre di più verso la trasmissione di una “conoscenza pratica” – che prepari su misura le future “classi lavoratrici” – piuttosto che verso un sapere “fine a se stesso” che possa forgiare umanamente e culturalmente i giovani, trasmettendo loro gli strumenti necessari per sviluppare il “senso critico”, ossia una capacità di analisi oggettiva e indipendente. Le diverse riforme del sistema scolastico che si sono susseguite nel tempo hanno portato, dunque, ad almeno due conseguenze degne di attenzione, una di tipo economico e l’altra di tipo ideologico-culturale: la prima riguarda il peso crescente dei fondi privati nelle amministrazioni universitarie, la seconda la preminenza degli insegnamenti tecnici e professionali su quelli “teorici”, in virtù della predilezione della dimensione pratica e produttiva su quella teoretica. Così, l’obiettivo della scuola non è più formare la “persona”, ma modellare su misura i futuri lavoratori dell’industria 4.0, coerentemente con le trasformazioni capitalistiche orientate alla Quarta rivoluzione industriale. Tutto ciò è l’esito di un processo che ha visto il susseguirsi di diverse tappe e che può essere fatto risalire almeno agli anni Novanta, quando la “Legge Ruberti” ha spianato la strada all’infiltrazione dei privati nelle istituzioni universitarie.
Legge Ruberti (1990) e Riforma d’Onofrio (1995)
La Legge Ruberti del 1990 – promulgata dall’allora Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica del VI governo Andreotti, Antonio Ruberti – prevedeva una maggiore autonomia statuaria, amministrativa e finanziaria delle amministrazioni dei singoli atenei, in netta discontinuità con il forte indirizzo centralista che aveva caratterizzato fino ad allora il sistema universitario. Per questo motivo è stata chiamata anche Legge dell’Autonomia: se da un lato, questa legge ha permesso ai singoli atenei di scrivere i propri Statuti e i propri regolamenti interni, conferendo maggiore libertà di scelta sui corsi e i programmi di studio, dall’altro essa è stata usata come grimaldello per ridimensionare i contributi che il governo trasferiva agli atenei tramite il cosiddetto Fondo di finanziamento ordinario, con il pretesto di responsabilizzarne l’autonomia finanziaria. Di conseguenza, essa ha comportato innanzitutto un aumento generalizzato delle tasse universitarie – con un aumento del carico sugli studenti che è passato dal 3% al 20% – e, in secondo luogo, ha condotto alla necessità di attrarre finanziamenti privati, spianando la strada all’aziendalizzazione degli atenei, con i privati che avranno sempre più voce in capitolo nella scelta e nella programmazione dei corsi di studio. Del resto, la Legge dell’Autonomia si colloca proprio nella stagione storica delle grandi privatizzazioni italiane, che ha visto l’avvio dello smantellamento dell’IRI e la svendita del patrimonio pubblico: l’istruzione non è stata di certo risparmiata da questo fenomeno, il quale ha del resto interessato tutti gli ambiti riguardanti lo Stato sociale. Infine, nel 1995, l’allora Ministro della pubblica istruzione del primo governo Berlusconi, Francesco d’Onofrio, ha sostituito gli esami di riparazione con il debito formativo.
Riforma Berlinguer (1997) e Legge Zecchino (1999)
La riforma che porta il nome dell’allora Ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer nel governo Prodi I era articolata in due parti: la legge quadro del 10 dicembre 1997 n° 425 che modificava la disciplina dell’esame di maturità, rinominato Esame di Stato, e che prevedeva – e prevede tuttora – tre prove scritte e un colloquio interdisciplinare con la commissione, e la legge del 10 febbraio 2000 n° 30 sul riordino dei cicli dell’istruzione superiore. Quest’ultima rimase poi inapplicata, in quanto abrogata dalla Riforma Moratti del 2003. La successiva Legge Zecchino, dal nome del Ministro dell’Università sotto la presidenza d’Alema, riprendeva la riforma del suo predecessore Berlinguer e si basava su tre pilastri: l’autonomia scolastica, le competenze di base e il numero programmato nelle facoltà. Cominciava a consolidarsi il principio per cui la scuola e l’università devono preparare al lavoro pratico piuttosto che fornire una robusta formazione intellettuale e, infatti, le “competenze di base” a cui fa riferimento la legge riguardano il sapere o il non saper fare, senza peraltro chiarire cosa, come e in quanto tempo si debba saper fare. Questa impostazione della conoscenza intesa in termini puramente pratici sarà portata alle estreme conseguenze pochi anni dopo con l’introduzione dell’alternanza scuola – lavoro, attraverso cui si rende manifesta la volontà di allineare la formazione scolastica alle dinamiche del “mercato del lavoro”, trasformandola in un tassello essenziale del sistema produttivo.

La riforma Moratti del 2003
Con la riforma Moratti, introdotta dalla Legge n. 53 del 2003, iniziavano a concretizzarsi compiutamente gli obiettivi della “nuova scuola” modellata sulle esigenze del “mercato” e strettamente connessa alle rapidissime trasformazioni del mondo del lavoro che si sono susseguite a partire dagli anni 2000 in avanti. È impossibile, infatti, comprendere appieno le trasformazioni dell’istruzione se non le si collega con le metamorfosi della sfera lavorativa, avvenute all’insegna delle dottrine liberiste di matrice anglosassone. Non a caso, la riforma dell’istruzione effettuata sotto il mandato del Governo Berlusconi II si collocava all’interno di un contesto preciso che vedeva l’affermazione della flessibilità come caratteristica preminente del nuovo paradigma lavorativo del mondo globalizzato. All’interno di questa cornice, la riforma Moratti introduceva per la prima volta la cosiddetta alternanza scuola – lavoro: se da un lato questa era giustificata con la volontà di agevolare l’inserimento degli studenti nella realtà lavorativa, dall’altro di fatto serviva a predisporre fin da giovanissimi i futuri lavoratori ad adeguarsi alle condizioni di lavoro imposte dal graduale smantellamento dei diritti conquistati faticosamente nel secolo scorso.
Nella stessa ottica di una formazione prevalentemente pratica orientata al “fare”, venivano incrementate le ore delle materie ritenute indispensabili per accedere all’ambito professionale, designate con l’espressione “tre i”: inglese, informatica e impresa. Parallelamente venivano anche introdotte le prove INVALSI – ossia prove standardizzate per rilevare il livello di apprendimento – che contribuiscono a conferire allo studio e ai test un carattere omologato oltreché puramente meccanico e nozionistico.
La riforma Gelmini del 2010
Se la riforma Moratti ha accelerato quel processo per cui il “sapere” viene piegato ai canoni della produttività, finalizzandolo prevalentemente all’attività lavorativa, con la riforma Gelmini si completa, invece, il processo di privatizzazione o aziendalizzazione dell’università cominciato negli anni Novanta con la “Riforma Ruberti” e si procede ad un drastico taglio delle risorse al Fondo di Finanziamento Ordinario, unica entrata statale per gli atenei. L’art. 16 della L. 133 del 2008 prevedeva, infatti, la possibilità di trasformare le università in fondazioni di diritto privato, fermo restando il loro carattere di enti non commerciali, dotati di autonomia gestionale, organizzativa e contabile. Secondo una stima effettuata dalla CIGL, tra il 2008 e il 2013, il taglio complessivo al Fondo di finanziamento ordinario è stato pari al 12,95%, corrispondente a 960 milioni di euro. In generale, la riforma ha comportato un drastico taglio ai finanziamenti di tutto il comparto dell’istruzione pubblica e lo stesso Napolitano avrebbe giustificato il provvedimento con la necessità di ridurre a zero il deficit pubblico italiano, salvo poi sostenere nel 2010 che era necessario “rivedere alcuni tagli che sono risultati ingiustificati”. Proprio a causa del definanziamento a un settore importante come quello dell’istruzione, la riforma Gelmini è stata oggetto di numerose critiche sfociate in proteste e scioperi da parte del mondo scolastico e accademico. Infine, in continuità con la riforma Moratti, la riforma del 2008 introduceva l’alternanza scuola – lavoro nei piani di studio.
La “Buona Scuola” del governo Renzi del 2015
La riforma scolastica del governo Renzi ha ripreso diversi elementi delle riforme precedenti, a riprova del fatto che la “ristrutturazione” dell’istruzione ha seguito negli anni un filo conduttore preciso che fa della scuola il luogo preposto ad assecondare i cambiamenti imposti dall’alto, plasmando le future generazioni secondo criteri funzionali agli interessi delle multinazionali e del libero mercato. Tra i nuclei della riforma detta “Buona Scuola” vi è quello dell’autonomia scolastica – in continuità con la legge Ruberti – e il consolidamento dell’alternanza scuola – lavoro, in continuità con le riforme Moratti e Gelmini.
A parlare di autonomia sono i primi due articoli della Legge n. 107 del 2015, all’interno dei quali si individua la figura che deve ergersi a garante di questa riorganizzazione autonoma delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali della scuola: il Dirigente scolastico. Inoltre, viene lasciata la possibilità agli studenti di personalizzare il piano di studio e viene incrementata l’assunzione degli insegnanti. Le critiche mosse da più parti rispetto all’introduzione dell’autonomia riguardano la necessità da parte degli istituti di “accaparrarsi” i fondi privati, innescando tra loro una competizione che porta alla creazione di scuole di serie A e di serie B e in cui gli studenti sono ridotti a clienti da attirare anche attraverso operazioni di marketing, secondo i più tradizionali criteri aziendali.
Tuttavia, ciò che ha caratterizzato maggiormente la Buona Scuola è stata l’introduzione obbligatoria per tutti gli indirizzi di studio dell’alternanza scuola lavoro: anche in questo caso bisogna considerare il contesto storico in cui essa è stata effettuata. Sono gli anni del Jobs Act, la legge che prevedeva la possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare un dipendente senza giusta causa: è la riforma simbolo della “liberalizzazione” del mondo del lavoro che imprime sempre più a quest’ultimo i caratteri di precarietà e flessibilità. Anche la scuola, dunque, si trasforma in un serbatoio da cui poter attingere manodopera totalmente gratuita da adattare fin da subito agli standard dell’instabilità economica e sociale.
Come si evince da questa serie di riforme, le istituzioni accademiche da luoghi inizialmente preposti alla trasmissione di un sapere teoretico, si sono trasformate nelle fucine in cui plasmare l’uomo nuovo della dimensione 4.0 della realtà ipertecnologica e standardizzata. Il fine dell’insegnamento non è più la persona in quanto tale, ma il suo utilizzo come ingranaggio della macchina industriale e lavorativa. Dunque, solo un cambio di mentalità che prenda le distanze dal modello dell’homo oeconomicus e dalla tirannia del “mercato” può riuscire a cambiare lo stato delle cose, formando non “servi” da dare in pasto al famigerato “mondo del lavoro”, ma cittadini il più possibile liberi e consapevoli.
[di Giorgia Audiello]
Buon lavoro, professor Marchetta
Diranno che sono invidioso, che anche a me piacerebbe andare, anzi finire, in televisione, pontificare banalità con l’aria da filosofo postmoderno o da intellettuale contro tutto, reattivo al minimo cenno utilitaristico, pronto al sentore di un cambiamento.
Eccolo lo psichiatra in argomento bellico, il sociologo da fine del mondo, il cattolico strumentalmente prudente, l’estremista incazzato a comando, il post-pre capitalista, catto-masso-comunista, il liberale avaro sino alla morte.
Eccolo l’opinionista da sabato sera, quello che ti fa piangere o deprimere per quello che dice, eccolo il moralista da mainstream, parroco agnostico ma pur sempre parroco, tanto pieno di livido buon senso.
Eccolo quello che queste cose le aveva già dette vent’anni prima, eccolo il risentito, l’antipatico a pagamento, che insulta quando ha sbagliato le dosi, eccolo l’anarchico con le tasche piene, il nevrotico narcisista, il professore ruffiano di qualsiasi occasione, il democratico che prende la stecca a vendere armi.
Tutti pronti a parlare di qualsiasi cosa: l’esperto cinefilo, cattedratico in banalità, lo psicologo sì-no-forse vax, eccola la soubrette giornalista che insulta chi con lei non c’è stato, eccolo l’onorevole multipartito, sdegnato e inconcludente, eccola la influencer che non parla mai ma convince.
Non bisogna prendersela con tutti, mi aveva consigliato una superstar dei media, schierato in ogni caso dalla stessa parte.
Io, che ho commesso tanti errori, anche per eccesso di fiducia, sono stato pagato per insegnare e per scrivere ma non ho mai preso soldi per dire o non dire quello che penso.
Buon lavoro, professor Marchetta.
[di Gian Paolo Caprettini]
Usa, la polizia del Minnesota scheda i giornalisti
Nella primavera del 2020, lo Stato del Minnesota si è trovato sotto i riflettori di tutto il mondo a causa della tragica morte di George Floyd, ennesimo afroamericano deceduto tra le mani degli agenti di polizia. All’omicidio seguirono i moti di protesta del movimento Black Lives Matter, ma anche la creazione Operation Safety Net (OSN), un programma governativo pensato per condividere documenti e semplificare le indagini sui disordini che hanno accompagnato le manifestazioni. Due anni dopo, le marce di massa si sono significativamente ridimensionate, ma l’OSN è più attivo che mai e in Minnesota si schedano persino i giornalisti.
Sia chiaro, non stiamo parlando di sospetti o di criminali, ma di soggetti che nell’ultimo anno sono stati presi da parte durante le manifestazioni per poi essere immortalati dagli smartphone delle Forze dell’ordine. Nessuna accusa, nessun arresto, solamente un approccio forzato e informale utile a strutturare un non meglio specificato “sistema”. Questo sistema, ha scoperto un’indagine del MIT Technology Review, altri non è che una delle molte app che le polizie a stelle e strisce acquistano da imprenditori privati, app che in questo caso adotta la dimensione della sorveglianza e dell’intimidazione.
Nello specifico si parla di Intrepid Response, un prodotto della Intrepid Networks che consiste in un database personalizzabile attraverso cui gruppi di persone possono ottimizzare la “situational awareness” durante le operazioni di emergenza. Come capita regolarmente in queste occasioni, il reparto marketing dell’azienda rimarca come il software sia pensato per «salvare delle vite», tuttavia lo strumento viene effettivamente usato per avere una maggior consapevolezza di chi stia partecipando a eventi di protesta, cosa che va di fatto ad annullare l’elemento di anonimato garantito dalla folla.
Una volta registrati i dati, l’app tiene a mente la foto, l’anagrafica del soggetto immortalato e la geolocalizzazione del luogo in cui è stato compiuto lo scatto. Di per sé, il programma non è dotato di algoritmi di riconoscimento facciale, ma, bisogna ricordare, il Minnesota Fusion Center può facilmente rimediare a questa mancanza facendo affidamento allo Homeland Security Information Network, la quale contiene a sua volta meccanismi di registrazione biometrica forniti da entità terze quali Clearview AI, Vigilant Solutions, Acuant FaceID o altri ancora.
Le autorità del Minnesota hanno dichiarato che i file di Intrepid Response non siano usciti al di fuori dei confini statali e che non siano nemmeno stati processati attraverso algoritmi di riconoscimento facciale, tuttavia le foto non sono ancora state cancellate, se non altro perché queste rappresentavano una prova essenziale per una causa che si è recentemente conclusa con un patteggiamento.
Ora, a rigore di logica, la polizia dovrebbe ripulire i propri server dalle informazioni raccolte in maniera coercitiva, tuttavia è facile credere che gli agenti si terranno ben saldi i dati raccolti, magari giustificando la propria inefficienza con il fatto che il processo di analisi e rimozione delle schede richieda molto tempo. Certo, a questo punto potrebbe intervenire Intrepid Networks stracciando il contratto siglato con le autorità, tuttavia questo scenario pare assai poco probabile, visto che il CEO Britt Kane, informato di questo abuso, ha semplicemente detto di «non voler dar voce a preoccupazioni o a mancanza di queste», tacitamente adottando una posizione di neutralità che lascia a intendere una certa malizia.
[di Walter Ferri]
USA, cancellati colloqui con talebani per chiusura scuole femminili
Gli Stati Uniti hanno annullato i colloqui con i Talebani che avrebbero dovuto tenersi a Doha, in Qatar, e trattare questioni economiche chiave tra le quali l’indipendenza della banca centrale afghana e la stampa di banconote afghane, dopo che l’Afghanistan ha deciso di negare il ritorno alla scuola secondaria delle ragazze. La decisione è volta a mostrare come le mosse dei Talebani riguardo i diritti umani potrebbero danneggiare la legittimità del gruppo e influenzare in maniera diretta le azioni della comunità internazionale a suo sostegno.
Dopo 17 mesi l’Etiopia vede la pace: i combattenti del Tigrè accettano la tregua
Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè ha accettato l’appello del governo etiope per una “cessazione delle ostilità” che permetta alle organizzazioni umanitarie di portare gli aiuti alla popolazione. La decisione segue l’annuncio, da parte del governo, di una “tregua umanitaria indefinita”. Dopo 17 mesi di guerra che ha visto opposti il governo centrale e i combattenti del Fronte Popolare e ha portato a una gravissima crisi umanitaria per oltre nove milioni di persone, il conflitto sembra ora giunto a un importante punto di svolta. La speranza è infatti, come afferma lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, che l’attuale tregua si traduca in una permanente cessazione degli scontri.
Nella mattinata di venerdì 25 marzo i membri del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF) hanno inviato una comunicazione ad AFP nella quale si dichiaravano “impegnati in una cessazione delle ostilità con effetto immediato”. Solamente un giorno prima il generale Abiy aveva annunciato una “tregua umanitaria a tempo indeterminato”, motivata dal fatto che migliaia di individui avevano cominciato a riversarsi dal Tigrè nelle regioni circostanti per cercare di fuggire dal conflitto. Nell’annunciare la tregua, il presidente Abiy si era detto speranzoso che la mossa potesse aprire “la strada alla risoluzione del conflitto“, invitando a tal fine il TPLF a “desistere da ogni atto di ulteriore aggressione” e a “ritirarsi nelle aree che hanno occupato nelle regioni vicine”. Dal canto loro, i membri del TPLF hanno esortato le autorità etiopi a concretizzare le proprie promesse e ad accelerare la consegna nel Tigrè degli aiuti umanitari, resa impossibile negli ultimi mesi a causa dell’intensità degli scontri in corso.
Il conflitto nel Tigrè è in corso da ormai quasi 17 mesi e vede coinvolte le forze governative leali al primo ministro Abiy e il TPLF, gruppo che rappresenta la comunità tigrina presente in Etiopia. Nel novembre 2020, a poca distanza dalle elezioni governative non autorizzate tenutesi nella regione che avevano visto la vittoria schiacciante del TPLF, il primo ministro Abiy Ahmed Ali (già premio Nobel per la Pace nel 2019) aveva guidato l’esercito in un attacco contro la regione nel tentativo di sottomettere i ribelli. All’attacco da parte delle truppe governative sono seguiti quelli messi in atto dal TPLF, che ha esteso gli scontri anche alle vicine province di Amhara e Afar. In poco più di un anno, il conflitto ha causato migliaia di morti, 2,5 milioni di rifugiati e portato quasi un milione di persone alla carestia.
Nel gennaio di quest’anno il World Food Programme (WFP) dell’ONU aveva dovuto fermare le operazioni a causa dell’intensificarsi dei combattimenti nella regione, che avevano bloccato il passaggio di carburante e cibo. Questo aveva comportato l’esaurimento di alcune scorte di generi alimentari. In quell’occasione, Michael Dunford, Direttore Regionale del WFP per l’Africa orientale, aveva dichiarato la necessità di “garanzie immediate da tutte le parti coinvolte nel conflitto per corridoi umani sicuri, attraverso tutte le strade del nord dell’Etiopia”, poiché la mancanza di cibo e carburante aveva permesso di raggiungere “solo il 20%” della popolazione bisognosa, portando la situazione “a un passo dal disastro umanitario”. La stima, secondo l’ONU, è che circa 9,4 milioni di persone abbiano bisogno di assistenza umanitaria, con un aumento di 2,7 milioni di persone in appena 4 mesi. A contribuire alla crisi vi è la mancanza senza precedenti di finanziamenti al WFP.
Secondo quanto riferito dal suo portavoce, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres “spera che questa tregua si traduca in effettiva cessazione delle ostilità, rispettata da tutte le parti in questo conflitto”. Sarà chiaro nelle prossime settimane quali saranno gli sviluppi.
[di Valeria Casolaro]
Australia, la Grande Barriera Corallina torna a sbiancarsi
La Grande Barriera Corallina sta vivendo il suo sesto sbiancamento di massa, il quarto in appena sei anni. L’evento, riscontrato in seguito a indagini aeree, ha colpito tutte le parti della Barriera ed è dovuto alle elevate temperature della superficie del mare registrate in questo periodo. Il susseguirsi di eventi di questo tipo a così breve distanza, spiegano gli esperti a Mongabay, non concede alla barriera il tempo necessario al recupero. Il cambiamento climatico rappresenta la più grande minaccia per la sopravvivenza della Grande Barriera Corallina e degli ecosistemi simili in tutto il mondo.









