Il governo tedesco ha deciso di espellere 40 diplomatici russi, dichiarandoli “persone non grate”. Lo ha annunciato nelle scorse ore Annalena Baerbock, ministra degli Esteri del Paese, che ha poi dichiarato: «Si tratta di persone che hanno lavorato qui in Germania ogni giorno contro la nostra libertà e contro la coesione della nostra società. Non possiamo più tollerare questa situazione». La decisione è stata poi comunicata all’ambasciatore russo Sergei Nethayev nella serata di lunedì.
Lunedì 4 aprile
8.00 – Le elezioni in Ungheria e Serbia vedono il trionfo dei candidati sovranisti e neutrali verso il conflitto ucraino: confermati i premier Orban e Vucic.
9.00 – Dopo giorni di incessanti proteste il governo dello Sri Lanka si è dimesso.
9.30 – La città cinese di Shanghai per far fronte ai contagi Covid ha deciso di separare i bambini positivi dai genitori, chiudendoli in luoghi di quarantena.
12.00 – Il Regno Unito sperimenterà la settimana lavorativa di 4 giorni al 100% di stipendio. Per i fautori della misura la produttività rimarrà uguale.
13.00 – Afghanistan: i talebani mettono al bando la coltivazione di cocaina.
14.10 – Rapporto Allied Market Research: il mercato globale di missili e testate nucleari crescera del 73%.
16.00 – Gli Usa chiedono ufficialmente all’ONU di sospendere la Russia dal Consiglio per i diritti umani.
16.40 – Rivolta carceraria in Ecuador: l’esercito uccide venti detenuti.
17.00 – Biden afferma che Putin deve essere processato e che continuerà la fornitura di armi all’Ucraina.
17.55 – Elon Musk acquista il 9,2% di Twitter diventandone principale azionista, boom del titolo in borsa.
Le elezioni in Serbia e Ungheria premiano i partiti sovranisti e neutrali
Domenica 3 aprile sia in Serbia che in Ungheria si sono svolte le elezioni parlamentari: si tratta delle prime elezioni in Europa dall’inizio del conflitto in Ucraina che hanno visto vincitori i leader dei cosiddetti partiti “sovranisti”. Sono stati riconfermati, infatti, con maggioranza schiacciante, Victor Orban in Ungheria – al suo quarto mandato – e il presidente uscente Aleksander Vucic in Serbia, che domina la politica del Paese dal 2012. Ciò che contraddistingue i due Paesi è l’indipendenza sul piano politico e geopolitico dalle posizioni istituzionali assunte da Bruxelles. Proprio tale indipendenza ha permesso ai due stati di distinguersi dall’atteggiamento che i Paesi UE hanno assunto nei confronti della Russia, assumendo una posizione neutrale e continuando a mantenere normali rapporti commerciali e diplomatici col Cremlino.
Si tratta degli unici due Stati europei, infatti, che non hanno imposto sanzioni a Mosca e che hanno rifiutato di inviare armi a Kiev, schierandosi per una risoluzione pacifica e diplomatica del conflitto. Proprio per questo, sono spesso designati come Paesi “sovranisti”, termine che ha assunto un connotato spregiativo all’interno del contesto euro-atlantico, finendo per indicare qualunque governo che si discosti dalle decisioni UE e Nato, contrassegnandolo automaticamente come illiberale e autoritario.
La vittoria di Orban in Ungheria
I risultati delle elezioni ungheresi vedono Orban vincitore con il 53% dei voti: la sua coalizione, composta dal partito di governo Fidesz e dai cristiano-democratici di Kdnp ha ottenuto 134 seggi su un totale di 199, superando tutti e sei i partiti di opposizione – unificati in una lista dall’ultracattolico europeista Peter Marki-Zay – che si sono attestati al 35% delle preferenze. Grande l’esultanza del leader ungherese che, a scrutini conclusi, ha affermato: «è una vittoria così grande che si vede dalla Luna e di certo si vede anche da Bruxelles». Da sempre, il leader ungherese è contrario alle politiche “globaliste” e sovranazionali dell’Unione Europea e la vittoria elettorale gli ha fornito l’occasione per ribadire la sua contrarietà al sistema decisionale comunitario che spesso scavalca la volontà dei parlamenti nazionali.
Ma a far prevalere Orban nella competizione elettorale non sono stati solo i “tradizionali” temi che vedono l’Ungheria contrapposta alla UE, quali la questione dei migranti, ma anche la questione ucraina. I sondaggi pre-elettorali avevano infatto confermato come la maggior parte degli ungheresi approvi la posizione di neutralità assunta dal Presidente che gli ha comportato, peraltro, forti critiche dallo stesso leader ucraino Zelensky che si era rivolto a Orban come «unico in Europa a sostenere apertamente Putin». Tuttavia, gli ungheresi vedono nella guerra una minaccia all’economia e alla stabilità della nazione e ritengono che la soluzione non consista nell’invio di armi o nell’imposizione di sanzioni. Tutto ciò ha permesso al presidente ungherese di affermare a elezioni concluse: «abbiamo vinto anche a livello internazionale contro il globalismo. Contro Soros. Contro i media mainstream europei. E anche contro il presidente ucraino». La vittoria del partito conservatore ungherese ha senza dubbio irritato Bruxelles e gli ambienti “filoeuropeisti”, dai quali sono arrivate accuse di presunti brogli elettorali e di forte influenza della propaganda attuata dal governo. Tuttavia, al momento l’opposizione non ha chiesto di aprire indagini sulla correttezza del procedimento elettorale e non ha potuto far altro, dunque, che ammettere la sconfitta.
La vittoria di Vucic in Serbia
Contemporaneamente a quelle ungheresi, anche in Serbia si sono svolte le elezioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica e per rinnovare la camera unica del Parlamento: il Presidente uscente Alexander Vucic è stato riconfermato con più del 60% delle preferenze, mentre il suo partito – il Partito Progressista Serbo – ha ottenuto il 43,45% dei voti, conquistando 122 seggi in Parlamento su un totale di 250. Vucic – che ha ottenuto il secondo mandato presidenziale – si è auto-rappresentato come unico leader in grado di garantire stabilità e pace non solo alla Serbia, ma all’intera regione e ha puntato molto sui risultati economici raggiunti dalla sua amministrazione. Esattamente come Orban, non si è allineato alle sanzioni contro la Russia decise dall’Unione europea, sebbene abbia condannato l’invasione dell’Ucraina: ciò ha sicuramente infastidito Bruxelles che si aspettava un allineamento da parte di tutti quei paesi candidati ufficialmente a entrare nella UE come la Serbia. Tuttavia, il passato recente del Paese ha spinto Belgrado ad assumere un atteggiamento neutrale quando non simpatizzante nei confronti di Mosca: i bombardamenti della NATO avvenuti nel 1999 e decisi da Washington senza alcuna autorizzazione delle Nazioni Unite – quindi al di fuori del diritto internazionale – hanno provocato migliaia di morti e vittime civili in Serbia. Da qui il risentimento verso gli Stati Uniti che ha rinsaldato il tradizionale legame culturale tra Serbie e Russia, accumunate dal credo religioso cristinano ortodosso. Non a caso, la Serbia è stato l’unico Paese europeo in cui si sono svolte manifestazioni a favore della Russia, dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina.Il governo di Vucic è stato attento a mantenere una posizione equidistante sia dal Cremlino che dall’Unione europea, cercando innanzitutto di non ledere gli interessi nazionali. E proprio in questa direzione è da leggere la decisione dell’amministrazione serba di non interrompere le relazioni col Cremlino. Decisione che, anche in questo caso, ha contribuito alla vittoria dell’uscente presidente serbo, già ministro durante il governo di Slobodan Milosevic.
[di Giorgia Audiello]
Ecuador, rivolta in carcere provoca 20 morti
Domenica 3 aprile si è verificata in Ecuador una rivolta all’interno del carcere di Turi, nella provincia di Cuenca. Oggi il ministro dell’Interno del Paese, Patricio Carrillo, ha reso noto durante una conferenza stampa che il bilancio provvisorio è di venti morti e dieci feriti, con le forze di sicurezza che non hanno ancora ripreso del tutto il controllo della prigione. Carrillo ha poi negato che gli incidenti siano stati provocati dal sovraffollamento dell’istituto, avanzando invece l’ipotesi dell’esistenza di «un gruppo dedito al narcotraffico, identificato come Los Lobos, che sta cercando di assumere il controllo di tutto il centro di reclusione a scapito di gruppi più piccoli».
Italia, un Ddl vuole inserire l’educazione finanziaria a scuola affidandola alle banche
Da diversi anni si dibatte sull’idea di introdurre in Italia l’educazione economica e finanziaria nelle scuole, a partire dal primo ciclo d’istruzione. Attualmente, sono in discussione presso la 7° Commissione del Senato (Istruzione e beni culturali) tre disegni di legge legati al tema. Il primo, presentato nel 2018, prevede un programma formativo rivolto sia alle scuole di ogni ordine e grado sia a diverse fasce adulte: donne, giovani in cerca di prima occupazione e anziani. Il secondo ddl presenta un profilo simile, mentre il terzo, il più rilevante, è stato avanzato il 30 giugno 2019 e conta su una disposizione sintetica, che se da un lato si avvale dei dati forniti dalla Banca d’Italia, dall’altro lascia alcuni interrogativi aperti sulla questione.
Il fine, quindi l’insegnamento dell’educazione finanziaria a milioni di studenti, è nobile, soprattutto se si considera che spesso il percorso scolastico si concluda senza trasmettere alcuna, anche minima, conoscenza del settore. Secondo i dati riportati all’interno di una ricerca pubblicata dalla Banca d’Italia nel 2018, solo il 30% dei soggetti in Italia è dotato di un’alfabetizzazione finanziaria, con enormi disparità di genere, ruolo professionale e distribuzione territoriale, contro la media degli altri Paesi dell’OCSE che è del 62%. Tuttavia, al fine vanno affiancati i mezzi e quindi bisogna tener conto delle modalità e del contenuto di quest’educazione, non tralasciando l’attenzione nei confronti di chi erogherà il servizio. A chiarire il primo punto è lo stesso testo del disegno di legge presentato nell’estate del 2019, da cui emerge l’intenzione di introdurre l’educazione finanziaria nell’ambito dell’insegnamento delle 33 ore annue dell’educazione civica, previste dalla legge 20 agosto 2019, n. 92. Sulla compatibilità fra le due discipline si è espressa la Banca d’Italia, attraverso le parole di Magda Bianco, capo del Dipartimento Tutela della clientela ed educazione finanziaria dell’istituto: “L’educazione civica è un insegnamento di carattere trasversale attualmente obbligatorio e ciò renderebbe la proposta realizzabile in tempi rapidi. Del resto le finalità ultime dell’educazione finanziaria sono in linea con quelle della legge istitutiva dell’educazione civica: sviluppare una cittadinanza attiva“.

Per quanto riguarda, invece, il contenuto dell’insegnamento, il disegno di legge resta vago, lasciando ampia discrezionalità agli interpreti e mancando, di fatto, ogni riferimento all’educazione critica alla finanza e qualsiasi approccio alla finanza etica, una disciplina che va oltre i concetti di rendimento e profitto, concentrandosi piuttosto sulla trasparenza, su una maggiore cooperazione e sulla responsabilità etica e ambientale degli attori economici. La stessa sorte incerta è riservata a chi si occuperà di formare gli insegnanti e i giovani. Tuttavia, tra i soggetti più attivi a riguardo è già possibile registrare la presenza della Fondazione per l’educazione finanziaria e al risparmio (FEDUF), costituita su iniziativa dell’Associazione bancaria italiana (ABI). D’altronde, da diversi anni l’istituto presieduto da Stefano Lucchini (Intesa Sanpaolo) è in stretta collaborazione con il ministero dell’Istruzione e gli uffici scolastici sul territorio. A inizio 2022 la Fondazione ha deciso di affiancare al proprio Consiglio d’amministrazione (Cda) un advisory board, una sorta di comitato consultivo e di supporto al reparto manageriale, al cui interno è entrato a far parte Ryan O’Keeffe, consigliere delegato di BlackRock, la più grande società d’investimento al mondo che negli anni si è legata ad attività incentrate sulla deforestazione, legate alle violazioni dei diritti umani o basate sui combustibili fossili.
Mentre i disegni di legge sull’introduzione dell’educazione economica e finanziaria a scuola sono in esame in commissione, le banche hanno mosso i primi passi verso questa direzione. A marzo, infatti, è iniziato in Campania il percorso “Che impresa ragazzi!”, un progetto di otto appuntamenti promosso dalla Banca di credito popolare (BCP) con l’obiettivo di accrescere la capacità di gestione del denaro di 1.800 studenti delle scuole superiori. Ad affiancare la BCP nel progetto sarà la Fondazione per l’educazione finanziaria e al risparmio (FEDUF).
[Di Salvatore Toscano]
Oms: il 99% della popolazione mondiale respira aria inquinata
“Quasi l’intera popolazione mondiale (99%) respira aria che supera i limiti di qualità raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e che mette in pericolo la salute delle persone”: è quanto ha fatto sapere la stessa Oms tramite un comunicato con cui ha diffuso i nuovi dati a sua disposizione. “Le persone che vivono nei paesi a reddito medio e basso sono soggette alle esposizioni più elevate”, ha inoltre aggiunto l’Oms, precisando che in base ai numeri in suo possesso ha deciso di “sottolineare l’importanza di limitare l’uso dei combustibili fossili e di adottare altre misure concrete per ridurre i livelli di inquinamento atmosferico”.
Gli ucraini non lasciano uscire un cittadino italiano: “deve andare a combattere”
È partito dal Veneto per recarsi in Ucraina il 20 febbraio, per occuparsi dei funerali del padre venuto a mancare il giorno precedente, ma non è più riuscito a far rientro in Italia. È quanto accaduto a Volodymyr, cittadino italo-ucraino di 56 anni, da oltre 30 residente in provincia di Venezia. Ha viaggiato con passaporto ucraino invece che italiano, per evitare di doversi sottoporre a 10 giorni di quarantena una volta arrivato a Kiev, secondo quanto previsto dalle leggi in vigore per l’emergenza sanitaria. Tuttavia, con lo scoppio della guerra, uscire dall’Ucraina è diventato per lui impossibile. Da un mese Volodymyr si trova bloccato a Kiev, in un appartamento di fortuna dove ha convissuto con altre due persone rimaste senza una dimora a causa della guerra. Alla frontiera le autorità ucraine non lo lasciano transitare, nonostante sia in possesso di tutta la documentazione necessaria per poter tornare in Italia. L’Indipendente è riuscito a raccogliere, in esclusiva, la testimonianza di Volodymyr e di un rappresentante di Mediterranea Saving Humans, l’associazione per la quale Volodymyr è volontario, la quale si occupa di assistere la popolazione ucraina, aiutando i profughi ad attraversare i confini.
«Ho trascorso oltre metà della mia vita in Italia, sono un cittadino italiano. Ho due figli in Italia, di 6 e 10 anni, che continuano a chiedermi quando tornerò a casa». Così si racconta a L’Indipendente Volodymyr, cittadino italo-ucraino di 56 anni, da oltre 30 residente in provincia di Venezia. In Italia Volodymyr ha casa, lavoro e famiglia, ma una circostanza avversa lo ha riportato a Kiev nel febbraio di quest’anno. «Sono venuto in Ucraina per seppellire mio padre, che è morto il 19 febbraio. Sono arrivato con un aereo il 20 e il 22 lo abbiamo sepolto. Il 24 febbraio Kiev è stata bombardata». Da allora per Volodymyr le speranze di rientrare a casa si sono fatte sempre più sfumate. «Sono entrato con il passaporto ucraino perché alla frontiera mi hanno detto che era più conveniente rispetto a quello italiano, perché per il discorso del Covid se fossi entrato con quello italiano sarei dovuto rimanere 10 giorni in quarantena, cosa che non avrei potuto fare perché dovevo seppellire mio padre. Tuttavia, con lo scoppio della guerra è entrata in vigore la legge marziale, per la quale tutti gli uomini ucraini fino ai 60 anni non possono uscire dal Paese. Alle autorità non interessa se sei cittadino di un altro Stato, ti considerano una loro proprietà».
Da oltre un mese Volodymyr si trova così in un limbo dal quale non riesce a uscire. «Ho tentato più volte di attraversare la frontiera, ma sono sempre stato respinto con la motivazione che la mia è una situazione particolare, perché la legge è stata pensata per gli uomini che vivono in Ucraina, non per gli ucraini che hanno anche la cittadinanza in uno Stato diverso. Quando mi hanno respinto, la prima e la seconda volta, ho fatto presente che qui in Ucraina non avevo niente, nemmeno un posto nel quale dormire: mi hanno risposto che sarei potuto andare in Commissariato, dove mi avrebbero fatto lavare, vestire, dato un fucile e fatto partire per il fronte, nonostante a 56 anni io sia considerato vecchio per combattere». Nel frattempo, in Italia, la vita di Volodymyr è rimasta in sospeso. «Mi preoccupa come stanno i miei figli, inoltre ho un mutuo da pagare. Qui non ho modo di mantenermi, i miei rapporti personali e professionali sono tutti in Italia, dove ho un lavoro come guida turistica e uno come decoratore artistico».
Il paradosso è che Volodymyr dispone di tutti i documenti necessari ad attestare il suo diritto ad attraversare il confine. Come ci spiega Damiano Censi, giurista e volontario dell’associazione Mediterranea Saving Humans, presente sul territorio ucraino per aiutare i profughi proprio ad attraversare le frontiere, «Noi abbiamo presentato tutta la documentazione richiesta, che attesta il fatto che lui è tutore materiale e legale dei figli residenti in Italia, che è un volontario di Saving Humans e come tale rientrerebbe nelle casistiche nelle quali è permesso uscire. Tuttavia i documenti presentati dall’ambasciata italiana che attestano quanto detto non sono stati riconosciuti. Qualsiasi documentazione aggiuntiva presentata rimane una valutazione a loro avviso non sufficiente a rilasciare un cittadino che loro considerano ucraino, in un momento nel quale può essere effettivamente chiamato al servizio militare, ai sensi della legge marziale». L’applicazione di tale legge, spiega Censi, è estremamente rigida da parte delle guardie di frontiera. «Moltissimi sono giovani, giovanissimi, vi sono anche molte donne tra di loro, eppure con Volodymyr hanno insistito moltissimo perché rimanesse a combattere per la propria terra».
«L’ultima soluzione rimasta» spiega Censi «è che venga rilasciato un nuovo documento sostitutivo del passaporto, che quindi non abbia il timbro in ingresso nel Paese, grazie al quale lui potrebbe presentarsi come cittadino italiano con diritto di transito alla frontiera. L’Ambasciata italiana sta provvedendo al rilascio di questo documento, ma poi serve che venga effettivamente rispettato dalla polizia di frontiera. Sembra che il ministro degli Esteri sia intervenuto in qualche modo, ma deve essere un intervento deciso».
«Serve qualsiasi tipo di pressione da parte della società civile, dei media, di chiunque» afferma Censi, che sottolinea: «Come il ministero degli Esteri si muove in questi casi è un tema da porre a livello nazionale. Garantisce la sicurezza dei propri cittadini, a prescindere dalle dichiarazioni di guerra? Si occupa e si preoccupa dei propri cittadini e di tutta la collettività?». Interrogativi al momento senza esito, che necessitano più che mai di una risposta urgente da parte delle istituzioni.
Mentre raggiunge l’Ambasciata italiana di Leopoli, Volodymyr afferma con rammarico: «Io non mi sarei mai potuto immaginare che sarebbe scoppiata la guerra mentre ero qua. Lo stesso Zelensky diceva che non sarebbe scoppiata la guerra, nonostante numerosi giornali esteri affermassero il contrario. Se avessi anche solo potuto immaginarlo non sarei entrato con i documenti ucraini, avrei usato quelli italiani».
AGGIORNAMENTO ore 16.00, lunedì 4 aprile. Con un breve messaggio Damiano Censi ci ha comunicato che il tentativo fatto è andato a buon fine: Volodymyr è riuscito ad attraversare la frontiera e si trova al momento in viaggio verso l’Italia.
[di Valeria Casolaro]
Giordania: il principe Hamzah rinuncia al titolo
L’ex principe ereditario di Giordania Hamzah bin Hussein ha deciso di rinunciare al titolo reale perché le sue convinzioni non possono essere conciliate con gli «approcci, le politiche e i metodi delle istituzioni attuali». Hamzah è stato spogliato del titolo di principe ereditario dal fratello Abdullah II, attuale re di Giordania, nel 2004. Da allora ha mantenuto lo status di principe, abbracciando però la causa popolare, come dimostra la denuncia rivolta nei confronti della corruzione all’interno del Paese: «Il benessere dei giordani è stato messo in secondo piano da un sistema di governo che ha deciso che i suoi interessi personali e finanziari e la sua corruzione siano più importanti della vita, della dignità e del futuro di 10 milioni di persone».
Dopo 21 anni completata la mappa del genoma umano, il DNA non ha più segreti
Gli scienziati sono riusciti a completare la mappa del genoma umano, rendendo il DNA umano senza più segreti: una svolta che si annuncia feconda di ampie conseguenze nel mondo della ricerca e della medicina. Con l’individuazione dei geni mancanti, infatti, sarà possibile non solo la diagnosi di malattie finora impossibili da riconoscere perché caratterizzate da sequenze genetiche instabili, ma anche lo sviluppo di terapie su misura grazie all’analisi del corredo genetico di ogni paziente. L’intero genoma umano è costituito da circa 3 miliardi di basi e, il nuovo genoma di riferimento designato T2T-CHM13, aggiunge quasi 200 milioni di paia di basi di sequenze di DNA fino a ieri sconosciute.
La prima mappatura del genoma risale al 2001. All’epoca, però, i computer non erano hi-tech come quelli odierni, pertanto non riuscirono a decifrare tutti i passaggi, e lasciarono delle lacune complessivamente corrispondenti all’8% del genoma. Oggi, grazie al consorzio internazionale chiamato Telomere-to-Telomere (T2T), queste sono state colmate, ed è quindi possibile leggere il DNA umano dall’inizio alla fine senza interruzioni. I ricercatori sono rimasti colpiti dal fatto che le parti mancanti consistevano in sequenze che si ripetono molte volte, un dato che dimostra come nelle ripetizioni si nasconda il segreto della diversità umana. Alcuni dei geni che ci rendono unicamente umani quindi, risiedevano proprio in questa materia oscura, identificata con l’impiego del metodo di sequenziamento Nanopore, in grado di leggere fino a un milione di lettere di DNA in una singola lettura con un modesto grado di accuratezza, e il metodo PacBio HiFi, capace di identificare precisamente circa 20mila lettere contemporaneamente.
Il completamento della mappatura del genoma umano ha permesso di scrivere un nuovo libro sull’acido deossiribonucleico il quale, affermano i ricercatori, è a prova di errore. Questo grazie all’utilizzo del programma “Merfin”, una specie di correttore automatico che analizza le sequenze e corregge gli eventuali errori. Tutto ciò apre la strada a un nuovo capitolo della medicina, con tanti interrogativi ma anche molte speranze. Oltre alla diagnosi di nuove malattie infatti, ci si domanda se la mappa dei cromosomi porterà a comprendere perfettamente il funzionamento del corpo umano, e alla soluzione di enigmi di vitale importanza. Come ad esempio il mistero delle cellule tumorali che, al contrario dei tessuti – i quali invecchiano e muoiono -, si riproducono incessantemente. O ancora, nasce la speranza di trovare nelle combinazioni del codice genetico la chiave per guarire malattie come il diabete, la schizofrenia, l’Alzheimer o il Parkinson.
[di Eugenia Greco]
L’Europa ha deciso che la moda dovrà essere green entro il 2030: che significa?
Coscienti del breve ciclo di vita dei prodotti tessili dove solo l’un percento delle materie prime viene riutilizzato, dai vertici dell’Ue si punta ora a raggiungere l’obiettivo entro il 2030: rendere la moda un settore sostenibile, non solo ecologicamente ma anche socialmente. Il settore tessile in Europa è al quarto posto tra i motivi di maggiori emissioni: prima solo il cibo (principalmente a causa degli allevamenti intensivi), l’alloggio e la mobilità. Inoltre le prestazioni del settore della moda sono disastrose anche per quanto riguarda il consumo d’acqua, lo sfruttamento del suolo e il consumo di materie prime. Di qui la battaglia intrapresa da tempo da molti gruppi ecologisti affinché il settore della moda sia riformato e affrancato dalla logica dell’usa e getta che il capitalismo ha imposto negli ultimi decenni.
L’Interveno della UE si inserisce nel nuovo pacchetto di misure proposte nel piano d’azione per l’economia circolare, ufficialmente approvato dalla Commissione Europea nella giornata di mercoledì 30 marzo. Nel comunicato stampa viene specificato come l’obiettivo sia quello di allontanarsi dal consueto modello “prendere-fare-usare-smaltire”, con l’obiettivo di rendere il mondo del tessile ecosostenibile entro il 2030, tramite due direttrici: riciclaggio innovativo con rifiuti ridotti al minimo e prodotti di qualità sempre più duraturi.
Secondo la nuova strategia legislativa i capi dovranno essere privi di qualsiasi sostanza pericolosa per la salute umana e l’ambiente, realizzati con fibre riciclate e il più possibile resistenti. Le norme sui rifiuti tessili saranno contenute nella revisione della direttiva quadro sui rifiuti, prevista per il prossimo anno. Alcune delle principali regole riguarderanno la divulgazione del numero di tessuti invenduti scartati, il divieto di distruzione dei tessuti invenduti, la lotta all’inquinamento da microplastiche, la raccolta differenziata, la diffusione di informazioni più chiare, con tanto di passaporto digitale dei prodotti e un regime obbligatorio di responsabilità estesa del produttore dell’Ue. Un capitolo della strategia è dedicato al tema della fast fashion, invitando le aziende a ridurre il numero di collezioni all’anno e prevedendo misure fiscali favorevoli per il settore del riutilizzo e della riparazione.
Si mira anche a fornire supporto per “favorire la metamorfosi dell’ecosistema tessile con il lancio di uno strumento collaborativo” essenziale per aiutare le aziende a riprendersi dagli impatti negativi della pandemia di Covid-19, rendendole più resilienti e meno a rischio contro una “feroce concorrenza globale”. La Commissione promuoverà altresì attività di sensibilizzazione, tanto per le aziende quanto per i consumatori, come il lancio della campagna #ReFashionNow.
Insomma un pacchetto piuttosto completo, che intende agire contro alcune delle storture prese dal mondo della moda la cui conversione a settore sempre più dominato dalle produzioni a basso costo e bassa durata ha provocato problemi ambientali, di salute e di diritti sul lavoro. Una misura che però, vista solo dal lato del modello di produzione industriale, rischia di dimenticare le ragioni profonde per le quali questo settore si è orientanto all’usa e getta: l’impossibilità oggettiva di molti cittadini ad acquistare capi più costosi. Un problema che certamente ha anche una parte culturale che è stata introdotta dalle pubblicità ossessive: si acquistano molte cose delle quali non si ha bisogno e si desidera avere molti più capi di quelli necessari, ma la soluzione – per non tramutarsi in una misura discriminatoria verso i meno abbienti – deve essere anche ricercata limitando i prezzi dei capi “responsabili” e garantendo a tutti i cittadini europei la possibilità di acquistarli.
[di Francesca Naima]








