sabato 13 Dicembre 2025
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L’interessata battaglia “pacifista” degli USA contro le armi antisatellitari

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Fa strano pensare che gli USA si facciano promotori di un’iniziativa di smilitarizzazione, eppure la Vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris ha rivelato al mondo intero che gli Stati Uniti cesseranno ogni test relativo alle armi missilistiche antisatellitari (ASAT). Non solo, la diplomatica ha chiesto che le nazioni tutte si impegnino a discutere nuove leggi atte a imporre un «comportamento responsabile nello spazio». Sebbene il ridimensionamento della corsa alle armi sia sempre da accogliere a braccia aperte, sarebbe però ingenuo leggere le mosse di Washington come un atto pacifista dettato da meri scrupoli di coscienza.

Facciamo un passo indietro. Nel novembre del 2021 il Cremlino ha lanciato nello spazio un ordigno puntato in direzione di un satellite dell’era sovietica, ormai obsoleto. Nonostante Mosca abbia offerto rassicurazioni asserendo che l’operazione fosse comparabile a un servizio di rottamazione, la manovra si è prestata a una lettura cupamente bellica, assumendo le sembianze di una prova di forza. Pur sorvolando sulla prospettiva puramente politica dell’accadimento, l’episodio ha però ricordato agli osservatori le insidie a cui si legano i missili ASAT, armi il cui uso è apertamente criticato dagli Stati Uniti, dalla NATO e dall’Unione Europea. Per quanto l’idea ufficialmente espressa dalla Russia fosse infatti quella di frammentare lo strumento in pezzi che sarebbero poi dovuti poi ricadere sulla Terra incenerendo nell’atmosfera, l’impatto ha nondimeno generato detriti che sono rimasti in orbita – almeno 1.500, denunciano gli USA – e che rappresentano ora una minaccia concreta all’attività umana nello spazio.

L’orbita terrestre bassa, quella più sfruttata, è ormai sempre più popolata da satelliti e ciarpame di varia natura, con il risultato che ogni singolo oggetto privo di controllo, per quanto minuscolo, può trasformarsi in un proiettile vagante capace di causare danni immensi, danni che a loro volta possono dar vita a nuovi detriti in un circolo vizioso che, nel peggiore dei casi, potrebbe obbligarci a dire addio ai viaggi spaziali, e ai servizi satellitari, riportandoci tecnologicamente ai tempi della SIP. Al pari delle testate nucleari, anche gli ASAT vengono dunque considerati un pericoloso deterrente, più che un’arma vera e propria, tuttavia questa consapevolezza non aiuta a dormire sonni tranquilli.

Quello che non ha esplicitato Harris è il fatto che l’esopolitca sia incastrata in una fase di stallo in cui le varie parti si bilanciano asimmetricamente per assicurarsi che sia preservato lo status quo. Gli USA hanno istituito un esteso network satellitare, militare e commerciale, tuttavia il dominio spaziale statunitense viene tenuto in scacco dal fatto che Cina e Russia, sostiene l’Intelligence americana, abbiano sviluppato gli ASAT al punto di raggiungere la capacità operativa iniziale (IOC). Normare i missili antisatellitari, quindi, non contribuirebbe troppo ad attenuare la militarizzazione dello spazio, piuttosto impedirebbe agli avversari di Washington di fare affidamento su una leva politica molto potente e relativamente accessibile.

Approfittando del legittimo orrore umano rappresentato dalla guerra, gli Stati Uniti stanno spingendo perché tutti gli alleati si impegnino a «mettere pressioni» su Cina e Russia, così che le due nazioni si trovino costrette a seguire l’esempio americano o a essere etichettate «come coloro che potranno potenzialmente causare futuri incidenti legati ai detriti, i quali finiranno con il danneggiare tutti». Una pretesa corretta, ma che dovrebbe essere bilanciata da una regolamentazione altrettanto rigida della militarizzazione orbitale, così che l’intervento sia mirato a garantire un equilibrio pacifico e non all’istituzione di un ennesimo monopolio americano.

[di Walter Ferri]

La Corte di Londra emette l’ordine di estradizione negli USA per Julian Assange

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La Corte dei Magistrati di Westminster ha emesso oggi un ordine formale di estradizione nei confronti di Julian Assange, autorizzandone il trasferimento negli Stati Uniti. Ora manca solamente la conferma del ministro dell’Interno Priti Patel, che giungerà tra un massimo di 4 settimane. In questo periodo di tempo la difesa di Assange potrà fare appello per richiedere l’annullamento. Se il trasferimento venisse definitivamente confermato, infatti, Assange rischierebbe 175 anni di carcere in una prigione di massima sicurezza con l’accusa di spionaggio, rischiando di essere sottoposto a tortura e trattamenti inumani durante il periodo detentivo.

Sono infatti numerose le associazioni internazionali, tra le quali Amnesty International, che hanno dichiarato con forza che le rassicurazioni statunitensi sul fatto di riservare un trattamento dignitoso al giornalista in carcere sono “del tutto infondate”. La sua estradizione rappresenterebbe, inoltre, un pericoloso precedente per i professionisti dell’informazione in tutto il mondo, che rischierebbero di essere perseguiti e incarcerati semplicemente per aver fatto il proprio mestiere.

In attesa del verdetto definitivo la piattaforma Reporters Sans Frontieres (RSF) ha lanciato una nuova petizione per chiedere al ministro dell’Interno inglese Priti Patel di impedire l’estradizione. “Le prossime quattro settimane saranno cruciali nella lotta per bloccare l’estradizione e garantire il rilascio di Julian Assange” scrive sul proprio sito RSF. “Il Ministro degli Interni deve agire ora per proteggere il giornalismo e rispettare l’impegno del Regno Unito per la libertà dei media, rifiutando l’ordine di estradizione e rilasciando Assange”.

Julian Assange si trova da oltre due anni e mezzo nella prigione di massima sicurezza HM Prison di Belmarsh, a Londra. Contro di lui Washington ha formulato accuse di cospirazione e spionaggio per aver diffuso documenti classificati degli Stati Uniti che mostrano gli abusi dell’esercito statunitense ai danni della popolazione civile nei contesti di guerra.

[di Valeria Casolaro]

Polonia, esplosione miniera carbone: 4 morti

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È di 4 morti e 7 dispersi il bilancio dell’esplosione della miniera di carbone Pniowek a Pawlowice, in Polonia, avvenuta nelle prime ore di questa mattina. Il proprietario della miniera avrebbe attribuito l’incidente alla presenza di metano all’interno della cava, secondo quanto riferito da Reuters. Al momento dell’esplosione erano 42 i minatori all’interno della miniera, 21 dei quali sono stati trasportati in ospedale per le ferite e le gravi ustioni riportate.

L’ammissione del governo: il green pass verrà sospeso ma non abolito

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«i criteri non cambiano: il green pass di fatto c’è sempre, solo che dal primo di maggio non verrà più richiesto per nessun tipo di attività, e noi confidiamo e auspichiamo che non ce ne sia più bisogno. Non è che sparisce, semplicemente non viene più richiesto e non viene più utilizzato». Sono le parole rilasciate in una intervista dal sottosegretario alla Salute del governo Draghi, Andrea Costa. Dichiarazioni con le quali per la prima volta un esponente del governo conferma che il lasciapassare sanitario non verrà smantellato ed anzi sia da intendere come una misura di fatto priva di qualsiasi data di scadenza, confermando di fatto quella che fino a ieri gli organi di stampa mainstream definivano senza indugi una “teoria complottista no vax”.

Dichiarazioni senza dubbio rilevanti che tuttavia sono state riportate in maniera alquanto anonima dai principali media, i quali non si sono soffermati sul fatto che, a quanto pare, dal primo maggio la certificazione verde continuerà comunque ad esistere: Costa, infatti, parlando del certificato verde ha utilizzato l’indicativo, come a confermare che la decisione in questo senso sia già stata presa all’interno dell’esecutivo guidato da Mario Draghi. Un dettaglio certamente degno di nota, dato che fino a poche settimane fa la stessa stampa mainstream etichettava come “complottisti” tutti coloro che sottolineavano che gli strumenti pandemici non andassero presi sottogamba perché in grado di creare precedenti di cui sarebbe poi stato difficile sbarazzarsi.

Eppure, dalle parole del sottosegretario si evince proprio che le cosiddette “teorie del complotto” siano ora divenute realtà, dato che a quanto pare la non abolizione del green pass appare certa. Costa, infatti, mentre come detto in riferimento al lasciapassare sanitario ha usato l’indicativo, parlando del futuro di altre misure – quali l’uso delle mascherine al chiuso e nelle scuole – ha utilizzato il condizionale o comunque ha lasciato intendere che si tratti di mere possibilità, facendo così passare il messaggio che le discussioni a riguardo all’interno dell’esecutivo siano ancora in corso.

È proprio quest’ultimo concetto, invece, che sostanzialmente non emerge dalle dichiarazioni del sottosegretario sul green pass, nei cui confronti sembra che una decisione sia già stata presa dal governo, seppur al momento non votata o presentata in maniera ufficiale. Si tratta, però, di un modus operandi tutt’altro che irrilevante, dato che una mancata abolizione di tale strumento potrebbe in futuro determinare nuovamente l’imposizione di tutta una serie di restrizioni alla vita sociale di chi non è in possesso dello stesso. Inoltre, nel caso in cui tale linea dovesse riguardare non solo il green pass base ma anche quello rafforzato, vi sarebbe evidentemente la possibilità che quest’ultimo in futuro diventi di nuovo essenziale per svolgere le più disparate attività, il che renderebbe ancora una volta indirettamente obbligatoria la vaccinazione anti Covid. Magari in vista della quarta dose, che fino ad oggi è stata contraddistinta da un vero flop di adesioni anche nelle fasce di popolazione che già potrebbero accedervi (anziani sopra gli 80 anni e immunocompromessi) e che, nelle intenzioni del ministero della Sanità, pare destinata ad essere raccomandata a tutti i cittadini italiani in vista del prossimo autunno.

[di Raffaele De Luca]

Camorra, blitz contro clan Moccia: 59 misure cautelari

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I carabinieri del Ros hanno notificato 59 misure cautelari nei confronti di altrettanti indagati, al termine di un’indagine coordinata dalla Procura di Napoli. I destinatari delle misure sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, impiego di denaro e beni di provenienza illecita, autoriciclaggio, fittizia intestazione di beni, corruzione, porto e detenzione illegale di armi da fuoco, ricettazione e favoreggiamento. I reati sarebbero stati compiuti in supporto all’attività del clan Moccia, fattore che costituisce un’aggravante. La Guardia di Finanza ha anche sequestrato beni per un valore complessivo di 150 milioni di euro.

Ristudiare l’agricoltura indigena è la chiave per ripristinare i terreni danneggiati

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Riprendere in mano i metodi tradizionali dell’agricoltura indigena può essere la chiave per il rimettere in salute un territorio provato dopo anni di sfruttamento delle risorse attraverso i sistemi agricoli industriali. Ne è prova il lavoro effettuato negli ultimi dieci anni dall’organizzazione no-profit Ancestral Lands. In base alla esperienza di reintroduzione delle colture tradizionali sui terreni di Acoma – un villaggio nello stato del Nuovo Messico, negli Stati Uniti – è nata una banca di 57 semi aridi originari della regione. Dal 2016, l’Ancestral Lands Farm Corps, ha anche ripristinato una forma di agricoltura tradizionale in cui si utilizza la raccolta passiva dell’acqua piovana per colture in grado di resistere a un clima tanto incerto e alle conseguenze del riscaldamento globale. Differentemente dalla maggior parte delle fattorie convenzionali, se piove il campo non viene irrigato mentre in caso di assenza di precipitazioni, vene data acqua “artificialmente” per un massimo di due volte al mese. Sebbene quella descritta sia una pratica quasi estinta, il risultato è stato un successo perché nonostante le scarse piogge, le tecniche utilizzate preservano la naturale umidità del suolo.

Come attestato dalle Nazioni Unite, dal secolo scorso ben il 75 percento della diversità delle colture è scomparsa, proprio a causa dell’avvento dell’agricoltura intensiva. Eppure le pratiche agricole tradizionali possono proteggere i terreni, la biodiversità ed anche l’ambiente, perché strettamente legate ai cicli naturali. L’esempio nel villaggio di Acoma è parte di un movimento volto a contrastare le perdite globali di biodiversità causate da sistemi di sfruttamento del territorio che oltre a danneggiare l’ambiente oscurano le popolazioni locali e le loro usanze, strettamente connesse al rispetto dell’ambiente circostante. Una conoscenza ecologica andata avanti per millenni senza danneggiare la natura, dando esempio di un modello di resilienza e poi sostituita dai moderni modelli agricoli. E la comunità di Acoma è prova di un sistema alimentare olistico, reciproco e autosufficiente, adattato all’alto deserto, in grado di resistere alla siccità estrema e ai cambiamenti climatici. Anche perché nel villaggio l’agricoltura è alla base della cultura e della sopravvivenza degli abitanti.

Un ulteriore esempio di come le comunità indigene, se e quando libere di amministrare le proprie terre, possono contribuire meglio di chiunque altro a preservare il Pianeta. Non a caso i più di 300 studi scientifici riportati nel report della Fao dello scorso anno mostrano quanto i tassi di deforestazione nelle foreste dell’America Latina e dei Caraibi gestite dai popoli indigeni siano di gran lunga più bassi rispetto ai dati registrati in aree non protette dalle popolazioni locali. E non basta lasciare libero chi vive naturalmente connesso al rispetto ambientale, ma è necessario iniziare ad ascoltare le voci e le opinioni dei “difensori della Madre terra“. Come le comunità locali dell’Ecuador e del Perù che si sono impegnate per presentare un piano per proteggere l’80 percento della foresta pluviale amazzonica entro il 2025, contro progetti internazionali di chi del territorio sa e percepisce ben poco.

[di Francesca Naima]

Martedì 19 aprile

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8.00 – Esplosioni a Kabul: almeno 25 morti.

9.00 – È morto lo scrittore Valerio Evangelisti, autore della saga di Nicolas Eymerich.

11.30 – Governo cinese: rafforzeremo i legami con Mosca per promuovere nuovo modello di relazioni internazionali.

12.30 – Lavrov (ministro esteri russo): «È iniziata nuova fase dell’operazione in Ucraina. Libereremo il Donbass».

14.00 – Trivelle: Biden torna a rilasciare concessioni in aree pubbliche, contravvenendo alle promesse elettorali.

15.30 – Russia apre corridoi umanitari a Mariupol dopo aver concesso altre 15 ore ai soldati ucraini per arrendersi.

16.00 – Italia, sottosegretario Costa dichiara che il green pass verrà sospeso ma non eliminato.

18.10 – Incontro tra USA e alleati europei: ribadito impegno ad armare l’Ucraina.

19.50 – Premier Germania: «Rimane impegno a non estendere conflitto. La NATO non interverrà».

Guerra Ucraina, Palazzo Chigi: ampio consenso con alleati su ulteriori sanzioni a Mosca

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“Ampio consenso è stato espresso sulla necessità di rafforzare la pressione sul Cremlino, anche con l’adozione di ulteriori sanzioni, e di accrescere l’isolamento internazionale di Mosca”: è quanto comunicato da Palazzo Chigi tramite una nota avente ad oggetto la videoconferenza che oggi pomeriggio il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha avuto con i leader del G7, dell’Ue e della Nato. “È stato ribadito l’impegno comune a diversificare le fonti energetiche riducendo in tal modo la dipendenza dagli approvvigionamenti russi”, si legge inoltre nella nota, tramite la quale viene altresì comunicato che “i Leader hanno confermato l’importanza di uno stretto coordinamento in merito al sostegno all’Ucraina in tutte le sue dimensioni, con particolare riguardo al contributo al bilancio del Paese”.

Nel silenzio internazionale la Turchia continua a bombardare i curdi

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Nelle scorse ore la Turchia ha lanciato una nuova offensiva militare contro i curdi presenti in Iraq, in particolare nei confronti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione attiva in territorio turco e iracheno che rivendica l’indipendenza dello “Stato mai nato”. Aerei da guerra, artiglieria e truppe di Ankara hanno attaccato così diversi obiettivi nel nord dell’Iraq, dai campi ai depositi di munizioni, nella zona del cosiddetto Kurdistan iracheno, una delle cinque regione abitate dall’etnia curda. Essa gode di una certa autonomia politica dal 2012, quando venne riconosciuta come regione federale del Paese. L’altro territorio che ha acquisito uno status simile è Rojava, conosciuto anche come Kurdistan siriano. Nel silenzio dei Paesi occidentali, entrambe le regioni sono vittime delle offensive turche (come nelle scorse ore, quando i raid aerei hanno colpito anche Hasake, in Siria) perché rappresentano delle esperienze di autonomia e confederalismo democratico che alimentano la volontà di indipendenza da parte dei curdi-turchi e due pilastri su cui potrebbe fondarsi il futuro Stato, riconosciuto a livello internazionale, del Kurdistan.

Kurdistan

I curdi rappresentano il quarto gruppo etnico più popoloso (su circa 50) del Medio Oriente, subito dopo i turchi, i persiani e gli arabi. Si tratta del popolo più esteso al mondo a cui non è riconosciuto dalla comunità internazionale alcun territorio. Infatti, i curdi sono dislocati prevalentemente in cinque Paesi: Iraq, Iran, Turchia, Siria e Armenia, formando (con una popolazione di circa 25 milioni di persone) l’area che prende il nome di Kurdistan, termine che anticamente indicava proprio la regione geografica abitata dal gruppo etnico. Nel corso della storia, i curdi hanno subito diverse persecuzioni su larga scala, soprattutto lungo la direttrice religiosa, dove il fronte sciita si è reso protagonista di violenze e abusi nei confronti della popolazione mesopotamica (sunnita), tanto in Siria quanto in Iran e Iraq. Si ricordi, ad esempio, il genocidio dell’Anfal compiuto dall’esercito iracheno durante gli ultimi anni della guerra col vicino Iran, che tra il 1986 e il 1989 ha causato la morte di decine di migliaia di curdi, con stime che variano dalle 50.000 alle 180.000 persone.

Bandiera e membri del PYD

In questo scenario di persecuzione e violenza si inserisce la Turchia, coinvolta nel “conflitto curdo-turco” a partire dal 1978, anno delle prime grandi manifestazioni del gruppo etnico presente nel Paese, che rappresenta oggi il 20% della popolazione totale (circa 15 milioni di persone). L’oggetto del conflitto è la richiesta di indipendenza del Kurdistan, avanzata prevalentemente dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione attiva in Turchia e in Iraq considerata terroristica dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, così come dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, nonostante i tentativi di diversi gruppi di protesta di convincere quest’ultima a rimuovere il partito dalla lista dei Paesi e organizzazioni terroristiche e considerarlo una legittima forza politica di resistenza. Negli anni, la valutazione in termini ostili del PKK ha portato Erdogan, nell’indifferenza generale, a muovere diversi attacchi nei confronti dell’organizzazione politico-paramilitare, come nel 2019 o nei giorni scorsi. A questi, si aggiungono le accuse e gli arresti nei confronti dei membri del Partito Democratico dei Popoli (HDP), formazione politica che unisce forze filo-curde e di sinistra presente in Parlamento con 62 seggi su 600. La settimana scorsa la polizia ha fatto irruzione nell’ufficio dell’HDP nella città di Cizre, nel Kurdistan turco, arrestando cinque membri del partito. Negli ultimi mesi, in questo clima di tensione, le forze di Ankara avrebbero usato anche delle armi chimiche, almeno secondo le denunce avanzate dal Partito dei lavoratori curdi, che ha invitato più volte le organizzazioni internazionali a indagare sulla questione.

L’obiettivo di Erdogan è di non permettere una riunificazione riconosciuta ufficialmente del Kurdistan, il che implicherebbe la presenza di un nuovo Stato nella parte orientale della penisola anatolica. L’indifferenza odierna da parte della comunità internazionale verso questi attacchi stride con l’atteggiamento adottato qualche anno fa, quando i curdi sono stati i principali attori sul campo nella lotta al terrorismo, supportati da diverse potenze, una su tutte gli Stati Uniti. Tra il 2015 e il 2016 i guerriglieri curdi, in particolare il Partito dell’Unione Democratica (PYD) e il PKK che condividono l’obiettivo finale di un Kurdistan indipendente, riuscirono a fermare l’avanzata dell’ISIS, contribuendo alla sua momentanea sconfitta. In quei mesi, i membri del PYD riuscirono a riconquistare i propri territori (Rojava o Kurdistan siriano), occupati precedentemente dallo Stato Islamico.

I territori dopo la caduta dell’Impero ottomano secondo il Trattato di Sèvres

Dopo essere stati alleati del mondo occidentale, i curdi si ritrovano oggi attaccati dalla Turchia (membro NATO) e abbandonati dagli Stati Uniti, ripetendo una storia vissuta già lo scorso secolo nei mesi successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando furono traditi dalle promesse degli europei. Il trattato di Sèvres (1920) venne firmato per dividere i territori dell’appena decaduto Impero ottomano. Al suo interno era prevista la nascita di una Turchia con ingerenze straniere nella penisola anatolica e l’apertura verso la nascita di uno Stato curdo e dell’Armenia, che è arrivata all’indipendenza soltanto nel 1991 passando attraverso diverse fasi discriminatorie e violente, tra cui il genocidio perpetrato dall’Impero ottomano durante la Prima Guerra Mondiale che costò la vita a più di un milione di armeni. Il movimento dei giovani turchi si oppose a questa nuova suddivisione e così il trattato di Sèvres venne sostituito da quello di Losanna (1923), da cui nacque una Turchia omogenea, priva di ingerenze straniere e senza tracce di Armenia e Kurdistan.

[Di Salvatore Toscano]

Altro che Transizione: il gas GNL che importeremo dagli Usa è una bomba ecologica

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Per il Gas naturale liquefatto (GNL) e il suo principale esportatore – gli Stati Uniti – questi sono tempi d’oro. La fonte energetica fossile che abbonda negli Usa, poiché ritenuta una valida alternativa alle importazioni russe di gas, è infatti tornata in auge proprio a causa del conflitto in Ucraina. Per l’Unione europea la scelta è stata semplice e immediata, tuttavia, nonostante una retorica fuorviante, il GNL è tutt’altro che sostenibile: un vero e proprio nemico del clima. Eppure, gli ordini sono già partiti. Così, a regime, gli Stati Uniti potrebbero esportare 14,8 miliardi di metri cubi di gas al giorno. Esportazioni che, nel mese di marzo, hanno già raggiunto il picco più alto di sempre. Del totale, il 65% è arrivato in Europa e il 12% in Asia.

Il GNL, fondamentalmente, non differisce dal gas naturale esportato dalla Russia. Si tratta, infatti, dello stesso idrocarburo fossile (per il 90% è metano) sottoposto, però, ad un processo aggiuntivo: quello della liquefazione per l’appunto. Così, dall’estrazione al trasporto, non c’è fase produttiva in cui il GNL possa definirsi sostenibile. Anzi – secondo un rapporto del Natural Resources Defense Council americano – puntare sul GNL come da previsioni attuali allontanerebbe definitivamente dalla possibilità di limitare il riscaldamento globale entro gli 1,5°C. Nel primo decennio post-utilizzo, tale fonte energetica avrebbe difatti avuto un impatto climatico inferiore a quello del carbone appena del 27%. Certo, quindi, è che non si tratta di una fonte pulita. L’estrazione, negli Stati Uniti, avviene tipicamente tramite la controversa tecnica della fratturazione idraulica (in inglese fracking), alla quale segue la liquefazione, ovvero, la conversione dell’idrocarburo in forma liquida, indispensabile per trasportarlo via mare in modo economicamente conveniente. Giunto a destinazione, il gas allo stato liquido va riscaldato e rigassificato in appositi terminal che tutti i principali Paesi europei – Italia in primis – stanno costruendo in fretta e furia. Rigorosamente, con soldi pubblici. Non che di terminal non ce ne fossero già, ma il fatto che se ne realizzino di nuovi conferma quindi le intenzioni precedentemente citate.

In termini di emissioni, inoltre, il 21% di quelle del GNL derivano dalle fasi di liquefazione, trasporto e rigassificazione, tutti passaggi in più rispetto all’impiego diretto del gas naturale aeriforme. Non a caso – a detta di una valutazione del centro studi francese Carbone 4 – il GNL comporta emissioni equivalenti di CO2 due volte e mezzo maggiori rispetto a quelle emesse dal gas che arriva via gasdotto. Ed è il trasporto via mare, in particolare, a presentare più di una criticità. Basti pensare, intanto, che il 40% delle emissioni del traffico marittimo internazionale dipendono proprio dallo spostamento di fonti fossili. Il viaggio, nel complesso, aumenta poi le probabilità che si verifichino delle perdite di metano: un gas ad effetto serra, sebbene meno permanente in atmosfera, di gran lunga più potente dell’anidride carbonica. Nel caso specifico del GNL, inoltre, si è pensato addirittura di proporlo come carburante green alternativo per le navi. Le emissioni che ne derivano, tuttavia, sono climalteranti al pari di qualunque altra fonte fossile. L’unico vantaggio sarebbe un taglio alle emissioni di ossidi di zolfo che, sebbene dannose in termini di inquinamento atmosferico, al livello climatico non fanno la differenza. In sostanza, al livello ambientale, il GNL non è né una soluzione né una temporanea valida alternativa: per gli Stati Uniti rappresenta però una ghiotta occasione di profitto, tra l’altro, servita su un piatto d’argento dall’Ue. Niente di più.

[di Simone Valeri]