sabato 22 Novembre 2025
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Dopo 17 mesi l’Etiopia vede la pace: i combattenti del Tigrè accettano la tregua

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Il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè ha accettato l’appello del governo etiope per una “cessazione delle ostilità” che permetta alle organizzazioni umanitarie di portare gli aiuti alla popolazione. La decisione segue l’annuncio, da parte del governo, di una “tregua umanitaria indefinita”. Dopo 17 mesi di guerra che ha visto opposti il governo centrale e i combattenti del Fronte Popolare e ha portato a una gravissima crisi umanitaria per oltre nove milioni di persone, il conflitto sembra ora giunto a un importante punto di svolta. La speranza è infatti, come afferma lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, che l’attuale tregua si traduca in una permanente cessazione degli scontri.

Nella mattinata di venerdì 25 marzo i membri del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPLF) hanno inviato una comunicazione ad AFP nella quale si dichiaravano “impegnati in una cessazione delle ostilità con effetto immediato”. Solamente un giorno prima il generale Abiy aveva annunciato una “tregua umanitaria a tempo indeterminato”, motivata dal fatto che migliaia di individui avevano cominciato a riversarsi dal Tigrè nelle regioni circostanti per cercare di fuggire dal conflitto. Nell’annunciare la tregua, il presidente Abiy si era detto speranzoso che la mossa potesse aprire “la strada alla risoluzione del conflitto“, invitando a tal fine il TPLF a “desistere da ogni atto di ulteriore aggressione” e a “ritirarsi nelle aree che hanno occupato nelle regioni vicine”. Dal canto loro, i membri del TPLF hanno esortato le autorità etiopi a concretizzare le proprie promesse e ad accelerare la consegna nel Tigrè degli aiuti umanitari, resa impossibile negli ultimi mesi a causa dell’intensità degli scontri in corso.

Il conflitto nel Tigrè è in corso da ormai quasi 17 mesi e vede coinvolte le forze governative leali al primo ministro Abiy e il TPLF, gruppo che rappresenta la comunità tigrina presente in Etiopia. Nel novembre 2020, a poca distanza dalle elezioni governative non autorizzate tenutesi nella regione che avevano visto la vittoria schiacciante del TPLF, il primo ministro Abiy Ahmed Ali (già premio Nobel per la Pace nel 2019) aveva guidato l’esercito in un attacco contro la regione nel tentativo di sottomettere i ribelli. All’attacco da parte delle truppe governative sono seguiti quelli messi in atto dal TPLF, che ha esteso gli scontri anche alle vicine province di Amhara e Afar. In poco più di un anno, il conflitto ha causato migliaia di morti, 2,5 milioni di rifugiati e portato quasi un milione di persone alla carestia.

Nel gennaio di quest’anno il World Food Programme (WFP) dell’ONU aveva dovuto fermare le operazioni a causa dell’intensificarsi dei combattimenti nella regione, che avevano bloccato il passaggio di carburante e cibo. Questo aveva comportato l’esaurimento di alcune scorte di generi alimentari. In quell’occasione, Michael Dunford, Direttore Regionale del WFP per l’Africa orientale, aveva dichiarato la necessità di “garanzie immediate da tutte le parti coinvolte nel conflitto per corridoi umani sicuri, attraverso tutte le strade del nord dell’Etiopia”, poiché la mancanza di cibo e carburante aveva permesso di raggiungere “solo il 20%” della popolazione bisognosa, portando la situazione “a un passo dal disastro umanitario”. La stima, secondo l’ONU, è che circa 9,4 milioni di persone abbiano bisogno di assistenza umanitaria, con un aumento di 2,7 milioni di persone in appena 4 mesi. A contribuire alla crisi vi è la mancanza senza precedenti di finanziamenti al WFP.

Secondo quanto riferito dal suo portavoce, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres “spera che questa tregua si traduca in effettiva cessazione delle ostilità, rispettata da tutte le parti in questo conflitto”. Sarà chiaro nelle prossime settimane quali saranno gli sviluppi.

[di Valeria Casolaro]

Australia, la Grande Barriera Corallina torna a sbiancarsi

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La Grande Barriera Corallina sta vivendo il suo sesto sbiancamento di massa, il quarto in appena sei anni. L’evento, riscontrato in seguito a indagini aeree, ha colpito tutte le parti della Barriera ed è dovuto alle elevate temperature della superficie del mare registrate in questo periodo. Il susseguirsi di eventi di questo tipo a così breve distanza, spiegano gli esperti a Mongabay, non concede alla barriera il tempo necessario al recupero. Il cambiamento climatico rappresenta la più grande minaccia per la sopravvivenza della Grande Barriera Corallina e degli ecosistemi simili in tutto il mondo.

In Europa le navi scaricano illegalmente inquinanti oltre tremila volte l’anno

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Una recente inchiesta di Lighthouse Reports ha fatto luce su un problema tanto comune quanto potenzialmente disastroso: lo scarico in mare, da parte delle navi transitanti nelle acque europee, di reflui oleosi altamente inquinanti. La ong SkyTruth, sulla base di dati satellitari dell’Agenzia europea per la sicurezza marittima (Emsa), ipotizza che i casi di sversamenti siano almeno tremila all’anno. I numeri reali però non si conoscono ed è molto probabile che le valutazioni siano sottostimate. Infatti, da un lato, i satelliti non monitorano ogni istante tutte le acque europee e, dall’altro, è verosimile che gli scarichi vengano effettuati di notte proprio per eludere eventuali verifiche. Ad essere sversate sarebbero le cosiddette ‘acque di sentina’, una miscela inquinante, che si accumula naturalmente sul fondo delle imbarcazioni, di oli combustibili, lubrificanti, solventi per la pulizia e metalli come piombo e arsenico. Trattare questi reflui oleosi per rimuovere le sostanze inquinanti, o scaricarli in porto, è costoso. Così, alcune navi optano per sversarle direttamente in mare, dove possono costituire una seria minaccia per la vita marina.

In Europa, le fuoriuscite di petrolio e di altre sostanze sono monitorate dall’Emsa attraverso la sua iniziativa CleanSeaNet, lanciata, nel 2007, proprio allo scopo di analizzare le immagini satellitari per rilevare potenziali scarichi illeciti o incidentali. Nel 2020, l’agenzia ha registrato 7.672 potenziali fuoriuscite ma ha ricevuto un riscontro solo per un terzo di queste, di cui 208 sono state confermate come chiazze di petrolio o suoi derivati. E ancor più basso è il numero di casi effettivamente sanzionati. SkyTruth ha così calcolato quanti sversamenti potrebbero sfuggire al sistema di monitoraggio a causa di lacune nella copertura satellitare e in funzione della velocità con cui le chiazze si dissipano. La conclusione è stata che gli sversamenti effettivi potrebbero essere fino a dieci volte di più rispetto a quelli ufficializzati. Senza contare poi – come ha dichiarato un informatore – la facilità con cui è possibile scaricare queste acque in mare. «Puoi montare una pompa portatile in cinque minuti – ha spiegato – e poi rimuoverla rapidamente se arriva qualcuno». Tra l’altro, i registri cartacei su cui vanno annotate le quantità di oli trasferiti a bordo e processati per la corretta consegna nei porti sono facilmente falsificabili. «La possibilità di trovare i colpevoli dipende inoltre molto dalle tempistiche – ha aggiunto IrpiMedia che ha collaborato all’indagine – entro tre ore dalla segnalazione c’è una maggiore probabilità di individuare ancora le sostanze, ma le autorità dei vari stati membri comunicano pochi dati sulle proprie attività e lasciano pensare che non sia sempre possibile effettuare una corretta verifica».

I rischi per l’ecosistema marino sono perlopiù sconosciuti ma non per questo trascurabili. Anzi, secondo i ricercatori, anche in piccole quantità, le acque con tracce di idrocarburi possono causare seri danni ai microrganismi marini con conseguenti effetti a catena su tutti gli altri esseri viventi. Gli sversamenti “di sentina” tendono a non ricevere la stessa attenzione delle grandi fuoriuscite perché più piccole e meno visibili, ma gli esperti sostengono che la frequenza con cui si verificano sta già avendo un drammatico effetto sulla vita marina. Uno studio del 2016, condotto proprio sugli effetti delle fuoriuscite di petrolio di breve durata, ad esemio, ha confermato “effetti biologici avversi immediati” sugli organismi acquatici, tra cui un calo nel numero di plancton nel mare, microrganismi alla base della catena alimentare.

[di Simone Valeri]

BlackRock: la guerra in Ucraina chiude l’era della globalizzazione

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Raramente le mere opinioni trovano spazio nella nostra linea editoriale. Tuttavia, le dichiarazioni di Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock (la più grande società d’investimento al mondo), rappresentano delle notizie oggettivamente rilevanti, a maggior ragione se si considera che negli ultimi anni BlackRock sia diventato uno dei fulcri dell’economia globale, a cui migliaia di investitori fanno costante riferimento. Proprio in una lettera a loro indirizzata, Larry Fink ha affermato che pandemia e guerra in Ucraina segnano tre cambiamenti epocali all’interno dell’attuale ordine globale: fine della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, accelerazione nell’adozione delle valute digitali e rinnovata spinta verso la transizione energetica.

Fine della vecchia globalizzazione

“34 anni fa, quando BlackRock è nata, abbiamo visto l’ascesa della globalizzazione. Credevamo che il mondo si sarebbe avvicinato. E così è stato. Continuo fermamente a credere nei benefici della globalizzazione: l’accesso al capitale globale consente alle aziende di finanziare la crescita, ai Paesi di aumentare lo sviluppo economico e a più persone di provare sulla propria pelle il benessere finanziario” ha affermato Larry Fink nella lettera agli investitori. “Ma l’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine alla globalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi tre decenni. Avevamo già visto i rapporti tra nazioni, aziende e persino persone messi a dura prova da due anni di pandemia. Questi due fenomeni hanno isolato molte comunità e persone, che adesso si trovano a ripensare al proprio ruolo nel mondo”.

Transizione energetica

Per quanto riguarda la transizione energetica, Larry Fink ha affermato che “l’aggressione della Russia in Ucraina e il suo successivo allontanamento dall’economia globale spingerà le aziende e i governi di tutto il mondo a rivalutare le loro dipendenze e ad analizzare le loro impronte ecologiche riguardanti la produzione e l’assemblaggio, cosa che il Covid aveva già spronato molti a fare”. Quindi, oltre alla dipendenza dall’energia russa, verrà messa in discussione anche quella nei confronti di altre nazioni, comportando inizialmente costi più elevati e pressioni sui margini delle aziende che si tradurranno in un processo inflazionistico. “Sul lungo termine, credo che gli eventi recenti accelereranno effettivamente il passaggio a fonti di energia più verdi in molte parti del mondo. Durante la pandemia, abbiamo visto come una crisi può fungere da catalizzatore per l’innovazione. Aziende, governi e scienziati si sono riuniti per sviluppare e distribuire vaccini su larga scala in tempi record”. Tra gli attori politici più impegnati sul tema, l’amministratore delegato di BlackRock ha citato la Germania, che “prevede di raggiungere il 100% di energia pulita entro il 2035”. Per quanto riguarda, invece, i Paesi privi di proprie fonti energetiche, si aprirà una possibilità unica, il cosiddetto “salto della rana” che permetterà di investire direttamente nelle rinnovabili, bypassando lo stadio fossile.

Adozione valute digitali

In materia di adozione di valute digitali, Larry Fink ha affermato che “la guerra spingerà i Paesi a rivalutare le loro dipendenze valutarie. Anche prima del conflitto, diversi governi stavano cercando di svolgere un ruolo più attivo nelle valute digitali e definire i quadri normativi in base ai quali operano. La banca centrale degli Stati Uniti, ad esempio, ha recentemente lanciato uno studio per esaminare le potenziali implicazioni di un dollaro digitale USA. Un sistema di pagamento digitale globale, progettato con cura, può migliorare il regolamento delle transazioni internazionali riducendo al contempo il rischio di riciclaggio di denaro e corruzione. Le valute digitali possono anche aiutare a ridurre i costi dei pagamenti transfrontalieri, ad esempio quando i lavoratori espatriati inviano i guadagni alle loro famiglie”.

[Di Salvatore Toscano]

Sciopero globale per il clima, migliaia in piazza

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Nella giornata di oggi 25 marzo, in occasione dello sciopero globale per il clima, si sono svolte manifestazioni e cortei in 80 città italiane, tra le quali Milano, Roma, Bologna e Palermo. A Firenze al corteo di Fridays For Future hanno preso parte anche i lavoratori del Collettivo di Fabbrica GKN, mentre a Napoli i manifestanti hanno occupato la sala del Consiglio comunale ed esposto uno striscione che recitava “Stop bla bla bla”. Come riporta Radio Onda d’Urto, alle mobilitazioni per l’ambiente si è aggiunto anche il no alla guerra in Ucraina, “legata a doppio filo ai combustibili fossi che stanno inquinando vite e pianeta”.

Il Comune di Torino non potrà più iscrivere all’anagrafe i figli delle coppie gay

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Il Comune di Torino ha deciso di sospendere la registrazione presso l’Anagrafe dei figli delle famiglie omosessuali. Il sindaco Stefano Lo Russo dichiara di essersi trovato costretto al provvedimento dopo aver ricevuto una nota del Viminale, che specifica come il primo cittadino debba attenersi alla normativa nazionale, la quale non prevede la possibilità di agire in tal senso. Il capoluogo torinese nel 2018 era diventato il primo comune d’Italia ad agire in questo senso e nei quattro anni di amministrazione della sindaca Appendino aveva concesso la registrazione a 79 bambini figli di coppie dello stesso sesso.

Il sindaco Lo Russo si dice «amareggiato» dalla scelta che si è trovato a dover mettere in campo: su indicazione del Viminale, difatti, il Comune di Torino non sarà più autorizzato a permettere l’iscrizione all’Anagrafe dei figli di coppie dello stesso sesso. Il prefetto, in qualità di rappresentante del Governo, avrebbe infatti inoltrato una lettera al primo cittadino torinese nel quale gli viene ricordato il dovere di agire «come ufficiale di governo e non come titolare di potere proprio» e di «attenersi al dispositivo di legge», che al momento in Italia non permette la registrazione dei figli di coppie omosessuali all’Anagrafe. La legislazione italiana prevede infatti che negli atti di nascita siano indicati solamente il padre o la madre, senza eccezioni alla regola. Inoltre la legge 40 sulla procreazione assistita consentirebbe la fecondazione con donazione da individui esterni solamente a coppie eterosessuali.

La questione, lungi dal collocarsi su di un piano meramente legale e burocratico si colloca più che altro sul piano politico. Augusta Montaruli, deputata di Fratelli d’Italia, si dice contenta che sia terminato quello che definisce un «provvedimento capriccio» per il quale Appendino e Lo Russo dovrebbero scusarsi, mentre l’ex candidato di centro-destra Paolo Damilano, in accordo con PD e Movimento 5 Stelle, avvierà a Bruxelles una interrogazione parlamentare per chiedere l’intervento della Commissione europea e la definizione di una legge che regolamenti la materia.

In Europa recentemente si sono fatti alcuni importanti passi per quanto riguarda i diritti delle coppie omosessuali: nel dicembre dello scorso anno, infatti, la Corte di Giustizia europea ne aveva riconosciuto il diritto di costituire, insieme ai propri figli, un nucleo familiare in tutti gli Stati dell’Unione. L’Italia tuttavia non ne ha ancora recepito l’orientamento. L’amministrazione torinese tuttavia non intende fermarsi. Il sindaco Lo Russo si è detto pronto a portare avanti la battaglia a livello politico affinché venga varata una nuova legge, mentre l’assessore ai Diritti Jacopo Rosatelli ha programmato per venerdì prossimo un incontro con le associazioni afferenti al Torino Pride, al fine di concordare passi comuni.

[di Valeria Casolaro]

Ungheria: no alle sanzioni anti-russe

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Il premier ungherese, Viktor Orbán, ha respinto le richieste avanzate al Consiglio Ue dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky circa l’invio di armi a Kiev e le sanzioni da muovere nei confronti della Russia in materia di energia. Secondo Orbán, «le richieste sono contrarie agli interessi dell’Ungheria, che vuole restare al di fuori di questa guerra. Pertanto, non verrà consentito il trasferimento di armi all’Ucraina». «Non possiamo permettere che il prezzo della guerra sia pagato dalle famiglie ungheresi», ha poi aggiunto. «Continueremo a opporci all’estensione delle sanzioni».

Draghi conosce l’articolo 11 della Costituzione italiana?

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«Dovremmo accettare, sostanzialmente, che difendiamo il paese aggressore, non intervenendo. Dovremmo lasciare che gli ucraini perdano il loro Paese e che accettino pacificamente la schiavitù? È un terreno scivoloso che ci porta a giustificare tutti gli autocrati, tutti coloro che hanno aggredito paesi inermi, a cominciare da Hitler e Mussolini».

Queste sono le parole di Mario Draghi in risposta a Vittorio Sgarbi durante la discussione alla Camera sulla decisione del governo di inviare armi all’Ucraina. Draghi forse non conosce l’articolo 11 della Costituzione e il perché di tale articolo costituzionale.

L’articolo 11 della Costituzione italiana recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Se non ci attenessimo a tale articolo e se Draghi avesse ragione e dessimo seguito a quanto esposto dal presidente del Consiglio, l’Italia dovrebbe continuamente entrare in guerra nei vari conflitti che scoppiano nel mondo, al di là di tutti i discorsi sulla pace e la diplomazia. Ad esempio, avremmo dovuto entrare in guerra al fianco del povero Yemen, aggredito dai paesi del Golfo capitanati dall’Arabia Saudita. In questo specifico caso, quindi, avremmo dovuto sostenere militarmente lo Yemen contro l’aggressore saudita che, invece, nonostante sia un regime autoritario, abbiamo armato e da cui acquistiamo senza problemi il petrolio.

Questo semplice esempio, che vale per tutti gli altri, dimostra l’ipocrisia del non detto, ovvero che dietro ai conflitti e allo schierarsi in essi ci sono interessi, c’è la realpolitik, non l’etica e la morale. Per questo e mille altri motivi l’articolo 11 della Costituzione va preservato e attuato, rifiutando la guerra (e il suo incitamento) come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

[di Michele Manfrin]

M5S contro l’aumento delle spese militari, Governo a rischio crisi

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Giuseppe Conte ha affermato ai microfoni de La Stampa che il Movimento 5 Stelle «non potrebbe assecondare un voto che individuasse come prioritario l’incremento delle spese militari a carico del nostro bilancio nazionale. In questo caso il Movimento non potrebbe fare altro che votare contro». Una posizione del genere potrebbe generare una spaccatura nella maggioranza e portare a una crisi di governo. Sulla questione, Conte ha aggiunto che «ognuno farà le sue scelte», scatenando l’immediata reazione dei partiti di maggioranza, tra cui il Pd che attraverso le parole del leader Enrico Letta ha rassicurato circa una soluzione futura.

La decisione di Giuseppe Conte arriva a pochi giorni dall’approvazione da parte della Camera di un ordine del giorno (O.d.G.) che impegna il Governo ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il 2% del Prodotto lnterno Lordo (PIL). Lo stesso leader del M5S ha citato tale soglia, frutto di un accordo informale (non ratificato dalle Camere) in ambito NATO, definendola un «impegno non cancellabile», nonostante non costituisca un obbligo vincolante per il bilancio dello Stato. Tuttavia, Conte non è il solo a preoccuparsi di tale soglia, visto che secondo il Pd “il No all’aumento della spesa militare rischierebbe di trascinare l’Italia fuori dalla NATO” e lo stesso Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha definito le indicazioni come «un obiettivo promesso all’Alleanza», ribadendo la volontà di «creare una difesa europea» e quindi di adeguarsi alla soglia del 2%. In netta contrapposizione a tale direzione appare il leader del M5S, che se da un lato non ha rinnegato l’obiettivo tracciato dall’Alleanza, dall’altro ha affermato che «in un momento come quello attuale di caro-bollette, dopo due anni di pandemia, e con la recessione che si farà sentire sulla pelle di famiglie e imprese, non si capisce per quale motivo le priorità debbano essere le spese militari».

[Di Salvatore Toscano]

Canada: esportazioni di petrolio aumenteranno del 5%

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Il Canada è il quarto paese produttore di petrolio al mondo e nelle scorse ore ha annunciato un aumento del 5% nelle sue esportazioni, per far fronte “alle richieste di aiuto” dei suoi “alleati” in seguito al conflitto tra Ucraina e Russia che “rischia di minare le forniture di carburante”, da cui diversi Stati, tra cui l’Italia, dipendono. Ad annunciarlo è il ministro canadese per le Risorse naturali, Jonathan Wilkinson, in un comunicato. “Il Paese ha la capacità di aumentare le esportazioni di petrolio e gas di 300000 barili di petrolio al giorno entro la fine di quest’anno”. L’obiettivo dichiarato è quello di ridurre la dipendenza dei Paesi europei dall’energia russa.