Nelle Filippine è stata finalmente emanata una legge che vieta il matrimonio con persone di età inferiore a 18 anni. Ne dà notizia l’ONG Amnesty International, che spiega come il fenomeno fosse ancora diffuso nelle Filippine, dove una bambina su sei si sposava prima di aver raggiunto la maggiore età. Con la nuova legge, emanata il 6 febbraio, chiunque violi la norma ora rischia fino a 12 anni di carcere. Una deroga di un anno verrà concessa alle comunità musulmane e indigene, dove il matrimonio tra o con persone di minore età è una pratica relativamente comune.
Il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano potrebbe essere vicino
E’ previsto per oggi a Vienna, quello che, se tutto dovesse andare bene, potrebbe essere l’ultimo round di incontri tra l’Iran e i paesi firmatari dell’accordo sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action – JCPOA). Gli incontri tra i rappresentati di Russia, Cina, Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna e Iran erano ripresi a fine novembre 2021 dopo una pausa di alcuni mesi, a causa delle elezioni presidenziali in Iran.
Il JCPOA (uno dei pochi successi di politica estera dell’ex presidente americano Barack Obama), entrato in vigore nel 2015, venne poi interrotto unilateralmente da Donald Trump nel 2019.
L’accordo sul nucleare garantiva la sospensione delle sanzioni economiche al regime iraniano se quest’ultimo avesse limitato il suo programma nucleare per scopi esclusivamente civili e non militari. Accettando inoltre di ricevere ispezioni regolari da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). La scorsa settimana, il governo americano aveva annunciato di volere ripristinare una deroga alle sanzioni che permetterebbe alle aziende cinesi, russe ed europee di tornare a collaborare con Teheran per lo sviluppo, in ambito civile, della tecnologia nucleare. Nonostante questo “piccolo” segno di buona volontà’ per giungere ad un accordo vanno ancora superati alcuni ostacoli. L’Iran in tutti gli incontri precedenti ha sempre dichiarato che il ripristino dell’accordo debba prima passare dalla cancellazione di tutte le sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti. Washington dal canto suo, sarebbe invece disposta a cancellarne solo alcune, ma non tutte, inserendo nel “nuovo” accordo clausole volte a limitare il programma missilistico e il sostegno ai gruppi armati da parte del regime iraniano.
Per giungere quindi ad un accordo i due “storici nemici” dovranno riuscire a mettere da parte le diffidenze reciproche, dato che entrambi hanno da guadagnarci. Per il regime iraniano la cancellazione delle sanzioni rappresenterebbe una boccata d’ossigeno per l’economia, in recessione. L’inflazione in Iran si aggira sul 40% e le esportazioni di petrolio si sono più’ che dimezzate, da quando le sanzioni sono rientrate in vigore. Per giunta, l’impossibilita’ di attrarre investimenti stranieri fa si che Teheran debba contare quasi esclusivamente su Cina e Russia come investitori e partner commerciali. Il miglioramento dell’economia inoltre andrebbe a limitare il pericolo di rivolte popolari, che in Iran sono sempre dietro l’angolo. Nonostante i forti legami che esistono con Israele (che si e’ sempre fermamente opposto al JPCOA), anche per Washington esistono dei vantaggi derivanti dal raggiungimento di un accordo. Gli Stati Uniti al momento si trovano impegnati in diversi “fronti”, in Ucraina con la Russia, e nel pacifico con la Cina, un compromesso con Teheran potrebbe aiutare ad allentare, almeno in parte, le tensioni in Medio Oriente. Il regime iraniano e’ responsabile dell’addestramento e del supporto militare di diversi gruppi armati attivi nella regione. In particolare in Libano, Iraq e Yemen. Le attività’ di questi gruppi hanno causato diverse tensioni tra Teheran e i due principali alleati americani nell’area, Israele e Arabia Saudita. Va inoltre considerato, che la possibilità’ di tornare a “fare business” e di acquistare petrolio iraniano renderebbe “felici” diversi partner europei. Il presidente Biden, dovrà’ inoltre tener conto di quelli che sono gli ostacoli “interni” per giungere ad un accordo. L’opposizione repubblicana e la potente lobby israeliana sono infatti due tra i maggiori ostacoli che il neo-presidente dovra’ tenere in conto, alla luce anche delle elezioni di midterm (per il rinnovo di camera e senato) previste il prossimo novembre.
[di Enrico Phelipon]
Siria, attacco ISIS contro gruppi filoiraniani
Il 7 febbraio alcune milizie ISIS hanno portato a termine un ampio attacco contro alcuni gruppi armati filoiraniani supportati dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, accampati a est della cittadina di Homs (Siria centro-meridionale). L’attacco avrebbe causato almeno 8 morti e un numero non ancora determinato di feriti. I gruppi sarebbero stati attaccati dopo che nei giorni scorsi avevano condotto, con il supporto di aerei da guerra russi, alcune operazioni volte a identificare i nuclei ISIS attivi in quell’area.
Finalmente l’Islanda ha detto stop alla caccia alle balene
È ufficiale: in Islanda, dal 2024, non sarà più possibile cacciare le balene. Secondo il governo non ci sono più ragioni per rinnovare le autorizzazioni di pesca oltre la scadenza prevista nel 2023, dati anche il calo della domanda e l’economia altamente diversificata e redditizia islandese. L’Islanda è rimasto uno degli ultimi paesi al mondo, con Norvegia e Giappone, a praticare questa attività. Nel paese nordico è permesso cacciare fino a 209 esemplari di balenottera comune – il secondo mammifero marino più grande dopo la balena blu -, e 217 di balenottera minore, uno dei cetacei più piccoli. Tuttavia, le due più importanti imprese con licenza sono in crisi da tre anni per via della concorrenza delle baleniere giapponesi, e una di loro ha di recente dichiarato l’intenzione di sospendere del tutto le attività.
La caccia alle balene a fini commerciali era stata bandita nel 1986 dalla IWC (Commissione Baleniera Internazionale). L’Islanda, però, si oppose e riabilitò la pratica nel 2006, vietando soltanto la cattura e l’uccisione della balena blu. Quella di oggi, quindi, è una notizia più che positiva, non solo per gli animali in questione, ma anche per gli ecosistemi marini, nei quali i grandi cetacei giocano un ruolo importantissimo. Ma le ragioni che stanno dietro alla decisione islandese non hanno a che fare con l’ambiente, bensì col fatto che la carne di balena non sia più economicamente vantaggiosa come un tempo. Ogni anno, prima dello scoppio della pandemia, in Islanda venivano uccisi tra i 100 e i 200 esemplari, ma con la diffusione del coronavirus i numeri sono crollati: nel 2021 è stato ucciso un solo giovane esemplare. Se il paese nordico ha deciso di cambiare rotta, Norvegia e Giappone continuano a uccidere centinaia di balene, violando ogni anno la moratoria e motivando la caccia con presunti “scopi scientifici”.
[di Eugenia Greco]
Covid, sottosegretario Costa: dall’11 febbraio stop mascherine all’aperto
«Credo, e direi sono certo, che dall’11 di febbraio cadrà l’obbligo di mascherine all’aperto non solo per le zone bianche ma per l’intero Paese»: è quanto ha affermato il sottosegretario alla Salute Andrea Costa, ospite del programma Tagadà su La7. Si tratta di «una discussione che sta avvenendo in queste ore, ma ho motivi per credere che si possa andare in questa direzione», ha precisato il sottosegretario.
Usa, le big pharma risarciranno i nativi per averli “distrutti” con gli oppioidi
Negli Stati Uniti una sentenza storica della corte dell’Ohio ha stabilito che il Governo dovrà risarcire le tribù indigene locali per averle “distrutte” con la vendita di oppioidi. In particolare la casa farmaceutica Johnson & Johnson (la stessa del vaccino contro il Coronavirus) e i tre maggiori distributori di oppioidi da prescrizione degli Stati uniti (McKesson, AmerisourceBergen e Cardinal Health), dovranno pagare ai nativi d’America e dell’Alaska (cioè 6,8 milioni di persone) circa 590 milioni di dollari.
Era già accaduto che durante lo scorso settembre le stesse aziende avevano dovuto versare 75 milioni di dollari per placare l’accusa di aver dato vita ad una vera e propria epidemia di oppioidi per quasi 400.000 abitanti, residenti tra i Cherokee dell’Oklahoma.
Quella della dipendenza da sostanze oppiacee è una grossa piaga per l’America. I Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie sostengono che dal 1999 al 2019 gli oppioidi abbiano causato nello Stato almeno mezzo milione di morti per overdose. Più vittime di quelle causate dall’eroina.
Nello specifico, a pagarne maggiormente le conseguenze sono stati proprio i nativi. Secondo ricerche e studi portati avanti dalle tribù e presi in considerazione durante i processi, i nativi d’America e dell’Alaska hanno “subito alcune delle conseguenze peggiori rispetto a qualsiasi altra popolazione degli Stati uniti”. Le vittime non sono stati solo gli adulti.
W. Ron Allen, presidente della Jamestown S’Klallam e rappresentante tribale in diversi dipartimenti del governo Usa, insieme all’avvocato Geoffrey D. Strommer hanno detto al Manifesto che «l’impatto sui bambini nativi americani è particolarmente devastante. Nel 2012 uno su dieci di età pari o superiore a 12 anni ha utilizzato oppioidi da prescrizione per scopi non medici, il doppio rispetto ai giovani bianchi e tre volte quello degli afroamericani». Gli oppiacei sono infatti considerati dei farmaci psicoattivi, che si comportano nel nostro corpo esattamente come farebbe la morfina o sostanze simili ad essa. È molto probabile, dunque, che una sensazione del genere crei nel corpo di chi la assume un certo desiderio di “averne ancora”.
In questo caso sono proprio i bambini nativi che soffrono maggiormente di astinenza e che fanno fatica a controllare e gestire questo istinto. E se l’impatto di queste sostanze incide già sulla vita dei più piccoli, è facile immaginare come esse possano influire su tutto il sistema delle società tribali: «La crisi degli oppioidi ha esaurito la forza lavoro delle imprese tribali, diminuendo la produttività, aumentando i costi amministrativi e facendo perdere opportunità di crescita e sviluppo tribale», ha ribadito a tal proposito l’avvocato.
Come è stato possibile arrivare fino a questo punto? Una grossa fetta della colpa è da attribuire alle case farmaceutiche, concentrate sul generare il maggior numero di profitti. Johnson & Johnson, ad esempio, ha descritto fin dal primo momento i propri oppioidi indicati per il trattamento del dolore cronico e minore. Medicinali, dunque, all’apparenza innocui, consigliati a tutte le fasce d’età e estranei alla dipendenza. Anche le altre aziende hanno agito nello stesso modo, quando invece «avrebbero dovuto segnalare le richieste eccessive di oppioidi da prescrizione da parte delle farmacie, fermando quindi la vendita di quella valanga di pillole». Ma alla fine il profitto vale più di ogni altra vita.
[di Gloria Ferrari]
Intimidazione ai No Tav: incendiato il presidio del movimento
La casetta che ospitava il punto informativo del movimento No Tav nel presidio di San Didero, in val di Susa, è stata distrutta da un incendio questa notte. A denunciarlo sono proprio gli attivisti No Tav, i quali tramite un comunicato pubblicato sul sito notav.info hanno definito l’accaduto un «ennesimo gesto vile e intimidatorio» che però «non fermerà di certo la determinazione del Movimento No Tav di presidiare e stare nei luoghi teatro dello scempio nella nostra valle».
Si tratta del secondo atto ai danni dei presidi No Tav: gli attivisti specificano in tal senso che quanto accaduto fa seguito al «tentato incendio del tendone». Intorno alle ore 23:30 del 4 gennaio, infatti, una porzione del presidio No Tav di San Didero venne incendiata, ma il peggio fu scongiurato grazie all’intervento dei vigili del fuoco. Venne poi bonificata l’area dell’incendio andando a rimuovere la roulotte retrostante il tendone, dove le fiamme divamparono maggiormente per poi diffondersi solo parzialmente alla copertura ed alla struttura del tendone.
Già in quel caso i No Tav sostennero che la matrice dell’incendio fosse evidentemente dolosa, in quanto in seguito al confronto con i funzionari dei vigili del fuoco si andarono ad escludere una serie di possibili cause accidentali. Inoltre anche allora gli attivisti tennero duro e non mollarono di un centimetro, affermando che quanto accaduto non avrebbe fermato «il Movimento No Tav e le sue iniziative».
[di Raffaele De Luca]
M5S: sospesa dal tribunale di Napoli modifica statuto ed elezione Conte leader
Le due delibere con cui, lo scorso agosto, il Movimento 5 Stelle ha modificato il suo statuto ed ha eletto Giuseppe Conte come suo presidente sono state sospese dal tribunale di Napoli, nell’ambito del processo intentato da un gruppo di attivisti del Movimento difesi dall’avvocato Lorenzo Borrè. A riportarlo è l’agenzia di stampa Adnkronos, la quale fa sapere che i provvedimenti sarebbero stati sospesi in via cautelare a causa della presenza di «gravi vizi nel processo decisionale», ossia l’esclusione dalla votazione di oltre un terzo degli iscritti ed il successivo mancato raggiungimento del quorum. Tale decisione, secondo quanto affermato dall’avvocato Lorenzo Borrè all’Adnkronos, determinerebbe il decadimento della «carica di Conte» nonché l’emergere della «incompatibilità di alcune attuali cariche negli organi di garanzia» in base alle «restrizioni previste dal precedente statuto, che è ritornato in vigore».









