domenica 24 Novembre 2024
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Il dietrofront di Zelensky: “la Russia partecipi al prossimo tavolo di pace”

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Il presidente ucraino Volodymir Zelensky ha per la prima volta aperto alla possibilità che la Russia partecipi al prossimo vertice di pace che dovrebbe svolgersi a novembre. Lo ha annunciato durante una conferenza stampa tenutasi ieri a Kiev, durante la quale ha detto che «i rappresentanti russi dovrebbero partecipare al secondo vertice di pace», dopo quello svoltosi in Svizzera a giugno, al quale Mosca non era stata invitata. Si tratta di un cambio di passo significativo rispetto all’atteggiamento assunto sinora dal capo ucraino, il quale si è sempre detto contrario a trattare con Vladimir Putin, tanto che nel 2022 aveva ratificato la decisione del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale del 30 settembre in cui si afferma l’impossibilità di negoziare con il presidente della Federazione Russa. Un’apertura inedita, dunque, che arriva immediatamente dopo il 75° summit della NATO – svoltosi la scorsa settimana a Washington – e in vista delle elezioni americane che si svolgeranno a novembre e potrebbero portare al ritorno alla presidenza di Donald Trump, il quale si è detto fortemente determinato ad avviare negoziati di pace tra Mosca e Kiev per porre fine al conflitto.

Il presidente ucraino ha anche annunciato un calendario per i lavori preparatori al vertice che prevede tre incontri: il primo incontro sarà sulla sicurezza energetica e si terrà probabilmente in Qatar a fine luglio o inizio agosto; il secondo si terrà in Turchia ad agosto sulla libertà di navigazione e verrà discussa la questione della sicurezza alimentare; a settembre, invece, ci sarà il terzo incontro in Canada concernente il settore umanitario.

Duro il commento della Russia, che non ha tardato ad arrivare tramite il presidente del Comitato per gli affari internazionali della Duma di Stato russa e leader del Partito Liberal Democratico di Russia (LDPR), Leonid Slutsky, secondo cui Mosca non prenderà parte al summit alle condizioni dei burattini di Kiev e dei loro manipolatori occidentali: «Cosa possiamo dire qui? Innanzitutto, il modo è assolutamente inaccettabile. Non esiste un “dovrebbe”. La Russia non deve assolutamente nulla a Zelensky e alla sua giunta. E, sono sicuro, non parteciperà a nessun cosiddetto summit alle condizioni dei burattini di Kiev e dei loro capi occidentali», ha scritto sul suo canale Telegram. Anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, si è mostrato cauto circa le esternazioni del presidente ucraino, dicendo che bisogna capire cosa intende e cosa abbia in mente quando parla di summit di pace. Zelensky, infatti, fino a poco tempo fa ha sempre sostenuto che l’unica via per la pace è il ritiro completo della Russia dai «territori occupati».

Le posizioni dei due Stati in conflitto sono, dunque, ancora molto lontane e non è scontato che si possa svolgere un negoziato a novembre a cui partecipi anche la Russia, specie se le condizioni sono dettate dall’Ucraina, che si trova peraltro in una situazione di svantaggio sul campo. Sempre nella conferenza stampa di ieri, inoltre, Zelensky ha detto che l’Ucraina ha bisogno di 25 sistemi di difesa aerea Patriot per difendere completamente il suo spazio aereo, chiedendo agli inviati occidentali di inviare più aerei da guerra F-16 di quelli promessi. Nonostante ciò, il dietrofront di Zelensky è evidente e potrebbe corrispondere alla possibilità di un cambio dell’amministrazione americana: proprio ieri, il senatore James David Vance, scelto da Trump come candidato vicepresidente, ha detto pubblicamente che è necessario portare avanti i negoziati per porre fine alla guerra, in quanto, a suo dire, «chiunque abbia un po’ di cervello sa che tutto questo finirà con i negoziati».

[di Giorgia Audiello]

Oristano: continua il presidio permanente al porto contro la speculazione energetica

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Nel porto di Oristano, dove negli scorsi giorni è nato il presidio permanente contro il transito dei mezzi speciali che trasportano le pale eoliche, si sono registrati nella notte le prime tensioni con le forze dell’ordine. Un gruppo di persone si è infatti seduta per terra per impedire il transito dei camion che trasportano le componenti delle pale verso le zone dell’isola dove queste verranno poi installate, iniziativa che ha comportato l’immediato intervento della polizia, subito disposta in cordone a protezione dei mezzi in assetto antisommossa. «Le pale eoliche giganti stanno partendo verso territori da devastare nonostante la moratoria, tutti insieme possiamo fermarli» era stato l’appello, nei giorni scorsi, del Gruppo per la Tutela del Territorio Sardo (Gruttes), che ha dato il via all’iniziativa. Nelle scorse settimane, infatti, la Regione aveva dato il via libera a una moratoria che blocca ogni nuovo progetto di energia rinnovabile, eolico e fotovoltaico, al fine di fermare quello che è stato definito “assalto delle multinazionali” al suolo sardo. I cittadini sardi hanno più volte dichiarato di non essere contrari alla transizione energetica quanto alla speculazione che l’accompagna a scapito della tutela dell’ambiente e della volontà della popolazione.

«A foras sas palas de sa Sardigna»: questo il coro che i comitati hanno ripetuto durante tutta la serata mentre bloccavano il passagio dei tir che trasportano le componenti delle pale eoliche. Quella nel porto di Oristano è solo l’ultima delle iniziative che il popolo sardo ha intrapreso per resistere contro quello che è definito dai comitati un «assalto» nei confronti dei propri territori. La settimana scorsa, nell’entroterra cagliaritano, alcuni cittadini hanno dato il via alla Rivolta degli Ulivi, una sollevazione popolare spontanea che risponde agli espropri coattivi dei terreni dei contadini (dove dovranno sorgere i parchi eolici) piantando ulivi e altre specie vegetali. Nel frattempo, è ufficialmente partita la raccolta firme per fermare i progetti di parchi eolici e fotovoltaici nell’isola in assenza di un adeguato piano energetico regionale.

La popolazione sarda da tempo denuncia come tra le pieghe della transizione energetica si nasconda una speculazione che saccheggia un territorio già martoriato dalla presenza (anch’essa imposta) delle basi militari e dei poligoni di tiro. Nell’isola sono infatti state presentate 809 richieste di allaccio di impianti di produzione di energia rinnovabile alla rete elettrica nazionale che, se approvate, produrrebbero 57,67 Gigawatt di potenza. A fine aprile è emerso che la più grande fabbrica di pannelli fotovoltaici della Repubblica Popolare cinese, la Chint, si è accaparrata dall’azienda spagnola Enersid il più importante progetto solare mai concepito a livello europeo, allungando i suoi tentacoli su mille ettari di terreni nel nord della Sardegna. Pochi giorni dopo, la presidente della Regione, Alessandra Todde, ha approvato un disegno di legge che introduce il divieto, per 18 mesi, di realizzare nuovi impianti di produzione e accumulo di energia elettrica da fonti rinnovabili che causano direttamente nuova occupazione di suolo. I comitati hanno tuttavia continuato a dar battaglia, non ritenendo il provvedimento sufficiente a tutelare il territorio.

[di Valeria Casolaro]

La premier estone si dimette e diventa Alto rappresentante esteri UE

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La Premier estone Kaja Kallas ha lasciato il proprio posto da Primo Ministro per ricoprire il ruolo di Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri, sostituendo così lo spagnolo Josep Borrell, in carica dal 2019. Kallas ha spesso espresso posizioni vicine alla NATO, ed è una forte sostenitrice della causa ucraina, tanto che il suo Paese risulta uno di quelli che hanno fornito a Kiev più aiuti militari in rapporto alla popolazione. Ora il suo governo rimarrà in carica ad interim fino alla nomina del suo successore, già individuato dal Partito Riformatore nell’attuale Ministro per gli Affari climatici, Kristen Michal.

Per la prima volta la squadra dei rifugiati sarà alle Olimpiadi con un proprio simbolo

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giochi olimpici parigi

La Squadra dei Rifugiati, che a Parigi 2024 segnerà la sua terza partecipazione ai Giochi Olimpici dopo Rio 2016 e Tokyo 2020, gareggerà per la prima volta con un proprio logo identificativo: un cuore rosso circondato da frecce multicolori rivolte verso di esso. Un simbolo che, nel suo complesso, rappresenta il cammino intrapreso dai rifugiati verso nuove opportunità di vita. 
La squadra, conosciuta con l'acronimo EOR (Équipe Olympique des Réfugiés), sarà composta da 36 atleti e atlete (erano 9 a Rio e 29 a Tokyo) provenienti da 11 Paesi e 15 Comitati Olimpici Nazionali (NOC). Gli sportivi, mo...

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Nelle carceri italiane ci sono state 4 rivolte e 8 morti in una settimana

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Quattro rivolte e otto morti in otto giorni. Questo il bilancio dell’ultima settimana nelle carceri italiane, dopo che nel mese di luglio il sovraffollamento ha toccato il tasso del 135%. Cinque, tenendo conto anche della rivolta nel CPR di Gradisca d’Isonzo. Il 4 luglio, a Sollicciano (Firenze), un giovane tunisino di 20 anni si è tolto la vita impiccandosi all’interno della sua cella. La notizia ha fatto esplodere la rabbia degli altri ristretti, che hanno dato via a una rivolta, incendiando alcune sezioni della struttura. Lo stesso giorno è morto un detenuto entrato nella Casa Circondariale di Livorno il 24 maggio, il quale il 1° luglio aveva cercato di impiccarsi nella sua cella. La stessa sorte toccata a un 19enne, detenuto nel carcere di Pavia. Neanche una settimana dopo, il 9 luglio, a Varese un uomo di 57 anni è stato trovato morto nel bagno della sua cella. Il 10 luglio, a Viterbo un altro detenuto viene ritrovato senza vita, notizia che ha dato immediatamente il via alla rivolta nel penitenziario. L’indomani è toccato al carcere di Trieste, dove, una volta sedate le proteste, è stato trovato il corpo senza vita di un uomo, all’interno della sua cella. Domenica 12 è stata la volta del carcere di Torino. Nella notte di domenica, invece, è stato rinvenuto l’ultimo detenuto suicida dell’anno nel penitenziario di Venezia: aveva 37 anni e si trovava in carcere per reati legati allo spaccio di stupefacenti. Sale così a 56 il numero dei detenuti suicidi nei primi 7 mesi del 2024, una cifra «che appare come un bollettino di guerra», scrive il sindacato di polizia UILPA. A questi si aggiungono i 6 agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita nel solo 2024 – l’ultimo dei quali il 7 luglio a Roma.

«Tre decessi per suicidio in 12 ore non si erano mai visti» ha dichiarato il segretario dell’UILPA, Gennarino De Fazio, all’indomani della morte dei detenuti di Sollicciano, Livorno e Pavia. D’altronde, la problematica della gestione delle carceri sta toccando nuovi picchi di gravità nel 2024. Il tasso di sovraffollamento, questione comune alla pressochè totalità degli istituti coinvolti da sommosse in questi giorni, supera in alcuni istituti il 200%, come nel caso di Brescia. A Sollicciano, i detenuti hanno inoltrato oltre 100 ricorsi per le condizioni inumane nelle quali si trovano a dover vivere all’interno del penitenziario, tra cimici, caldo soffocante e pareti coperte di muffa. A sostenerli vi è (da anni) l’associazione L’Altro Diritto (ADIR), che più volte ha denunciato la situazione «degradante» all’interno del carcere. Qui, nel luglio 2023, un’ispezione dell’Ufficio di Igiene aveva rilevato «infiltrazioni di acqua in molte zone a comune all’interno delle sezioni, muffe nelle docce, alcune celle inagibili per perdite d’acqua e in alcuni casi con pareti annerite, insufficiente aerazione degli ambienti, finestre bloccate per la presenza di nidi di vespe, la presenza di volatili “possibili vettori di zecche”, carenze strutturali nei locali cucina e in quelli di approvvigionamento del vitto». Condizioni che erano valse a un detenuto assistito da ADIR uno sconto di pena di 312 giorni. Tuttavia, la battaglia si preannuncia ora difficile. Secondo il magistrato che ha esaminato i ricorsi, infatti, richieste quali la presenza di acqua calda non costituiscono «un diritto essenziale garantito al detenuto, ma una fornitura che si può pretendere solo in strutture alberghiere».

Il 4 luglio il governo ha presentato un dl (n. 92/2024) recante Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia, che mira a ridurre il problema del sovraffollamento tramite sconti di pena e ricorso a misure alternative. Secondo l’associazione Antigone, che si occupa di diritti dei detenuti, si tratta tuttavia di «interventi minimali» o «di lunga applicazione», che non possono essere «minimamente risolutivi». Antigone riferisce infatti che nelle strutture mancano almeno 100 direttori e mille operatori sociali, oltre che figure chiave come interpreti, traduttori e mediatori culturali e linguistici. Inoltre, proprio questo governo sta implementando una serie di leggi e decreti legge che non fanno altro che aumentare esponenzialmente la popolazione carceraria, dal decreto Caivano fino al ddl Sicurezza in discussione in questi giorni al Parlamento, che prevede la criminalizzazione della disobbedienza civile, l’introduzione del reato di rivolta in carcere e detenzione fino a 25 anni per coloro che protestino «contro le grandi opere». A ciò si aggiunge il fatto che un terzo dei detenuti in Italia si trova in carcere per violazione della legge sulle droghe (dato molto più alto della media globale del 22% e quasi doppio rispetto a quella europea del 18%). Secondo quanto riportato dalla nuova edizione del Libro Bianco, rapporto indipendente redatto da associazioni e sindacati, «la simulazione di un carcere senza i prigionieri frutto della legge proibizionista sulle droghe rende evidente che non ci sarebbe sovraffollamento» se il carcere fosse utilizzato solamente in extrema ratio.

[di Valeria Casolaro]

UE: approvata per la prima volta misura di sostegno a forze armate albanesi

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Per la prima volta, il Consiglio UE ha dato il via libera a un’iniziativa di assistenza alle forze armate albanesi, del valore di 13 milioni di euro. L’iniziativa è volta a «migliorare l’efficacia operativa delle Forze Armate Albanesi» in termini di «mobilità, manovrabilità e protezione», oltre che a «rafforzare le capacità dell’Albania di partecipare alla Politica di Sicurezza e di Difesa Comune dell’UE (CSDP)». Attraverso il Fondo Europeo per la Pace verranno dunque forniti «equipaggiamenti non destinati all’uso di forze letali», formazione tecnica, ma anche veicoli blindati leggeri.

In Perù è stato scoperto un tempio 3.500 anni più antico di Machu Picchu

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In Perù gli archeologi hanno portato alla luce i resti di un antico tempio e teatro risalenti a 4.000 – o forse anche 5.000 – anni fa. La scoperta può aiutare gli studiosi a comprendere le origini delle complesse religioni della regione ed è avvenuta nel sito Los Paredones de la Otra Banda-Las Ánimas. I ricercatori hanno trovato un tempio cerimoniale contenente resti umani appartenenti a tre adulti, fregi raffiguranti immagini di animali mitici e tipici della cultura dell’epoca e diversi doni cerimoniali, i quali suggeriscono che i tre defunti siano stati uccisi durante un rituale sacrificale. La peculiarità della scoperta, però, risiede nella datazione delle strutture rinvenute e nel fatto che il tempio sarebbe stato realizzato da un popolo di cui si hanno ben poche notizie e non dagli Inca. Gli archeologi hanno trovato anche la tomba di un bambino, il quale non si sa se sia stato sacrificato o meno e la cui sepoltura sarebbe avvenuta secoli dopo la costruzione della struttura principale.

Frammenti del tempio cerimoniale risalente a 4.000 anni fa in Perù. Credit: Pontificia Università Cattolica del Perù/Reuters

A rivelare la notizia è il Ministero della Cultura peruviano, che cita l’archeologo Luis Armando Muro Ynoñán, il quale ha dichiarato: «È stato davvero sorprendente che queste strutture antichissime fossero così vicine alla superficie moderna». I ricercatori, infatti, hanno scavato nel terreno un quadrato di lato 33 piedi (circa 10 metri) e hanno iniziato a trovare tracce dei muri a soli sei piedi (circa 1,8 metri) di profondità. Procedendo con le indagini, è stata trovata una «sezione» di un grande tempio e persino quello che sarebbe un piccolo teatro «con un’area dietro le quinte e una scalinata che conduceva a una piattaforma simile a un palco». Questo «avrebbe potuto essere utilizzato per eseguire spettacoli rituali di fronte a un pubblico selezionato», ha poi aggiunto Ynoñán. I reperti risultano anteriori nella datazione sia rispetto al sito archeologico più noto del Paese – Machu Picchu – sia rispetto alle culture pre-Inca e Nazca.

Un team di archeologi che lavora nel sito. Credit: Pontificia Università Cattolica del Perù/Reuters

L’ipotesi più accreditata, per ora, è che la costruzione sia stata realizzata dai Moche: un popolo abbastanza misterioso di cui si hanno poche informazioni a riguardo: «Non sappiamo come queste persone si chiamassero, o come le altre persone si riferissero a loro. Tutto ciò che sappiamo di loro deriva da ciò che hanno creato: le loro case, i loro templi e i loro beni funerari. Le persone qui hanno creato sistemi religiosi complessi e percezioni del loro cosmo», con la religione che è «un aspetto importante dell’emergere dell’autorità politica», ha poi aggiunto. Infine, il ricercatore ha rivelato di aver trovato diversi grandi murales dipinti sui muri, dai quali sono già stati raccolti campioni di pigmenti di vernice che verranno analizzati in laboratorio e sfruttati per la datazione al carbonio e quindi per confermare l’età del sito. «È stato davvero incredibile trovarsi faccia a faccia con queste raffigurazioni di un dio antico che era così importante per questi antichi gruppi», ha concluso Ynoñán, aggiungendo di avere un «legame speciale» e «profondo» con la scoperta in quanto la sua famiglia proviene dalla zona.

[di Roberto Demaio]

Trump: le domande senza risposta di un attentato che mostra le crepe della democrazia USA

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Ha monopolizzato il dibattito e occupato le prime pagine di tutto il mondo l’attentato fallito all’ex presidente e candidato alle presidenziali del 2024, Donald Trump. Il 13 luglio, durante il comizio elettorale dell’esponente repubblicano in Pennsylvania, l’attentatore ventenne Thomas Matthew Crooks – successivamente ucciso dalla polizia – ha sparato almeno sette colpi da un tetto situato a poco più di cento metri dal palco da dove parlava il politico americano, uccidendo una persona e ferendone diverse, tra cui l’ex presidente, lievemente ferito all’orecchio destro. Se da un lato, l’accaduto mette in luce le evidenti falle del sistema di sicurezza, dall’altro ha anche evidenziato due aspetti fondamentali: la profonda divisione sociale degli Stati Uniti e la straordinaria abilità comunicativa di Donald Trump che è stato immediatamente in grado di utilizzare una potenziale tragedia in suo favore, garantendosi un potenziale vantaggio elettorale.

L’avversario per eccellenza del mondo progressista americano, dopo essere sopravvissuto miracolosamente ai proiettili, ha trovato immediatamente la lucidità per spettacolarizzare l’accaduto, trasformandolo in un punto di forza: circondato dalle sue guardie di sicurezza del Servizio Segreto, dopo essersi rialzato, ha sollevato il pugno incitando i suoi sostenitori esclamando «Fight! Fight! Fight!» («combattere! Combattere! Combattere!») galvanizzando e compattando il suo elettorato e rafforzando la sua immagine di figura chiave nella lotta politica contro il cosiddetto “deep state – lo Stato profondo contro cui Trump ha spesso puntato il dito – e di argine alle degenerazioni della sinistra americana. Complici anche le iconiche immagini che lo ritraggono e che hanno già fatto il giro del mondo, diventando rapidamente magliette messe in vendita. Allo stesso tempo, il fallito assassinio mette in luce anche la profonda divisione sociale e politica che attraversa l’America e il clima d’odio che caratterizza il dibattito politico. Il confronto tra Joe Biden e Donald Trump, infatti, rappresenta la resa dei conti tra due anime del Paese tra loro opposte e inconciliabili: da una parte, l’anima liberal, woke e progressista; dall’altra quella conservatrice e tradizionalista, non di rado etichettata anche come “populista”.

Considerata l’estrema polarizzazione presente nel Paese, che rende prevedibili episodi di violenza e potenziali attentati, non poche domande sono sorte riguardo alle evidenti criticità del servizio di sicurezza (il “Secret Service”), tanto che il presidente Biden ha chiesto una revisione delle azioni intraprese dall’agenzia di protezione. L’attentatore, infatti, è riuscito a salire indisturbato sul tetto da cui ha sparato, nonostante – secondo testimonianze emerse nelle scorse ore – alcuni sostenitori presenti al comizio avessero allertato il personale di sicurezza in merito alla presenza dell’uomo armato sul tetto, prima che questi aprisse ripetutamente il fuoco. La possibilità del cecchino di raggiungere il tetto è tra i punti più importanti che hanno indotto ad aprire le indagini sulla sicurezza. Secondo un esperto citato da Politico, «Non avrebbe mai dovuto esserci una chiara linea di mira sull’ex presidente». «Abbiamo notato il tizio che strisciava come un orso sul tetto dell’edificio accanto a noi, a 50 piedi di distanza», ha detto un partecipante di nome Greg Smith alla BBC, chiedendo perché il Servizio Segreto non fosse presente su quei tetti e sintetizzando l’accaduto come un fallimento della sicurezza al cento per cento.

Da parte sua, il presidente Biden ha cercato di smorzare il clima di tensione che avvelena la Nazione invitando all’unità: «Restiamo uniti come nazione, dimostriamo chi siamo» ha detto. «Dobbiamo ricordare che, nonostante le divergenze, non siamo nemici: siamo vicini di casa, amici, colleghi, e soprattutto siamo cittadini americani e dobbiamo rimanere insieme», ha aggiunto. Il presidente ha anche affermato che al momento non vi è alcuna informazione circa il movente che ha spinto l’attentatore ad agire e ha quindi invitato tutti a non trarre ipotesi affrettate lasciando lavorare l’FBI e le altre agenzie. Tuttavia, l’appello del capo della Casa Bianca risulta tardivo, perché gli ambienti liberal hanno lavorato non poco per demonizzare l’avversario politico, ritraendolo come un eccentrico guerrafondaio, razzista, misogeno e “sessita”, fomentando così un clima d’odio.

Dal punto di vista internazionale, a sottolineare questo incitamento all’odio è stata la Russia: secondo la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zackarova, Washington incoraggia l’istigazione all’odio verso i suoi oppositori politici. «Due mesi fa, ho notato che gli Stati Uniti stavano letteralmente fomentando l’odio verso gli oppositori politici e hanno anche fornito esempi della tradizione americana di tentativi e assassinii di presidenti e candidati presidenziali», ha scritto sul suo canale Telegram. Sul giornale cinese Global Times, invece, si dà ampio risalto alla «crescente violenza politica» nel Paese e alla sua divisione, mentre Xi Jinping ha espresso vicinanza all’ex presidente.

Non si sa ancora nulla circa i motivi che avrebbero spinto ad agire Thomas Matthew Crooks né se abbia agito individualmente o per conto di un’organizzazione: non aveva precedenti penali e sebbene risultasse registrato come elettore repubblicano, risulta che abbia donato $ 15 al Progressive Turnout Project, un’organizzazione del Partito Democratico, la cui principale missione è convincere i democratici a votare. Alcuni osservatori non escludono il movente geopolitico, considerato che Trump ha dichiarato di voler porre fine alla guerra in Ucraina e, a tal fine, la scorsa settimana ha ricevuto anche il primo ministro ungherese Orban, unico capo europeo che sta lavorando per intavolare trattative di pace tra i due Stati belligeranti. È presto comunque per avere un quadro chiaro dei fatti e dei motivi o delle organizzazioni che avrebbero spinto ad agire l’attentatore ventenne, e non è detto si arrivi mai a stabilire una verità. Quello che è certo, però, è che il clima politico esasperato e la polarizzazione della società americana mette a nudo le crepe della decantata democrazia statunitense, mentre Trump ha tutte le capacità necessarie per trasformare un evento nefasto in un punto di forza della sua campagna elettorale.

[di Giorgia Audiello]

Le Olimpiadi di Cortina 2026 hanno già prodotto un buco di 107 milioni di euro

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Mancano ancora due anni ai giochi olimpici invernali di Cortina, ma il conto è già in rosso per 107 milioni di euro. È quanto sottolineato dal rapporto presentato dalla Corte dei Conti della Regione Veneto. Secondo la ragioneria regionale, il bilancio di Fondazione Milano-Cortina 2026 – ente che sovrintende i lavori per le olimpiadi – ha un deficit patrimoniale cumulato “in costante peggioramento”, senza che vi sia certezza di miglioramento del business plan dei prossimi due anni. Una situazione che lascia presagire come gli enti pubblici – ossia i cittadini – saranno chiamati a ripianare le perdite. Non è la prima tegola che si abbatte sulle olimpiadi che i presidenti di Lombardia e Veneto, Attilio Fontana e Luca Zaia, avevano preannunciato come le prime totalmente «green e a costo zero». Nel maggio scorso l’ex AD della Fondazione Milano-Cortina 2026 è finito sotto inchiesta per corruzione e turbativa d’asta, mentre anche sotto il profilo ambientale i lavori per la nuova pista da bob sono investiti dalle proteste per l’abbattimento di centinaia di alberi, tra cui circa 500 larici secolari.

Nel paragrafo del proprio rapporto dedicato alle Olimpiadi Milano Cortina, la Corte dei Conti riscontra problemi su vari fronti, che vanno dall’economico al gestionale: in merito allo stesso sistema di governance creato per gestire le Olimpiadi, il documento evidenzia nuovamente le criticità già sollevate in sede di Giudizio di Parificazione del rendiconto 2021 e 2022, in cui rimarcava come il generale marasma degli organi coinvolti, “in assenza di un reale coordinamento unitario, avrebbe potuto portare a sovrapposizioni di competenze ed ad un possibile aggravio di tempi, procedure e costi”, che oggi paiono proprio stare verificandosi. Tra le sovrapposizioni di competenze basterebbe pensare all’attività di monitoraggio dello stato di avanzamento delle opere in piano, affidata alla stessa Società Infrastrutture Milano Cortina 2020 – 2026 S.p.A. (SIMICO), piuttosto che, “come sarebbe più normale”, a un soggetto terzo, scelta che ha portato così a far “coincidere controllato e controllore”.

Gli aggravi di tempi, procedure, e costi sono invece chiaramente visibili ovunque; per tutte le opere in piano, infatti, traspare “il perdurare di un rischio elevato che non vengano portati a compimento alcuni interventi infrastrutturali di particolare importanza”: la variante Cortina prevederebbe ancora oltre 250 milioni di euro esenti da copertura finanziaria, mentre per la variante di Longarone “è previsto un termine di realizzazione successivo all’avvio dei Giochi”. Non pare essere messa molto meglio la tanto discussa pista da bob, per la quale si registra “un notevole aumento dei costi di realizzazione”, a fronte di un progetto descritto ancora come poco chiaro. Ultimo, ma non meno importante, è l’operare stesso della Fondazione Milano-Cortina, che secondo la Corte dei Conti lavorerebbe in costante deficit. Solo nel 2023, la Fondazione avrebbe registrato un “risultato economico negativo per euro 33.725.504,00”, che sommati al deficit già presente portano a un rosso di oltre 107 milioni di euro, “che dimostra come la Fondazione continua ad operare in condizioni di deficit patrimoniale in costante peggioramento”. Al vento le promesse e gli auspici di risanare il deficit accumulato negli anni, tanto che a oggi “davanti a un business plan che soffre di una certa aleatorietà sulla effettiva capacità della Fondazione di far fronte alle obbligazioni finora assunte” e ai costi sostenuti, “non si rivengono elementi di certezza sull’eventuale capacità di miglioramento economico”. Da rimarcare che se, come pare, l’equilibrio economico non dovesse realizzarsi, a pagare sarebbero “lo Stato italiano e gli Enti territoriali” coinvolti.

Le Olimpiadi invernali del 2026 sono al centro di scandali e contestazioni sin dal loro lancio. Dalla inchiesta per corruzione che ha coinvolto la Fondazione verso la fine di maggio, agli  evidenti problematiche ambientali che deriverebbero da alcuni dei progetti in cantiere, primo fra tutti quello relativo alla pista da bob, il progetto Milano-Cortina sembrerebbe fare acqua da tutte le parti. Proprio la pista da bob parrebbe essere il più limpido degli specchi dell’inefficienza dell’iniziativa Olimpiadi 2026: il sindaco di Innsbruck aveva proposto solo 15 milioni di euro per poter organizzare le gare di bob, offrendo una alternativa molto più economica e sostenibile alla costruzione di una pista da zero; il danno ambientale risulta immenso e prevede l’abbattimento di un intero bosco di larici, in un territorio già ampiamente messo in ginocchio dalle difficoltà dei cambiamenti climatici, che avrebbe dunque bisogno di interventi di salvaguardia e tutela più che di ulteriori maltrattamenti; ultimo, ma non meno importante, i tempi sembrerebbero decisamente ristretti, visto che inizialmente si stimavano oltre 800 giorni di cantiere, ma i lavori sono iniziati solo a febbraio.

[di Dario Lucisano]

La Germania mette al bando le cinesi Huawei e Zte dal 5G

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l governo tedesco ha deciso di bandire l’utilizzo delle componenti prodotte dalle aziende tech cinesi Huawei e ZTE nel settore del 5G. L’obiettivo dichiarato è garantire la sicurezza nazionale, evitando la dipendenza delle infrastrutture da potenze straniere. La decisione è stata presa dopo intense negoziazioni tra il ministero dell’Interno tedesco e i tre principali operatori telefonici dell’area: Deutsche Telekom, Vodafone e Telefonica. Il divieto entrerà in vigore nel 2026 e si richiede che le apparecchiature critiche siano completamente sostituite entro il 2029. Questa mossa fa parte di un quadro politico più ampio che il Cancelliere tedesco Olaf Scholz ha descritto come «rivalità sistemica» nei confronti della Cina.