il portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian, ha affermato che «ci sarà la riunificazione con Taiwan», minacciando anche l’utilizzo di «misure efficaci» a tutela di sovranità e integrità territoriale. Le dichiarazioni sono state rilasciate qualche ora dopo l’arrivo nell’isola di una delegazione del Senato statunitense che ha incontrato oggi la presidente Tsai Ing-wen. In questo modo Pechino si oppone a ogni relazione fra Taiwan e Stati Uniti. Zhao Lijian ha infine aggiunto che «le azioni dell’esercito cinese sono una contromisura alle recenti azioni negative degli Usa, compresa la visita della delegazione del Congresso», riferendosi alle manovre militari dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) nei pressi di Taiwan.
La nuova idea del governo: contro l’astensionismo serve il pass elettorale digitale
La Commissione di studio sul fenomeno dell’astensionismo elettorale ha formulato diverse misure per favorire la partecipazione dei cittadini alle elezioni. La proposta consentirebbe nuove modalità di espressione del voto, in particolare la votazione anticipata presso uffici postali e comunali (da dove le schede verrebbero spedite, e scrutinate, al seggio naturale) attraverso l’istituzione di una tessera elettorale digitale, già ribattezzata election pass. Proprio come la certificazione verde, andrebbe scaricata sul proprio cellulare o stampata, per poi essere presentata al momento delle elezioni che, secondo la proposta della Commissione voluta dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico d’Incà, andrebbero concentrate in due appuntamenti: uno primaverile e l’altro autunnale, così da limitare i disagi dovuti alle interruzioni didattiche per tutte quelle scuole adibite a seggi.
Alla votazione anticipata si aggiunge poi la possibilità di votare “in contemporanea”, in un seggio diverso da quello naturale o in hub elettorali temporanei (sul modello di quelli allestiti per le vaccinazioni), magari più accessibili perché vicini al territorio in cui si vive. Si tratterebbe di un’opportunità per i lavoratori e studenti fuori sede (4,9 milioni) o per gli anziani con gravi difficoltà motorie (2,9 milioni) che comunque non deve far distogliere lo sguardo dalle motivazioni principali dell’astensionismo: indifferenza, poca attrazione dall’offerta politica e sfiducia. Nel momento in cui le scelte dei cittadini vengono tradite, ormai sistematicamente, è difficile ricucire poi il rapporto, non solo con la forza politica in questione ma con tutto il sistema. Non a caso, come sottolinea lo stesso D’Incà, “alle Politiche del 1948 votò il 92% degli italiani, mentre nel 2018 poco meno del 73%”. Cos’è cambiato? Praticamente tutto. Nel 1948 il senso di appartenenza da parte dei cittadini alla vita politica e alla cosa pubblica era massimo, “favorito” da due anni di guerra civile, in cui si era combattuto per la democrazia e per la libertà. Poi sono arrivati i primi tradimenti dalla classe politica, con cui fino a qualche mese prima si era combattuto gomito a gomito. Paradossalmente avremmo potuto assistere al fenomeno dell’astensionismo anche tra gli anni ’50 e ’60, ma ciò non è accaduto per via di un compromesso: il boom economico. È vero, da un lato dilagava la consapevolezza di un sistema politico corrotto, ma dall’altro si sorvolava perché c’era il benessere economico, un miraggio dopo anni di sofferenza causati dalla guerra.

Così, andando avanti nel tempo, è sempre esistito un collante che faceva da contraltare alla consapevolezza di una classe politica corrotta. Oggi il collante è svanito: crisi del 2008 e pandemia hanno mostrato i nervi scoperti di un rapporto tossico fra cittadini e rappresentanti, fatto di sfiducia e di indifferenza. Ultima l’esperienza del 2018, quando circa 15 milioni di italiani (il 50% di chi si presentò alle urne) votarono due partiti definibili allora anti-sistema: Lega e M5S, accomunati dalla lotta all’euro. Dopo tre anni entrambi sono entrati a far parte di un Governo tecnico, ben visto dall’Unione europea e a suo supporto. Si tratta soltanto di una delle tante incongruenze a cui si è assistito negli ultimi decenni, che hanno mostrato come il problema dell’astensionismo affondi le radici in un sistema che andrebbe rivisto a tutela degli elettori, per non trattarli più come semplice strumento a cadenza cinquennale ma come fonte e riferimento.
[Di Salvatore Toscano]
Lo Sri Lanka dichiara default e si getta tra le braccia del Fondo Monetario Internazionale
Fra le strade dello Sri Lanka nelle ultime settimane si sente un solo grido: «Gota vattene a casa». Gota sta per Gotabaya Rajapaksa, presidente del paese, appartenente ad una dinastia che in pratica governa su tutto lo Sri Lanka da 20 anni. Mahinda, uno dei fratelli, ricopre la carica di primo ministro, mentre Basil Rajapaksa e Chamal, rispettivamente ministri delle finanze e dell’irrigazione, si sono dimessi qualche giorno fa insieme a tutto il parlamento (ma non il presidente né il primo ministro). La popolazione è in rivolta da settimane. La gente accusa la dinastia Rajapaksa di essere la principale causa del tracollo economico e finanziario che sta mettendo in ginocchio il paese. I soldi stanno per terminare e le riserve monetarie sono praticamente esaurite. Gli esperti dicono che sono rimasti in “cassa” meno di 600 milioni, cioè denaro a malapena sufficiente per coprire il costo delle importazioni di una sola settimana. È diventato difficile reperire gasolio, fertilizzanti, medicinali, cibo e le autorità staccano l’energia elettrica per più della metà della giornata.
Ecco perché il 12 aprile il Governo ha ufficialmente dichiarato il default, cioè quella condizione economica per cui le entrate finanziarie statali (le tasse) non sono sufficienti a coprire le uscite dello stato.
Tra le altre cose, significa quindi che il Governo smetterà di ripagare il debito estero (sia le obbligazioni che i prestiti concessi da Governi e istituzioni internazionali), perché «dobbiamo concentrarci sulle importazioni essenziali e non possiamo preoccuparci del servizio del debito estero», ha sottolineato Nandalal Weerasinghe, a capo della Banca centrale. Andando più nel dettaglio, negli ultimi 15 anni lo Sri Lanka ha contratto debiti per il 65% del PIL, e nel 2022 ha in scadenza circa 4 miliardi di dollari di oneri. Come riporta il Sole24ore, Fitch – agenzia internazionale di valutazione del credito – crede che al paese serviranno “altri 2,4 miliardi di dollari per rimborsare i debiti contratti da aziende statali e private”.
Per far fronte alla crisi, le autorità hanno deciso di indebitarsi ulteriormente, aprendo un negoziato con il Fondo monetario internazionale (FMI) che, ricordiamolo, è un’istituzione con sede a Washington, a cui partecipano 188 paesi, con la finalità di “promuovere la stabilità economica e finanziaria”. In concreto, un programma che teoricamente dovrebbe “ristrutturare il debito”, modificando cioè le condizioni originarie di un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia) per alleggerire nel tempo la posizione del debitore. Stando a quanto si apprende dalle fonti governative, le contrattazioni sono in corso e non senza malumori, espressi soprattutto dall’ex capo della Banca centrale Ajith Nivard Cabraal, che fino all’ultimo si è opposto all’accordo definendolo «una ferita alla sovranità del Paese».
Il FMI salverà quindi il paese dal collasso? No, o meglio, è bene sottolineare che il denaro concesso dal Fondo monetario non è a costo zero. I paesi che ricevono aiuti dal FMI devono accettare delle clausole e delle regole molto rigide, compresi tagli ai settori dell’educazione, della sanità e dei servizi pubblici. In pratica, i paesi debitori sottoscrivono dei “piani di aggiustamento strutturale”, impegnandosi a intervenire duramente sulle proprie politiche economiche con privatizzazioni e riforme di stampo liberista. Delle condizioni che in altri paesi non solo non hanno risolto strutturalmente il problema del debito, ma hanno anzi alla lunga aggravato le condizioni economiche dei paesi interessati. Basta guardare il caso dell’Argentina, che negli anni ha usufruito più volte di questa risorsa.
[di Gloria Ferrari]
Israele, irruzione in moschea provoca decine di feriti
Dall’inizio del Ramadan (e ora della Pasqua ebraica), le tensioni tra Israele e Palestina si sono intensificate. Prima dell’alba, la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme Est, mentre migliaia di fedeli erano riuniti per le preghiere del primo mattino. Diverse fonti parlano di decine di palestinesi feriti (secondo alcune si sfiorerebbero le 90 persone) nelle violenze che sono seguite all’arrivo degli agenti: i video mostrano gli spari di gas lacrimogeni da parte di questi ultimi e il lancio di pietre da parte dei palestinesi. “L’irruzione è stata effettuata per fermare una folla violenta” ha dichiarato la polizia israeliana.
Giovedì 14 aprile
7.00 – La Commissione Giustizia della Camera approva gli emendamenti alla riforma del CSM.
9.30 – Incrociatore russo colpito e danneggiato al largo di Odessa, per Kiev colpito da missili ucraini.
10.00 – Approvato emendamento che prevede che il canone RAI non sia più inserito in bolletta.
10.30 – Mosca avvisa la NATO: se entrano Finlandia e Svezia ci saranno conseguenze.
12.10 – Elon Musk lancia OPA da 41 mld per acquistare la maggioranza di Twitter.
12.20 – UK, il governo intende trasferire in Ruanda i richiedenti asilo arrivati illegalmente.
13.00 – Festival di Cannes, Bruni Tedeschi e Martone sono gli italiani in concorso.
14.00 – Mosca accusa Kiev di aver bombardato abitazioni civili in due villaggi ucraini sotto controllo russo.
14.30 – Walter Ricciardi: «In autunno con vaccini aggiornati quarta dose sarà per tutti».
16.00 – Gli Usa annunciano che gli ucraini riceveranno nuove armi in meno di una settimana.
17.00 – L’UE destina un miliardo di euro in progetti per la protezione degli oceani.
Oxfam: 263 milioni di persone in più a rischio povertà estrema nel 2022
“263 milioni di persone in più potrebbero essere spinte in condizioni di povertà estrema nel 2022, a causa dell’impatto combinato del Covid-19, della disuguaglianza e dell’inflazione relativa ai prezzi di cibo ed energia, accelerata dalla guerra in Ucraina”: è quanto comunica l’Oxfam, la confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale, sulla base di un suo recente rapporto intitolato “Prima crisi, poi catastrofe”. “Abbiamo bisogno di un piano di salvataggio economico globale”, sottolinea in tal senso l’Oxfam, aggiungendo che “a meno che i leader del G20, il FMI e la Banca mondiale non agiscano immediatamente, oltre un quarto di miliardo di persone in più potrebbero trovarsi in una situazione di povertà estrema nel 2022”.










