domenica 7 Dicembre 2025
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Sabato 9 aprile

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9.00 – Ucraina: aperti 10 nuovi corridoi umanitari per i civili.

9.30 – Italia, ministero della Transizione Ecologica ammette di essere sotto attacco hacker da tre giorni.

10.00 – Palermo, corteo contro la legge regionale che permette l’alternanza scuola-lavoro nell’esercito.

11.00 – Gli ucraini denunciano il rinvenimento di 132 corpi con segni di torture a Makariv, vicino Kiev.

11.30 – Premier inglese Johnson incontra Zelensky a Kiev, è primo leader G7 da inizio guerra.

12.45 – Di Maio annuncia che l’ambasciata italiana a Kiev riaprirà dopo pasqua.

13.00 – La Scozia ha triplicato le sue foreste in un secolo, ora ricoprono il 18% del territorio.

14.00 – Domani presidenziali in Francia: ultimi sondaggi danno Macron e Le Pen separati di soli 2,5 punti.

15.00 – Cuba sta restaurando a mano la barriera corallina per rinforzarla, è il primo stato al mondo.

17.00 – A Roma centinaia di persone partecipano a manifestazione contro il governo Draghi.

19.00 – Secondo Credit Suisse, in Venezuela l’economia crescerà del 20% nonostante l’embargo americano.

 

Ucraina: Boris Johnson incontra Volodymyr Zelensky a Kiev

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Il primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, nella giornata di oggi si è recato a Kiev, dove ha avuto un colloquio con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. “Oggi ho incontrato il mio amico Volodymyr Zelensky a dimostrazione del nostro incrollabile sostegno al popolo ucraino”, ha affermato Johnson tramite un tweet, aggiungendo altresì di star preparando un “nuovo pacchetto di aiuti finanziari e militari” a testimonianza dell’impegno a sostenere la “lotta dell’Ucraina contro la barbara campagna russa”.

Recensioni indipendenti: Big Pharma (documentario di inchiesta)

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Un documentario d’inchiesta sul mondo dell’industria farmaceutica, della durata di 54 minuti, diretto da Luc Hermann e Claire Lasko e prodotto dalla Première Lignes, specializzata in giornalismo investigativo, che analizza le importanti questioni della salute pubblica e degli enormi interessi economici in ballo. Un’indagine globale sulle grandi case farmaceutiche che detengono il monopolio del mercato mondiale e conosciute ormai globalmente come Big Pharma, nome dato in senso dispregiativo e critico per i loro comportamenti a dir poco disinvolti nella produzione, nella commercializzazione e nella distribuzione dei farmaci. Il documentario è visibile in italiano sulla piattaforma RaiPlay.

Ricostruendo gli scandali degli ultimi decenni, fino agli scenari attuali del Covid-19, il filmato offre uno spaccato delle più importanti industrie farmaceutiche mondiali e degli interessi che le muovono, interessi quasi esclusivamente economici e volti a tutelare principalmente gli azionisti. Aziende che beneficiano della ricerca finanziata dai fondi pubblici e acquistano per cifre esorbitanti concorrenti più piccole per acquisirne i brevetti estendendo sempre di più il loro potere di mercato e incrementando in modo esponenziale il loro fatturato. La Roche e la Novartis con sede in Svizzera, Pfizer e Johonson e Johonson negli StatiUniti, negli ultimi anni hanno acquisito decine di aziende più piccole diventando dei colossi così potenti da influenzare perfino le scelte di politica sanitaria dei governi orientandoli verso l’uso di farmaci sempre più costosi talvolta minimizzandone o addirittura nascondendone gli effetti collaterali  pur di mantenere il monopolio su alcune malattie molto diffuse come il cancro o l’epatite C, e soprannominate “blockbuster” che nell’accezione delle leggi di mercato identifica un prodotto che ha come punto di forza quello di generare principalmente ingenti entrate.

Come nel caso dello spregiudicato broker trentenne Martin Schreli che acquistò i diritti sul “Daraprim” un efficace farmaco per la cura dell‘ HLV portandone il costo da 13,50 a 750,00 dollari. Un aumento del 5.000% che ha portato un introito più che soddisfacente per il fatturato delle aziende e per gli azionisti. Un operazione sicuramente discutibile dal punto di vista morale ma perfettamente legale. Negli Stati Uniti i prezzi dei farmaci hanno libero mercato, ma in questo caso, proteste popolari ed in seguito l’arresto per truffa “dell’uomo più odiato d’America”, cosi fu definito Schreli, qualche passo avanti fu fatto: Il prezzo del “Daraprim” fu ridimensionato ma non tornò mai più al costo iniziale.

Da sottolineare anche il caso riportato del “Depakin” un medicinale specifico e molto efficace nella cura dell’epilessia, prodotto dalla casa farmaceutica francese “Sanofi” che accuratamente omise di dichiarare effetti collaterali che potevano danneggiare gravemente il feto se assunto in gravidanza. La determinazione di una madre affetta da epilessia che faceva uso del “Depakin”, dopo aver partorito un figlio con gravissimi danni neurologici si è prodigata perché fosse portato a conoscenza di tutti il rischio cui potevano andare incontro future madri affette come lei dalla stessa malattia. Battaglie come questa sono sempre lunghe, difficili e di esito incerto proprio perché il singolo deve scontrarsi con aziende che esibiscono subito tutta la loro forza data da un potere economico così grande tanto da scoraggiare qualsiasi iniziativa. Talvolta i consumatori riescono ad avere dei riconoscimenti e anche se non ricevono alcun indennizzo hanno almeno la soddisfazione di aver in parte scalfito quella barriera di inattaccabilità e di aver portato a conoscenza del pubblico come in realtà agiscono coloro che dovrebbero innanzi tutto pensare alla salute e non solo agli smisurati profitti.

[di Federico Mels Colloredo]

Le violenze di Capua Vetere descritte nella lettera di un ex detenuto

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Il 6 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in Campania, gli agenti della polizia penitenziaria commisero atti violenti ai danni dei detenuti provocando anche la morte di uno di loro: come documentato da un video proveniente dalle telecamere di sicurezza della struttura, infatti, quel giorno le forze dell’ordine diedero vita ad un vero e proprio pestaggio di gruppo. Manganellate, calci, pugni, testate, persone inermi stese a terra brutalmente picchiate: sono queste le violenze che si verificarono nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una vera e propria mattanza che gli agenti scatenarono quasi per vendetta, dato che il giorno precedente i detenuti avevano inscenato una protesta per la situazione all’interno del carcere in relazione alla pandemia da Covid-19. Così, a metà dicembre 2021 è iniziato il processo che vede 108 imputati – tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) – accusati a vario titolo di: tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine (addebitato a 12 individui). Nell’attesa che la giustizia faccia il proprio corso, però, recentemente un ex detenuto del carcere ha inviato una lettera all’associazione Yairaiha Onlus in cui ha raccontato l’esperienza da lui vissuta in prima persona. Di seguito, riportiamo integralmente il testo in questione.

“Sono un ex detenuto di Santa Maria Capua Vetere del reparto Nilo (che ormai si è fatto conoscere a tutti, anche da chi prima non lo conosceva). Il mio primo ingresso in un carcere è stato a Santa Maria Capua Vetere, avevo sbagliato e dovevo scontare la mia pena. Sono entrato a novembre, diciamo prima della pandemia. Anche se nei paesi lontani qualcosa si sentiva dire, nessuno immaginava a cosa si stava andando incontro. Nel mese di febbraio si sentiva, anche nel nostro paese, di 900 morti al giorno; e nelle carceri, vedendo come la pandemia cresceva sempre di più, la paura era molto grande. Sapevamo che al di fuori di quelle mura c’era una pandemia chiamata Covid-19. La paura cresceva sempre di più: le mascherine non c’erano e anche i vaccini, ancora in fase di sperimentazione, da noi sarebbero arrivati molto tardi. Ad aprile nel reparto Tamigi un detenuto è risultato positivo e la notizia si è diffusa in fretta. Nel reparto abbiamo chiesto di poter parlare con la commissaria ma, visto che lei non veniva, abbiamo fatto mancato rientro; verso le 20.30 la commissaria si è, allora, presentata dicendo che il giorno dopo avremmo fatto i tamponi e che ci avrebbe portato le mascherine. Quella sera siamo rientrati in cella. Il giorno dopo verso le 9:20 siamo scesi al passeggio fino alle 10:35. Dopo l’una c’era il passeggio, abbiamo chiesto l’orario: è passato l’appuntato a dire che, chi aveva gli occhiali, li doveva togliere. Dalle altre sezioni abbiamo cominciato a sentire grida, però mai avremmo pensato cosa stava succedendo. Dopo un paio d’ore di grida e rumori, anche nella sezione in cui mi trovavo, vediamo arrivare degli appuntati con caschi, manganelli e scudi. Cominciano a chiedere “chi è T.” e vanno verso la cella 11 dove si trovava il detenuto T. Da dove stavo io sentivo solo le lamentele di T. e dopo dieci minuti vedo che lo stanno trascinando per terra. Era svenuto per quanto si vedeva. Sentivo solo gli appuntati che dicevano “Adesso tocca a voi”. Solo dopo ho visto che, lungo il corridoio, su entrambi i lati c’erano tantissimi sbirri. Un numero preciso non si poteva dire, però potevano essere minimo 150. Poi c’era il famoso Antonio Fullone, il provveditore, che entrava nelle celle con 10 appuntati: prima loro ti picchiavano e poi il provveditore ti chiamava e ti domandava “da dove vieni?” e cominciava con i pugni. Diceva “adesso esci” e quando uscivi in corridoio c’erano tutti gli appuntati che dicevano “abbassa la testa e non guardare nessuno in faccia”. Quando arrivavi in saletta ti aspettavano gli altri e là nessuno si poteva muovere. Poi dopo un’ora in saletta c’erano sempre gli stessi con i caschi, manganelli e scudi in mano. La schiena e la testa non riuscivo a sentirle più dalle botte che avevo preso. Quelle ore di inferno non passavano più. Quando di sera sentiamo il carrello dell’infermiera e ci siamo avvicinati al cancello chiedendo di essere visitati, lei diceva “lei è in piena salute”. Il capoposto diceva “nessuno scenda in infermeria e nessuna avrà niente più che la sua terapia. Qui comandiamo noi”. Quella sera abbiamo dormito con la paura. E di mattina dovevamo fare le videochiamate con i nostri cari però le guardie ci dicevano che le videochiamate erano eliminate. Durante le chiamate alla famiglia le guardie venivano e dicevano di non raccontare quello che era successo altrimenti avrebbero sospeso le telefonate. Nonostante questo qualcuno è riuscito a raccontare alla propria famiglia. Anche se si è saputo fuori quello che è successo, davanti a noi trovavamo sempre gli stessi appuntati e nessuno al di fuori delle mura faceva quello che doveva fare. Ancora oggi vedo persone come Antonio Fullone e Michele detto Poggioreale che sono ancora liberi anche se Fullone è stato il primo ad entrare nelle celle e a mettere le mani sui detenuti. Fino a quando queste persone saranno fuori dalla galera questa non sarà giustizia. Non dico che le persone devono essere arrestate tutte, ma chi sbaglia deve pagare. Adesso sono un po’ lontano dalla casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e posso raccontare”.

[di Raffaele De Luca]

Usa: Biden firma stop a importazioni petrolio russo

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Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha firmato un provvedimento che impone il bando delle importazioni di petrolio dalla Russia. A renderlo noto è stata la Casa Bianca, la quale tramite una nota ha fatto sapere che il presidente non solo ha firmato il cosiddetto “Ending Importation of Russian Oil Act” – che nello specifico vieta per legge “l’importazione di prodotti nel campo dell’energia provenienti dalla Federazione Russa” – ma ha altresì sottoscritto la “legge sulla sospensione delle normali relazioni commerciali con la Russia e la Bielorussia”, che appunto mette temporaneamente fine alle normali relazioni commerciali con i due paesi.

Consiglio di Stato: no agli sgomberi senza tutelare chi è in difficoltà

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Il Consiglio di Stato, in una sentenza di fondamentale importanza del 16 marzo scorso, ha determinato che l’esecuzione degli sfratti non può avvenire se non con previa messa in atto di misure assistenziali per le famiglie che vertano in uno stato di fragilità sociale ed economica. Niente più sfratti a sorpresa portati a termine dalle forze dell’ordine, quindi: questi vanno invece pianificati e devono essere preceduti da concreti interventi di aiuto da parte dei Comuni. La sentenza, che si pronunciava nello specifico per un caso riguardante Roma, ha portata nazionale, contribuendo a definire una nuova prassi della messa in atto degli sfratti.

La questione degli sgomberi delle famiglie in condizioni di fragilità economica e sociale non è materia di ordine pubblico: a stabilirlo è una sentenza del Consiglio di Stato emessa il 16 marzo scorso. Lo rende noto è l’attivista Massimo Pasquini in un post pubblicato sul blog de Il Fatto Quotidiano. La sentenza, spiega Pasquini, segue un ricorso presentato da Roma Capitale contro Investire SGR spa, società di gestione patrimoniale con un patrimonio di 7 miliardi di euro, proprietaria di un immobile occupato nella città di Roma. La società era ricorsa al Tar del Lazio per chiedere una velocizzazione delle procedure di sgombero, sostenendo che il Prefetto e il Comune non stessero agendo in questo senso. La disputa è giunta al Consiglio di Stato il quale, nell’emettere la sentenza, ha sottolineato come negli sgomberi sia di prioritaria importanza mantenere i livelli essenziali di assistenza alle famiglie interessate, garantendone il rispetto dei diritti, in primo luogo il passaggio da casa a casa.

La sentenza si rifà all’art. 31-ter della legge 132/2018, secondo la quale deve essere prevista “una apposita cabina di regia che vede la presenza di rappresentanti della Prefettura, della Regione, del Comune e dell’ente competente in materia di edilizia residenziale pubblica” affinché si organizzino per effettuare lo sgombero nel rispetto dei diritti primari delle famiglie in condizioni di fragilità. Secondo la sentenza, infatti, “il Prefetto di Roma non può dare esecuzione allo sgombero in assenza di contestuali concrete azioni di tutela delle fragilità economiche e sociali degli occupanti abusivi alla cui realizzazione sono chiamate la Regione Lazio e Roma Capitale”. Gli sgomberi non possono perciò avvenire senza preavviso, ma devono essere programmati e avvenire insieme alla ricezione di adeguata e concreta assistenza da parte della Regione e del Comune.

Come sottolinea Pasquini, ciò che emerge in particolar modo da questa sentenza è che “il diritto ad abitare è prioritario al diritto alla proprietà privata persino nei casi di occupazione abusiva determinata da bisogni insopprimibili”. In conseguenza a ciò, “Regioni e comuni dovrebbero quindi dotarsi di un adeguato parco di alloggi pubblici”. Le stesse conclusioni vengono tratte nella ricerca effettuata dalla società Nomisma e da Federcasa pubblicata nel maggio 2020, che spiega come il disagio abitativo in Italia riguardi poco meno di 1,4 milioni di famiglie, il 5,7% del totale delle famiglie italiane, mentre sono 1,674 milioni gli individui che vivono in condizioni di povertà assoluta (dati riferiti al 2019). La spesa media per il canone di affitto è tra i 380 e i 450 euro: se queste cifre venissero ridotte a 200 euro, secondo la ricerca, il numero di famiglie in disagio abitativo passerebbe da oltre un milione a 363 mila nuclei.

Inoltre, come denuncia la ricerca, il patrimonio di edilizia residenziale pubblica “è ancora caratterizzato, in troppi casi, da gravi condizioni di degrado e problemi di manutenzione e riqualificazione”. L’accesso agli alloggi sociali risulta, inoltre, estremamente limitato, data “la scarsità dei finanziamenti”, le “difficoltà di coordinamento tra diversi livelli di governo” e la “mancanza di una visione d’insieme strategica”. Inoltre, “Solo il 4% della popolazione ha accesso al canone agevolato e tutti gli indicatori disponibili rilevano un elevato e crescente disagio abitativo”.

Come sottolineato anche da Pasquini, è quindi necessario che l’Italia “avvii politiche abitative pubbliche e di aumento della disponibilità di case popolari a canone sociale, se si vuole affrontare seriamente la questione abitativa”.

[di Valeria Casolaro]

Il nuovo rapporto della Dia spiega che Cosa Nostra sta cambiando

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La Direzione Investigativa Antimafia ha presentato al parlamento la relazione relativa al primo semestre del 2021, da cui emergono molte novità sulla peculiare fase di transizione che interessa Cosa nostra. Tradizionalmente nota fra le associazioni criminali di stampo mafioso nostrane per il carattere unitario e verticistico del suo impianto, la mafia palermitana si starebbe rimodulando secondo “un processo più orizzontale caratterizzato dal riassetto degli equilibri tra le famiglie dei diversi mandamenti in assenza di una struttura di raccordo di comando al vertice ”. Si rilevano inoltre forti criticità dovute alla “presenza di nuove figure di spicco che si innalzano a capi, sebbene non sempre riconosciute come tali dagli anziani uomini d’onore detenuti o da poco tornati in libertà”.

Importante è considerare che quasi tutti i boss storicamente più illustri e autorevoli di Cosa Nostra si trovano oggi relegati al “carcere duro”: la riforma dell’ergastolo ostativo, approvata alla Camera e ora al vaglio del Senato, che escluderebbe dall’accesso ai benefici carcerari i detenuti al 41-bis, potrebbe concorrere all’accelerazione del processo di “rinnovamento” in atto, aprendo la strada alle nuove leve e favorendo l’abbandono dei vecchi retaggi. I boss più anziani che tornano nei loro quartieri dopo aver scontato la loro pena all’interno degli istituti penitenziari, infatti, sembrano non voler spartire il potere con i nuovi reggenti: secondo la Dia, rappresentano i “portabandiera di un’ortodossia difficile da ripristinare a fronte di una visone più fluida del potere mafioso”, che viene “declinato in chiave moderna”. In ogni caso, tutto è ancora da scrivere e questo scontro-confronto potrebbe costituire lo spartiacque più importante per i futuri assetti e strategie dell’organizzazione mafiosa.

Per quanto riguarda la suddivisione interna, il capoluogo siciliano rimane frazionato in 8 mandamenti, nel cui perimetro sono distribuite 33 famiglie; il territorio provinciale accoglie invece 7 mandamenti, composti in totale da 49 famiglie. 

Sul fronte degli affari, la mafia palermitana continua a imporre il pizzo, i cui proventi sono ancora necessari per arricchire il salvadanaio dei clan e offrire sostegno alle famiglie degli uomini d’onore che si trovano in prigione. L’egemonia dei punciuti è però messa a dura prova dall’ascesa dei cults nigeriani, sempre più potenti grazie alla fruttuosa gestione del traffico di esseri umani: essi “sembrano aver acquisito un vantaggio competitivo nel settore degli stupefacenti”, riuscendo a controllarne sia l’offerta che la domanda. Da quando la mafia nigeriana ha messo le radici sul suolo siciliano (e, in particolare, nei vari comparti del business illegale del capoluogo) si è concretizzata una sostanziale “coabitazione” tra le due entità criminali, che, come si legge nel report, “conduce ad accordi utilitaristici in uno o più settori di cointeressenza confermando ulteriormente la tendenza, già emersa in passato, a rinunciare alla violenza e ai conflitti cruenti in favore di una predilezione per gli affari”. Sostanzialmente, dunque, si riesce a convivere senza attaccarsi vicendevolmente, in un’ottica di spartizione del guadagno dei traffici illeciti.

Nel dettato della relazione aleggia anche il fantasma di Matteo Messina Denaro: il capomandamento di Castelvetrano, ricercato dal 1993, costituirebbe ancora la “figura criminale più carismatica di cosa nostra e in particolare della mafia trapanese”. Nonostante la difficile latitanza, infatti, il pupillo di Totò Riina “resterebbe il principale punto di riferimento per far fronte alle questioni di maggiore interesse che coinvolgono l’organizzazione”, oltre che “per la risoluzione di eventuali controversie in seno alla consorteria”, e “per la nomina dei vertici di articolazioni mafiose anche non trapanesi”. In attesa che qualcuno si degni di catturarlo.

[di Stefano Baudino]

Bari, 20 arresti per traffico di donne rumene

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Nelle prime ore di oggi, sabato 9 aprile, la polizia di Bari ha effettuato 20 ordinanze di custodia cautelare in carcere e ai domiciliari nei confronti di altrettanti soggetti indagati per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù e allo sfruttamento della prostituzione. Le vittime sarebbero donne molto giovani provenienti dalla Romania. Queste venivano ingannate con lo schema noto come “Lover Boy”, ovvero l’adescamento tramite social media fingendo di voler fare amicizia per poi destinarle alla prostituzione. Gli arresti sono avvenuti tra Bari e altre località della Puglia.

Le parole giuste, cioè la cultura come arma di pace

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“Chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi me l’ha data per patria? La patria è quello che l’anima nostra va cercando e che per lei è caro sopra ogni cosa. La mia patria sei tu! Ecco la mia patria! E la porterò questa patria nel mio cuore, la porterò finché durerà la mia vita”. Andrej, figlio del leggendario cosacco Taras Bul’ba ha tradito i suoi ed è pronto a morire per mano del padre che lo accusa di amare una giovane polacca conosciuta a Kiev. La donna diventa per lui la vera patria e anche così si consuma lo strappo con gli ordini del padre, con le proprie origini e con una certa visione del mondo.

Nikolaj Gogol’, nato nel 1809 vicino a Poltava, in Ucraina, nel romanzo breve Taras Bul’ba narra le epiche imprese dei cosacchi, impegnati sino alla morte nella lotta contro polacchi, ebrei e musulmani ma nello stesso tempo descrive in toni mitologici, edenici la steppa da loro attraversata, che si distendeva fino al Mar Nero, “come un oceano verde-oro, in cui sprizzavano milioni di fiori variopinti… Sospesi nel cielo stavano gli sparvieri, con le ali spiegate e gli occhi immobili, fissi nell’erba… Talora il cielo notturno in varie parti era rischiarato da un lontano fulgore rossastro, da un incendio di canne secche nei prati…”. Taras finirà catturato dai polacchi e verrà bruciato vivo, legato a un albero. E Gogol’ gli attribuirà così una fine mitica, con quello speciale legame tra morte gloriosa e dimensione divina che discende dagli eroi greci dell’Iliade omerica: “Ci sarà un tempo in cui imparerete a conoscere che cosa è la religione russa ortodossa! Già fin d’ora lo sentono le nazioni lontane e vicine: sorgerà dalla terra russa il suo zar, e non ci sarà al mondo una forza che non si umilii dinanzi a lui!”.

È il conflitto tra la modernità di Andrej e la pesante (ancora viva) tradizione incarnata da Taras che bisogna saper cogliere, quella speciale verità come coincidenza degli opposti che è tipica di tutto il pensiero slavo, l’eredità di un ragionare simbolico, visionario che proviene dallo scisma di Oriente e che da Costantinopoli è approdato a Kiev. 

La vita è il vero luogo in cui si manifesta la verità. Così Pavel Florenskij, il grande filosofo russo (ucciso dopo anni di detenzione in un lager staliniano in Siberia), sosteneva che la verità va riconosciuta dove si mostra, prescindendo da astratti schemi intellettuali. C’è, a suo parere, alla base l’illusione dell’Occidente e la sua dannazione a voler ogni volta esaurire con spiegazioni la profondità dei fenomeni, a sostituire le prospettive molteplici della realtà con univoche risposte senza alternative, a cancellare la dimensione comunitaria a vantaggio sempre delle esigenze del soggetto, c’è l’incapacità “di dire il rapporto tra la fede e il sapere, condannando il cristianesimo all’insignificanza” (G. Lingua). Alla base si presenta una questione che, a partire dal pronunciamento del Concilio di Nicea dell’anno 787, diventa indissolubile nella liturgia orientale: “nella tradizione biblica la parola suona, è ascoltata, mentre in quella cristiano-ortodossa essa viene contemplata. La parola è vista, l’immagine (l‘icona) è ascoltata” (D. Ferrari-Bravo).

Quando, negli anni Venti del Novecento, si affacciò in linguistica la scuola formalista, di stampo soprattutto slavo, a determinare le leggi interne dell’arte poetica e con la sua ‘Morfologia della fiaba’ Vladimir Propp (1928) individuò gli schemi ricorrenti del funzionamento dei racconti, tutto questo fu possibile grazie a una vera e propria rivoluzione, consistente nel porre al centro il linguaggio, come aveva mostrato la poesia simbolista e quella futurista. Quasi fosse possibile svincolarsi da qualsiasi contenuto, dando invece il privilegio alle sonorità, alla forza espressiva e trasgressiva della parola, sostituendo quasi alla teologia della bellezza, agli interrogativi romantici sul ruolo della persona e delle masse nel mondo, l’orizzonte visionario e caleidoscopico delle avanguardie.

Nella Russia del secondo Ottocento c’era stata, a partire da Potebnja sino ad arrivare, nel Novecento, a Vygotskij, la visione potente della centralità della parola, non tanto come rappresentazione del pensiero ma in quanto dotata di una sua specifica forza creativa, come organo di formazione del pensiero, il che permetteva di creare una vera e propria scienza letteraria che saldasse la visione mitologica delle sedimentazioni narrative del passato, e dei suoi contenuti ricorrenti, con la energia delle  nuove visioni formali.

“Le parole-idee sono le voci del mondo , la risonanza dell’universo, la sua ideazione. La parola è ideazione del cosmo”. La parola è il mondo, la conoscenza del mondo si compie attraverso la parola, così scriveva Sergej Bulgakov. Per parte sua Michail Bachtin, l’autore di straordinari studi sul romanzo, affermava che ogni enunciazione linguistica non si limita a trasmettere significati, a produrre comunicazione, ma crea ogni volta qualcosa di nuovo che prima non esisteva. La parola insomma, in quanto atto, annotava il semiologo Jurij Lotman, ha “una forza particolarissima, incomparabile”.

I nostri sono tempi in cui per superare la gravità di quanto accade occorre dotarsi di una consapevolezza speciale, quella di saper cogliere, nel mondo slavo la particolare commistione tra spiritualità, o se preferite esaltazione religiosa, e visione linguistica delle cose, con una creatività e una prospettiva a cui bisogna lasciare margini di incomprensione.

Il regista Andrej Tarkovskij, nel suo splendido libro, Scolpire il tempo, 1988, osservava che nella Russia attuale si erano oscurate certe tradizioni culturali. Quelle ad esempio che permettono di riconoscere che “l’anima è assetata di armonia e che la vita è disarmonica”. Come dice Aleksander nel film Sacrificio, “l’uomo si è difeso dalla natura e l’ha violentata. Il risultato è una civiltà fondata sulla forza, sulla paura, sulla dipendenza. Il peccato è ciò che non è necessario. Tutta la nostra civiltà è basata sul superfluo… e fondamentalmente sbagliata, figlio mio”. E quanto a un altro suo film, Stalker, Tarkovskij dichiarava che il protagonista viveva sì momenti di disperazione, che la sua fede barcollava, “ma ogni volta egli avvertiva nuovamente in sé la propria vocazione a servire gli uomini che hanno smarrito le proprie speranze e le proprie illusioni” (Scolpire il tempo, Ubulibri, p. 275).

Vedere insomma in una guerra, che è sempre e comunque sbagliata, uno scontro di civiltà, significa non soltanto non capire, non voler capire, ma ricoprire con un manto di ignoranza, di silenzio e poi di violenza, la miseria sì ma anche la grandezza, nel bene e nel male, dell’esperienza umana.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Attacco hacker al Mite: sito web oscurato da tre giorni

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Il Ministero per la Transizione ecologica (Mite) ha ammesso di essere sotto attacco informatico, motivo per il quale tutti i server sono stati spenti e il sito web è inattivo da tre giorni. Sono al vaglio diverse ipotesi circa la natura dell’attacco, ma al momento non sono trapelate ulteriori informazioni. Il direttore dell’agenzia nazionale per la cybersicurezza, Roberto Baldoni, ha sottolineato come questo episodio mostri la necessità di ripensare le strutture informatiche della Pubblica Amministrazione in modo che rispettino i principi della cyber-sicurezza.