venerdì 5 Dicembre 2025
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Non solo Cucchi: gli altri morti nelle mani dello Stato in cerca di giustizia

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La giornata del 4 aprile 2022 segna una data storica nella lotta per i diritti in Italia. I due carabinieri autori del brutale pestaggio di Stefano Cucchi, che ne causò la morte in appena una settimana, sono stati condannati in via definitiva a 12 anni di carcere. Un traguardo che segna un punto finale nella vicenda della famiglia Cucchi, da più di un decennio in lotta perché la verità sotto gli occhi di tutti divenisse anche verità giudiziaria. Una vittoria parziale, tuttavia, che aspetta ancora un giudizio definitivo per gli altri carabinieri coinvolti nella vicenda, tra omertà e insabbiamen...

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Ue: Parlamento chiede embargo immediato su energia russa

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Il Parlamento europeo ha approvato, con 513 voti favorevoli, 22 contrari e 19 astensioni, una risoluzione di maggioranza con cui chiede ulteriori sanzioni contro la Russia, tra cui un “embargo totale e immediato sulle importazioni russe di petrolio, carbone, combustibile nucleare e gas”. “Colleghi, questo è un momento significativo, la nostra posizione è chiara” avrebbe affermato la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola in seguito all’approvazione della risoluzione, con cui i deputati chiedono altresì ai leader dell’Ue di “escludere la Russia dal G20 e da altre organizzazioni multilaterali, come l’Unhcr, l’Interpol, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e l’Unesco”.

Burkina Faso: finalmente condanne per l’omicidio di Sankara, l’ex leader antimperialista

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Il 6 aprile un tribunale militare di Ouagadougou ha condannato all’ergastolo Blaise Compaoré, ex presidente 71 enne del Burkina Faso in carica dal 1987 al 2014, per aver contribuito attivamente all’omicidio di Thomas Sankara, suo predecessore. Insieme a Compaoré, che non era presente al processo perché attualmente in esilio, sono stati condannati all’ergastolo anche Hyacinthe Kafando, all’epoca a capo della sicurezza e Gilbert Diendéré, un ex comandante accusato di aver partecipato in prima persona all’uccisione di Sankara, avvenuta nel 1987 (Diendéré era invece presente al processo). Sono state condannate anche altre otto persone, con pene che oscillano tra i tre e i venti anni di carcere, mentre tre imputati sono stati completamente assolti.

Chi era Thomas Sankara? E come mai nel suo omicidio sono coinvolte figure governative? Anche se la sua morte è accaduta ormai più di trent’anni fa, la storia del frère juste (fratello giusto, come veniva chiamato) non è mai stata dimenticata dai suoi conterranei. Thomas Sankara rimase a capo del Burkina Faso dal 1983 fino al 15 ottobre del 1987, fino cioè al giorno del suo assassinio (a cui seguì la salita al potere di Compaoré).

Ad alcuni piace ricordarlo come un moderno Che Guevara, ad altri come una figura mitologica, una meteora, che ancora oggi ispira una gioventù africana che lotta contro abusi e soprusi. Ma, per chi non lo conoscesse, Sankara era “semplicemente” un uomo che al posto delle limousine presidenziali aveva voluto una flotta di Renault 5 e che aveva cambiato quel nome, Alto Volta, affibbiato al suo paese dalle potenze coloniali, con Burkina Faso, il paese degli “uomini integri”. Quello stesso paese di cui prese le redini il 4 agosto del 1983, secondo alcuni grazie ad un colpo di stato militare. In realtà Sankara ebbe fin da subito l’appoggio della popolazione, ansiosa di liberarsi dalle pressioni francesi, dagli abusi e innumerevoli sopraffazioni. Ciò che alla fine Sankara fece, a tutti gli effetti, individuando la soluzione più giusta per gli interessi dei suoi “uomini e donne integri”. Se le terre e le miniere erano gestite da compagnie straniere e non portavano ricchezza alla nazione, la risposta era nazionalizzarle e metterle al servizio della ricchezza popolare, ad esempio.

Sankara era un personaggio scomodo, con una missione non facile e che avrebbe nel tempo (se ne avesse avuto di più) cambiato totalmente la mentalità degli abitanti, liberandola dai fantasmi del colonialismo. Parlare di Sankara è un po’ come racchiudere un’intera lotta antimperialista e panafricanista che non accetta la condizione di vita in cui Burkina Faso e l’Africa subsahariana si ritrovano a vivere. Parliamo di una terra che accoglie sette milioni di uomini, il 98% dei quali non sa leggere né scrivere, dove 1 bambino su 5 muore prima di compiere cinque anni, con un solo medico ogni 50mila abitanti e un reddito pro capite che non arriva a 100 dollari l’anno.

Dopo il suo assassinio, al suo posto ha preso il potere il capitano (condannato) Blaise Compaoré, una sorta di vice che Sankara considerava un fratello. Oltre a lui, è difficile pensare che grandi potenze come l’ex padrone francese e gli Usa potessero permettersi di tollerare un uomo ribelle e pensante, in grado di sovvertire il solito iter che prevede sfruttamento estremo di paesi ricchi di risorse ma svuotati dalle multinazionali; Per questo motivo continuano ad aver ragione di esistere i sospetti del sostegno che Blaise Compaoré ha ricevuto dagli Stati Uniti e della Francia, intenzionati a “far fuori” un individuo “fuori dal gregge”.

“È un uomo un po’ fastidioso, il presidente Sankara. È vero! Ti provoca, pone domande… Con lui non è facile dormire in pace, non ti lascia la coscienza tranquilla!”. Sono le parole con cui il presidente francese dell’epoca, François Mitterrand, aveva definito Sankara durante una visita ufficiale a Ouagadougou. Certo, da qui a dire che la Francia abbia a tutti gli effetti commissionato di far fuori l’ex primo ministro ce ne vuole, ma sono tutti piccoli elementi che vanno a completare un immenso e ingarbugliato puzzle.

Tuttavia la notizia della condanna di Compaoré è comunque un grosso traguardo. Dopo la sentenza, la vedova di Sankara, Mariam Sankara ha detto: «penso che i burkinabe sappiano ora chi era Thomas Sankara…cosa voleva e cosa volevano anche coloro che lo hanno assassinato».

[di Gloria Ferrari]

Anche Bosnia e Kosovo vogliono entrare nella NATO, ma per paura della Serbia

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L’invasione russa dell’Ucraina ha aperto il Vaso di Pandora, colmo di quelle rivendicazioni territoriali che in molti credevano concluse nel corso del XX secolo, a seguito dei due conflitti mondiali e del sanguinoso processo di decolonizzazione. Tuttavia, questa certezza, almeno in Europa, era già stata minata alle fondamenta dal conflitto dei Balcani che negli anni ’90 dello stesso secolo colpì l’area, devastandola. A distanza di trent’anni, complice anche la guerra in Ucraina, lo sguardo torna a essere puntato proprio sul territorio dell’ex Jugoslavia, dove Bosnia ed Erzegovina e Kosovo hanno manifestato la volontà di entrare a far parte della NATO, non temendo un’invasione della Russia ma di un suo partner europeo, la Serbia, che nelle ultime settimane ha avviato ampie esercitazioni militari nei pressi del confine kosovaro.

Le tensioni nell’area affondano le radici in un lungo e tortuoso processo storico, che ha vissuto diverse fasi critiche, tra cui le due guerre balcaniche (1912-1913) e quelle Jugoslave. A questi anni risalgono le uccisioni di massa compiute dalle forze serbe ai danni delle popolazioni bosniache e kosovare, le prime a maggioranza cattolica e le seconde a maggioranza musulmana. Nonostante i Trattati successivi, la preoccupazione nell’area è rimasta alta, come dimostra la decisione di quasi la totalità dei Paesi balcanici di entrare a far parte della NATO, ultimi il Montenegro (2017) e la Macedonia del Nord (2020). A fare eccezione è la Serbia, che vede l’Alleanza più come un nemico, soprattutto dopo l’operazione “Allied Force” che nel 1999 causò tra le 1200 e 2500 vittime. A essa, si aggiungono appunto Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, due Stati legati a Belgrado: il primo da un punto di vista storico, considerato da sempre dalla Serbia come una propria estensione, anche durante l’esperienza jugoslava, quando il Kosovo era sì una provincia autonoma ma comunque parte del territorio serbo. La sua indipendenza, proclamata nel 2008, è riconosciuta attualmente da 98 Stati membri dell’ONU (su 193), ma non dalla Serbia, a cui si aggiungono, ad esempio, Russia e Cina, due Paesi impegnati con Belgrado in diversi accordi bilaterali. Alla motivazione storica, se ne aggiunge una religiosa, visto che il Kosovo viene considerato una sorta di patria spirituale dalla Serbia, sede dell’Arcivescovo di Peć (cittadina del Kosovo occidentale) nonché vertice della Chiesa ortodossa del Paese. Per questi due motivi, Belgrado vede nel riconoscimento del Kosovo come entità autonoma una mutilazione territoriale e culturale. Nonostante ciò, lo Stato è intenzionato, in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli, a continuare sulla strada dell’indipendenza dalla Serbia e ad accedere alla NATO, come sostenuto dalla presidente kosovara Vjosa Osmani.

La Bosnia ed Erzegovina, in seguito all’Accordo di Dayton, venne divisa in due entità: la Federazione Croato-Musulmana (51% del territorio nazionale) e la Repubblica Srpska (RS, 49% del territorio). Quest’ultima rappresenta il legame più forte che il Paese ha con Belgrado, dato che circa l’85% della sua popolazione è serba. Da anni, il territorio chiede l’indipendenza dalla Bosnia per unirsi alla Serbia, rappresentando uno dei punti più a rischio della regione, soprattutto nel contesto geopolitico attuale così delicato. Così, si sono delineate due direzioni completamente opposte all’interno del medesimo Paese: da un lato si profila l’idea di un referendum per aprire alla secessione (che potrebbe condurre a un conflitto tra Bosnia e Serbia), dall’altro lo Stato ha ribadito la propria partecipazione al Piano d’azione per l’adesione (MAP), visto come “l’ultimo passo prima di ottenere l’adesione alla NATO”, secondo il ministro della Difesa bosniaco Sifet Podzic.

[Di Salvatore Toscano]

ISTAT, nel 2021 più consumo e meno risparmio

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L’ISTAT ha comunicato che nel 2021 il reddito e i consumi delle famiglie sono aumentati, mentre è calata la propensione marginale al risparmio. Così, il reddito disponibile ha registrato un +3,8% (+42,5 miliardi di euro) e la spesa per consumi finali un +7% (+66,5 mld) rispetto all’anno precedente. Allo stesso tempo, la propensione marginale al risparmio è calata al 13,1% (dal 15,6% del 2020). Il 2021 ha anche vissuto un boom di investimenti da parte delle imprese, raggiungendo i livelli del 2008. Infine, è calato a 128,3 miliardi di euro l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni, grazie alla risalita delle entrate fiscali e contributive.

Mafia, colpito il vertice del clan Belmonte Mezzagno

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Nel corso di un blitz avvenuto nella notte tra il 6 e il 7 aprile i carabinieri del Nucleo Investigativo di Palermo hanno arrestato e portato in carcere 9 persone, accusate di associazione mafiosa, porto e detenzione di armi clandestine e ricettazione. I soggetti sarebbero membri del mandamento mafioso di Misilmeri e Belmonte Mezzagno, che agiva nella provincia di Palermo. Tra gli arrestati vi sarebbe anche il boss del gruppo, Agostino Giocondo. Le indagini dei carabinieri erano iniziate nel 2020, dopo tre omicidi e un tentato omicidio avvenuti a Belmonte Mezzagno.

11 ex corrispondenti di guerra italiani scrivono contro l’informazione sull’Ucraina

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Undici tra i più importanti inviati italiani degli ultimi decenni hanno scritto una lettera, pubblicata sul quotidiano online Africa ExPress, nella quale criticano duramente la maniera in cui i media stanno trattando la guerra in Ucraina. La riflessione di questi “pesi massimi” del giornalismo contemporaneo si concentra sull’approccio superficiale dei mezzi d’informazione attuali, che riportano notizie non verificate con l’unico scopo di veicolare i sentimenti e la commozione dell’audience, indirizzandola verso una acritica presa di posizione. I giornalisti lanciano quindi un appello: è necessario che il giornalismo agisca in quanto mezzo per acquisire consapevolezza, fornendo analisi profonde che consentano una maggiore comprensione dei fatti. Di seguito pubblichiamo il testo integrale della lettera.

“Osservando le televisioni e leggendo i giornali che parlano della guerra in Ucraina ci siamo resi conto che qualcosa non funziona, che qualcosa si sta muovendo piuttosto male.

Noi siamo o siamo stati corrispondenti di guerra nei Paesi più disparati, siamo stati sotto le bombe, alcuni dei nostri colleghi e amici sono caduti durante i conflitti, eravamo vicini a gente dilaniate dalle esplosioni, abbiamo raccolto i feriti e assistito alla distruzione di città e villaggi.

Abbiamo fotografato moltitudini in fuga, visto bambini straziati dalle mine antiuomo. Abbiamo recuperato foto di figli stipate nel portafogli di qualche soldato morto ammazzato. Qualcuno di noi è stato rapito, qualcun altro si è salvato a malapena uscendo dalla sua auto qualche secondo prima che venisse disintegrata da una bomba.

Ecco, noi la guerra l’abbiamo vista davvero e dal di dentro.

Proprio per questo non ci piace come oggi viene rappresentato il conflitto in Ucraina, il primo di vasta portata dell’era web avanzata.

Siamo inondati di notizie ma nella rappresentazione mediatica i belligeranti vengono divisi acriticamente in buoni e cattivi. Anzi buonissimi e cattivissimi. Ma non è così. Dobbiamo renderci conto che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico.

Inondati di notizie, dicevamo, ma nessuno verifica queste notizie. I media hanno dato grande risalto alla strage nel teatro di Mariupol ma nessuno ha potuto accertare cosa sia realmente accaduto. Nei giorni successivi lo stesso sindaco della città ha dichiarato che era a conoscenza di una sola vittima. Altre fonti hanno parlato di due morti e di alcuni feriti. Ma la carneficina al teatro, data per certa dai media ha colpito l’opinione pubblica al cuore e allo stomaco.

La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo.

Chiariamo subito: qui nessuno sostiene che Vladimir Putin sia un agnellino mansueto. Lui è quello che ha scatenato la guerra e invaso brutalmente l’Ucraina. Lui è quello che ha lanciato missili provocando dolore e morte. Certo. Ma dobbiamo chiederci: ma è l’unico responsabile?

I media ci continuano a proporre storie struggenti di dolore e morte che colpiscono in profondità l’opinione pubblica e la preparano a un’inevitabile corsa verso una pericolosissima corsa al riarmo. Per quel che riguarda l’Italia, a un aumento delle spese militari fino a raggiungere il 2 per cento del PIL.

Un investimento di tale portata in costi militari comporterà inevitabilmente una contrazione delle spese destinate al welfare della popolazione.

L’emergenza guerra sembra ci abbia fatto accantonare i principi della tolleranza che dovrebbero informare le società liberaldemocratiche come le nostre. Viene accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina.

Noi siamo solidali con l’Ucraina e il suo popolo, ma ci domandiamo perché e come è nata questa guerra. Non possiamo liquidare frettolosamente le motivazioni con una supposta pazzia di Putin.

Notiamo purtroppo che manca nella maggior parte dei media (soprattutto nei più grandi e diffusi) un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo.

Questo non perché si debba scagionare le Russia e il dittatore Vladimir Putin dalle loro responsabilità ma perché solo capendo e analizzando in profondità questa terribile guerra si può evitare che un conflitto di questo genere accada ancora in futuro.

Massimo Alberizzi ex Corriere della Sera
Remigio Benni ex Ansa
Giampaolo Cadalanu – Repubblica
Tony Capuozzo ex TG 5
Renzo Cianfanelli Corriere della Sera
Cristano Laruffa Fotoreporter
Alberto Negri ex Sole 24ore
Giovanni Porzio ex Panorama
Amedeo Ricucci RAI
Eric Salerno ex Messaggero
Giuliana Sgrena Il Manifesto
Claudia Svampa ex Il Tempo
Vanna Vannuccini Ex Repubblica
Angela Virdò ex Ansa”

Il testo integrale è stato ripreso dal sito Africa ExPress.

Draghi: gli italiani devono scegliere tra pace e gas

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Dopo l’approvazione unanime del Documento di economia e finanza (Def) da parte del Cdm, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha parlato in conferenza stampa, chiedendo «unità e governabilità a una maggioranza spesso litigiosa» per consentire all’esecutivo di «affrontare le due principali sfide all’orizzonte: le ripercussioni della guerra in Ucraina e il Pnrr con le riforme ancora da terminare». Nel primo caso, Draghi ha ribadito l’allineamento alle decisioni di Bruxelles, chiedendo agli italiani: «Preferiamo la pace o il condizionatore acceso? Questa è la domanda che ci dobbiamo porre. Se l’Ue ci propone l’embargo sul gas, siamo contenti di seguire. Quello che vogliamo è lo strumento più efficace per la pace». In ogni caso, anche senza il gas russo «fino a fine ottobre siamo coperti, le conseguenze non le vedremmo fino all’autunno».

Colombia, via libera al fracking: la protesta invade le strade

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Photo: Esperanza Proxima/Flickr CC

In Colombia è stato dato il via libera all’estrazione di idrocarburi fossili mediante fracking – o fratturazione idraulica – una controversa pratica a detta di molti altamente impattante sul territorio. Le proteste di opposizione al progetto stanno così iniziando a diffondersi in tutto il Paese e il governo, intanto, è stato già travolto di critiche. Si tratta del primo sito del genere nell’intera storia della nazione. A concedere l’autorizzazione, l’Autorità colombiana sulle licenze ambientali, a quanto pare, senza la partecipazione ampia e informata delle comunità interessate. Motivo per cui molti cittadini si sono riversati nelle piazze col tentativo di ribaltare la decisione. Anche a costo di venir minacciati: la Colombia, infatti, è ancora al primo posto per delitti nei confronti dei difensori dell’ambiente.

Il sito interessa il dipartimento di Santander, più precisamente Puerto Wilches. Qui, ad opera della Ecopetrol, la compagnia petrolifera controllata dallo stato, verranno installati una piattaforma e un pozzo di perforazione. La Valutazione ambientale del progetto pilota ha già ottenuto parere positivo, mentre per un vero e proprio sfruttamento a fini commerciali bisognerà attendere la delibera di un’apposita commissione. L’esito, tuttavia, appare fin da ora scontato. La Colombia, difatti, è tra i Paesi in via di sviluppo maggiormente vincolati alle fonti fossili dove, nel solo 2020, la produzione di petrolio ha toccato una media di oltre 730 mila barili al giorno. È altamente probabile, quindi, che le Autorità tirino dritto senza considerare che – come ha dichiarato una giovane attivista, peraltro, vittima di intimidazioni proprio a causa delle sue posizioni – «la zona oggetto dei test è forse la più biodiversa della Colombia, ricca di acqua, animali e zone verdi». Biodiversità che ora sarà soggetta ad un’ulteriore pressione. Nemmeno la salute pubblica è tuttavia al sicuro.

Il fracking è un’attività estrattiva, promossa dagli Stati Uniti fin dai primi anni 2000, finalizzata a ricavare petrolio e gas di scisto da rocce argillose nel sottosuolo. La tecnica consiste in una prima perforazione finalizzata a raggiungere i giacimenti nei quali, successivamente, si inietta ad alta pressione una miscela di acqua, sabbia e prodotti chimici di sintesi allo scopo di facilitare la fuoriuscita degli idrocarburi. Ad oggi, le criticità legate a questa pratica sono almeno tre. In primo luogo, alla luce delle grandi quantità di acqua richieste, va citato l’enorme spreco idrico: basti pensare che ogni pozzo avrebbe bisogno tra i 100 mila e i 27 milioni di litri d’acqua. Segue la potenziale contaminazione delle falde acquifere e del suolo poiché gran parte del liquido iniettato, contenente in media 14 differenti additivi chimici, non riemerge. Secondo un rapporto dell’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, le compagnie petrolifere possono utilizzare fino a 700 sostanze diverse: acido cloridrico, metanolo e distillati del petrolio sono le più frequenti, ma non mancano prodotti biocidi ed altri solventi. Infine, dulcis in fundo, le operazioni fin qui citate rischiano perfino di indurre – come dimostrato da diversi studiscosse sismiche lievi e moderate. Nella speranza che non vengano messa a tacere, le motivazioni per protestare, in Colombia come altrove, appaiono quindi numerose e valide.

[di Simone Valeri]

 

 

Mercoledì 6 aprile

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7.00 – Gli Usa invieranno altri 100 mln di dollari di aiuti militari all’Ucraina, lo ha dichiarato il segretario di Stato Anthony Blinken.

9.00 – Italia: la commissione Finanze del Senato concede il primo sì alla cancellazione dell’iva sulla vendita di armi verso paesi UE.

10.00 – Roma, attivisti si incatenano ai cancelli della Sapienza contro l’invio di armi in Ucraina: portati in questura.

11.30 – Roma, carabinieri fanno irruzione nella sede del sindacato di base USB: trovata una pistola. Per i lavoratori si tratta di una «macchinazione».

12.00 – Israele: il governo perde la maggioranza in Parlamento, verso nuove elezioni.

12.30 – Como: villa di un oligarco russo in fiamme, incendio probabilmente doloso secondo gli inquirenti.

12.40 – L’UE avvia lo stoccaggio di attrezzature e farmaci contro incidenti chimici, batteriologici e nucleari.

13.00 – Il Senato approva il “Family act”, con misure in sostegno alle famiglie con figli.

14.15 – Strage di Bologna: condannato all’ergastolo l’ex terrorista nero Paolo Bellini.

15.30 – Atene: migliaia di persone in piazza per lo sciopero generale contro la guerra e l’inflazione.

17.00 – La Nato sulla guerra in Ucraina: «può durare mesi o anche anni. L’Ucraina ha bisogno di armi pesanti».