martedì 9 Dicembre 2025
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L’ex leader del Pakistan accusa gli Stati Uniti del “cambio di regime”

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A una settimana dallo scoppio della crisi istituzionale, il Parlamento del Pakistan si è riunito oggi per votare il nuovo primo ministro, dopo che Imran Khan ha incassato un voto di sfiducia. A succedergli sarà Shebhaz Sharif, le cui posizioni politiche sono più vicine all’Occidente di quelle dell’ex primo ministro. Le motivazioni addotte al voto di sfiducia nei confronti di Khan risiederebbero nella sua incapacità di risollevare l’economia dopo la pandemia da Covid e nella cattiva gestione pubblica, ma Khan sostiene che dietro la sua caduta vi siano gli Stati Uniti, non contenti delle sue posizioni politiche e della sua vicinanza con Putin e la Cina.

Da quando ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1947, il Pakistan non ha mai visto arrivare a fine mandato nessuno di coloro che hanno ricoperto la carica di primo ministro. Tuttavia, è la prima volta in cui un leader viene costretto a rinunciare alla carica per via di un voto di sfiducia. Questo è quanto accaduto a Imran Khan, salito al potere nel 2018 dopo 75 anni di governo militare nel Paese. Il programma conservatore di Khan era ben visto dai militari, ma con il tempo il sostegno sembra essere venuto meno a causa della sua incapacità di tirare fuori il Pakistan dalla crisi economica che ha seguito la pandemia, oltre che per alcune scelte in materia di politica estera. Nella prima settimana di aprile il dissesto economico ha causato uno dei più alti aumenti dei tassi di interesse da decenni.

L’ex primo ministro è tuttavia convinto che dietro alla propria destituzione vi sia la mano del governo americano, nonostante Washington neghi il tutto. Il giorno dello scoppio della guerra in Ucraina, infatti, Khan si trovava in visita a Mosca per incontrare il presidente russo Putin, mossa non gradita agli Stati Uniti, che ostentano un pacato disinteresse per la crisi istituzionale in corso. Lisa Curtis, ex direttrice senior del Consiglio di sicurezza nazionale di Trump per l’Asia meridionale, ha definito la visita di Khan a Mosca “un disastro” in termini di relazioni con gli USA e che un nuovo governo potrebbe aiutare a riparare “in qualche misura” i legami. “Poichè è l’esercito che decide le politiche che interessano davvero agli Stati Uniti, cioè l’Afghanistan, l’India e le armi nucleari, gli sviluppi politici interni pakistani sono in gran parte irrilevanti per gli Stati Uniti” ha detto Curtis.

Il Pakistan, che consta di 220 milioni di abitanti, si trova tra Afghanistan, Cina e India, una posizione geografica di strategica importanza e interesse per gli Stati Uniti. Si stima che il Paese disponga inoltre di 165 testate nucleari nel 2022 e, secondo le stime di Arms Controlil suo arsenale si sta espandendo più velocemente di qualsiasi altro Paese al mondo. Washington ha sanzionato il Pakistan in più occasioni, in passato, proprio a causa delle violazioni degli accordi di non proliferazione.

Recentemente Khan aveva espresso il desiderio di avvicinarsi alla sfera di influenza cinese e russa: lui stesso non si definiva antiamericano, ma si sosteneva di opporsi allo sfruttamento del suo Paese per gli scopi degli Stati Uniti. Dopo aver ricevuto il voto di sfiducia, Khan ha apertamente accusato Washington di aver messo in atto un “cambio di regime”, motivato dal fatto che contrariamente ai suoi oppositori lui non poteva essere “usato come un burattino dall’Occidente”. Migliaia di sostenitori dell’ex leader si sono riversati nelle strade delle principali città pakistane, questa domenica, per protestare contro l’estromissione di Khan. I manifestanti hanno bloccato diverse strade e urlato slogan contro gli USA.

[di Valeria Casolaro]

 

 

Ucraina: gendarmi francesi arrivati a Leopoli per indagare su crimini di guerra

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Una squadra della gendarmeria francese si è recata a Leopoli, in Ucraina, per aiutare gli inquirenti locali ad indagare sui presunti crimini di guerra commessi nei pressi della capitale, Kiev. A renderlo noto è stato l’ambasciatore francese in Ucraina, Etienne de Poncins, il quale tramite un tweet ha fatto sapere che i gendarmi inizieranno a lavorare nella giornata di domani.

Discariche illegali, l’Unione Europea bacchetta di nuovo l’Italia

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Sono trascorsi dieci anni dal primo avviso, inviato dall’Ue all’Italia, per “la mancata bonifica o chiusura di 44 discariche che costituiscono un grave rischio per la salute umana e l’ambiente”. 12 di quelle discariche, tuttavia, sono ancora lì, motivo per cui la Commissione europea ha inviato a Roma una nuova lettera di costituzione in mora, il primo passo per una procedura d’infrazione. La nostra Penisola dovrà quindi conformarsi presto alle norme della direttiva relativa alle discariche di rifiuti, oppure, fornire adeguati “piani di riassetto dei siti”. Bruxelles ha quindi appurato che il Bel Paese, sebbene abbia messo i sigilli a 32 discariche, non ha né chiuso né risanato 12 depositi illegali di rifiuti. Ora, l’ultimatum: l’Italia ha 2 mesi per mettersi in regola, dopodiché la Commissione potrà decidere se passare o meno il caso alla Corte di giustizia Ue.

Solo in materia ambientale, lo Stato italiano è sottoposto a ben 19 procedure d’infrazione, di cui cinque sono relative proprio allo smaltimento dei rifiuti. Considerando tutti i procedimenti avviati contro il nostro Paese, dal 2003 ad oggi, Roma ha già sborsato oltre 275 milioni di euro di sanzioni. Mentre, dal 2014 al 2019 – secondo quanto afferma il rapporto “Discariche non conformi e procedure di infrazione a carico dell’Italia” – ha regolarizzato 160 discariche, ma lasciato nello status di ‘non conformi’ 84. Poi, dopo la sentenza di condanna del 2019, è stato fatto un ulteriore sforzo, così al 2020, ne restavano da bonificare una quarantina. Per la precisione, come già detto, 44: di cui, 3 in Friuli-Venezia Giulia, 11 in Abruzzo, 5 in Puglia, 2 in Campania e ben 23 in Basilicata. Di queste, quindi, negli ultimi due anni ne sono state bonificate 32, mentre 12, quelle oggetto del più recente richiamo Ue, sono ancora da bonificare.

La direttiva europea relativa alle discariche di rifiuti, coerentemente con il Green Deal e il piano d’azione per l’inquinamento zero, dovrebbe garantire la tutela della salute umana, dell’acqua, del suolo e dell’atmosfera. Dalla sua emanazione, gli Stati membri avrebbero così dovuto chiudere, entro il 16 luglio 2009, tutte le discariche non conformi ai requisiti della direttiva. L’Italia, già al tempo, primeggiava per numero di siti irregolari mentre ora, nonostante qualche progresso, è in ritardo nel loro risanamento. Le discariche, anche se a norma, rappresentano la modalità di smaltimento dei rifiuti più impattante, figuriamoci quindi se illegali. Nei depositi abusivi sparsi qua e là nella penisola si rinvengono rifiuti di ogni genere, compresi quelli pericolosi, con conseguenze disastrose per il suolo prima e le falde acquifere, da cui estraiamo acqua potabile, poi.

[di Simone Valeri]

La moglie di Assange chiede ai giornalisti di svegliarsi

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Stella Morris, la moglie di Julian Assange, è intervenuta nel corso del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia per rivolgere delle parole molto dure ai giornalisti occidentali. Ricordando come Assange rischi 175 anni di carcere in una prigione statunitense per aver raccontato verità scomode per il governo di Washington (rendendo di pubblico dominio le atrocità commesse dai soldati americani in Afghanistan e Iraq), ha esortato i professionisti dell’informazione a non far calare il sipario sulla vicenda. Il governo statunitense ha esercitato infatti molta pressione sui giornalisti occidentali affinché smettessero di parlare del caso Assange, quasi quanta ne ha fatta sulla Corte Penale Internazionale perché smettesse di indagare sui crimini di guerra commessi dal proprio esercito nei due conflitti in Medio Oriente. Se si concludesse con la sua definitiva incarcerazione il caso Assange, ricorda Morris, potrebbe costituire un pericoloso precedente per i giornalisti di tutto il mondo, che potrebbero essere arbitrariamente imprigionati a vita per aver svolto il loro lavoro. Riportiamo di seguito il testo dell’intervento per intero.

“Gentilissime/i giornaliste e giornalisti,

siamo qui, al vostro Festival Internazionale del Giornalismo, per parlarvi di un vostro collega, rinchiuso in condizioni terribili solo per aver fatto il suo lavoro di giornalista investigativo, denunciando le malefatte e i segreti inconfessabili di governi e potenti.

Stiamo parlando, naturalmente, di Julian Assange.

In questi drammatici giorni, riempiti di immagini di distruzione, di morte e di disperazione in Ucraina, vi vediamo tutti intenti a denunciare eccidi e crimini di guerra. Proprio ciò che Julian Assange ha dedicato la sua vita a svelare e a castigare.

Con una differenza, però. Voi svelate e castigate i crimini di guerra della Russia, paese che il governo statunitense ha qualificato di “nemico”. Il vostro è dunque un lavoro giornalistico “al servizio della verità”, come amate proclamare – ma di una verità comoda.

Assange, invece, ha svelato e castigato i crimini di guerra della NATO in Afghanistan e in Iraq – quelli di cui il governo statunitense ha detto che non bisognava parlare e sui quali la Corte Penale Internazionale non deve indagare. Il lavoro giornalistico di Julian, dunque, è stato anch’esso “al servizio della verità” – ma di una verità scomoda.

Talmente scomoda che il Dipartimento della Giustizia statunitense considera la diffusione di quelle verità meritevole di fino a 175 anni di carcere ai termini dell’Espionage Act del 1917.

Ma dove eravate voi, allora, mentre Julian Assange denunciava i crimini di guerra commessi dall’Occidente in Afghanistan e in Iraq?

Non abbiamo visto la solerzia e l’indignazione che oggi mostrate nei confronti della Russia, quando a commettere le barbarie eravamo noi (i buoni, i democratici). Non abbiamo visto né dirette né maratone per gli orrori che noi e i nostri alleati abbiamo commessi in passato in Afghanistan, in Iraq, in Libia e oggi in Siria, in Palestina, nello Yemen e nel Sahel.

C’è stata, però, una persona che, quasi in solitaria, ha osato denunciare questi orrori, portando alla luce del sole molteplici crimini – comprese torture che fanno venire la nausea solo a sentirle nominare – commessi da noi, i buoni. Questa persona ha addirittura costruito un sito ingegnoso, Wikileaks, per poter raccogliere anonimamente le prove dei crimini commessi. Ed è per questo che quella persona è perseguitata, dagli Stati Uniti, sin dal 2010, quando pubblicò il famoso video “Collateral Murder”, quel macabro video game.

Dal 2012 Assange è privo della sua libertà e dall’11 aprile del 2019, è rinchiuso in attesa di giudizio in un carcere di massima sicurezza, destinato agli autori di delitti efferati, dove subisce le torture denunciate dal relatore ONU Nils Melzer e da oltre 60 medici esperti in torture.

E voi? Voi, da quale parte state?

Dopo aver attinto a piene mani dalle sue rivelazioni, almeno in un primo tempo, non potete pronunciare oggi una sola parola in difesa di Julian Assange? Dopo aver contribuito alla sua demolizione mediatica agli occhi dell’opinione pubblica, non potete spendere oggi una sola parola per riabilitarlo? Ad esempio, informando i vostri lettori – che hanno letto i vostri articoli accusando Assange di stupro – che si era trattata di una montatura ormai archiviata?

Non potete dare rilievo al piano della CIA, rivelato da Yahoo News, di rapire Assange o di ucciderlo? E biasimare poi la sua estradizione in un paese che ha pensato di assassinarlo?

Non potete spiegare ai vostri lettori che non esiste una sola rivelazione di WikiLeaks che sia risultata falsa, non c’è una sola rivelazione che abbia messo a repentaglio la sicurezza di un Paese o quella di un individuo. L’unica sicurezza che è stata messa in discussione è stata quella dell’Occidente di poter continuare a commettere crimini di guerra impunemente.

Non sono questi “fatti di rilievo” di cui sentite l’obbligo di scrivere, per rispetto della vostra professione?

Il prossimo 20 aprile, la ministra degli interni britannica Priti Patel si troverà sul suo tavolo l’ordine di estradizione di Assange verso gli Stati Uniti, che lo vogliono condannare fino a 175 anni di carcere duro: non potrà più vedere né familiari né gli avvocati, in pratica verrebbe sepolto vivo. Un vostro collega, sepolto vivo per aver fatto il suo lavoro di giornalista investigativo: non vi turba questo pensiero?

È tempo che prendiate le sue difese e chiediate la sua liberazione. Lo dovete a noi, a tutti i cittadini di oggi e a quelli di domani, perché se Julian Assange verrà estradato o se dovesse morire prima in carcere, sarà la morte anche dell’informazione libera, la morte del nostro #DirittoDiSapere cosa fanno realmente coloro che ci governano.

Un’ultima parola. Se Julian non sarà liberato, neanche voi sarete liberi. Se domani voi venite in possesso di informazioni segrete che rivelano crimini di guerra commessi da un paese della NATO, ricordando Julian vi sentirete costretti a cestinare quelle informazioni e a lasciar impunite le persone implicate. In una parola, vi sentirete costretti ad una vita di complicità.

E’ dunque anche per la VOSTRA libertà che vi chiediamo di intervenire a favore della liberazione di Julian Assange”.

Il testo dell’intervento è stato reso pubblico da Peacelink.

[di Valeria Casolaro]

Hong Kong, giornalista arrestato per presunta sedizione

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Il giornalista Allan Au è stato arrestato nella mattina di oggi 11 aprile dalle autorità di Hong Kong con l’accusa di pubblicazione di “materiale sedizioso”. Au è un ex editorialista della testata Stand News, uno dei numerosi quotidiani pro-democrazia costretto a chiudere nel dicembre 2021, dopo che la polizia ha fatto irruzione negli uffici e arrestato tutto lo staff senior con l’accusa di sedizione. Come riporta Al Jazeera, a Hong Kong la legge sulla sedizione (di epoca coloniale) è separata da quella sulla sicurezza nazionale della città e imposta da Pechino nel 2020, ma entrambe sono state spesso usate per reprimere la libertà di espressione di esponenti dell’opposizione.

Ora è provato: c’è il governo USA dietro gli aiuti di Elon Musk all’Ucraina

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Il 26 febbraio, l’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, ha segnalato trionfalmente sui social che la sua azienda di connessioni satellitari, Starlink, era già presente sul territorio ucraino per aiutare il popolo invaso. I dischi di ricezione del segnale sono effettivamente stati consegnati il 28, con l’azienda ha fatto sapere che hardware e servizio non sarebbero costati a Kiev neppure un soldo. Non solo, a inizio marzo Starlink ha addirittura inviato un secondo carico di apparecchi, così da sopperire all’eventuale mancanza di connettività che ormai affligge diverse zone del Paese. Il 5 aprile è divenuto chiaro però che le parole di Musk non facessero riferimento a un moto puramente filantropico, ma che l’intero progetto fosse cofinanziato dagli USA, con la United States Agency for International Development (USAID) che ha rivelato ufficialmente di aver coperto i costi di una parte minoritaria della merce in questione, spesando 1.333 delle 5.000 unità consegnate.

Un’ammissione di partecipazione che dev’essere stata vissuta come un passo falso, visto che l’Agenzia ha velocemente modificato il comunicato stampa per rimuovere ogni riferimento ai quantitativi di merce acquistati con i soldi delle casse governative. Un report intercettato dal The Washington Post ha però approfondito i dettagli che sono stati rimossi dalle fonti ufficiali, suggerendo che gli Stati Uniti abbiano comprato un numero maggiore di impianti di ricezione Starlink rispetto a quelli dichiarati. In ballo ci sarebbero dunque circa 1.500 apparecchi, i quali sono stati acquistati al prezzo di $1.500 l’uno, una somma ben maggiore ai $599 richiesti alla clientela tradizionale.

La discrepanza finanziaria è in verità giustificata dal fatto che Starlink sia solito piazzare il terminale sottocosto, confidando di recuperare la perdita attraverso le spese di servizio, tuttavia le cifre in questione stanno nondimeno destando l’attenzione del pubblico, anche perché la Casa Bianca si sarebbe fatta carico delle spese di trasporto dei cargo diretti a Kiev passando da Varsavia, Polonia. Facendo riferimento a quanto aveva dichiarato USAID, l’assistenza tech all’Ucraina avrebbe un valore stimato sui circa 15 milioni di dollari, 3 dei quali sarebbero stati coperti direttamente dal Governo USA.

Nessuna delle parti coinvolte ha voluto rispondere ai quesiti della testata statunitense, quindi non è chiaro se a una simile donazione abbiano partecipato anche altre entità – pubbliche o private – e se in quei 15 milioni siano conteggiati anche i tre mesi di servizio gratuito promessi dall’azienda, tuttavia la partecipazione di Washington alla manovra non dovrebbe stupire più di tanto. Gli Stati Uniti si sono assicurati attraverso il Defense Experimentation Using the Commercial Space Internet (DEUCSI) la possibilità di sfruttare ai fini militari i dati raccolti e trasmessi dai satelliti privati, quindi il Pentagono non può che trarre giovamento dal fatto che gli Starlink siano stati direzionati su di un’area tanto calda dello scacchiere globale.

Paradossalmente, sono piuttosto gli ucraini a trovarsi per le mani uno strumento che risulta complesso da utilizzare. Il servizio satellitare Starlink rischia di rivelare la posizione delle sacche di resistenza ucraine e il 3 marzo è stato lo stesso Musk a consigliare di avviare il ricevitore solamente quando risulta strettamente necessario, nonché di assicurarsi di tenerlo ben distante dai luoghi abitati. Per usare efficacemente lo strumento è necessario abbandonare il proprio rifugio, allontanarsi il più possibile, imbastire le apparecchiature, inviare e ricevere i dati minimizzando il tempo di connessione, quindi fuggire prima di subire un eventuale bombardamento mirato.

[di Walter Ferri]

Come un parco indiano è riuscito a proteggere i rinoceronti in via di estinzione

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Il parco nazionale di Kaziranga è riuscito a salvare i rinoceronti in via di estinzione. Siamo nello Stato di Assam dove, il recente censimento effettuato nella riserva naturale tra il 25 e il 28 marzo, ha rivelato un aumentato di 200 esemplari. La popolazione di rinoceronti è infatti passata da 2413 nel 2018 a 2613 nel 2022.

La maggior parte dei rinoceronti indiani, esemplare famoso per il suo corno il quale viene commerciato illegalmente, si trova proprio nel parco nazionale (859,98 kmq). Qui, negli ultimi anni, l’impegno per la preservazione del grosso mammifero è stato molto, poiché la specie era stata quasi completamente eliminata, principalmente per mano dell’uomo. In India, infatti, il bracconaggio è molto diffuso, pertanto funzionari e attivisti hanno fatto di tutto per contrastarlo. Non è un caso che, ultimamente, il parco abbia aumentato il numero di uomini per la perlustrazione dell’area alla ricerca di bracconieri, e che l’anno scorso sia stata istituita una task force di polizia proprio a tale scopo.

Anche la drastica perdita dell’habitat naturale ha contribuito alla diminuzione del rinoceronte indiano, specialmente per via delle inondazioni. Queste, infatti, causando un aumento del livello dell’acqua, spingeva i rinoceronti a scappare sulle colline di Karbi Anglong, dove l’importante autostrada che collega l’Assam orientale al resto del paese, e la presenza di molti edifici, hanno reso sempre più difficile per loro l’attraversamento in sicurezza. Per questo motivo sono state costruite appositamente delle piattaforme rialzate.

Grazie all’insieme di queste azioni, la specie è aumentata del 12% e, a detta dei funzionari del parco, pare che nel 2021 sia stato ucciso solo un esemplare dai bracconieri (il numero di vittime più basso da 21 anni). Nello specifico, il censimento, il quale è stato effettuato tramite l’utilizzo di droni, ha registrato 750 rinoceronti maschi adulti, 903 femmine adulte e altri 170 il cui sesso non è stato determinato. Inoltre sono stati individuati anche 279 giovani (da 1 a 3 anni) e 145 cuccioli (da 0 a 1 anni).

[di Eugenia Greco]

Presidenziali Francia, Macron e Le Pen a ballottaggio

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Come ampiamente previsto dai sondaggi, saranno il presidente uscente Emmanuel Macron e la candidata di estrema destra Marine Le Pen a sfidarsi al ballottaggio del 24 aprile, dopo che si è concluso ieri il primo turno delle elezioni presidenziali. Macron ha per il momento raccolto un numero maggiore di preferenze (27,6% contro il 23,4). I due candidati si erano già sfidati nel 2017: allora Macron ne era uscito con una vittoria schiacciante, ma secondo le previsioni difficilmente questo risultato si ripeterà.

Domenica 10 aprile

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9.30 – Alto Rappresentante Esteri della UE: «Ho una lista di armi di cui gli ucraini hanno bisogno, e noi glele manderemo».

10.00 – Sri Lanka: in decine di migliaia partecipano a proteste contro la dittatura militare.

11.00 – Regno Unito: ambientalisti in piazza, occupati tre terminal petroliferi.

11.30 – Pakistan, sfiduciato il premier che accusa gli USA di aver corrotto i parlamentari.

12.00 – Draghi vola ad Algeri per discutere un aumento delle forniture di gas.

12.50 – L’esercito israeliano uccide una donna palestinese disarmata a un posto di blocco.

14.00 – Riprendono gli sbarchi a Lampedusa: 800 negli ultimi 3 giorni.

20.30 – Elezioni presidenziali francesi: secondo gli exit poll sarà ballottaggio tra Macron (28,1%) e Le Pen (23,3%).

Iran, sanzionati 24 funzionari statunitensi per “terrorismo”

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L’Iran ha aggiunto 24 funzionari statunitensi alla sua lista nera, con le accuse di terrorismo e di violazione dei diritti umani del popolo iraniano. Tra questi vi sono l’ex capo di stato maggiore dell’esercito USA George W. Casey , l’ex comandante del Comando Centrale Joseph Votel, l’ex avvocato di Trump Rudy Giuliani e diversi diplomatici americani. Si tratta di personalità che hanno contribuito a imporre le sanzioni punitive sull’Iran durante la presidenza di Trump e Obama. Le sanzioni giungono nell’ambito dei colloqui indiretti tra Iran e USA per il ripristino di un accordo nucleare del 2015, che si sono arrestati nelle ultime settimane.