mercoledì 17 Dicembre 2025
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Shrinkflation: la tecnica usata dalle aziende per mascherare l’aumento dei prezzi

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Con l’intento di mascherare l’aumento del costo del carrello della spesa, le aziende stanno mettendo in campo una tecnica potenzialmente in grado di rendere gli acquirenti inconsapevoli di tale crescita: la “shrinkflation”. A denunciarlo sono le associazioni dei consumatori, secondo cui tale metodo – con cui gli articoli vengono ridotti in termini di dimensioni o quantità mentre i loro prezzi rimangono sostanzialmente gli stessi – può facilmente ingannare i clienti. Difficilmente, infatti, il consumatore che acquista senza badare troppo all’etichetta si accorgerà di tali differenze trovandosi davanti lo stesso prezzo di sempre e lo stesso pacchetto che è abituato a comprare, o comunque solo leggermente più piccolo.

È per questo che il Codacons – ovverosia il Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori – ha recentemente presentato un esposto all’Antitrust ed a 104 Procure della Repubblica di tutta Italia chiedendo di aprire indagini volte a verificare se tale prassi avviata dai produttori possa costituire fattispecie penalmente rilevanti, dalla truffa alla pratica commerciale scorretta. “Un trucchetto che consente enormi guadagni alle aziende produttrici ma di fatto svuota i carrelli e le tasche dei consumatori, realizzando una sorta di inflazione occulta”: è così che il Codacons definisce la “shrinkflation”, sottolineando infatti che i consumatori “tendono ad essere sempre sensibili al prezzo, ma potrebbero non notare piccoli cambiamenti nella confezione o non fare caso alle indicazioni, scritte in piccolo, sulle dimensioni o sul peso di un prodotto”.

Si tratta, a quanto pare, di una tecnica alquanto diffusa, dato che il Codacons fa sapere che secondo una recente indagine dell’Istat “i casi analoghi registrati in mercati, rivendite e super-mercati italiani sono stati 7.306”, con i picchi che si sono avuti “nel settore merceologico di zuccheri, dolciumi, confetture, cioccolato, miele (in 613 casi diminuzione della quantità e aumento del prezzo) e in quello del pane e dei cereali (788 casi in cui, però, si è riscontrata solo una riduzione delle confezioni)”. “Bibite, succhi di frutta, latte, formaggi, creme e lozioni sono le altre categorie di prodotti a cui è bene prestare particolare attenzione”, ricorda inoltre il Codacons, il quale infine sottolinea che il fenomeno della shrinkflation è stato osservato anche durante il periodo di Pasqua, con il peso di alcune colombe che “è passato magicamente da 1 kg dello scorso anno ai 750 grammi del 2022, mantenendo intatti prezzo e confezioni”.

Su quest’ultimo punto si è soffermata anche l’Unione Nazionale Consumatori – la prima associazione di difesa dei consumatori in Italia – che al pari del Codacons ha deciso di battersi contro il fenomeno. “Le colombe pasquali da 750 grammi con confezione simile a quelle da 1 Kg finiscono all’Antitrust”, si legge in una nota dell’associazione, che infatti ha presentato un esposto all’Authority sulla “shrinkflation” in virtù non solo del minor peso delle colombe pasquali, ma anche di diversi altri prodotti tra cui le mozzarelle (da 100 grammi invece che da 125), il caffè (da 225 al posto di quello da 250 grammi) ed il tè (con 20 bustine invece di 25). «La sgrammatura dei prodotti è antica, ma con la crisi attuale e gli aumenti dei costi di produzione delle aziende, dovuti ai rincari energetici di luce e gas, le segnalazioni dei consumatori si sono moltiplicate e le tecniche delle aziende si sono fatte sempre più insidiose», ha inoltre affermato a tal proposito il presidente dell’associazione Massimiliano Dona.

Infine, a denunciare tale pratica nelle scorse settimane è stata l’associazione Consumerismo no profit, che a sua volta ha presentato un esposto all’Antitrust chiedendo di accertare se la “shrinkflation” possa violare le norme del Codice del Consumo e realizzare una pratica commerciale scorretta. Si tratta di «una prassi che inganna i consumatori, i quali non hanno la percezione di subire un aggravio di spesa, e svuota i carrelli anche del -30%, poiché a parità di spesa le quantità portate a casa sono inferiori» ha infatti spiegato il presidente di Consumerismo no profit, Luigi Gabriele.

[di Raffaele De Luca]

Shanghai, nuova trovata anti-Covid: lavoratori costretti a dormire in azienda

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A Shanghai, dopo l’introduzione dell’ennesimo lockdown, la decisione di isolare dalle famiglie e mandare nei centri anti-Covid anche i bambini piccoli, e le violenze poliziesche verso chiunque non rispetti le direttive del governo, la politica “zero contagi” portata avanti dal governo cinese si arricchisce di un nuovo capitolo: molti lavoratori dovranno invece imparare a vivere in ufficio, rimanendoci di fatto per 24 ore su 24.

È un sistema definito “a bolla”, termine che rende al meglio l’idea delle condizioni di vita con cui il lavoratore deve avere a che fare. Da metà marzo, infatti, un alto numero di banche, società e altre istituzioni della città hanno dichiarato di aver invitato i propri dipendenti a trasferirsi sul posto di lavoro, per evitare di dover interrompere il proprio operato per via del Coronavirus. Alcuni dormono su brande di fortuna o giacigli improvvisati, i più attrezzati hanno allestito una vera e propria postazione da notte.

 

Il quotidiano di Hong Kong, il South China Morning Post, ha scritto che la Commissione di economia e tecnologia dell’informazione – che in sintesi si occupa dello sviluppo industriale del paese – venerdì scorso ha pubblicato la lista delle aziende che dovranno (se non lo stanno già facendo) sottostare al nuovo regolamento: alcune imprese riguardano settori chiave come i chip, l’energia e l’automobile, tra cui il gigante cinese dei semiconduttori Smic.

Secondo quanto riportato da Bloomberg, anche la sede cinese di Tesla – società di automobili elettriche –  ha deciso di adottare per i suoi lavoratori questo sistema “a bolla”. Stando a quanto si legge, l’azienda fornirà ai dipendenti un materasso, un sacco a pelo, tre pasti garantiti al giorno e un’indennità – stabilita in base al ruolo ricoperto –  di alcune decine di dollari a tutti coloro che rimarranno a dormire nello stabilimento. Si tratta di circa 400 dipendenti, che dovranno vivere rinchiusi in fabbrica almeno fino al 1° maggio, sottoponendosi a tamponi continui e controllo della temperatura due volte al giorno.

shanghai covid misure

Quelle che Shanghai sta adottando in queste ultime settimane, sono misure estremamente rigide, probabilmente molto di più di quelle previste per il primo lockdown del 2020.  La città sta infatti cercando di rimettere in piedi la propria economia, che da sola – grazie alla presenza di migliaia di istituzioni finanziarie locali e internazionali –  vale 660 miliardi di dollari.

Al momento non ci sono date certe su quando le restrizioni saranno almeno un po’ allentate, né ci sono chiare indicazioni. Tuttavia la situazione continua ad essere critica: tra il 17 e il 18 aprile si sono registrati a Shanghai 10 morti. È la prima volta che accade dall’inizio della nuova ondata, anche se si tratta principalmente di persone la cui età è compresa tra i 60 e i 101 anni. L’obiettivo del paese è comunque quello di radunare tutte le persone positive all’interno dei centri appositi, per cercare di contenere al massimo i contagi e la rabbia che cresce tra la popolazione. Per i cittadini infatti, costretti in casa, è diventato ormai anche difficile procurarsi beni di prima necessità, cibo e farmaci.

[di Gloria Ferrari]

Dl bollette: ok definitivo Senato con 207 voti a favore

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L’Aula del Senato ha approvato in via definitiva – con 207 voti a favore, 38 contrari e nessun astenuto – la conversione in legge del decreto bollette, dopo che questa mattina nei confronti della stessa il ministro per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà aveva posto la questione di fiducia. Il provvedimento, che doveva essere convertito in legge entro il 30 aprile, ha ad oggetto misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali.

Roma avrà un termovalorizzatore: nonostante le polemiche è una buona notizia

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Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha annunciato la realizzazione di un termovalorizzatore da 600mila tonnellate per la Capitale. Una mossa, a detta di molti, coraggiosa, che ha diviso gli schieramenti politici e scosso l’amministrazione regionale. L’impianto permetterà di abbattere del 90% l’attuale fabbisogno di discariche e, secondo quanto dichiarato, avrà un impatto ambientale praticamente nullo. «L’obiettivo – ha aggiunto il primo cittadino di Roma – è avere tempi rapidi, servono ovviamente alcuni anni ma vorremmo concludere il termovalorizzatore entro l’arco della consiliatura e possibilmente entro il Giubileo». Nel complesso, il Piano presentato comprende, oltre al termovalorizzatore, due biodigestori anaerobici, due impianti per la selezione ed il recupero di carta, cartone e plastica e nuovi centri di raccolta. In questo modo – spera la maggioranza capitolina – Roma potrà finalmente chiudere il ciclo dei rifiuti e mettersi al pari con le grandi capitali europee e le maggiori città italiane. Il tutto determinerà inoltre una riduzione delle emissioni del 44%, con un -15% per le emissioni su attività di trasporto, -18% sull’impiantistica e -99% sulle emissioni da discarica. Sarà poi possibile soddisfare il fabbisogno di energia elettrica di 150.000 famiglie l’anno e di ridurre la Tari – la tassa sui rifiuti – di almeno il 20%, nonché di potenziare in misura significativa le attività di raccolta e di pulizia della città.

Come prevedibile, tuttavia, la decisione non è stata accolta positivamente da tutti. In primo luogo, c’è il no deciso della sinistra radicale, dei Verdi e del Movimento 5 Stelle. Poi, c’è la questione del Piano rifiuti regionale, il quale, espressamente, non prevede la realizzazione di alcun termovalorizzatore. Tuttavia, sebbene la gestione degli scarti urbani spetti alla Regione, il sindaco punta a sfruttare i suoi poteri speciali di commissario per il Giubileo per operare in deroga al suddetto Piano. Per quanto riguarda l’ubicazione dell’impianto non si sa ancora molto: qualche indiscrezione fa pensare alla zona di Santa Palomba, nell’estrema periferia sud della Capitale, ma nulla di certo. Marcata anche l’opposizione degli ambientalisti di Legambiente secondo cui la scelta è «totalmente sbagliata, contraria alle politiche ambientaliste e ai principi di sviluppo ecosostenibile ed economia circolare». Eppure, dati alla mano, la decisione avanzata da Gualtieri non sembra poi così assurda. L’impianto che si pensa di realizzare a Roma, infatti, sarà una struttura di ultima generazione che non ha nulla a che vedere con gli inceneritori di prima generazione. Gli impianti attuali recuperano, sotto forma di energia elettrica, l’85% del calore prodotto dalla combustione dei rifiuti, si tratta quindi di infrastrutture ad elevata efficienza energetica.

In termini di emissioni, invece, le cose sono un po’ diverse poiché nessuna combustione è esente dal rilascio di anidride carbonica. Tuttavia, vanno considerati diversi aspetti. Prima di tutto, va precisato, un termovalorizzatore è nel complesso meno impattante di una discarica, sia in termini di emissioni di gas serra che di inquinanti. Nella Capitale, anche se la raccolta differenziata arrivasse al 65%, sarebbe comunque necessaria una discarica dalle elevate capacità e, quindi, dall’elevato impatto ambientale. Mentre così, assicura il Sindaco, ne sarà necessaria solo una, piccola e di servizio, da 60mila tonnellate. «Nel trentennio 1990-2019 – evidenzia poi l’Informative inventory report Italy 2021 – a fronte di un incremento del quantitativo di rifiuti inceneriti, che è passato da circa 1,8 milioni di tonnellate del 1990 a circa 6 milioni nel 2021, si è avuto un forte calo del totale delle emissioni del settore incenerimento». In relazione agli obiettivi climatici, sebbene più sensata dell’ennesima discarica, chiaro è che quella del termovalorizzatore non sia l’opzione migliore. Ma anche qui è necessaria una precisazione. L’impianto, difatti, produrrà energia risparmiando le emissioni altrimenti prodotte dall’uso di combustibili fossili. Anche in un’ottica di mix energetico 100% rinnovabile, infatti, una quota del fabbisogno dovrà essere necessariamente coperta anche dalla combustione dei rifiuti. Ad ogni modo, in termini di emissioni climalteranti – secondo i dati di uno studio realizzato da diverse università italiane per conto di Utilitalia – il recupero energetico negli inceneritori ha un impatto 8 volte inferiore a quello di una discarica. L’incenerimento dei rifiuti comunque, è bene ribadirlo, non è un’opzione pienamente sostenibile e sulla sua effettiva sicurezza in termini di inquinamento atmosferico il dibattito è ancora aperto. Tuttavia, per una città notoriamente satura di scarti urbani, il cui fabbisogno per lo smaltimento di rifiuti oggi ammonta a 1.200 tonnellate al giorno, potrebbe non esserci altra alternativa rapidamente attuabile.

[di Simone Valeri]

Gas: accordo Italia-Congo per aumento forniture

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L’Italia e la Repubblica del Congo hanno firmato un accordo avente ad oggetto l’aumento della produzione e della fornitura di gas. Nello specifico, esso prevede “l’accelerazione e l’aumento della produzione di gas in Congo, in primis tramite lo sviluppo di un progetto di gas naturale liquefatto (GNL) con avvio previsto nel 2023 e capacità a regime di oltre 3 milioni di tonnellate/anno (oltre 4,5 miliardi di metri cubi / anno)”. A renderlo noto è stata l’Eni, la quale tramite una nota ha fatto sapere che “alla presenza del Ministro degli Esteri della Repubblica del Congo Jean-Claude Gakosso, del Ministro degli Esteri Luigi di Maio e del Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, il Ministro degli Idrocarburi della Repubblica del Congo, Bruno Jean Richard Itoua, e l’Amministratore Delegato di Eni, Claudio Descalzi, hanno firmato oggi a Brazzaville una lettera d’intenti per l’aumento della produzione e dell’export di gas”.

Gli avevano fatto il funerale, ma il rublo è più forte di prima: come è successo?

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Nonostante la dura politica di sanzioni messa in atto dai Paesi europei e dagli Stati Uniti nei confronti di Mosca, a seguito dell’operazione militare condotta in Ucraina, non solo l’economia russa ha resistito al colpo finanziario sferrato dall’Occidente, ma la sua monetail rublosi è apprezzata notevolmente addirittura superando i valori prebellici. Dopo un primo momento di esultanza della stampa europea che aveva già sancito la riduzione del rublo a carta straccia, la valuta russa ha rapidamente ripreso quota ed è diventata la moneta con una delle migliori performance a livello globale. Se, infatti, il 24 febbraio, giorno d’avvio dell’intervento militare, il tasso di cambio con la valuta americana si attestava a 81,48 rubli per un dollaro, in seguito al primo pacchetto di sanzioni, la moneta russa era crollata rapidamente: nel momento peggiore arrivarono a servire 143 rubli per ottenere un dollaro americano. Tuttavia, il recupero è avvenuto velocemente e oggi il rapporto di valore USD/RUB si attesta a quota 74,06 circa: un cambio addirittura più favorevole rispetto a quello pre-sanzioni.

Ciò ha permesso al presidente russo Vladimir Putin di affermare che la politica occidentale delle sanzioni è fallita. Citato dall’agenzia russa Tass, infatti, ha asserito che «La Russia ha resistito a questa pressione senza precedenti. La situazione si sta stabilizzando, il cambio del rublo è tornato sui livelli della prima metà di febbraio e viene definito dalla bilancia dei pagamenti oggettivamente forte».

La ripresa è stata possibile grazie ad una serie di azioni e di politiche monetarie coordinate dalla Banca centrale russa, guidata dalla presidente Elvira Nabiullina: figura di grande esperienza, la governatrice della Banca russa ha seguito negli anni una strategia chiara basata, da un lato, sull’accumulazione di riserve in valuta della Banca centrale e, dall’altro, su una linea prudente di bilancio. Nel contesto attuale, per salvare il rublo dalle sanzioni occidentali ha alzato rapidamente i tassi d’interesse fino al 20% e questa azione di supporto terminerà solo con la fine della guerra, come spiegato dalla banca americana Morgan Stanley.

Dopo il brusco calo subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina il rublo ha superato i livelli precrisi [fonte grafica: Investing.com]
La politica della Banca centrale, insieme al controllo rigido sui capitali imposto dal governo a coloro che intendono scambiare i propri rubli con dollari o oro, ha in buona parte impedito una ulteriore svalutazione del rublo. Ma a determinarne l’apprezzamento è stata soprattutto una sua maggiore domanda creata attraverso alcune precise iniziative: come tutti i beni, infatti, anche la moneta acquista valore in base alla sua maggiore o minore richiesta. Così, fin dall’inizio delle ostilità, le aziende esportatrici russe, tra cui quelle di gas e petrolio, sono tenute per legge a convertire in rubli l’80% dei propri introiti in dollari o euro, generando una maggiore domanda di moneta russa. Questo è anche il motivo per cui gli Stati Uniti stanno chiedendo con insistenza il blocco totale delle esportazioni di gas russo verso i paesi europei, sebbene Mosca abbia intenzione di compensare le eventuali perdite degli acquirenti occidentali con il mercato cinese e indiano. D’altro canto, al momento attuale i Paesi europei non possono rinunciare al gas russo, a meno di non accettare uno choc energetico che paralizzerebbe l’economia dei Paesi UE.
Ma a far recuperare in maniera sostanziale il valore del rublo è stata la richiesta da parte di Putin di ricevere il pagamento di gas in rubli: questa mossa, infatti, ha aumentato la domanda globale della valuta russa, portando ad un ulteriore aumento del suo valore rispetto alla valuta statunitense. Sebbene i nuovi standard di pagamento non siano immediatamente entrati in vigore per ragioni tecniche e legate alle scadenze dei pagamenti, l’azione di Putin ha dato spazio ad un rialzo del rublo anche nel lungo periodo. Molti Paesi non occidentali, infatti, sono già pronti ad effettuare gli scambi di materie prime in valuta locale, scavalcando il predominio del dollaro.

Se da un lato, alcuni economisti sostengono che l’impatto delle sanzioni richieda tempo per far sì che si sentano gli effetti e che la ripresa del rublo sia temporanea e destinata a spegnersi, dall’altro molti osservatori riflettono sulla possibilità che queste circostanze possano portare ad un cambio strutturale e sistemico del paradigma economico-commerciale globale. Si fa strada, infatti, l’ipotesi che il nuovo meccanismo “gas-per-rubli” – insieme ad altri meccanismi simili come quello rublo-rupia o il petroyuan saudita – conduca ad una progressiva de-dollarizzazione del commercio globale, in particolare nel settore degli idrocarburi. Ipotesi confermata anche dall’analista di Crédit Suisse, Zoltan Pozsar, secondo il quale le sanzioni alla Russia potrebbero portare a un nuovo ordine monetario globale. Pozsar ha scritto, infatti, in un rapporto risalente alla fine di marzo che “Stiamo assistendo alla nascita di Bretton Woods III, un nuovo ordine mondiale (monetario) incentrato sulle valute basate sulle materie prime in Oriente che probabilmente indebolirà il sistema euro-dollaro e contribuirà anche alle forze inflazionistiche in Occidente”. Non solo, dunque, il rublo resiste alle sanzioni occidentali, ma potrebbe anche ridefinire quegli equilibri monetari internazionali finora inscalfibili.

[di Giorgia Audiello]

Governo: posta la fiducia sul decreto bollette

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Il ministro per i rapporti con il parlamento Federico D’Incà ha posto in Aula al Senato la questione di fiducia sulla conversione in legge del decreto bollette. Il provvedimento che contiene misure urgenti per il contenimento dei costi di elettricità e gas, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali, verrà esaminato nel testo già approvato dalla Camera nel corso della giornata odierna, quando i lavori riprenderanno a seguito della conferenza dei capigruppo.

La battaglia del Perù per far ripulire alla Repsol il disastro ambientale provocato

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Il 15 gennaio scorso seimila barili di petrolio si sono riversati nell’Oceano Pacifico, al largo del Perù, durante il trasferimento di greggio dalla petroliera italiana Mare Doricum alla raffineria La Pampilla, dell’azienda spagnola Repsol. Successivamente al disastro ambientale, è stato imposto al colosso petrolifero l’obbligo di ripristinare l’area interessata. A febbraio, la Repsol aveva dichiarato di aver concluso la pulizia del 48% dell’area interessata, paragonabile per dimensioni al territorio di Parigi e comprendente 24 spiagge. Tuttavia, un’analisi effettuata dall’Organismo de Evaluación y Fiscalización Ambiental (OEFA) del ministero dell’Ambiente peruviano ha dimostrato come la Repsol, ad oggi, non abbia rispettato 5 dei 16 provvedimenti amministrativi emanati dall’Autorità di controllo ambientale. È emerso, inoltre, che la compagnia petrolifera spagnola stesse utilizzando una miscela di sabbia pulita e sabbia impregnata di petrolio per “bonificare” l’area interessata dal disastro, a nord di Lima.

Così, l’OEFA ha disposto la cessazione immediata delle attività, infliggendo alla multinazionale cinque sanzioni coercitive per un importo totale di 2.300.000 soles (560mila dollari). I punti non rispettati dalla Repsol riguardano l’identificazione delle aree interessate dallo sversamento e la loro bonifica, a cui si aggiunge il contenimento e il recupero degli idrocarburi (anche e soprattutto nelle aree naturali protette interessate dal disastro). Tra le misure, va ricordato inoltre il tentativo di arginare le conseguenze del secondo sversamento di petrolio al largo del Perù, avvenuto il 25 gennaio 2022. La presa di posizione del governo centrale pone un precedente importante nei rapporti fra Stati e multinazionali, spesso sbilanciati verso queste ultime, dimostrando come un’opposizione agli abusi delle grandi imprese petrolifere sia possibile. Innumerevoli sono i disastri ambientali lasciati dalle multinazionali nei Paesi asiatici, africani o sudamericani che spesso non hanno la “forza” necessaria per opporsi agli abusi, soprattutto a causa delle diseguaglianze economiche che li spingono a concessioni e privatizzazioni per ottenere fondi stranieri. Si pensi, ad esempio, ai Paesi in via di sviluppo (PVS) che derivano gran parte del loro PIL dalle esportazioni di beni naturali venduti sui mercati dei Paesi industrializzati. Quando fattori interni ed esterni provocano una diminuzione del prezzo dei beni, questi Stati sono costretti a produrre di più, affidandosi a compagnie straniere che operano in virtù di un unico principio: il profitto, anche a spese dell’ambiente.

[Di Salvatore Toscano]

Liberate Assange!: lanciata la nuova petizione globale

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A seguito della decisione della Corte dei Magistrati di Westminster di emettere un ordine formale di estradizione negli Stati Uniti nei confronti di Julian Assange, Reporter senza frontiere (RSF) ha lanciato una petizione per chiedere al ministro degli Interni Priti Patel di respingere la misura che potrebbe portare il fondatore di WikiLeaks a scontare 175 anni di carcere in una prigione di massima sicurezza con l’accusa di spionaggio. Patel, che dovrà confermare o respingere la decisione della Corte dei Magistrati entro 4 settimane, rappresenta l’ultima possibilità (purtroppo molto ridotta) per Julian Assange e per la libera informazione, in un Paese che si posiziona al 33° posto (su 180) nell’Indice mondiale della libertà di stampa (gli Stati Uniti sono al 44° posto).

Per questo motivo, RSF ha chiesto di sostenere la petizione, firmando entro il 18 maggio: si tratta di un modo per informare i cittadini di tutto il mondo della storia di Assange e per tenere alta la loro attenzione, in attesa di altre misure e della decisione finale da parte del ministro degli Interni inglese. «Attraverso questa petizione, aspiriamo a mobilitare coloro che difendono il giornalismo e la libertà di stampa e ci aspettiamo che il governo del Regno Unito risponda», ha dichiarato Rebecca Vincent, direttore delle operazioni e delle campagne di RSF. Julian Assange si trova da oltre due anni e mezzo nella prigione di massima sicurezza HM Prison di Belmarsh, a Londra. Contro di lui Washington ha formulato accuse di cospirazione e spionaggio per aver diffuso documenti “sensibili” degli Stati Uniti riguardanti gli abusi dell’esercito ai danni delle popolazione civili durante le guerre degli ultimi decenni.

[Di Salvatore Toscano]

Yemen: i ribelli houthi si impegnano a non utilizzare i bambini soldato

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In Yemen, i ribelli sciiti houthi hanno accettato di liberare le loro fila dai bambini soldato, che hanno combattuto a migliaia durante i sette anni di guerra civile del paese, secondo quanto affermato da dei rapporti delle Nazioni Unite. Gli houthi hanno firmato quello che l’ONU ha descritto come un “piano d’azione” per porre fine e prevenire il reclutamento o l’utilizzo di bambini nei conflitti armati, oltre all’attacco a scuole e ospedali. La misura, che andrà realizzata entro sei mesi, arriva a qualche settimana dalla prima tregua a livello nazionale del conflitto: il patto di 60 giorni iniziato durante il mese del Ramadan.