venerdì 7 Novembre 2025
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Polonia, arrestato giornalista spagnolo sospettato di spionaggio per la Russia

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Pablo Gonzalez (nome riferito dal suo avvocato), reporter spagnolo per diversi media quali PublicoLa Sexta, è stato arrestato in Polonia con l’accusa di svolgere attività di spionaggio per la Russia. Se le accuse fossero confermate, Gonzalez rischierebbe una pena detentiva di 10 anni. Dal giorno dell’arresto, avvenuto lunedì 28 febbraio, Gonzalez non avrebbe avuto la possibilità di ricevere alcuna assistenza legale o comunicazioni con il mondo esterno. Varie associazioni di tutela dei giornalisti, quali Reporters senza frontiere (RSF) e il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) hanno contestato la legittimità dell’arresto e richiesto l’immediato rilascio del giornalista.

Xylella, nuove prove sulle origini del batterio killer

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Xylella fastidiosa, il batterio che ha letteralmente devastato il paesaggio salentino, è arrivato in Puglia dal Costa Rica ‘a bordo’ di una pianta da caffè infetta, probabilmente, nel 2008. Queste nuove informazioni sulle origini del patogeno dell’olivo provengono da  un recente studio condotto da un gruppo di ricerca internazionale di cui fa parte anche il Centro Nazionale delle Ricerche italiano. Scoperte, inoltre, specifiche mutazioni nel batterio adattato agli olivi pugliesi che aprono nuove porte per soluzioni più mirate. Geni che potrebbero diventare bersagli per contrastare la patologia alterando il patogeno fino a renderlo innocuo.

I ricercatori, tra il 2013 e il 2017, hanno raccolto campioni biologici da oltre 70 olivi affetti da CoDiRO, il Complesso del Disseccamento Rapido di cui Xylella fastidiosa è responsabile. Sfruttando un nuovo protocollo per estrarre il Dna batterico, gli scienziati si sono poi concentrati sulla variabilità di quest’ultimo, confrontandolo, inoltre, con quattro campioni analoghi di piante da caffè del Costa Rica. Studi precedenti, infatti, avevano già individuato in quest’ultima specie dell’America centrale il più probabile serbatoio originario. Ora, la conferma: i risultati hanno difatti evidenziato poche differenze genetiche tra i campioni suggerendo che il patogeno è arrivato in Italia con un’unica introduzione dal Costa Rica. Valutando poi il tasso medio di mutazione del Dna batterico è stato possibile risalire anche ad un preciso anno di introduzione in Italia: il 2008. Considerando che il periodo di incubazione della patologia può durare più di due anni e che le prime segnalazioni di alberi infetti da parte degli agricoltori pugliesi sono giunte nel 2010, tale evidenza appare ancor più verosimile.

Xylella fastidiosa è un patogeno altamente invasivo. Si trasmette alle piante dagli insetti vettori che si nutrono della loro linfa, provocando gravi conseguenze in circa 595 specie diverse. In Europa l’epidemia ha fatto la sua comparsa proprio in Puglia, per poi diffondersi in Francia, Spagna e Portogallo. È però tra le province di Lecce e Brindisi dove ha avuto gli impatti peggiori, tanto da essere definita «la peggior emergenza fitosanitaria al mondo». Le varietà di olivo tipiche del Salento, difatti, sono tra le più vulnerabili alla patologia. Tra deceduti e abbattuti, ad oggi, sono già milioni gli alberi che non produrranno più olive con disastrose conseguenze per una terra culturalmente ed economicamente fondata sul settore olivicolo. Già secondo le stime del 2019, erano almeno 4 milioni le piante che avevano perso del tutto la loro capacità produttiva. Ogni anno sono state perse 29 mila tonnellate di olio d’oliva, pari in media a circa il 10% della produzione olivicola italiana, per un totale di 390 milioni di euro complessivi di valore della mancata produzione. Senza contare poi gli impatti sul paesaggio, ora, visibilmente cambiato.

Un’epidemia che crea ancora problemi e in continua evoluzione, sebbene appaia oggi meno invadente. «Negli ultimi anni – ha commentato Maria Saponari, ricercatrice del Cnr e tra gli autori dello studio – abbiamo riscontrato focolai nella zona di Bari, a nord, ma la diffusione è inferiore, grazie alle misure di contenimento e al fatto che questa zona è più diversificata, con colture e paesaggi diversi che frenano la trasmissione». Misure di contenimento che oggi restano l‘unica arma a disposizione. Allo scopo di eradicare il batterio, inizialmente, si è puntato tutto, in quanto unica soluzione tangibile, sull’abbattimento degli olivi infetti e di quelli nei loro paraggi. Già da qualche anno, però – secondo uno studio del 2017 – si è appurato come non sia più possibile eliminarlo dal territorio salentino. In questa fase, quindi, intervenire biotecnologicamente andando a modificare il batterio in funzione delle nuove evidenze genetiche potrebbe contribuire a risolvere l’emergenza. Allo scopo, sarebbe necessario creare un ceppo mutato di Xylella, con geni silenziati o aggiunti, «ma tali studi – secondo Saponari – saranno difficili da eseguire in Italia, a causa della mancanza di impianti con le strutture di quarantena necessarie per manipolare il patogeno».

[di Simone Valeri]

UE domina esportazioni pinne di squalo in Asia: rischio estinzione di molte specie

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Un rapporto realizzato dall’IFAW (Fondo Internazionale per il Benessere Animale) ha rivelato come i Paesi europei dominino la metà del commercio asiatico di pinne di squalo, nonostante un terzo delle specie di squali esistenti sia a rischio estinzione. Il rapporto ha analizzato circa 20 anni di dati doganali in 3 importanti centri commerciali asiatici. La Spagna, in particolare, si è rivelata la maggior fonte di importazioni per i mercati di Hong Kong, Singapore e Taiwan, avendo esportato quasi 52 mila tonnellate di pinne di squalo in 20 anni. Tali pratiche, spiega il report, favoriscono l’estinzione degli squali, mettendo a rischio interi ecosistemi oceanici e la sicurezza alimentare di molti Paesi.

I profughi non sono uguali? Tra Ucraina e Polonia si passa in base al colore della pelle

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Nuovi scenari, vecchie abitudini. Per quanto il sentimento antirusso esploso in seno alla guerra scatenata da Putin abbia fatto scattare una cortina di solidarietà in tutta l’Europa, sin da subito è stato evidente che non tutti i profughi avrebbero goduto dello stesso diritto di salvarsi. Questo perché nazioni come la Polonia, le cui politiche sull’accoglienza dei migranti sono note da tempo, mettono in atto pratiche di accoglienza selettiva. Sono numerose le denunce da parte di giovani africani, per la maggior parte studenti, che affermano di aver subito trattamenti violenti alla frontiera tra Ucraina e Polonia, o di vedersi precluso l’accesso a pullman e treni che li avrebbero portati fuori dalla nazione in guerra. Una situazione degenerata al punto da allarmare l’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), che ha lanciato un appello ad una maggiore solidarietà e cooperazione nell’ambito del conflitto.

Sono un milione i profughi in fuga dall’Ucraina nella prima settimana di conflitto, secondo le stime dell’UNHCR. In un contesto del genere, la maggioranza dei Paesi europei si è detta disposta ad offrire accoglienza e protezione ai rifugiati. Tra questi anche la Polonia, la quale tuttavia ha dimostrato sin da subito di avere in serbo trattamenti discriminatori a seconda del passaporto dei rifugiati. Sono decine (e continuano a moltiplicarsi) i racconti di giovani profughi di origine africana picchiati e trattenuti al confine tra Ucraina e Polonia. Mentre i cittadini ucraini transitano senza intoppi attraverso i valichi di frontiera, le persone di provenienza africana e indiana rimangono bloccate. Si tratta per lo più di lavoratori o studenti, che negli ultimi 20 anni hanno scelto l’Ucraina come meta perché l’offerta formativa risulta meno costosa rispetto agli Stati Uniti o altre nazioni europee. Le violenze, stando ai racconti, avvengono tanto dalle forze di polizia ucraine quanto da quelle polacche.

Stando a quanto riportato, le autorità di frontiera ucraine avrebbero creato due corridoi di transito verso la Polonia: uno per i cittadini ucraini e uno per gli stranieri residenti in Ucraina. Testimonianze di tali trattamenti sono state riportate anche dagli operatori delle organizzazioni umanitarie che intervengono sulla scena, i quali dichiarano come gli interventi lungo il confine polacco-ucraino siano organizzati su base razziale. Ad aggravare ulteriormente la situazione vi è la mancanza di cibo e acqua, il freddo e le nevicate intense.

Lo spettacolo mediatico della guerra in Ucraina è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta più, a questo punto, di distinguere “profughi veri” e “profughi finti”, per usare la cristallina chiarezza espositiva di Matteo Salvini. Si tratta di pura e semplice discriminazione razziale basata sul criterio più antico del mondo: il colore della pelle.

Non che si tratti di una novità: solo pochi mesi fa la Polonia aveva schierato lungo i propri confini 12 mila soldati per impedire ai rifugiati provenienti dal Medio Oriente di attraversare le frontiere, con il beneplacito dell’Unione europea. In un’Europa che è tornata a erigere muri per “difendere” i propri confini non c’è poi molto da sorprendersi. Nemmeno per l’atteggiamento scarsamente tollerante nei confronti di una proposta della Commissione europea di garantire la protezione anche ai residenti in Ucraina con passaporto di un altro Paese. A causa delle proteste di Stati quali Polonia, Austria, Ungheria e Slovacchia la proposta di garantire eguale protezione umanitaria a tutti i profughi provenienti dall’Ucraina è stata bocciata. Al suo posto si è optato per provvedimento in base al quale il profugo in fuga dall’Ucraina ma con passaporto di un Paese terzo “dovrebbe essere coperto dalla direttiva sulla protezione temporanea [DPT, che accorda un anno di protezione, prorogabile fino a tre, ndr] o dalla legislazione nazionale“. In poche parole: per tutti i cittadini ucraini è previsto il DPT, per gli altri gli Stati possono decidere da sé se concedere il DPT o agire in base alle proprie normative nazionali. Stessi profughi, stessa guerra, ma trattamenti diversi in base al passaporto. Il tutto con il via libera dell’Unione europea.

La stessa OIM si è detta “allarmata”  in seguito alle “notizie verificate e credibili di discriminazione, violenza e xenofobia contro cittadini di paesi terzi che tentano di fuggire dal conflitto in Ucraina”, chiedendo alle nazioni confinanti con l’Ucraina di garantire un’accoglienza “non discriminatoria” e “culturalmente appropriata”. Le speranze che questo avvenga sono, evidentemente, alquanto scarse.

[di Valeria Casolaro]

Vaccini ai bambini: l’efficacia sbandierata da Pfizer affossata dai dati reali

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Nei mesi scorsi le approvazioni delle vaccinazioni a bambini e ragazzi si erano basate sugli studi condotti dalle aziende produttrici. La Pfizer, nei propri comunicati, aveva sbandierato una “efficacia del 100%” nei soggetti di età compresa tra i 12 ed i 15 anni nonché di oltre il 90% nei bambini tra i 5 e gli 11 anni. Ma i dati che stanno arrivando dalle ricerche indipendenti mostrano una realtà assai diversa. Con la diffusione della variante Omicron, l’efficacia nel prevenire il contagio di due dosi del vaccino Pfizer è diminuita rapidamente nei più piccoli: è quanto si evince da uno studio realizzato da alcuni ricercatori del Dipartimento della Salute dello Stato di New York, che hanno analizzato i dati di oltre mille individui rientranti nella fascia di età 5-17 anni. Secondo lo studio l’efficacia nel prevenire il contagio sarebbe crollata dal 68% al 12% in appena sei settimane nei bambini tra 5 e 11 anni. In calo anche la capacità dei vaccini di prevenire la malattia, anche se questo dato – per stessa ammissione degli esperti – non può essere calcolato in modo esatto poiché il numero dei ricoveri «è troppo basso» anche tra i non vaccinati.

Dal 13 dicembre 2021 al 30 gennaio 2022, infatti, nei bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni l’efficacia del vaccino nel prevenire il contagio è scesa dal 68% al 12%, mentre per i ragazzi rientranti nella fascia 12-17 anni è passata dal 66% al 51%. Inoltre, per quanto riguarda i soggetti vaccinatisi recentemente, ossia tra il 13 dicembre 2021 ed il 2 gennaio 2022, l’efficacia contro il contagio entro due settimane dalla vaccinazione è stata del 76% ed entro 28-34 giorni del 56% per i ragazzi di età compresa tra i 12 ed i 17 anni, mentre per i bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni l’efficacia è comunque diminuita dal 65% al 12% entro 28-34 giorni. Oltre a tutto ciò, anche l’efficacia contro il ricovero è risultata essere diminuita, scendendo dal 100% al 48% nei bambini di età compresa tra i 5 e gli 11 anni e dall’85% al 73% nei ragazzi di età compresa tra i 12 ed i 17 anni.

Commentando quanto emerso dallo studio, i ricercatori si affrettano a consigliare in ogni caso la vaccinazione in quanto, nonostante tutto, si è rivelata “protettiva contro le malattie gravi”, tuttavia hanno altresì sottolineato che “questi risultati evidenziano la potenziale necessità di studiare un dosaggio alternativo di vaccino per i bambini“. A tal proposito, bisogna infatti ricordare che la differenza di efficacia tra i bambini ed i ragazzi potrebbe essere dovuta al fatto che i bambini tra i 5 e gli 11 anni ricevono 10 microgrammi di vaccino in meno rispetto ai giovani di età compresa tra 12 e 17 anni. La soluzione proposta è quindi quella di valutare un eventuale aumento dei dosaggi spalmato su tre dosi.

Lo studio è attualmente in fase di preprint – ossia non è stato ancora sottoposto a revisione paritaria – motivo per cui i risultati debbono essere considerati ancora provvisori. Ad ogni modo però, il suo valore preliminare è degno di nota, non solo poiché i ricercatori appartengono come detto al Dipartimento della Salute di New York ma anche perché i dati analizzati riguardavano centinaia di migliaia di bambini. Certo c’è anche chi, come l’esperto di malattie infettive pediatriche presso il Children’s Hospital di Filadelfia Paul Offit, sostiene che il numero di ricoveri sia troppo basso per trarre conclusioni certe riguardo ad una significativa diminuzione dell’efficacia del vaccino contro le malattie gravi. Tuttavia questo non fa che alimentare i dubbi sul fatto che, nei periodi in cui puntava ad ottenere l’approvazione del vaccino da parte delle agenzie federali per queste fasce di età, la Pfizer abbia sbandierato percentuali di efficacia elevate nonostante la malattia sia di fatto molto rara nei giovani ed essendo dunque difficile capire con precisione quale sia la reale protezione offerta.

La Pfizer infatti negli scorsi mesi non si è astenuta dal diffondere comunicati trionfali relativi ad una presunta ” efficacia del 100%” nei soggetti di età compresa tra i 12 ed i 15 anni nonché di oltre il 90% nei bambini tra i 5 e gli 11 anni. Tuttavia ora, davanti ai dati che stanno col tempo emergendo circa una efficacia nettamente ridotta, Pfizer sembra voler prevenire i danni in quanto ha affermato di star studiando un programma a tre dosi del vaccino nella popolazione pediatrica, dato che gli studi sugli adulti suggerirebbero che “le persone vaccinate con tre dosi possono avere un grado di protezione più elevato”.

[di Raffaele De Luca]

No Tav, attivista condannato per aver cercato di appendere uno striscione

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Un anno e sei mesi: questa la condanna che dovrà scontare Stefano Mangione, giovane attivista No Tav, per aver cercato di appendere uno striscione sulla ringhiera del Tribunale all’esterno del Palazzo di Giustizia di Torino. Secondo quanto riferito dal sito notav.info, Mangione si trovava all’esterno del Palazzo insieme a un gruppo di No Tav con l’intenzione di esprimere solidarietà a un’attivista molestata dalla polizia durante alcune proteste in Val Clarea e poi accusata di resistenza. La polizia avrebbe reagito al presidio caricando i presenti e in seguito denunciandone alcuni, tra cui Stefano, che ora si trova al carcere Le Vallette di Torino con una condanna per resistenza aggravata.

Young Global Leaders: gli influencer del WEF per plasmare le politiche globali

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Probabilmente sono in pochi a sapere che una parte consistente dei politici, dei giornalisti, degli artisti, degli imprenditori e degli influencer “culturali” del mondo provengono da una formazione precisa che si ispira ai principi e agli obiettivi del World Economic Forum (WEF), potente organizzazione internazionale che persegue gli interessi del gotha finanziario ed economico mondiale. È stato proprio il WEF, infatti, a lanciare nel 1992 un programma chiamato “Global Leaders of Tomorrow”, ribattezzato poi nel 2004 “Forum for Young Global Leaders”: si tratta di un programma formativo quinquen...

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L’ex premier Massimo D’Alema scoperto a trattare la vendita di armamenti alla Colombia

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Cosa lega il Paese dove nel 2021 sono stati uccisi 145 difensori dei diritti umani a Massimo D’Alema? Un’operazione a nove zeri, mediata dall’ex Presidente del Consiglio, che avrebbe portato in Colombia quattro corvette, due sommergibili e diversi caccia intercettori prodotti in Italia. Precisamente, le aziende coinvolte sono Fincantieri e Leonardo, il cui amministratore delegato, Alessandro Profumo, intrattiene da anni una certa amicizia con D’Alema, come dimostra la sua partecipazione nel 2015 alla cena da mille euro a coperto per finanziare la fondazione dell’ex segretario del Pds.

Il problema, sia per le istituzioni italiane sia per D’Alema, non è di certo finanziare un Paese accusato da Amnesty International e Human Rights Watch per gravissime violazioni dei diritti umani. L’Italia, come gli altri paesi occidentali non si fa remore a mettere il business delle armi davanti ai diritti umani, e il nostro paese già vende armi anche all’Egitto e a Israele, tornato di recente a far parlar di sé per le violente repressioni nei confronti del popolo palestinese. Il problema è più che altro la sovrapposizione verificatasi fra i ruoli, visto che la trattativa per vendere armi al governo colombiano sembrerebbe essere stata avviata già nel 2018. Quindi inizialmente sono le istituzioni italiane a trattare, con diversi incontri fra le parti, fino a quando a metà febbraio l’ambasciatrice colombiana a Roma chiama il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè per riferirgli di aver ricevuto una telefonata di D’Alema, che si presentava come mediatore della fornitura per incarico di Leonardo. A confermare l’accaduto è lo stesso Mulè, in un intervento televisivo dove afferma: «Sulla base di questo, convoco i dirigenti dell’azienda» per fargli notare che «è già in corso un’interlocuzione diretta tra governi, peraltro sollecitata e voluta dalla stessa Leonardo. Quindi chiedo loro quale sia il ruolo del Presidente D’Alema». Seguono giorni di silenzio da parte dell’azienda, che non fornisce una risposta adeguata a giustificare il motivo per cui si sia affidata a un intermediario, violando tra l’altro la legge n. 185 del 9 luglio 1990, norma che vieta la presenza di mediatori durante la compravendita di armi.

A prendere la parola nei giorni scorsi è stato lo stesso Massimo D’Alema, avanzando una tesi contrastante le parole di Mulè: «Non c’erano stati contatti a livello governativo, per questo ho fatto due cose: innanzitutto ho parlato con l’ambasciatrice della Colombia. Non ne sapeva nulla e ne sono rimasto sorpreso. Poi ho provveduto a informare Giorgio Mulè dell’attività in corso». In seguito, l’ex leader della FGCI (Federazione giovanile del Partito comunista) ha ammesso una posizione che sin da subito era apparsa contraddittoria, quella relativa al suo guadagno finale, affermando in un’intervista a Repubblica, di aver cercato di «dare una mano a imprese italiane per prendere una commessa importante» che, stando all’audio finito in rete un anno fa relativo ai giorni delle trattative, ammonterebbe a 80 milioni di euro, da dividere con i soci dello studio Robert Allen Law, e i «colombiani». «Ero stato contattato da personalità colombiane che si erano dette disposte a sostenere questa ipotesi. Evidentemente a qualcuno dava fastidio ed è intervenuto per impedirlo. Sia il Governo sia l’ambasciata colombiana erano stati chiaramente avvertiti di tutto. Trovo incredibile come sia facile reclutare in Italia qualcuno disponibile a danneggiare il nostro Paese», ha infine aggiunto Massimo D’Alema.

Nel silenzio generale di una parte degli interessati, si è mosso qualcosa fra i banchi della politica, non tanto a sinistra dove alcuni esponenti del Pd hanno preferito la strada del “non commento per non alimentare polemiche”, ma più sul centro-destra, dove ad esempio Fratelli d’Italia ha annunciato un’interrogazione parlamentare con l’obiettivo di chiedere e ottenere delucidazioni da parte del Governo circa i tanti aspetti della vicenda ancora rimasti nell’ombra.

[Di Salvatore Toscano]

Pakistan: strage in moschea

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In una moschea sciita a Peshawar, nel Pakistan settentrionale, si è verificata una violenta esplosione che ha causato almeno 30 morti e più di 50 feriti. Secondo le prime ricostruzioni, l’attentato sarebbe avvenuto durante la preghiera del venerdì, quando due uomini armati avrebbero aperto il fuoco contro i poliziotti all’esterno della moschea, ferendone a morte uno, con l’obiettivo di entrare all’interno della struttura. Poco dopo è avvenuta l’esplosione.

Ucraina: l’Occidente chiama le big tech a schierarsi nel conflitto

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Non è insolito che, in tempi di guerra, i poli di potere chiedano alle aziende di assumere una posizione politica netta. Anzi, spesso non c’è neppure bisogno di chiedere e sono le imprese stesse ad aderire autonomamente ai sentimenti dettati delle narrative dominanti. Ai tempi della globalizzazione digitalizzata, però, le alchimie di Mercato si sono ibridate al punto che assumere una presa di posizione definitiva sia cosa difficile, per le multinazionali, soprattutto se queste si occupano di comunicazione.

Negli anni, le Big Tech occidentali hanno portato avanti atteggiamenti ambigui nei confronti della tutela dei diritti umani e della libertà di parola, non di rado si sono chinati alle richieste di Governi dall’impostazione antidemocratica, tuttavia l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca sta ponendo sulle varie dirigenze delle pressioni da cui gli è arduo divincolarsi. Il Cremlino sta infatti chiedendo ai media di censurare post e informazioni che penetrano in Russia tramite il web: Facebook, Twitter, Google, YouTube, Microsoft sono finite tutte nel mirino dell’establishment russo, il quale non è certamente contento dei modi che adottano per diffondere le notizie, ancor più perché molte di loro hanno deciso di imporre restrizioni alle testate vicine a Mosca.

D’altro canto, neppure le Amministrazioni occidentali si ritengono pienamente soddisfatte dall’atteggiamento adottato dalle grandi aziende tech. I Paesi più vicini allo scontro – Polonia, Estonia, Lituania e Lettonia – hanno chiesto esplicitamente che le piattaforme social dominanti si impegnino a sospendere tutti gli account politicamente vicini a Vladimir Putin, mentre i politici europei e statunitensi stanno ragionando su quali siano i modi migliori per arginare la propaganda digitale russa. La posizione dell’Ucraina trova voce in Mykhailo Fedorov, Vice Primo Ministro, il quale pretende che le Big Tech rivedano invece l’accessibilità ai loro servizi in terra russa, una soluzione atta a isolare la nazione avversaria.

Molte aziende internazionali stanno assumendo una posizione simbolica in opposizione alla Russia, ma nessun settore sta ricevendo pressioni dall’alto quanto quello dei social media, dettaglio che tacitamente cementa il potere politico rappresentato dalle Big Tech. Quello dell’industria dei dati è tuttavia un potere effimero, che si è lungamente appoggiato all’idea di poter godere i benefici dell’ingerenza diplomatica senza incorrere negli oneri a essa collegati, ora che i nodi vengono al pettine le imprese non sanno bene come reagire e solcano timidamente la superficie di mari ignoti. I giganti del settore hanno tutto l’interesse di riscattare la propria immagine ormai intorbidita, tuttavia temono che una reazione troppo forte possa tradursi nel dover abbandonare il mercato russo e che una eccessivamente fiacca porterebbe a una regolamentazione del settore da parte USA.

Il dilemma è però a monte: i Governi e le società, intorpiditi dalla promessa di una crescita dell’industria e dei consumi, hanno lungamente permesso alle Big Tech di imbastire una sfera digitale che fosse comoda agli interessi speculativi, abbandonando ogni sforzo di confronto corale per imbastire dei binari guida etico-intellettuali. Quest’obiezione potrebbe suonare eccessivamente retorica, quasi anacronistica, tuttavia i limiti dell’approccio puramente funzionalistico alla tecnologia sono evidenziati dal fatto che persino i social network meno controversi – si veda Telegram – non siano in grado di definire se sia corretto o meno bloccare i canali di comunicazione usati ai fini propagandistici.

Tenendo in considerazione che il confine tra propaganda e informazione è molto sfocato, è opportuno bloccare una fonte narrativa – seppur mendace – che può comunque contribuire a percepire un’immagine d’insieme del mondo? Fin dove si può spingere la censura? Le aziende statunitensi dovrebbero sottostare alle leggi locali anche quando antidemocratiche o hanno il compito di promuovere i valori occidentali? Sono quesiti essenziali che troppo spesso mettiamo a tacere.

[di Walter Ferri]