lunedì 22 Dicembre 2025
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Canada: i camionisti bloccano il paese contro l’obbligo vaccinale

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I sindacati dei camionisti dell’Ontario hanno annunciato un duro weekend di proteste contro l’obbligo vaccinale imposto per attraversare il confine tra Usa e Canada. Secondo quanto riportato dalla stampa canadese, convogli di camion hanno già bloccato alcune strade di confine e una lunga carovana di autotrasportatori è attesa nella capitale Ottawa, dove la polizia si sta preparando a gestire la protesta, che nelle intenzioni dei promotori bloccherà la capitale per tutto il fine settimana. I media specificano che ancora nemmeno le autorità sanno cosa aspettarsi, ma nelle ultime ore le adesioni da parte dei sindacati all’iniziativa di protesta stanno aumentando, cosa che potrebbe preannunciare un duro weekend di blocchi stradali.

Great Resignation: perché milioni di persone stanno lasciando il lavoro

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Solitamente, quando le persone lasciano volontariamente il proprio lavoro in massa significa che l’economia è in fase positiva e stabile e che molti credono sia giusto cercare qualcosa di più gratificante e con compenso maggiore, decidendo di mettersi in gioco in un momento in cui le cose vanno generalmente bene. Il periodo pandemico ci consegna però una nuova tendenza: il lavoro viene lasciato in massa in un periodo economico affatto positivo e tutt’altro che stabile. Tale fenomeno è stato chiamato Great Resignation o, altrimenti, Big Quit.
Anthony Klotz, professore di management alla Mays Bu...

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Ultima Generazione: disobbedienza civile per protestare contro l’emergenza climatica

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Azioni di disobbedienza civile nonviolenta – tra cui soprattutto blocchi stradali ripetuti – che creino disturbo ed impediscano il normale scorrere della vita economica a Roma: è in questo che consiste la campagna “Ultima Generazione – Assemblee Cittadine Ora” nata all’interno del movimento Extinction Rebellion. Il suo scopo è quello di ottenere una risposta da parte del governo italiano, a cui viene appunto chiesto di istituire entro il 2022 una «Assemblea di Cittadini/e nazionale deliberativa sulla giustizia climatica ed ecologica» che permetterebbe alle persone comuni di «ottenere un cambiamento radicale».

È quanto sostengono gli aderenti al progetto, chiedendo «un’assemblea di Cittadini/e selezionati/e» che prevedrebbe «l’estrazione casuale per formare un campione statistico davvero rappresentativo di tutta la popolazione». In tal senso, l’obiettivo sarebbe quello di «creare una comunità su piccola scala che possa lavorare in modo costruttivo per almeno sei mesi con l’ausilio di esperti e scienziati per elaborare soluzioni concrete alle crisi climatica ed ecologica» per poi elaborare proposte che dovrebbero «essere considerate vincolanti per il governo».

Non solo, perché gli attivisti chiedono inoltre subito un incontro pubblico con alcuni rappresentati del governo, il cui tema sarebbe riassunto nella seguente domanda: «Siamo l’ultima generazione di cittadini e cittadine italiani?». Lo scopo è quello di dibattere apertamente sul futuro dell’Italia e sulla necessità della partecipazione diretta della cittadinanza per fermare l’ecocidio in corso. Punto di partenza che il movimento chiede è che i rappresentanti del governo riconoscano pubblicamente il «fallimento dell’esecutivo e del Parlamento nell’affrontare la situazione climatica ed ecologica drammatica in cui ci troviamo e l’intenzione di accogliere le Assemblee di Cittadini e Cittadine come strumento di partecipazione democratica per deliberare i cambiamenti necessari a livello sistemico».

Il 2021 è stato un anno nero per l’Italia, con oltre 1500 eventi climatici estremi che hanno causato il calo nella produzione del 27% della frutta, del 90% del miele e dell’80% dell’olio. «Già oggi siamo dipendenti dalle catene globali del cibo», affermano gli aderenti al progetto, aggiungendo che «presto non sapremo cosa mangiare». È per sensibilizzare a partire da questo tema che gli attivisti hanno scelto la strada delle azioni di disturbo e dei blocchi stradali. Modalità giocoforza invisa a una parte di cittadini, che presa dalla fretta della quotidianità e dallo stress che già colpisce gli automobilisti bloccati nel traffico spesso non prende bene il fatto di trovarsi il tragitto bloccato da attivisti che protestano per l’ambiente. Con punte di tensione che superano talvolta il livello di guardia, come quando il 17 dicembre gli attivisti hanno bloccato il viadotto della Maglianella e alcuni manifestanti – secondo quanto riportato da Extinction Rebellion – hanno subito spintoni, calci e schiaffi da parte di alcuni automobilisti.

«Non sono le uniche azioni utili che si possano fare e di certo provocano fastidio in alcuni automobilisti» – afferma Michele, attivista di Extinction Rebellion e Ultima Generazione che ha illustrato a L’Indipendente la propria opinione a riguardo – «ma si tratta dell’unico modo di sensibilizzare e far muovere le persone nel breve tempo». Il fine infatti «non è disturbare la cittadinanza bensì creare essenzialmente un nuovo spazio all’interno del movimento». L’idea è quella che la marcia di protesta convenzionale non basti e che occorra «fare qualcosa in più creando conflittualità sociale non violenta» con lo scopo di dimostrare in maniera pratica, mettendo a rischio la propria stessa incolumità nonché rischiando l’arresto, che «se c’è qualcuno disposto a subire violenza senza rispondere significa che il problema denunciato è serio».

[di Raffaele De Luca]

USA, giudice annulla vendita concessioni petrolifere per effetti climatici

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Negli Stati Uniti un giudice federale ha annullato la vendita dei contratti di locazione di 37,4 milioni di ettari nel Golfo del Messico, resi disponibili dall’amministrazione Biden per l’estrazione di petrolio e gas. I contratti, che non avevano ancora il permesso di entrare in vigore, sono stati venduti nel novembre scorso, nella più grande vendita di contratti off-shore per l’estrazione di combustibili fossili nella storia degli USA. Nella sentenza il giudice ha criticato l’amministrazione statunitense per i gravi errori commessi nel determinare l’impatto ambientale delle estrazioni e per non considerare nella propria analisi di emissioni di gas serra anche il consumo estero.

Uganda: gli scimpanzé, privati dell’habitat, hanno iniziato ad attaccare l’uomo

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Gli scimpanzé (Pan troglody) causano da tempo seri problemi nei villaggi nello Stato dell’Africa orientale, l’Uganda. Questi mammiferi tanto simili agli uomini stanno letteralmente terrorizzando le popolazioni, con una violenza sempre maggiore. Molti abitanti dei villaggi come quello di Kyamajaka, hanno infatti dovuto abbandonare le proprie abitazioni per scongiurare gli attacchi degli scimpanzé selvatici, intensificatosi nel corso degli anni come conseguenza fatale del massiccio intervento umano nel loro habitat naturale.Uno degli episodi più allarmanti e violenti è avvenuto nel 2014, quando un bambino di due anni è stato rapito da uno scimpanzé gigante sotto gli occhi della madre, mentre lavorava in giardino, con i figli vicino. Dopo un’affannosa corsa da parte degli abitanti del villaggio, il corpo del piccolo è stato trovato abbandonato sotto un cespuglio, completamente sviscerato. Un episodio tanto triste e violento nasce purtroppo da un’azione incontrollata da parte dell’uomo e mai davvero modificata, nonostante se ne riconosca da tempo la gravità.

Come riportato in un recente report del National Geographic, con l’esaurimento della terra e delle foreste e l’invivibile carenza di cibo, i primati appartenenti alla famiglia degli ominidi sono stati costretti a procacciarsi cibo altrove. E quell’altrove, è appunto rappresentato dai villaggi dell’Uganda. Alcune abitazioni sono ora vuote e “occupate” dagli scimpanzé, prima abituati a vivere nelle foreste umide dell’Uganda. La famiglia della vittima di due anni ha definitivamente lasciato la propria casa nel 2017, finendo in un luogo ben meno accogliente ma almeno senza i rischi sempre maggiori dettati dall’imponente presenza degli scimpanzé. Sono state la guerra e l’incontrollata deforestazione a distruggere gran parte dell’habitat naturale di questi mammiferi sorprendentemente vicini agli uomini, senza parlare del fatto che la popolazione di scimpanzé è stata decimata. Ecco come la possibile “convivenza” tra uomini e scimpanzé si è trasformata in un vero e proprio conflitto, che lascia vittime da entrambe le parti. Esistono casi in cui questi animali vedono gli esseri umani in maniera disinteressata, perché non percepiscono l’uomo come un nemico o un potenziale rischio. Ma è ormai noto come il comportamento degli scimpanzé cambi a seconda delle circostanze in cui sono immersi. Se la specie umana reca o ha recato danni agli scimpanzé, essi modificano il loro comportamento perché conoscono e percepiscono il concetto di aggressività.

Come gli esseri umani, gli scimpanzé sono onnivori e si adattano per sfruttare nuove fonti di cibo se quelle esistenti scompaiono. Quando sotto minaccia, questi animali difendono il loro territorio contro ogni potenziale rischio, attaccando anche, se necessario, altri gruppi della loro stessa specie. Gli scimpanzé rispondono quindi agli attacchi subiti e lo fanno senza sconti. Come riporta il già citato report del National Geographic, se viene lanciato un sasso a uno scimpanzé, questo risponde a sua volta scagliandone uno. Gli scimpanzé che sono stati attaccati attaccano poi a turno e se diventa necessario, vanno a caccia di carne. Lo studio intitolato Kibale Chimpanzee Project, in cui si analizza il comportamento, l’ecologia e la fisiologia degli scimpanzé selvatici fin dal 1987, è un’ulteriore dimostrazione del peggioramento del comportamento degli scimpanzé nei confronti degli uomini. Non per un istinto naturalmente anti-umano, ma come reazione alle scelte prese dalla “più avanzata” specie umana. E gli scimpanzé rispondono procacciandosi il cibo di cui sono stati privati, organizzando vere e proprie spedizioni, specialmente di sera, verso le abitazioni dei villaggi per poi tornarsene nel loro rifugio nella foresta, sempre più tristemente privo di alberi.

[Francesca Naima]

Svezia, no a vaccino sotto i 12 anni: benefici non superano rischi

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La Svezia ha deciso di non raccomandare i vaccini anti Covid per i bambini rientranti nella fascia di età tra i 5 e gli 11 anni: a riportarlo è l’agenzia di stampa Reuters, secondo la quale l’Agenzia sanitaria avrebbe comunicato oggi tale scelta, che si baserebbe sul fatto che i benefici non sarebbero superiori ai rischi. Britta Bjorkholm, funzionaria dell’Agenzia sanitaria, avrebbe infatti affermato in una conferenza stampa che in base alle informazioni attualmente a disposizioni non vi sarebbe «alcun chiaro vantaggio» nel vaccinare i bambini, aggiungendo tuttavia che la decisione potrebbe comunque essere rivista qualora la ricerca dovesse produrre nuove evidenze o se dovesse emergere una nuova variante in grado di rivoluzionare la pandemia. Situazione diversa invece per i bambini ad alto rischio, che possono già ricevere il vaccino.

La Francia ha vietato le terapie di conversione dell’orientamento sessuale

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Le cosiddette terapie di conversione, un modo per “modificare” il comportamento sessuale di individui non etero, considerati quindi come “malati” e “da curare”, sono definitivamente vietate in Francia. Il 25 gennaio 2022 l’Assemblea nazionale ha approvato il disegno di legge nº 3030, presentato inizialmente il 23 marzo 2021, ora ufficialmente adottato e presto promulgato. Da settembre 2021 il Governo aveva avviato una procedura accelerata sul testo con l’obiettivo di combattere contro pratiche irragionevoli.

È stato quindi introdotto un nuovo reato nel codice penale, volto a punire le “terapie di conversione” e ogni pratica che voglia “modificare” l’orientamento sessuale o l’identità di genere di qualsiasi individuo. La pena prevista parte dai due anni di reclusione e una multa di 30.000 euro, che aumenta fino ai quattro anni di reclusione e 45.000 di multa se coinvolti minori o soggetti particolarmente vulnerabili.

I medici che sostengano di poter “curare” l’orientamento sessuale o l’identità di genere di una persona, rischiano inoltre il divieto di esercitare fino a dieci anni. Comunque, non sarà considerato punibile un qualsiasi invito di prudenza o riflessione prima di, per esempio, intraprendere un percorso di transizione. Grazie a tale provvedimento, in Francia sarà possibile denunciare più facilmente sia per i singoli che per le associazioni, le quali come previsto da un emendamento dei deputati e sotto il consenso di questi ultimi, potranno agire in giudizio per chiunque sia stato sottoposto alle terapie di conversione.

Nonostante la Francia abbia ufficialmente rimosso l’omosessualità dall’elenco delle condizioni psichiatriche nel 1981 e quelli che erano considerati disturbi dell’identità di genere nel 2010, per le terapie di conversione non esisteva, ancora, alcuna disposizione. Tali terapie, conosciute anche come di “riorientamento sessuale” o “riparative“, sono trattamenti che partono dall’eteronormatività. Con il presupposto che l’unico orientamento sessuale possibile sia l’eterosessualità, tutto ciò che se ne distacca viene considerato e trattato come una malattia.

L’espressione “terapia di conversione” è nata negli Stati Uniti negli anni ’50 e racchiude in sé diverse pratiche che, letteralmente, pretendono di modificare l’orientamento sessuale o l’identità di genere di una persona. “Terapie”, tra l’altro, da sempre prive di qualsiasi base medica e scientifica, tanto che sono state vietate da associazioni quali l’Onu, l’Oms e Amnesty International. Considerando l’omosessualità e la transessualità come una “condizione curabile”, nel corso della storia sono stati messi in atto riti religiosi, elettroshock, torture, stupri collettivi, iniezioni di ormoni…col fine di “guarire”. Ad adottare pratiche tanto assurde sono stati alcuni rappresentati o seguaci di culti, credenze, “terapeuti esperti”, medici con determinate convinzioni. Ad oggi queste “usanze” continuano timidamente a muoversi in maniera ovviamente ben diversa ma non per questo meno grave, in un labile confine tra legalità e illegalità, immerse in una sfera sempre e comunque pseudoscientifica.

Eppure è stato più volte dimostrato quanto tali pratiche siano infondate e quanto abbiano gravi effetti sulla salute mentale. Per chi viene “curato”, o chi in generale subisce un trattamento da “malato”, “diverso”, oltre alla dolorosa consapevolezza di non essere accettato, è facile cadere in depressione e rispondere con confusione, ansia, disturbi della personalità e con un’inclinazione al suicidio di otto volte maggiore alla norma, come emerge dal rapporto dell’American Psychology Association (Apa).

Anche in Canada, solo dallo scorso dicembre, le “terapie di conversione” per le persone LGBTQ+ sono illegali, mentre la Francia si aggiunge ad altri Paesi europei quali la Germania e Malta. Se anche il Belgio, i Paesi Bassi e il Regno Unito stanno facendo passi avanti per agire a livello legislativo, all’interno della politica italiana nulla sembra emergere. Solo nel 2016, Sergio lo Giudice (ex senatore del Pd) ha promosso un ddl a riguardo. Il risultato è stato un testo mai nemmeno discusso, perché non considerato come una delle priorità nel Bel Paese.

In Italia, così come altri 68 paesi nel mondo, le terapie di conversione rimangono quindi impunite. Risulta difficile capire quanto effettivamente siano diffuse in Italia, visto che si tratta di un fenomeno non facile da identificare, specialmente perché non eclatante come in passato o come in altre parti del mondo. Questo, però, non giustifica il considerarlo in modo superficiale; una legge come quella francese è infatti un modo e un esempio per fare valere i diritti e il rispetto di tutti.

[di Francesca Naima]

Elezione presidente della Repubblica: altra fumata nera

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Nuova fumata nera alla quarta votazione del Parlamento in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica. Da oggi il quorum necessario si è abbassato a 505 voti, ma nonostante ciò il suo raggiungimento è stato reso impossibile dalla somma di schede bianche, nulle, astensioni e voti a singoli candidati. In tal senso, a scegliere l’astensione è stato il Centrodestra, mentre il Centrosinistra ed i Cinque Stelle hanno votato scheda bianca. Nello specifico, gli astenuti sono stati 441 mentre le schede bianche sono scese a 261. Inoltre, le schede nulle sono state 5 ed i voti dispersi 20. Tra i candidati risulta in crescita il nome del presidente uscente Sergio Mattarella, salito dai 125 voti di ieri a quota 166. Nel frattempo, continuano le trattative tra i leader dei partiti per trovare un nome condiviso in ottica della nuova votazione che si terrà domani.

 

Petrolio in mare, il Perù non si piega alla Repsol: “pagherà per il disastro”

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Nove spiagge e due riserve protette contaminate, seimila i barili di petrolio dispersi nell’oceano: questo il drammatico bilancio del disastro ambientale avvenuto al largo delle coste peruviane, la cui responsabilità è a carico del colosso petrolifero spagnolo Repsol. La multinazionale, prima, ha sminuito lo sversamento, poi, ha tentato di imputare la colpa del disastro all’eruzione del Tonga. Mentendo in entrambi i casi. Una tattica usuale per le multinazionali petrolifere, ma questa volta la Repsol si trova di fronte il Perù del nuovo presidente socialista Pedro Castillo, che sulla lotta contro gli abusi delle multinazionali ha costruito una parte sostanziale del proprio programma di governo, e le cose potrebbero mettersi male per la compagnia. Il governo peruviano ha infatti dapprima disposto l’interruzione di tutte le attività dell’azienda nel Paese fino a che non sarà determinata con maggior chiarezza la dinamica dell’incidente e ha poi annunciato l’intenzione di intraprendere “tutte le necessarie azioni penali, civili e amministrative contro la compagnia” al fine di ottenere giustizia.

Il disastro – definito il più grave nella storia del paese sudamericano – ha avuto luogo il 15 gennaio, durante il trasferimento di greggio dalla petroliera italiana Mare Doricum alla raffineria La Pampilla della Repsol. Giorno in cui – come ha denunciato il ministro dell’Ambiente Rubén Ramírez – le attività in mare non avevano registrato alcuna anomalia. Di conseguenza, la possibilità che a causare l’incidente sia stato lo tsunami derivante dall’esplosione del vulcano polinesiano appare, chiaramente, come una scusa. Un atteggiamento negligente da parte dell’azienda confermato poi dal tentativo di minimizzare quanto stava accadendo. La Repsol, infatti, al principio aveva comunicato la dispersione di appena 0,16 barili di petrolio in uno spazio di si e no 2,5 metri quadrati. Ciò ha inevitabilmente ritardato le operazioni di messa in sicurezza, così, ora, per ripulire i danni  ci vorrà circa un decennio. E intanto, le autorità peruviane fanno sapere che è stato localizzato un secondo sversamento.

Il presidente peruviano Castillo sul luogo del disastro [fonte: www.gob.pe]
L’azienda petrolifera – come spesso avviene in questi casi – ha provato quindi ad evitare ogni obbligo di risarcimento. Nel mentre, però, la procura ha aperto un’indagine per il reato di contaminazione ambientale contro i suoi rappresentanti legali e i funzionari della raffineria. Ma anche il governo guidato dal neo-presidente Castillo ha intenzione di prendere seri provvedimenti. Forse, la multinazionale ha fatto danni nel paese sbagliato. Il leader del partito socialista Perù libero, non a caso, ha vinto le elezioni anche per l’aver acceso i riflettori su decenni di corruzione e impunità delle multinazionali spagnole in Perù, promettendo, in questo senso, un drastico cambio di rotta. Dimostrato anche dalle prime iniziative intraprese nelle scorse settimane verso una rinazionalizzazione del settore estrattivo. La Repsol che, dal 2015, ha commesso ben 32 infrazioni ambientali, più di una volta, ha fornito informazioni sbagliate. Una mossa che, in questo caso, potrebbe però aggravare la sua posizione. Sono quattro le alte cariche coinvolte che erano incaricate di controllare il rischio di produzione. Nel caso in cui venissero processati, potrebbero essere condannati a pene tra i quattro e i sei anni di prigione, secondo le disposizioni dell’articolo 304 riferito ai reati di inquinamento in Perù.

[di Simone Valeri]

Flavio Carboni, la scatola nera delle pagine oscure d’Italia

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"Flavio Carboni era un tipico personaggio italiano che sapeva destreggiarsi magnificamente in mezzo ai casini del nostro Paese e ai misteri, che poi in italia di misteri non ne esistono, la storia dei misteri italiani l'avete inventata voi giornalisti, in Italia si sa tutto di tutto e di tutti". Un necrologio che è il Bignami di cinquant'anni di storia repubblicana, quello che Francesco Pazienza ha cucito su misura per Flavio Carboni. Arrivato da poco a 90 anni e deceduto per un infarto, il quarto gli è stato fatale, e col cuore forse stanco per le tante, troppe volte che ha giocato a guardie ...

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