martedì 16 Dicembre 2025
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Camorra, blitz contro clan Moccia: 59 misure cautelari

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I carabinieri del Ros hanno notificato 59 misure cautelari nei confronti di altrettanti indagati, al termine di un’indagine coordinata dalla Procura di Napoli. I destinatari delle misure sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, impiego di denaro e beni di provenienza illecita, autoriciclaggio, fittizia intestazione di beni, corruzione, porto e detenzione illegale di armi da fuoco, ricettazione e favoreggiamento. I reati sarebbero stati compiuti in supporto all’attività del clan Moccia, fattore che costituisce un’aggravante. La Guardia di Finanza ha anche sequestrato beni per un valore complessivo di 150 milioni di euro.

Ristudiare l’agricoltura indigena è la chiave per ripristinare i terreni danneggiati

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Riprendere in mano i metodi tradizionali dell’agricoltura indigena può essere la chiave per il rimettere in salute un territorio provato dopo anni di sfruttamento delle risorse attraverso i sistemi agricoli industriali. Ne è prova il lavoro effettuato negli ultimi dieci anni dall’organizzazione no-profit Ancestral Lands. In base alla esperienza di reintroduzione delle colture tradizionali sui terreni di Acoma – un villaggio nello stato del Nuovo Messico, negli Stati Uniti – è nata una banca di 57 semi aridi originari della regione. Dal 2016, l’Ancestral Lands Farm Corps, ha anche ripristinato una forma di agricoltura tradizionale in cui si utilizza la raccolta passiva dell’acqua piovana per colture in grado di resistere a un clima tanto incerto e alle conseguenze del riscaldamento globale. Differentemente dalla maggior parte delle fattorie convenzionali, se piove il campo non viene irrigato mentre in caso di assenza di precipitazioni, vene data acqua “artificialmente” per un massimo di due volte al mese. Sebbene quella descritta sia una pratica quasi estinta, il risultato è stato un successo perché nonostante le scarse piogge, le tecniche utilizzate preservano la naturale umidità del suolo.

Come attestato dalle Nazioni Unite, dal secolo scorso ben il 75 percento della diversità delle colture è scomparsa, proprio a causa dell’avvento dell’agricoltura intensiva. Eppure le pratiche agricole tradizionali possono proteggere i terreni, la biodiversità ed anche l’ambiente, perché strettamente legate ai cicli naturali. L’esempio nel villaggio di Acoma è parte di un movimento volto a contrastare le perdite globali di biodiversità causate da sistemi di sfruttamento del territorio che oltre a danneggiare l’ambiente oscurano le popolazioni locali e le loro usanze, strettamente connesse al rispetto dell’ambiente circostante. Una conoscenza ecologica andata avanti per millenni senza danneggiare la natura, dando esempio di un modello di resilienza e poi sostituita dai moderni modelli agricoli. E la comunità di Acoma è prova di un sistema alimentare olistico, reciproco e autosufficiente, adattato all’alto deserto, in grado di resistere alla siccità estrema e ai cambiamenti climatici. Anche perché nel villaggio l’agricoltura è alla base della cultura e della sopravvivenza degli abitanti.

Un ulteriore esempio di come le comunità indigene, se e quando libere di amministrare le proprie terre, possono contribuire meglio di chiunque altro a preservare il Pianeta. Non a caso i più di 300 studi scientifici riportati nel report della Fao dello scorso anno mostrano quanto i tassi di deforestazione nelle foreste dell’America Latina e dei Caraibi gestite dai popoli indigeni siano di gran lunga più bassi rispetto ai dati registrati in aree non protette dalle popolazioni locali. E non basta lasciare libero chi vive naturalmente connesso al rispetto ambientale, ma è necessario iniziare ad ascoltare le voci e le opinioni dei “difensori della Madre terra“. Come le comunità locali dell’Ecuador e del Perù che si sono impegnate per presentare un piano per proteggere l’80 percento della foresta pluviale amazzonica entro il 2025, contro progetti internazionali di chi del territorio sa e percepisce ben poco.

[di Francesca Naima]

Martedì 19 aprile

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8.00 – Esplosioni a Kabul: almeno 25 morti.

9.00 – È morto lo scrittore Valerio Evangelisti, autore della saga di Nicolas Eymerich.

11.30 – Governo cinese: rafforzeremo i legami con Mosca per promuovere nuovo modello di relazioni internazionali.

12.30 – Lavrov (ministro esteri russo): «È iniziata nuova fase dell’operazione in Ucraina. Libereremo il Donbass».

14.00 – Trivelle: Biden torna a rilasciare concessioni in aree pubbliche, contravvenendo alle promesse elettorali.

15.30 – Russia apre corridoi umanitari a Mariupol dopo aver concesso altre 15 ore ai soldati ucraini per arrendersi.

16.00 – Italia, sottosegretario Costa dichiara che il green pass verrà sospeso ma non eliminato.

18.10 – Incontro tra USA e alleati europei: ribadito impegno ad armare l’Ucraina.

19.50 – Premier Germania: «Rimane impegno a non estendere conflitto. La NATO non interverrà».

Guerra Ucraina, Palazzo Chigi: ampio consenso con alleati su ulteriori sanzioni a Mosca

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“Ampio consenso è stato espresso sulla necessità di rafforzare la pressione sul Cremlino, anche con l’adozione di ulteriori sanzioni, e di accrescere l’isolamento internazionale di Mosca”: è quanto comunicato da Palazzo Chigi tramite una nota avente ad oggetto la videoconferenza che oggi pomeriggio il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha avuto con i leader del G7, dell’Ue e della Nato. “È stato ribadito l’impegno comune a diversificare le fonti energetiche riducendo in tal modo la dipendenza dagli approvvigionamenti russi”, si legge inoltre nella nota, tramite la quale viene altresì comunicato che “i Leader hanno confermato l’importanza di uno stretto coordinamento in merito al sostegno all’Ucraina in tutte le sue dimensioni, con particolare riguardo al contributo al bilancio del Paese”.

Nel silenzio internazionale la Turchia continua a bombardare i curdi

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Nelle scorse ore la Turchia ha lanciato una nuova offensiva militare contro i curdi presenti in Iraq, in particolare nei confronti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione attiva in territorio turco e iracheno che rivendica l’indipendenza dello “Stato mai nato”. Aerei da guerra, artiglieria e truppe di Ankara hanno attaccato così diversi obiettivi nel nord dell’Iraq, dai campi ai depositi di munizioni, nella zona del cosiddetto Kurdistan iracheno, una delle cinque regione abitate dall’etnia curda. Essa gode di una certa autonomia politica dal 2012, quando venne riconosciuta come regione federale del Paese. L’altro territorio che ha acquisito uno status simile è Rojava, conosciuto anche come Kurdistan siriano. Nel silenzio dei Paesi occidentali, entrambe le regioni sono vittime delle offensive turche (come nelle scorse ore, quando i raid aerei hanno colpito anche Hasake, in Siria) perché rappresentano delle esperienze di autonomia e confederalismo democratico che alimentano la volontà di indipendenza da parte dei curdi-turchi e due pilastri su cui potrebbe fondarsi il futuro Stato, riconosciuto a livello internazionale, del Kurdistan.

Kurdistan

I curdi rappresentano il quarto gruppo etnico più popoloso (su circa 50) del Medio Oriente, subito dopo i turchi, i persiani e gli arabi. Si tratta del popolo più esteso al mondo a cui non è riconosciuto dalla comunità internazionale alcun territorio. Infatti, i curdi sono dislocati prevalentemente in cinque Paesi: Iraq, Iran, Turchia, Siria e Armenia, formando (con una popolazione di circa 25 milioni di persone) l’area che prende il nome di Kurdistan, termine che anticamente indicava proprio la regione geografica abitata dal gruppo etnico. Nel corso della storia, i curdi hanno subito diverse persecuzioni su larga scala, soprattutto lungo la direttrice religiosa, dove il fronte sciita si è reso protagonista di violenze e abusi nei confronti della popolazione mesopotamica (sunnita), tanto in Siria quanto in Iran e Iraq. Si ricordi, ad esempio, il genocidio dell’Anfal compiuto dall’esercito iracheno durante gli ultimi anni della guerra col vicino Iran, che tra il 1986 e il 1989 ha causato la morte di decine di migliaia di curdi, con stime che variano dalle 50.000 alle 180.000 persone.

Bandiera e membri del PYD

In questo scenario di persecuzione e violenza si inserisce la Turchia, coinvolta nel “conflitto curdo-turco” a partire dal 1978, anno delle prime grandi manifestazioni del gruppo etnico presente nel Paese, che rappresenta oggi il 20% della popolazione totale (circa 15 milioni di persone). L’oggetto del conflitto è la richiesta di indipendenza del Kurdistan, avanzata prevalentemente dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione attiva in Turchia e in Iraq considerata terroristica dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, così come dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, nonostante i tentativi di diversi gruppi di protesta di convincere quest’ultima a rimuovere il partito dalla lista dei Paesi e organizzazioni terroristiche e considerarlo una legittima forza politica di resistenza. Negli anni, la valutazione in termini ostili del PKK ha portato Erdogan, nell’indifferenza generale, a muovere diversi attacchi nei confronti dell’organizzazione politico-paramilitare, come nel 2019 o nei giorni scorsi. A questi, si aggiungono le accuse e gli arresti nei confronti dei membri del Partito Democratico dei Popoli (HDP), formazione politica che unisce forze filo-curde e di sinistra presente in Parlamento con 62 seggi su 600. La settimana scorsa la polizia ha fatto irruzione nell’ufficio dell’HDP nella città di Cizre, nel Kurdistan turco, arrestando cinque membri del partito. Negli ultimi mesi, in questo clima di tensione, le forze di Ankara avrebbero usato anche delle armi chimiche, almeno secondo le denunce avanzate dal Partito dei lavoratori curdi, che ha invitato più volte le organizzazioni internazionali a indagare sulla questione.

L’obiettivo di Erdogan è di non permettere una riunificazione riconosciuta ufficialmente del Kurdistan, il che implicherebbe la presenza di un nuovo Stato nella parte orientale della penisola anatolica. L’indifferenza odierna da parte della comunità internazionale verso questi attacchi stride con l’atteggiamento adottato qualche anno fa, quando i curdi sono stati i principali attori sul campo nella lotta al terrorismo, supportati da diverse potenze, una su tutte gli Stati Uniti. Tra il 2015 e il 2016 i guerriglieri curdi, in particolare il Partito dell’Unione Democratica (PYD) e il PKK che condividono l’obiettivo finale di un Kurdistan indipendente, riuscirono a fermare l’avanzata dell’ISIS, contribuendo alla sua momentanea sconfitta. In quei mesi, i membri del PYD riuscirono a riconquistare i propri territori (Rojava o Kurdistan siriano), occupati precedentemente dallo Stato Islamico.

I territori dopo la caduta dell’Impero ottomano secondo il Trattato di Sèvres

Dopo essere stati alleati del mondo occidentale, i curdi si ritrovano oggi attaccati dalla Turchia (membro NATO) e abbandonati dagli Stati Uniti, ripetendo una storia vissuta già lo scorso secolo nei mesi successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando furono traditi dalle promesse degli europei. Il trattato di Sèvres (1920) venne firmato per dividere i territori dell’appena decaduto Impero ottomano. Al suo interno era prevista la nascita di una Turchia con ingerenze straniere nella penisola anatolica e l’apertura verso la nascita di uno Stato curdo e dell’Armenia, che è arrivata all’indipendenza soltanto nel 1991 passando attraverso diverse fasi discriminatorie e violente, tra cui il genocidio perpetrato dall’Impero ottomano durante la Prima Guerra Mondiale che costò la vita a più di un milione di armeni. Il movimento dei giovani turchi si oppose a questa nuova suddivisione e così il trattato di Sèvres venne sostituito da quello di Losanna (1923), da cui nacque una Turchia omogenea, priva di ingerenze straniere e senza tracce di Armenia e Kurdistan.

[Di Salvatore Toscano]

Altro che Transizione: il gas GNL che importeremo dagli Usa è una bomba ecologica

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Per il Gas naturale liquefatto (GNL) e il suo principale esportatore – gli Stati Uniti – questi sono tempi d’oro. La fonte energetica fossile che abbonda negli Usa, poiché ritenuta una valida alternativa alle importazioni russe di gas, è infatti tornata in auge proprio a causa del conflitto in Ucraina. Per l’Unione europea la scelta è stata semplice e immediata, tuttavia, nonostante una retorica fuorviante, il GNL è tutt’altro che sostenibile: un vero e proprio nemico del clima. Eppure, gli ordini sono già partiti. Così, a regime, gli Stati Uniti potrebbero esportare 14,8 miliardi di metri cubi di gas al giorno. Esportazioni che, nel mese di marzo, hanno già raggiunto il picco più alto di sempre. Del totale, il 65% è arrivato in Europa e il 12% in Asia.

Il GNL, fondamentalmente, non differisce dal gas naturale esportato dalla Russia. Si tratta, infatti, dello stesso idrocarburo fossile (per il 90% è metano) sottoposto, però, ad un processo aggiuntivo: quello della liquefazione per l’appunto. Così, dall’estrazione al trasporto, non c’è fase produttiva in cui il GNL possa definirsi sostenibile. Anzi – secondo un rapporto del Natural Resources Defense Council americano – puntare sul GNL come da previsioni attuali allontanerebbe definitivamente dalla possibilità di limitare il riscaldamento globale entro gli 1,5°C. Nel primo decennio post-utilizzo, tale fonte energetica avrebbe difatti avuto un impatto climatico inferiore a quello del carbone appena del 27%. Certo, quindi, è che non si tratta di una fonte pulita. L’estrazione, negli Stati Uniti, avviene tipicamente tramite la controversa tecnica della fratturazione idraulica (in inglese fracking), alla quale segue la liquefazione, ovvero, la conversione dell’idrocarburo in forma liquida, indispensabile per trasportarlo via mare in modo economicamente conveniente. Giunto a destinazione, il gas allo stato liquido va riscaldato e rigassificato in appositi terminal che tutti i principali Paesi europei – Italia in primis – stanno costruendo in fretta e furia. Rigorosamente, con soldi pubblici. Non che di terminal non ce ne fossero già, ma il fatto che se ne realizzino di nuovi conferma quindi le intenzioni precedentemente citate.

In termini di emissioni, inoltre, il 21% di quelle del GNL derivano dalle fasi di liquefazione, trasporto e rigassificazione, tutti passaggi in più rispetto all’impiego diretto del gas naturale aeriforme. Non a caso – a detta di una valutazione del centro studi francese Carbone 4 – il GNL comporta emissioni equivalenti di CO2 due volte e mezzo maggiori rispetto a quelle emesse dal gas che arriva via gasdotto. Ed è il trasporto via mare, in particolare, a presentare più di una criticità. Basti pensare, intanto, che il 40% delle emissioni del traffico marittimo internazionale dipendono proprio dallo spostamento di fonti fossili. Il viaggio, nel complesso, aumenta poi le probabilità che si verifichino delle perdite di metano: un gas ad effetto serra, sebbene meno permanente in atmosfera, di gran lunga più potente dell’anidride carbonica. Nel caso specifico del GNL, inoltre, si è pensato addirittura di proporlo come carburante green alternativo per le navi. Le emissioni che ne derivano, tuttavia, sono climalteranti al pari di qualunque altra fonte fossile. L’unico vantaggio sarebbe un taglio alle emissioni di ossidi di zolfo che, sebbene dannose in termini di inquinamento atmosferico, al livello climatico non fanno la differenza. In sostanza, al livello ambientale, il GNL non è né una soluzione né una temporanea valida alternativa: per gli Stati Uniti rappresenta però una ghiotta occasione di profitto, tra l’altro, servita su un piatto d’argento dall’Ue. Niente di più.

[di Simone Valeri]

ONU: 20 milioni di persone a rischio fame nel Corno d’Africa

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Quest’anno venti milioni di persone rischiano di morire di fame, soprattutto a causa dei ritardi delle piogge che hanno alimentato la siccità in Kenya, Somalia ed Etiopia. Ad annunciarlo è il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (WFP). Sei milioni di somali (il 40% della popolazione), stanno affrontando livelli estremi di insicurezza alimentare, accompagnati dal “rischio consistente di carestia nei prossimi mesi” se le condizioni attuali persisteranno. Ad aggravare la situazione sono poi le conseguenze del conflitto in Ucraina, tra cui l’aumento dei prezzi di cibo e carburante e l’interruzione delle catene di approvvigionamento globali.

 

Gli straordinari benefici delle frutta secca (e alcuni consigli su come consumarla)

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A colazione insieme ad uno yogurt, come spuntino spezza fame prima di pranzo o nel pomeriggio, oppure nei pasti principali per arricchire insalate o impanare filetti di pesce, la frutta secca è adatta ad essere consumata in qualsiasi momento della giornata. È l’alimento che più di tutti può favorire la sostituzione di merendine confezionate, ricche di zuccheri, grassi nocivi come quelli idrogenati, additivi e calorie senza valore nutritivo. Si presta molto bene anche alla preparazione di pesti e condimenti per la pasta (ad es. il pesto verde con le noci o con i pinoli), inoltre è possibile usare questi frutti per fare delle creme spalmabili sia dolci che salate, i cosiddetti burri di mandorle, arachidi ecc., molto utilizzati dagli sportivi. Con un po’ di fantasia, noci mandorle e pistacchi possono essere integrati anche nella creazione di barrette casalinghe, torte e frullati. Altri usi moderni sono il latte di mandorle, facile da preparare anche in casa, oppure le tisane a base di frutta disidratata come ananas, zenzero, cocco o mango.

Due tipologie di frutta secca

La categoria della frutta secca comprende due tipologie di alimenti facilmente distinguibili per caratteristiche e proprietà: frutta secca a guscio (lipidica, cioè ricca di grassi) e frutta essiccata o disidratata (glucidica, cioè ricca in zuccheri). La prima è chiamata anche frutta oleosa perché ricca di oli o grassi: mandorle, pistacchi, noci, nocciole, anacardi. Anche le arachidi si inseriscono per convenzione in questa categoria di frutti, sebbene da un punto di vista tecnico siano dei legumi. La frutta a guscio è ricca di grassi monoinsaturi e polinsaturi tra cui Omega 3 e Omega 6, contiene anche un’alta percentuale di fibre insolubili e di proteine.

Frutta secca a guscio

La seconda è invece glucidica, quindi ricca degli zuccheri della frutta e di fibre solubili. Questa categoria comprende albicocche secche, prugne secche, datteri, uva sultanina, fichi secchi, ananas, mela e banana disidratate. Dal momento che anche questa tipologia risulta molto calorica e nutriente, l’ideale sarebbe consumarla a colazione per fornire il giusto apporto di energia all’organismo o dopo l’allenamento per aiutare il fisico a ripristinare i livelli di carboidrati, minerali e vitamine. Anche la frutta disidratata (come quella a guscio) è ricca di fibre che aiutano la regolarità dell’intestino (soprattutto prugne e fichi secchi), ed è ricca di vitamine e minerali. Tra questi, acido folico (vitamina B9), fosforo e potassio, sostanze indispensabili per le funzioni nervose che forniscono uno stimolo alla concentrazione.

Frutta essiccata o disidratata

Cosa dicono gli esperti

Gli esperti di alimentazione consigliano il consumo di frutta secca durante tutto l’anno poiché, essendo ricca di sali minerali, vitamine, fibre e grassi insaturi, possiede innumerevoli proprietà che ne fanno un alimento ideale, soprattutto a colazione. I risultati di ampi studi mostrano un’associazione tra il consumo regolare di frutta secca e un minor rischio di malattie del cuore. Uno di questi studi è il PREDIMED (Prevención con Dieta Mediterránea) che ha avuto luogo tra il 2003 e il 2011 e ha esaminato l’effetto di una dieta mediterranea, con olio extravergine di oliva o noci, rispetto a una dieta di controllo, nella prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari in 7.447 adulti (di età superiore ai 55 anni) ad alto rischio di malattie cardiovascolari. In questo studio l’adesione a una dieta mediterranea, integrata con olio d’oliva o frutta secca mista per quasi cinque anni, ha comportato un rischio inferiore del 30% di eventi cardiovascolari e nessun aumento di peso. Ci sono anche parecchie prove scientifiche a dimostrazione del fatto che il consumo di frutta secca possa migliorare l’andamento della glicemia negli individui con diabete mellito di tipo 2. Nonostante l’apporto calorico sia alto (circa 600 calorie per 100 g), è stato dimostrato che il consumo di frutta secca a guscio può contribuire alla riduzione del grasso corporeo. Infine molti studi scientifici mostrano che il consumo di questi alimenti è associato a un rischio ridotto di mortalità per tutte le cause e di mortalità dovuta a malattie croniche.

Quali nutrienti preziosi contiene 

Vediamo un elenco sintetico delle principali importanti sostanze contenute all’interno della frutta secca oleosa (a guscio) e di quella disidratata.

  • Fibra alimentare, soprattutto insolubile, con azione antiossidante, formante massa nell’intestino e con dimostrata azione anticancro. Anacardi, mandorle, cocco e noci pecan sono le tipologie di frutta secca più ricche in fibra.
  • Acidi grassi essenziali della serie omega 3 e omega 6. Il giusto equilibrio tra questi due tipi di acidi grassi (presenti in tutta la frutta secca, ma in particolare nelle noci) agendo sul metabolismo del colesterolo e regolando gli stati di infiammazione dell’organismo, diventa uno strumento di prevenzione delle malattie cardiovascolari.
  • Proteine vegetali (in particolare in arachidi e mandorle), ferro (in pistacchi e anacardi), rame (in tutta la frutta secca) e zinco (in anacardi e noci). In virtù di queste sostanze la frutta secca si candida, a fianco dei legumi, a sostituto degli alimenti di origine animale (carne, pesce, uova) nelle diete vegetariane o in chi semplicemente vuole avere una dieta più varia e sana.
  • Vitamina E (in particolare in mandorle e nocciole). Si tratta di una vitamina liposolubile con azione antiossidante e protettiva contro degenerazioni di ogni qualsiasi tipo, siano esse patologie o invecchiamento.
  • Potassio (in tutta la frutta secca; regola l’equilibrio dei liquidi corporei, la pressione arteriosa e la trasmissione nervosa), magnesio (in mandorle e anacardi; partecipa ai meccanismi di mineralizzazione ossea, al metabolismo muscolare, e alla trasmissione nervosa e agisce efficacemente negli stati di stress o sull’umore migliorandolo), calcio (soprattutto nelle mandorle; riveste un ruolo fondamentale nella mineralizzazione ossea), fosforo (in tutta la frutta secca; contribuisce per lo più a garantire la mineralizzazione ossea insieme al calcio, ed è coinvolto in numerosi processi metabolici), niacina (in tutta la frutta secca; è coinvolta nei processi metabolici che riguardano l’utilizzazione dei nutrienti), selenio (in anacardi e noci; è un minerale con funzione antiossidante o, come va di moda dire, antiaging), acido folico (noci, mandorle e nocciole; partecipa a processi che regolano a livello genetico e metabolico varie funzioni dell’organismo).

Consigli pratici per l’acquisto al supermercato

Come sempre occorre fare attenzione a cosa si mette nel carrello, perché la disponibilità di frutta secca nei supermercati e altri luoghi di acquisto è molto ampia e varia, nel senso che la qualità cambia molto a seconda della filiera di provenienza, del metodo di coltivazione, e anche del sistema di confezionamento e conservazione che le aziende produttrici mettono in essere. Il primo consiglio importantissimo è quello di preferire e scegliere la frutta secca italiana, quando è possibile. È chiaro che per acquistare datteri, cocco o ananas disidratato non potremo contare su produzioni italiane, in quanto si tratta di prodotti che arrivano per forza da mercati esteri e lontani. Ma per molti altri frutti abbiamo delle coltivazioni italiane: mandorle, noci, nocciole, prugne secche. Prestate attenzione alla confezione e alla dichiarazione di origine, oggi per fortuna quasi sempre presente. Acquistare la frutta secca italiana significa ridurre l’impatto ambientale e l’enorme inquinamento prodotto da navi cargo, treni e TIR nel trasporto e importazione di questi alimenti che arrivano da lontano. Al supermercato trovate sia le mandorle italiane (di Sicilia e Puglia) che quelle della California, le noci campane e quelle della Turchia. Inoltre è bene evitare la frutta secca che arriva da filiere molto intensive e industriali dove l’utilizzo di pesticidi e fitofarmaci è altissimo, come ad esempio le prugne secche e le mandorle che provengono dalla California. Al supermercato troverete in larga parte questo tipo di prodotto, e poi in un angolino le mandorle e prugne italiane. Dovrete scovarle con molta attenzione, ma ci sono e vale davvero la pena di acquistare queste perché il residuo di pesticidi è molto inferiore. Ovviamente se trovate la versione biologica ancora meglio, in quel caso il residuo di pesticidi sarà pari a zero. In ogni regione italiana poi ci sono piccoli produttori di noci, fate una ricerca sul web e se possibile comprate da loro, l’inquinamento dovuto allo spostamento e stoccaggio delle merci sarà così ulteriormente ridotto. L’uso dei pesticidi usati nelle coltivazioni americane di mandorli è anche un grosso problema per quanto riguarda lo sterminio delle api, un fatto denunciato anche dall’associazione Slow Food.

L’unica attenzione nel consumo di frutta secca va posta al potere allergizzante: è importante essere certi di non avere allergie a qualche tipo di frutta secca come le noci, e comunque variarne la tipologia ingerita per evitare di entrare in contatto sempre con lo stesso allergene, rischiando la sensibilizzazione fino a sviluppare una intolleranza che poi impedirà in maniera più o meno definitiva di assumere questo prezioso alimento. 

[di Gianpaolo Usai]

Cina: firmato patto su cooperazione in materia di sicurezza con Isole Salomone

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La Cina ha firmato un patto sulla cooperazione in materia di sicurezza con le Isole Salomone: a confermarlo è stato il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, il quale, come riportato dall’agenzia di stampa Xinhua, ha dato notizia dell’accordo siglato tra i due paesi. “La cooperazione in materia di sicurezza tra Cina e Isole Salomone è aperta, trasparente, inclusiva e non prende di mira nessuna terza parte”, ha affermato il portavoce, aggiungendo che “le due parti coopereranno per salvaguardare l’ordine sociale, proteggere la sicurezza delle vite e delle proprietà delle persone, fornire aiuti umanitari e far fronte ai disastri naturali”.

Le gang minorili come fenomeno sociale: intervista al sociologo Franco Prina

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La cronaca giornalistica porta spesso all’attenzione dell’opinione pubblica i crimini perpetrati da gruppi di giovani identificati come baby gang. I reati violenti, soprattutto risse e rapine, sono spesso commessi per motivi a prima vista futili e fini a sé stessi. A Torino, in particolare, si assiste piuttosto di frequente a questi fenomeni, ma limitarsi a una trattazione semplicistica ed episodica rende difficile comprenderne la natura. Abbiamo approfondito il tema con Franco Prina, docente di Sociologia giuridica e della devianza presso l’Università di Torino e autore del libro Gang minorili.

All’interno del suo libro lei contesta fermamente il termine baby gang, mi può spiegare perché? 

La definizione di gang giovanili rimanda a gruppi di minorenni e giovani adulti con una struttura stabile e radicata sul territorio che gestiscono attività delinquenziali. In Italia questo tipo di realtà sono molto rare e di breve durata, soprattutto perché da noi molte attività illegali sono gestite dalle mafie. Ci sono stati dei gruppi di latinos un po’ più strutturati, ma non a Torino, dove c’è più un discorso di imitazione esteriore. Qui esistono bande di strada, ma non si tratta di gruppi organizzati con una gerarchia, un leader, riti di ingresso e una razionalità applicata alla gestione di attività illegali. Non sono baby, perché parliamo di adolescenti e giovani adulti tra i 16 e i 19 anni, e non sono gang perché non hanno quel tipo di organizzazione strutturata. Anche parlare di “abbassamento dell’età di chi compie i reati” è inesatto: è molto raro che ragazzini di 14-15 anni siano coinvolti in questo tipo di situazioni.

Che composizione hanno questi gruppi? Sono per lo più stranieri o vi sono anche italiani? 

Nella realtà torinese abbiamo entrambe le cose. Le periferie di Torino sono un mix nel quale convivono fianco a fianco famiglie straniere e italiane che condividono condizioni di precarietà economica e difficoltà lavorativa. I figli di queste famiglie hanno difficoltà a integrarsi e a scuola, e genitori che faticano a svolgere il loro ruolo. Ovviamente chi proviene da altri Paesi ha un surplus di difficoltà: il ricongiunto in età adolescenziale che è diviso tra due mondi, le seconde generazioni che non si vedono riconoscere i propri diritti, chi è soggetto a discriminazioni razziali… Vi possono essere delle similitudini di condizioni in quanto adolescenti e giovani che cercano una prospettiva, ma qualcuno ha qualche difficoltà in più.

Da quali quartieri di Torino provengono questi ragazzi?

Da tutte quelle zone dove c’è un insediamento di case di minore pregio e minore costo, dove si sono insediati gli immigrati anche per effetto delle catene migratorie. Per lo più i quartieri di Barriera di Milano, Aurora e un po’ San Salvario e alcune città dell’area metropolitana, come Nichelino. Le dinamiche sono le stesse di quando qui si insediarono gli immigrati provenienti dal Sud, con la differenza che loro si stanziarono prima nella zona della stazione e del centro e poi, quando furono costruiti i quartieri perché aumentava il bisogno di manodopera, a Falchera, Vallette, ma anche via Artom, Mirafiori Sud, Mirafiori Nord eccetera.

Quali sono le tipologie di reato che vengono commesse da questi gruppi?

I reati sono in genere di tipo predatorio, ovvero io ti vengo a portar via delle cose che non mi posso permettere: il ragazzo che parte da Barriera di Milano per andare in piazza Castello, trovarsi con altri e rubare (spesso in maniera non programmata) un bel giubbotto o l’iPhone di qualcuno. Questi reati sono spesso connotati da caratteristiche di tipo espressivo: sto esprimendo la mia rabbia, il mio poterti umiliare perché tu hai ciò che io non ho, vivi come vorrei vivere io. I reati predatori sono ispirati da un senso comune e valori molto diffusi: non consideriamo mai che l’idea di portarsi via l’ultimo iPhone gliel’ha ispirata il mondo degli adulti, la cultura consumistica più diffusa, per la quale sei qualcuno solo se possiedi quegli oggetti. Quando non hai gli strumenti culturali per difenderti da questa pressione accadono queste cose. I ragazzi, da questo punto di vista, sono devianti solo nei modi, non negli obiettivi. Anche le risse sono un reato tipicamente espressivo: riflettono un bisogno di affermazione, di appartenenza.

Che ruolo giocano i social media nel diffondersi del fenomeno? 

Molti di questi comportamenti possono essere motivati dagli scambi sui social, o possono essere pensati come qualcosa di rilevante perché dà visibilità, consente di farsi vedere, di mostrarsi. Quando i gruppi di Barriera sono andati a Nichelino per picchiarsi con le bande locali, è stata una risposta a una comunicazione via social che ha a che fare con le offese, l’onore e la propria affermazione. L’approvazione sui social oggi è estremamente importante, al punto da arrivare al paradosso di filmarsi mentre si compiono i reati. È di una ingenuità disarmante, perché la polizia vede i video e le persone sono facilmente reperite. Mostrarsi, pur essendo controproducente, è fondamentale. Da questo punto di vista giornali e televisioni, nel raccontare le gesta di questi gruppi, contribuiscono a produrre effetti di rinforzo ed emulativi, perché diventa motivo di vanto il fatto di essere finiti sul notiziario. Il problema non è raccontare i casi di cronaca, ma insistere sulla cronaca senza scavare e cercare di capire.

Che tipo di difficoltà e disagio vivono i giovani che si trovano in queste situazioni?

Si tratta di ragazzi che vivono il tempo presente come tutti gli altri, che presenta delle difficoltà per chi sta crescendo o affrancandosi dalla famiglia. Il lockdown di questi due anni ha compresso la socialità di tutti questi ragazzi, privandoli degli spazi in cui si incontravano. E appena sono stati liberati sono accaduti fatti come le risse tra i gruppi di Barriera e Nichelino. Il bisogno adolescenziale di sfidare il mondo non è nato oggi, né ieri e neanche dieci anni fa, è sempre esistito. Le problematiche espresse sono sempre le stesse: crescere, diventare autonomi, avere un’identità, trasgredire, sfidare gli adulti, sfidare le istituzioni. Essere in banda risponde a bisogni quali lo stare insieme, il fare gruppo, esprimere coraggio e sfida, confrontarsi con gli altri, necessità che purtroppo poche altre proposte aggregative soddisfano. Vi è poi il bisogno di identità, in particolar modo per chi proviene da un Paese straniero. I ricongiunti, cresciuti in un altro Paese e giunti adolescenti in Italia, vivono con particolare intensità questo problema. A questo si accompagna il bisogno di riconoscimento, di sentirsi utili e importanti per gli altri, di sentirsi coraggiosi, di sfidare eccetera. Naturalmente più gli adulti e le istituzioni educative hanno difficoltà a esercitare il ruolo educativo e normativo, più queste cose avvengono in modo estremo ed evidente.

Quindi c’è una certa difficoltà, da parte di scuola e famiglie, a gestire il fenomeno.

Io credo che sia utile spostare il punto di vista dai ragazzi a chi sta loro intorno: è necessario parlare del disagio degli adulti, delle famiglie che devono affrontare problemi come la disoccupazione, che hanno fatica ad essere normative, di insegnanti che si trovano a dover governare gruppi di ragazzi numerosi avendo pochi strumenti. Finché la scuola veniva pensata come luogo in cui si forniva istruzione gli insegnati sapevano cosa fare. Oggi sempre di più devono confrontarsi con le difficoltà dei ragazzi e delle famiglie e ciò richiede competenze che spesso non hanno. Bisogna aiutare molto gli adulti e bisogna creare opportunità di rispondere ai bisogni dei giovani in maniera costruttiva, favorendo l’accompagnamento e la prevenzione prima ancora della risposta repressiva e punitiva.

Quali sono le difficoltà principali delle famiglie? 

Si tratta delle difficoltà generali degli adulti che esercitano la funzione genitoriale, ma che sono maggiori per le persone che sono arrivate da poco in Italia, che hanno difficoltà a comprendere il funzionamento delle istituzioni, a interloquire e via dicendo. Nel caso dei giovani partiti da Torino per andare a Milano a Capodanno e arrestati per violenze sessuali, le famiglie si sono dette del tutto ignare delle problematiche esistenti. Vi è l’idea che il fatto di essere riusciti ad arrivare in Italia costituisca una prospettiva positiva di per sè.

Il disagio di questi ragazzi si esprime in altro modo, oltre che con la violenza?

Oltre allo sfogo violento verso gli estranei o verso le istituzioni, come è accaduto nel caso dei gruppi che sono andati a spaccare le vetrine dei negozi in centro, vi è certo una forma di disagio che si ripiega verso sé stessi. Questo si manifesta nella chiusura del legame solo attraverso i social o con la realtà virtuale, l’anoressia e altre problematiche alimentari. In un periodo come quello del lockdown molti hanno manifestato una sofferenza fisica, ma è stato difficile intercettarli perché erano chiusi in casa.

Vengono fatti interventi a supporto delle famiglie?

Molto poco: sia sul piano educativo che del supporto e nel costruire un rapporto sinergico con la scuola. A Torino vi sono alcune educative di strada che si occupano sia dei giovani che delle famiglie, ma sono poche.

Che tipo di interventi vengono messi in campo con i ragazzi?

A Torino vi sono educative di strada e di territorio che vanno a incontrare i gruppi che si ritrovano ai giardinetti o in alcune strade e piazze. È importante che i giovani incontrino figure adulte non giudicanti, consapevoli, professionalmente preparate ad un dialogo, che offrano loro opportunità di cui essere protagonisti: attività sportive, di cura dell’ambiente, di fare teatro o musica. Penso all’Asai, alle educative di strada del gruppo Abele, alle educative di territorio di Save the Children piuttosto che del comune di Torino. L’oratorio San Luigi per molto tempo ha mandato al Parco del Valentino e dei Murazzi educatori che incontravano i ragazzi che spacciavano e proponendo negli spazi del Valentino la possibilità di fare doposcuola, sport e attività ludiche. Quello che manca a Torino è un maggiore investimento da parte dell’amministrazione comunale, perché negli anni queste iniziative sono state gestite prevalentemente dal privato sociale. Molti di questi gruppi sono sostenuti dalla Compagnia San Paolo, come il progetto Nomis, del quale sono referente scientifico, che da anni raggruppa molte di queste educative per lavorare insieme e fare rete. È necessaria una maggiore assunzione di responsabilità da parte del Comune: per sostenere queste attività e perché possano affiancare anche le famiglie. Significherebbe potenziare la prevenzione.

Quali sono a suo parere gli interventi necessari?

Investire sui servizi sociali di territorio, che in questi anni sono stati depauperati in termini di personale e risorse, è fondamentale. Il Pnrr sembra far ripartire le assunzioni e aumentare le risorse, che vuol dire potenziare la risposta preventiva e le misure alternative al carcere. Rafforzando le educative di strada e di territorio, i servizi sociali e di comunità, gli psicologi che escano dalle NPI [Neuropsichiatrie Infantili, ndr] e vadano nelle scuole a intercettare il disagio psichico di tanti adolescenti, gli etnopsichiatri ed etnopsicologi che hanno un’attenzione particolare per i giovani di origine straniera e le famiglie. Direi che c’è molto da fare, motivo per cui gli operatori devono essere preparati e in numero sufficiente per poter mettere in atto un lavoro di intercettazione e prevenzione del disagio.

[di Valeria Casolaro]