domenica 13 Luglio 2025
Home Blog Pagina 1352

Piombo, PFAS e ftalati: la moda a basso costo si paga con la salute

0

Un campione di 38 capi di abbigliamento per bambini, adulti e premaman, acquistati su siti popolari quali Shein, AliexpressZaful è stato analizzato nel contesto di un’indagine del programma televisivo canadese CBC Marketplace. Il risultato: un campione ogni cinque contiene quantità di sostanze chimiche tossiche di molto superiori ai limiti consentiti per legge.

Le sostanze incriminate sono piombo, ftalati e PFAS: le quantità rilevate superano di molto i limiti consentiti dalla legislazione canadese, ma non sarebbero accettabili nemmeno per quella europea. Ciascuna di queste sostanze, se presente in grandi quantità, può causare danni anche molto gravi all’organismo umano. Ad essere colpiti sono soprattutto cervello, cuore, fegato, reni e sistema endocrino ed immunitario. I soggetti più a rischio sono le donne incinte e i bambini molto piccoli, per la loro abitudine a succhiare gli abiti che indossano.

Alcune analisi fatte nel corso dell’indagine rilevano quanto segue. Una giacca per bambini comprata sulla piattaforma Shein conteneva più di venti volte la quantità di piombo considerata non rischiosa per un bambino. Una borsa rossa, in vendita sul medesimo sito, superava la soglia limite di cinque volte. Un impermeabile da donna in vendita su Aliexpress per soli 13 dollari conteneva alti livelli di PFAS, un gruppo di sostanze chimiche usate per rendere il tessuto idrorepellente, dette forever chemicals in quanto non lavabili dal corpo e non degradabili in natura. Esposizioni ad alte quantità di PFAS possono comportare conseguenze quali alcuni tipi di cancro e il diabete. I ricercatori sostengono che queste sostanze non siano necessarie nel processo di produzione tessile e che possano facilmente essere sostituite con sostanze alternative quali la cera (idrorepellente) o prodotti chimici degradabili di nuova generazione.

Si tratta solamente di alcuni esempi di quanto emerso dall’indagine. A seguito delle segnalazioni fatte dai laboratori di analisi, le piattaforme hanno ritirato dal commercio i prodotti incriminatiShein ha comunicato via mail al programma Marketplace di aver interrotto la collaborazione con i fornitori interessati fino a che non si fosse risolta la questione.

Il fast fashion rappresenta un contesto in costante espansione. I capi venduti sono di qualità medio-bassa, ma economici e immediatamente disponibili e, grazie a tecnologie quali i big data e l’intelligenza artificiale, queste collezioni arrivano ad anticipare le tendenze stagionali (alcuni parlano già di super fast fashion). Se questo da una parte ha comportato la democratizzazione della moda, dall’altro la velocizzazione del processo produttivo può comportare una minore attenzione per i processi di controllo. Inoltre non sempre fast fashion è sinonimo di risparmio: la durata media dei capi, infatti, è molto breve, fattore cui si rapporta direttamente il prezzo. Miriam Diamond, ricercatrice dell’Università di Toronto che ha collaborato con l’inchiesta di Marketplace, afferma: “Ciò che stiamo facendo oggi è cercare divertimenti di breve durata tra articoli di abbigliamento che costano molto in termini di salute futura nostra e dell’ambiente. È un sacrificio che non vale la pena”.

Un modo per i consumatori di verificare che i marchi siano conformi ai criteri di sicurezza, in Europa, è fare riferimento ai limiti di sostanze basati su regolamenti internazionali, come l’europeo REACH.

[di Valeria Casolaro]

I “Pandora Papers” stanno facendo tremare i potenti di tutto il mondo

2

Domenica 3 ottobre l’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) ha reso nota l’esistenza di un dossier investigativo di portata colossale, un’indagine di stampo finanziario tanto poderosa da far impallidire anche le già imponenti rivelazioni dei Panama Papers del 2016. Si tratta dei Pandora Papers, una raccolta di 11,9 milioni di carteggi attentamente analizzati da più di 600 giornalisti provenienti da ogni angolo del globo.

Come il personaggio mitologico da cui adotta il nome, il frutto di questo sforzo giornalistico promette di “scoperchiare il vaso” delle posizioni economiche di 35 leader mondiali e di più di 300 ufficiali pubblici, rivelando l’esistenza e la portata dei loro conti off-shore, legali o illegali che siano. Stiamo parlando di traffichi monetari portati avanti a Panama, Dubai, Monaco, Svizzera, Hong Kong, le Isole Vergini e le Isole Cayman, a nome proprio o attraverso prestanomi, che mostrano senza filtri quale sia l’atteggiamento dei potenti nei confronti delle nazioni che amministrano. Stando all’ICIJ, Pakistan, Messico, Spagna, Brasile, Sri Lanka, Repubblica Ceca, Australia e Panama starebbero già reagendo alle rivelazioni promettendo repentine indagini interne.

Tra i grandi nomi finiti sotto la lente di ingrandimento compaiono il Primo Ministro ceco Andrej Babis, il Re giordano Abdullah II, la famiglia del Presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev, il Presidente cipriota Nicos Anastasiades, il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy, l’ex Primo Ministro inglese Tony Blair e consorte, il Presidente kenyota Uhuru Kenyatta, nonché molti soggetti estremamente vicini a Vladimir Putin.

I Pandora Papers non si concentrano esclusivamente sulle figure istituzionali, ma fanno le pulci anche a personaggi pop quali la cantante Shakira o la modella Claudia Schiffer, arrivando a toccare la criminalità organizzata citando in causa il camorrista Raffaele Amato. L’indagine non si ferma inoltre ai conti bancari, piuttosto si estende alle proprietà in senso esteso, analizzando l’acquisto di immobili, jet privati, yacht e opere d’arte di ogni tipologia e forma.

Le informazioni raccolte dal consorzio stanno venendo progressivamente metabolizzate, ma già ora si possono notare alcuni elementi che non mancheranno di alterare gli equilibri politici. In tal senso, risulta particolarmente incisiva la rivelazione che gli USA, i quali si sono fatti portavoce della transizione a un sistema finanziario globale trasparente, siano in testa alla lista dei “Tax Haven”, con il Dakota del Sud che si dimostra particolarmente clemente nell’accettare i soldi di coloro che sono accusati di riciclaggio ed evasione fiscale.

Come sempre capita in contesti simili, la pubblicazione dei Pandora Papers spinge a domandarsi se sia deontologicamente corretto pubblicare le informazioni finanziarie di coloro che, pur detenendo un conto off-shore, non si sono concretamente macchiati di crimini, ma si sono limitati a sfruttare cavilli e scappatoie concesse loro dai vari sistemi legislativi.

Un dubbio lecito, ma che rischia di depistare l’attenzione dal fatto rilevante: quei cavilli non dovrebbero esistere. Complice l’impatto della pandemia, è sempre più evidente che la distanza tra i super-ricchi e il resto del mondo sia ormai abissale, cosa che porterà forse a soppesare con maggiore attenzione i contenuti dell’indagine.

[di Walter Ferri]

 

Blackout Facebook, Instagram e Whatsapp

0

Nella giornata di ieri un malfunzionamento ha reso impossibile l’utilizzo delle app Facebook, Whatsapp e Instagram. In serata si sono registrati problemi anche con Twitter, TikTok e Telegram. Dopo quasi sei ore di stop (il più lungo mai registrato), le app hanno ripreso lentamente a funzionare nella nottata. Il blackout ha avuto un imponente effetto domino, rendendo impossibile per gli utenti usare devices collaterali come le smart-tv. Facebook ha poi dichiarato che il malfunzionamento era dovuto a un cambiamento dell’infrastruttura internet che ne coordina il traffico.

Vaccini, via libera dell’EMA alla terza dose per gli immunodepressi

0

L’EMA ha dato l’ok per la somministrazione di una terza dose di vaccino Pfizer o Moderna in pazienti con sistema immunitario compromesso, almeno 28 giorni dopo la somministrazione della seconda dose. Secondo l’Agenzia del Farmaco europea, il secondo richiamo sembrerebbe infatti aumentare la capacità dell’organismo di produrre anticorpi contro l’infezione da Covid-19 in pazienti immunodepressi. Riguardo i soggetti sani tra i 18 e i 55 anni, è stato osservato “un aumento degli anticorpi quando una terza dose è somministrata a circa sei mesi dopo la seconda”, ragion per cui, scrive l’EMA, una terza dose potrebbe essere consigliato per questi soggetti.

L’altra PreCop: cinque giorni di attivismo ambientale a Milano

1

La PreCop26 al MiCo (Milano Convention Center) di Milano ha riunito 50 vertici mondiali per discutere le azioni che gli Stati partecipanti intraprenderanno per contrastare i cambiamenti climatici, cambiamenti che ci riguardano tutti. Ma nessun cittadino è stato invitato a sedersi ai tavoli. Cosa è stato detto dai governi in questa riunione preliminare? Le stesse cose che dicono da 26 anni; si è ribadita la necessità non superare la soglia degli 1,5 gradi d’aumento della temperatura, mantenendo così la vivibilità sul pianeta, l’urgenza della questione, e un se adottare o meno un sistema internazionale di controllo delle emissioni.

In buona sostanza nulla di concreto. Per questo dal 28 settembre al 2 ottobre l’esterno del MiCo si è trasformato in una sorta di “PreCop popolare”, con attivisti da tutta Europa riuniti per manifestare contro l’inefficienza del sistema decisionale, con azioni, momenti di dibattito e formazione sparsi per tutta l’area. Durante alcuni di questi incontri è stata stesa la Dichiarazione per il Futuro, un documento basato su studi scientifici, con azioni reali e concrete da adottare, esistenti da almeno 30 anni, ma che non gioverebbero alle lobby mondiali, ovviamente invitate alla PreCop. La Dichiarazione affronta la crisi climatica a 360 gradi: energia, risorse, lavoro, diritti umani ed economia e finanza, con la specifica richiesta che non siano i cittadini a pagare la transizione ecologica ma coloro responsabili dell’80% delle emissioni mondiali, seduti proprio a quei tavoli. Documento fondamentale, che si spera non venga ignorato come i precedenti.

La conclusione della stesura è sfociata in due manifestazioni rivolte alla politica; la prima, il 30 ottobre, ha riunito 50mila persone, mentre la seconda, il giorno dopo, ne ha coinvolte 10mila. Il fattore più rilevante è la differenza d’età e vissuto dei partecipanti, provenienti da realtà sociali con background completamente diversi tra loro, non nate come movimenti climatici. Sindacati, movimenti culturali, associazioni locali e nazionali, cooperative, collettivi studenteschi. Realtà differenti come CGIL, Amnesty International, Survival International, Tendenza Marxista Internazionale, ADL, Priorità alla scuola, One Voice. Su 140 realtà intervistate tutte hanno dato la stessa risposta: il problema ci riguarda tutti ed agire ora permetterà di ottenere anche giustizia sociale.

La transizione ecologica diventerà realmente “un bagno di sangue”, come descritta del ministro Cingolani, se si aspetteranno altri anni per agire, perché gli eventi climatici estremi provocheranno milioni di morti e sfollati. Molti attivisti ed attiviste erano ospiti al Climate Camp, dove l’esperienza è stata immersiva ed ha permesso a persone con un obbiettivo comune di conoscersi e riunirsi in un’ottica propositiva di mobilitazione futura. Inoltre Cilmate Open Platform, promotrice della stesura della Dichiarazione per il Futuro, ha organizzato 24 eventi formativi, spaziando dalle migrazioni climatiche all’agroecologia, dalla medicina alla presentazioni di libri, coinvolgendo tantissimi aspetti tutti minacciati dall’ombra incombente del cambiamento climatico. Numerosi gli ospiti internazionali; non solo le più famose Greta Thunberg, dalla Svezia, e Vanessa Nakate, Uganda. 10 attivisti hanno parlato alla manifestazione del 30 ottobre, tutti partecipanti alla Youth4climate.

Martin, portavoce dell’Argentina, ed Ivan, Messico, hanno criticato fortemente i meccanismi d’oppressione capitalistici. L’attivista dal Libano racconta dell’esplosione di un anno fa, di incendi, di morti, della corruzione e del colonialismo che ancora oggi li opprime. Sorride con amarezza: «Nel mio paese questo non si può fare, non c’è abbastanza libertà di espressione». Dura e schietta la ragazza d’Irlanda: «Dicono che si risolverà tutto con la Cop 26? It’s bullshit!». Rincara la dose il rappresentante della Scozia: «Ci sono state 25 cop e dove siamo ora? Non serve a nulla. Ma noi siamo pronti a muovere le montagne. We are going ti make history in Glasgow». Presente anche un attivista delle comunità indigene brasiliane, nemmeno considerate nella Youth4Climate. «Gli indigeni escono dalle foreste per dire che bisogna agire. Siamo all’inizio della nostra estinzione, la nostra terra soffre. Chiamo tutti i giovani del pianeta puntare lo sguardo sugli indigeni e sull’Amazonia. Lancio una sfida ai giovani: aiutateci a proteggerci. Abbiamo 10 giorni da ora per fare girare questo. Stand For Amazonia». Il ragazzo fa riferimento al piano che si discuterà nella Convenzione sulla diversità biologica, dove i leader mondiali intendono concordare di trasformare il 30% della Terra in “aree protette” entro il 2030, ennesimo greenwashing governativo che sfratterà gli indigeni dagli ultimi santuari della biodiversità al mondo, rimasti tali proprio grazie a loro.

Numerosissimi i temi toccati in questi giorni a Milano, uno sopra tutti: è ora che i governi si tolgano la maschera verde e mostrino le loro vere intenzioni, perché non ingannano più nessuno.fri

[di Erica Innisi – attivista di Fridays For Future]

Nobel per la medicina a David Julius e Ardem Patapoutian

0

Gli scienziati americani David Julius e Ardem Patapoutian hanno vinto il Nobel per la medicina per le loro scoperte sui recettori di temperatura e tatto. Gli studi dei due scienziati sono stati condotti in maniera indipendente l’uno dall’altro ed hanno permesso una migliore comprensione della maniera in cui il nostro corpo percepisce il caldo, il freddo e gli stimoli meccanici. Le loro scoperte potrebbero portare alla realizzazione di nuove tipologie di analgesici, in grado di trattare varie patologie, tra cui il dolore cronico.

Puigdemont, Tribunale supremo spagnolo chiede all’Italia l’arresto degli ex-consiglieri

0

Il giudice del Tribunale supremo spagnolo Pablo Llarena chiede al Tribunale di Sassari di arrestare Toni Comìn e Clara Ponsatì, consiglieri dell’ex leader catalano indipendentista Puigdemont. I due si trovano in Sardegna per accompagnare Puigdemont all’appuntamento con il Tribunale di Sassari, in seguito al suo arresto ad Alghero. Entrambe sono eurodeputati il cui diritto di immunità è stato sospeso, come quello di Puigdemont. Giovedì scorso Llarena aveva chiesto all’Italia l’immediata restituzione del leader indipendentista, affinché fosse giudicato in Spagna. Le accuse rivolte all’ex leader catalano sono di sedizione e malversazione di fondi pubblici in occasione del referendum per l’indipendenza della Catalogna del 2017.

Non basta una legge: come l’Italia potrebbe fermare le delocalizzazioni

1
operaio

Di questi tempi non capita spesso che una vertenza operaia ottenga una vittoria come quella raggiunta dagli oltre 400 lavoratori della Gkn, che dopo essere stati licenziati via sms perché la multinazionale aveva deciso di chiudere i battenti e trasferirsi all’estero – anche grazie alla lotta messa in campo – hanno ottenuto la revoca dei licenziamenti da parte del Tribunale di Firenze. Ma la loro situazione è simile a quella di altre migliaia di dipendenti di aziende private, a rischio licenziamento spesso perché le ditte per le quali lavorano, pur non essendo in crisi, scelgono di delocalizzare all’estero la produzione.

Mentre il presidente del Consiglio Draghi ha ribadito più volte di non ritenere produttivo intervenire per difendere i posti di lavoro, una parte della maggioranza (principalmente PD, M5S e Leu) sta spingendo per approvare un decreto che fissi paletti più stringenti alle delocalizzazioni. Una strada che però da sola non potrà funzionare.

Il decreto legge, a firma del ministro del Lavoro Andrea Orlando e della viceministra dello Sviluppo Economico Alessandra Todde, è costituito da cinque articoli e non è stato ancora calendarizzato per la discussione in parlamento. Si prevede, in sostanza, che l’azienda che intende delocalizzare (si parla nella relazione illustrativa del decreto di aziende con almeno cinquanta/centocinquanta dipendenti. Nella bozza di decreto invece si legge “almeno 250 dipendenti” ) e cessare i rapporti di lavoro, lo comunichi agli enti preposti con preavviso di almeno sei mesi, facendosi carico dei piani di ricollocamento e di formazione delle risorse che vengono tagliate fuori, oltre che della potenziale reindustrializzazione per un acquirente. Ci sono poi le sanzioni. Ovvero multe soprattutto per i soggetti che hanno ricevuto contributi pubblici negli ultimi 3-5 anni. Questi sarebbero tenuti a versare il 2% del fatturato dell’ultimo esercizio. Spicca poi l’ipotesi blacklist, una lista delle aziende che abbiano delocalizzato, le quali non avrebbero più diritto a contributi pubblici per cinque anni. Ricordiamo che, stando alle dichiarazioni del viceministro Todde, Gkp ha percepito dallo Stato italiano in totale 3 milioni di fondi pubblici. Ecco perché i sindacati auspicano una multa.

La discussione del decreto tuttavia non è ancora calendarizzata. Come prevedibile il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, si oppone strenuamente e dentro il governo ha trovato diverse sponde sensibili alla sua posizione. Già da più parti si vocifera che dalla versione definitiva del decreto scompariranno le multe (a meno che l’azienda non si impegni nel piano di reindustrializzazione) e la blacklist. Il decreto potrebbe addirittura essere privato dei requisiti di urgenza e rimandato per venire discusso come semplice disegno di legge, allungandone l’iter ed aumentando il rischio che non diventi mai legge nel rimpallo tra Camera e Senato. Le pressioni di chi giudicava l’idea troppo “punitiva”, tra cui il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e il Commissario europeo per gli affari economici e monetari, Paolo Gentiloni, stanno avendo effetto.

Le insidie di un decreto che rischia di essere principalmente mera arma di propaganda politica sono evidenti. Se scomparissero multe e blacklist, quindi in assenza di un rischio punitivo, è impossibile che il decreto si riveli efficace. E in ogni caso i rischi che possa essere impugnato in sede europea sono ingenti. Nei trattati dell’Unione Europea vale il principio di libera circolazione dei capitali. Nessuno Stato può porre veti. Ciò è confermato dall’articolo 63 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea). Citando appunto dal sito del Parlamento Europeo, leggiamo: “Il trattato di Maastricht (TUE) ha introdotto la libera circolazione dei capitali tra le libertà sancite dai trattati. Attualmente l’articolo 63 TFUE vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha il compito di interpretare le disposizioni relative alla libera circolazione dei capitali e in tale settore esiste un’ampia giurisprudenza. In caso di ingiustificata restrizione della libera circolazione dei capitali da parte degli Stati membri trova applicazione la normale procedura di infrazione prevista dagli articoli 258-260 TFUE”.

Il problema delle delocalizzazioni è avvertito in tutti i Paesi in un contesto di globalizzazione. La Cina ha agito per contrastarlo, ma si tratta di un Paese socialista che mantiene un forte controllo sull’economia. Lo stesso hanno fatto gli Usa, specie durante la presidenza Trump, attraverso il controverso sistema dei dazi doganali. In Europa soluzioni del genere potrebbero teoricamente essere adottate verso le frontiere esterne (cioè per impedire delocalizzazioni al di fuori del territorio UE) ma sono impedite per quanto concerne le frontiere interne. Impedire che una azienda trasferisca la produzione dall’Italia a un altro Paese dell’Unione non è ammesso.

Per questo all’interno della cornice dei trattati UE la discussione su come impedire le delocalizzazioni rischia di rimanere senza reali possibilità di incidere sulla realtà. Per scongiurare questo rischio occorrerebbe che sanzioni e blacklist contro le aziende delocalizzatrici rimanessero in campo e fossero di importo realmente incisivo. Servirebbe inoltre che il Governo avesse l’intenzione e la forza politica di difendere la misura in sede europea di fronte alla probabili rimostranze. Così fosse non vi sarebbe ad ogni modo certezza sul reale funzionamento della norma (in Francia esiste una norma simile, spesso aggirata), ma sarebbe quantomeno un reale tentativo. Sul fatto che un governo guidato dall’ex banchiere Mario Draghi se ne voglia incaricare i più nutrono ragionevoli dubbi.

[di Giampiero Cinelli]

 

 

Usa: perdita oleodotto in California, rischio disastro ecologico

0

La perdita di petrolio da un oleodotto che corre sotto l’oceano al largo di Huntington Beach, nel sud della California, ha fatto arrivare in mare oltre 530mila litri di greggio. La perdita era iniziata venerdì scorso, ed a poco sembra essere servito l’intervento della società proprietaria della struttura, che sabato ha interrotto il flusso di petrolio. La marea nera, infatti, ha raggiunto la costa e diversi animali sono morti. Attualmente, inoltre, sono in atti sforzi per cercare di contenere la chiazza di petrolio e in tal senso secondo il sindaco di Huntington Beach, Kim Carr, si tratta di «una delle situazioni più devastanti che la comunità abbia affrontato negli ultimi decenni».

Come i robot potrebbero trasformare l’agricoltura nel prossimo futuro

0

La progressiva crescita della popolazione mondiale ci ha piazzati davanti alla necessità di definire come amministrare la produzione, distribuzione e conservazione degli alimenti perché nessuno debba patire la fame. Una delle soluzioni che maggiormente colpisce l’attenzione pubblica è quella della cosiddetta agricoltura 4.0, ovvero il consolidamento di un’eventuale automatizzazione del settore agricolo che, almeno su carta, dovrebbe portare a una rivoluzione virtuosa.

L’applicazione dei robot in allevamenti e fattorie sa di avveniristico, quasi di fantascientifico, eppure già molte realtà all’avanguardia fanno uso di strumenti automatizzati di ultimissima generazione, macchinari che potrebbero sembrare insoliti, ma che rappresentano una finestra sul futuro del settore.

I robot al giorno d’oggi

Shay Myers, agricoltore dell’Ohio, Stati Uniti, è divenuto ormai un volto noto di TikTok proprio grazie alle sue forte denunce riguardanti l’inadeguatezza del sistema agricolo contemporaneo, un’inadeguatezza che è enfatizzata da quelle leggi trumpiane che hanno reso particolarmente difficile l’affidarsi a manodopera immigrata e stagionale.

Myers, in altre parole, non è in grado di trovare raccoglitori che siano disposti a lavorare per 16 dollari all’ora, con il risultato che la sua azienda si stia sempre più affidando a soluzioni radicate nella robotica.

Nello specifico, l’imprenditore si è dimostrato particolarmente soddisfatto dall’estirpatore di erbacce prodotto dalla Carbon Robotics, uno strumento da più di quattro tonnellate che si muove da solo per i campi di cipolle, incenerendo con un potente laser ogni filo d’erba che risulti fuori posto. Uno strumento prezioso, se si considera che diverse nazioni USA stanno venendo a patti col fatto che l’abuso di diserbanti sia dannoso per la salute dei consumatori.

Non deve sorprendere se il mercato degli “agrobot” – i robot agricoli – stia dunque esplodendo proprio grazie agli automi erbicidi, i quali vengono ormai sviluppati in ogni angolo del globo. Parallelamente ci sono ditte che si focalizzano invece sul sopperire alla carenza di lavoratori, ditte quali la canadese Abundant Robotics e la spagnola Agrobot, le quali hanno ideato strumenti che sono capaci di raccogliere rispettivamente le mele e le fragole.

Non tutti i robot sono però pensati per la campagna: stanno nascendo anche tutta una serie di apparecchi pensati deliberatamente per ambienti più controllati e asettici, ovvero per le serre e per le coltivazioni al chiuso. Esempi d’efficienza in questo settore ci vengono offerti dall’israeliana MetoMotion, la quale è ormai esperta nel costruire robot coltivatori di pomodori, e la californiana Iron Ox, la quale ha invece creato uno scanner 3D in grado di intercettare immediatamente la presenza di parassiti

Le cose che non vanno

Pur tenendo da conto tutti i risvolti positivi, l’idea che i campi siano lasciati nelle “mani” di un manipolo di strumenti meccanici automatizzati solleva un’ampia gamma di insidie. I benefici economici sono palesi, tuttavia è difficile prevedere come il tutto possa incidere sulla sostenibilità sociale, ovvero c’è da temere che la scomparsa di alcuni ruoli professionali sottopagati verranno sostituiti da nuove professioni tecniche a loro volta mal retribuite.

Un stravolgimento di questo genere sfocerebbe banalmente in una maggiore instabilità professionale che andrebbe a colpire soprattutto i cosiddetti ceti bassi, fomentando le disparità e intensificando quelle criticità mai debitamente affrontate del nostro corrente sistema economico.

Rimanendo nella dimensione puramente finanziaria, non è neppure certo che l’agricoltura 4.0 sia di genuino beneficio ai contadini. Sebbene gli strumenti robotici a disposizione oggigiorno siano perlopiù acquistabili a prezzi in linea con i costi di un potente trattore, le ditte produttrici sembrano interessate a incanalarsi verso un modello economico più affine al “noleggio”, cosa che permetterebbe loro di ottenere il monopolio nella gestione dei servizi di raccolta.

estirpatore erbacce laser

Gli agricoltori potrebbero diventare succubi di aziende che in qualsiasi momento saranno in grado di cambiare i piani commerciali messi sul tavolo, magari intavolando inquadramenti contrattuali cuciti su misura sulle disponibilità di ogni azienda specifica. Una prospettiva non inverosimile, se si conta che, con la giustificazione del voler migliorare il proprio servizio, le aziende tech del settore stanno già adoperando i propri robot per raccogliere informazioni sulle coltivazioni di tutto il mondo.

Ultimo, ma non ultimo, non è neppure detto che l’implementazione robotica sia in grado di far davvero bene all’ambiente. Formalmente, l’ottimizzazione della filiera contadina dovrebbe garantire standard di vita migliori riducendo nel mentre sprechi e inquinamento, tuttavia perché la rivoluzione agrorobotica possa effettivamente prendere piede sarà prima necessario che le strumentazioni dedicate siano ulteriormente affinate.

Cosa vuol dire? Vuol dire che ci sono buone possibilità che le singole componenti degli agrobot finiscano con il necessitare materiali che sono dannosi per l’ambiente sia in fase di raccolta che in fase di smaltimento, un’insidia in cui è già incappata l’industria dell’automotive elettrico.

Non c’è da perdere la speranza

Le potenziali tragedie che attanagliano l’agricoltura 4.0 sono evidenti, tuttavia la consapevolezza delle possibili criticità non dovrebbe spingere ad abbracciare una retrograda filosofia luddista, ma a lavorare perché le evoluzioni tecnologiche si muovano verso orizzonti virtuosi.

Parallelamente alle trovate imprenditoriali, esistono tutta una serie di soluzioni che nascono e vengono sviluppate perlopiù in ambiente accademico e che vanno a sondare le possibilità offerteci da intelligenze artificiali facilmente programmabili.

Particolarmente degni di nota sono il Tanjiawan Cloud Agricultural Experimental Site cinese e il sistema d’irrigazione progettato dal centro di ricerca e sviluppo di Arava, realtà che hanno sfruttato la raccolta dei dati sull’umidità del suolo per provvedere a una distribuzione dell’acqua che sia mirata e minuziosa. Gli sprechi d’acqua sono stati pressoché azzerati, al punto di rendere fertili anche i territori più aspri e inospitali.

Un esempio degno di nota per la sua alta accessibilità ci viene fornito dalla Russia, nazione che vede buona parte delle sue coltivazioni in mano a contadini tutt’altro che avvezzi all’uso di strumentazioni hi-tech. In quest’area del mondo possiamo trovare progetti quali il Cognitive Agro Pilot, invenzione che ha abbracciato ed evoluto le avanguardie informatiche dei tempi del Soviet per intavolare una semplicissima rete neurale capace di assistere i contadini nella mietitura dei campi attraverso una videocamera posta sul cruscotto dei trattori.

L’idea di fondo è molto semplice: gli agricoltori sono inclini a piccoli margini di errore umano – soprattutto perché la loro attenzione è incentrata perlopiù sull’assicurarsi di non causare danni al mezzo scontrandosi contro a un sasso o scivolando in un fosso -, margini di errore che verrebbero attenuati non poco dall’implementazione di un co-pilota artificiale. Gli aggiustamenti minori alla traiettoria dei veicoli non comporterebbero certamente delle scenografiche rivoluzioni agricole, tuttavia una variazione tanto minuta potrebbe sviluppare immense differenze, sui grandi numeri.

Più in generale, le intelligenze artificiali possono dimostrarsi utili nel definire quali siano le sementi più adatte a un determinato suolo, nel monitorare lo stato di salute delle piante o nello stimare le evoluzioni meteorologiche di una determinata area geografica. Si tratta di strumenti analitici certamente meno scenografici di bracci meccanici installati su cingolati, ma si dimostrano nondimeno utili nel dar vita a un’“agricoltura di precisione” capace di migliorare l’ecosostenibilità e la resa dei raccolti.

Siamo ad un bivio

Risulta lapalissiano sottolineare che la carenza di lavoratori registrata da Shay Myers e da molti altri imprenditori non sia tanto legata alla carenza di manodopera – basti dare un occhio ai tassi di disoccupazione -, quanto al fatto che le condizioni di lavoro siano tutt’altro che idilliache e che lo stipendio non sia in linea con i costi della vita (in Ohio bisogna guadagnare circa 15 dollari per mantenersi una casa in affitto).

Raccoglitori, camerieri, camionisti e molti altri mestieri si trovano a vivere sull’ultimo gradino di una piramide sociale che fa del dumping salariale l’arma con cui fomentare la tossica corsa alla concorrenzialità economica. Alcuni vorrebbero perpetrare questa visione distopica del mercato automatizzando quei ruoli che risulta finanziariamente sconveniente affidare agli esseri umani, tuttavia le dinamiche dell’agricoltura 4.0 non sono ancora state formalizzate e v’è ancora la speranza che Governi e comunità di tutto possano mettere da parte la cupidigia dei singoli per favorire il bene dell’intera popolazione.

[di Walter Ferri]