L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha accelerato alcuni processi di portata storica per l’Unione europea. I 27 capi di Stato dell’Unione hanno infatti discusso e siglato, nelle giornate del 10 e dell’11 marzo, la Dichiarazione di Versailles, un documento che racchiude le modalità di rafforzamento della sovranità europea, riduzione delle dipendenze e attuazione di un nuovo modello di crescita e investimento. A tal proposito, la costituzione di un fronte di difesa europeo comune, con un deciso aumento degli investimenti militari da parte dei singoli Paesi membri, costituisce un elemento di centrale importanza.
Si è concluso l’11 marzo il vertice di Versailles, presieduto dal presidente francese Macron, che ha riunito i 27 leader europei e nell’ambito del quale sono state prese decisioni di portata storica per l’Unione, in particolare per quanto riguarda la nuova politica di difesa comune europea in seguito all’attacco dell’Ucraina da parte della Russia. Nelle settimane passate alcuni Paesi dell’Unione avevano già preso decisioni di particolare peso: la Germania ha infatti investito cifre da record per la difesa, portando la spesa militare ben al di sopra del 2% del PIL richiesto dagli accordi tra i Paesi NATO, e la Svizzera ha abbandonato la propria posizione neutrale per dichiararsi favorevole alle sanzioni contro la Russia.
La Dichiarazione di Versailles, siglata dai presenti, rappresenta l’intenzione di “compiere ulteriori passi decisivi verso la costruzione della nostra sovranità europea, la riduzione delle nostre dipendenze e la messa a punto di un nuovo modello di crescita e investimento per il 2030″. Tra questi, la costruzione di un fronte di difesa comune costituisce un punto centrale. Ulteriori incontri saranno previsti per il 23 e 24 marzo, quando la Dichiarazione sarà presentata al Consiglio europeo, e a metà maggio, per definire con più precisione le modalità di rafforzamento della capacità di difesa. Previsto poi per fine giugno il vertice tra i Paesi della NATO a Madrid.
Il progetto di un rafforzamento della difesa comune, come scritto nella Dichiarazione, è in discussione da dicembre 2021: dopo lo scoppio della crisi in Afghanistan, infatti, l’Europa si è scoperta disorganizzata e impreparata nei confronti di scenari geopolitici instabili. “La guerra di aggressione della Russia segna un cambiamento epocale nella storia europea” si legge nella Dichiarazione: per tale motivo l’UE ha deciso di assumersi “maggiori responsabilità” nel campo della sicurezza. È previsto un aumento degli investimenti nella difesa da parte dei firmatari, ragion per cui prima dello svolgimento degli incontri di metà maggio dovrà essere presentata “un’analisi delle carenze di investimenti in materia di difesa” da parte della Commissione, in coordinamento con l’Agenzia europea per la difesa.
Gli Stati si impegnano inoltre a perseguire l’invio di “tutti i mezzi disponibili” verso l’Ucraina, anche ricorrendo anche allo strumento europeo per la pace, un fondo dell’Unione che ha previsto lo stanziamento di 5 miliardi per il periodo 2021-2027 finanziato da contributi degli Stati membri e che consente l’invio di risorse e armi.
Nella città di Shenzhen, in Cina, è stato nuovamente imposto il lockdown a causa dell’aumento esponenziale di casi di Covid. La città, che conta 17 milioni di abitanti, aveva messo in atto alcune restrizioni già la settimana scorsa, con la chiusura dei locali non essenziali e il divieto di consumazione nei ristoranti. A Shanghai il governo ha invece chiuso scuole, aziende e attività commerciali. I provvedimenti sono stati presi nonostante il picco sia costituito da casi per lo più asintomatici.
Dopo che Putin ha dichiarato di voler “denazificare” l’Ucraina, in riferimento alla galassia di milizie e battaglioni dichiaratamente nazisti che hanno operato e operano tutt'ora prevalentemente nell'Est dell'Ucraina, è iniziata la campagna mediatica per smentire una realtà fattuale utilizzando l’ebraicità del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky come ragione con cui mistificare quanto affermato da Putin circa i neonazisti chiaramente presenti nel Paese, anche all’interno delle istituzioni pubbliche e politiche. Eppure è evidente, e non certo da adesso, che i neonazisti ci sono, sono numerosi...
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Secondo quanto riportato da Reuters, l’Iran avrebbe lanciato una dozzina di missili balistici verso la città di Erbil, la capitale curda dell’Iraq. Sarebbero stati presi di mira il consolato statunitense e la vicina zona residenziale, ma non vi sarebbero vittime. Al momento non vi sono ulteriori dettagli o rivendicazioni. Un attacco di portata simile non si verificava dal 2020, ma l’Iraq e la Siria sono teatro di regolari violenze tra Stati Uniti e Iran.
Tre associazioni di categoria, rappresentanti di alcune delle più grandi aziende al mondo che si occupano del commercio di soia, “hanno fatto pressioni” sull’Unione europea per indebolire la sua politica sulla deforestazione pochi giorni dopo aver firmato nell’ambito della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) un impegno pubblico atto proprio a porre fine alla deforestazione legata alle materie prime: è quanto denunciato da Unearthed, il braccio investigativo della Ong ambientalista Greenpeace, sulla base di alcuni documenti in suo possesso. In una lettera inviata al commissario europeo per il clima Frans Timmermans otto giorni dopo aver assunto tale impegno, infatti, tre importanti associazioni di categoria avrebbero avvertito che la proposta di legge sulla deforestazione dell’UE non avrebbe avuto l’impatto desiderato ed avrebbe causato gravi aumenti di prezzo nonché problemi di disponibilità per cereali e mangimi. Tra le multinazionali rappresentate dai gruppi firmatari vi sarebbero appunto tre delle quattro più importanti aziende esportatrici di soia dal Brasile verso l’UE, ovverosia Cargill, Bunge ed ADM.
Proprio queste ultime, come anticipato, durante la COP26 avevano rilasciato una dichiarazione di intenti con cui si impegnavano a fermare la perdita di foreste associata alla produzione e al commercio di materie prime agricole ed a fornire una tabella di marcia per dare vita ad una catena di approvvigionamento in grado di bloccare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius. Un modus operandi sorprendente dato che, come ricordato da Unearthed, Cargill sarebbe stata “più volte collegata alla deforestazione in Brasile” mentre Bunge sarebbe stata “collegata alla deforestazione nella loro catena di approvvigionamento”. Tuttavia quello che si pensava fosse stato un cambio di rotta inaspettato, si sarebbe sostanzialmente rivelato essere una semplice tecnica con cui schierarsi solo a parole a favore dell’ambiente. Come documentato da Unhearted tramite la lettera sopracitata, infatti, le medesime aziende si sarebbero schierate contro una legge – attualmente in fase di valutazione – che in tale ambito sarebbe la più drastica al mondo, richiedendo a diversi commercianti di dimostrare che il loro prodotto non sia stato generato su terreni deforestati prima che possa essere venduto sul mercato europeo. In pratica, prodotti come caffè, soia, carne bovina o cacao non potrebbero entrare nel mercato dell’Ue se ritenuti legati alla deforestazione.
Le aziende, dal canto loro, hanno ovviamente rigettato le accuse affermando che la lettera inviata al commissario Timmermans avesse lo scopo di offrire modi migliori per raggiungere l’obiettivo di porre fine alla deforestazione, che sarebbero intenzionate realmente ad eliminare. Eppure, i documenti di cui è venuto in possesso Unearthed mostrerebbero che le associazioni industriali dei commercianti di materie prime si sarebbero ripetutamente opposte alle misure dell’ambiziosa legge dell’UE sulla deforestazione: ciò sarebbe dimostrato non solo dalla lettera, ma anche dai briefing di un incontro di ottobre con il dipartimento del commercio della Commissione e dalla corrispondenza privata con il ministro dell’ambiente francese Barbara Pompili.
Ad ogni modo, le associazioni hanno poi rilasciato una posizione pubblica dettagliata sulla legge due settimane fa, sostenendo che le loro preoccupazioni avrebbero ad oggetto due componenti chiave della legge. La prima riguarderebbe la creazione di una “catena di approvvigionamento segregata” di prodotti privi di deforestazione per il mercato europeo, in quanto “tecnicamente ed efficacemente non fattibile su vasta scala di mercato”. In tal senso, le tre associazioni di categoria hanno chiesto un sistema di “bilancio di massa”, con cui i fornitori potrebbero acquistare solo parte dei loro prodotti da fonti sostenibili. La seconda riforma contestata dai gruppi sarebbe intesa a migliorare la tracciabilità, richiedendo ai commercianti di fornire una geolocalizzazione per la fattoria o la piantagione in cui è stata coltivata la merce e stabilendo così se provenga dalla deforestazione: secondo le associazioni, però, alcuni agricoltori potrebbero rifiutarsi di condividere questi dati con l’Ue. Eppure, anche tale punto appare controverso dato che, secondo quanto riportato da Unearthed, diversi gruppi di piccoli agricoltori riterrebbero che queste proposte andrebbero a loro vantaggio e che l’opposizione alla geolocalizzazione da parte delle associazioni avrebbe lo scopo di proteggere il potere dei principali commercianti di materie prime proprio a scapito dei piccoli agricoltori.
L’agenzia di stampa Saudi Press Agency ha dichiarato che 81 pene di morte sono state eseguite nelle ultime 24 ore in Arabia Saudita, in quella che si configura come la più grande esecuzione di massa della storia moderna del Paese. I giustiziati sarebbero stati accusati di affiliazione a varie organizzazioni terroristiche (ISIS, Al Quaeda e Huthi) e di aver commesso crimini contro le istituzioni saudite. L’Arabia Saudita è finita spesso al centro delle critiche internazionali per la durezza delle sue leggi sulla libertà di espressione politica e religiosa e sull’applicazione della pena di morte anche nei confronti di minorenni, ma le ha sempre respinte affermando di agire nell’ottica della sicurezza nazionale.
Il Bacino del Mediterraneo non è solo una delle culle della civiltà. Qui, la storia dell’uomo si intreccia nel modo più intimo con le massime espressioni della natura. Una posizione geografica unica ed un’eterogeneità ambientale senza eguali, infatti, oltre ad aver favorito lo sviluppo della nostra cultura, hanno anche gettato le basi per l’evoluzione di una straordinaria biodiversità. Le ultime stime effettuate indicano, nel Mediterraneo, la presenza di circa 17.000 specie marine, le quali rappresentano dal 4 al 25% della diversità globale. Pur coprendo appena lo 0,82% della superficie terrestre, il Mediterraneo ospita circa il 7,5% delle specie mondiali. La ricchezza specifica, in rapporto all’area, è quindi circa 10 volte superiore alla media. Ancor più sorprendente se consideriamo che stiamo parlando in gran parte di endemismi, ovvero, specie che sono presenti solo nel nostro mare e sulle terre che lo circondano. Sono endemici il 44% dei pesci ed il 25% dei mammiferi, così come il 35% degli anfibi italiani e il 24% dei rettili iberici. Senza contare poi che l’ecoregione Mediterraneo ospita circa 25.000 specie vegetali, di cui più della metà esclusiva di quest’area.
Mediterranean hotspot (IUCN, 2016)
Non è un caso quindi che il Mediterraneo sia stato individuato come uno dei 25 hotspot di biodiversità a livello globale. Un approccio conservazionistico, questo, che porta due notizie, una buona ed una cattiva. Essere un hotspot, infatti, da un lato significa ospitare una biodiversità unica, dall’altro, riconoscere però che questa sia minacciata. Nei ‘punti caldi’ di biodiversità, si hanno quindi concentrazioni eccezionali di specie endemiche che stanno tuttavia subendo una perdita eccezionale di habitat. Perderle è un rischio che non possiamo correre: ben il 44% di tutte le specie di piante vascolari e il 35% di tutte le specie di quattro gruppi di vertebrati sono confinati negli hotspot globali che interessano solo l’1,4% della superficie terrestre. E proprio nel Mediterraneo, dove lo sfruttamento del territorio ha origini estremamente remote, che la frammentazione e scomparsa degli habitat avviene a ritmi allarmanti. Lo stretto legame con la società umana, si badi bene, non ha però solo accezioni negative, basti pensare all’elevatissima diversità biologica di interesse agricolo, alla base di una dieta riconosciuta come la più equilibrata e salutare a livello globale. Tuttavia, l’impatto antropico si fa sentire, ed ora come non mai esacerbato dalla pressione del riscaldamento globale, minaccia ogni specie mediterranea, quella umana compresa. Oltre alla perdita di habitat, a mettere a repentaglio la salute degli ecosistemi mediterranei, ci sono il bracconaggio, la pesca eccessiva ed illegale, l’inquinamento, l’invasione di specie aliene e l’acidificazione delle acque. L’anno appena trascorso, poi, si è confermato come quello in cui sono state registrate le più alte temperature oceaniche della storia. E il Mediterraneo è il bacino che si sta scaldando più in fretta. Il Mare Nostrum così, oltreché hotspot di biodiversità, è accertato anche come hotspot del cambiamento climatico. Cambiamento che – secondo gli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) – è già in gran parte irreversibile. Anche riducessimo le emissioni di carbonio rispettando gli obiettivi prefissati, il Mediterraneo e la parte di Europa che vi si affaccia andrebbero comunque in contro ad un calo delle precipitazioni, specie invernali, del 20% rispetto ai livelli attuali.
Cambiamento delle precipitazioni annuali, invernali ed estive nel Bacino del Mediterraneo in due diversi scenari (MedECC, 2020 – basato su dati Euro-cordex).
Ma per quale motivo l’area mediterranea è così a rischio? Tra le ipotesi al vaglio – secondo uno studio del 2020 – c’è il persistere di un’alta pressione invernale anomala, la cui genesi è da attribuire alla combinazione di due fattori indipendenti tra loro: le variazioni nella circolazione generale, con effetti soprattutto ad occidente, e la diminuzione locale del contrasto termico tra mare e terra, rilevante più a oriente. La regione mediterranea, inoltre – sottolineano diversi esperti indipendenti nel First Mediterranean Assessment Report – è ora nel complesso più calda di 1,5°C rispetto all’era preindustriale. Con un tasso di +0,33°C ogni 10 anni, questa si sta riscaldando più intensamente e più velocemente del resto del globo. Un riscaldamento particolarmente amplificato nel settore orientale e nelle città. Ad Atene ed Istanbul, ad esempio, sono già state registrate anomalie impressionanti: +6.8°C e +5.9°C rispettivamente. Letali poi le conseguenze, in particolare, sulla fauna marina. In relazione all’aumento delle temperature si stimano, entro il 2050, una riduzione significativa degli stock ittici, ulteriori impatti sulle barriere coralline e l’estinzione del 40% delle specie endemiche di pesci.
I cambiamenti previsti nella temperatura annuale nel Bacino del Mediterraneo tra il periodo di riferimento (1980-1999) e tre sottoperiodi futuri (Near: 2020-2039, Middle: 2040-2059, End: 2080-2099). (MedECC, 2020 – basato su dati Euro-cordex).
Nel complesso, da quello urbano a quello marino, non c’è ecosistema mediterraneo che non risenta degli effetti del cambiamento climatico. Ogni anno, inoltre, gli eventi meteorologici estremi aumentano di intensità e frequenza. Eventi letteralmente imprevedibili, con impatti devastanti sull’agricoltura e la sicurezza umana. Riduzione delle precipitazioni da un lato ed aumento delle temperature dall’altro significano poi incremento della siccità e formazione di nuove terre aride. In questo senso, i Balcani, la Grecia, la Turchia, il Sud Italia (isole maggiori comprese) ed oltre due terzi della Penisola Iberica presentano le criticità maggiori. Il Mediterraneo, poi, come ogni altro mare, è destinato ad innalzarsi a causa dello scioglimento dei ghiacci. Anzi, ad un ritmo di 3,7 mm/l’anno, lo sta già facendo. Le inondazioni marine, così, si prevede saranno più frequenti delle attualmente dominanti esondazioni fluviali. Gli scenari attuali e futuri appaiono quindi catastrofici, il Mediterraneo avrà la capacità di adattarsi? La base di partenza è buona. La sua rinomata bellezza, infatti, ha una genesi legata all’eterogeneità ambientale, una caratteristica determinante resilienza e resistenza a qualsivoglia sistema ecologico. Ma da solo non può farcela. Gestire le attività ittiche in modo sostenibile, ridurre le fonti d’inquinamento, istituire nuove aree protette e aumentare il monitoraggio, sono solo alcune delle azioni che siamo chiamati ad intraprendere. Il Mediterraneo ha ancora tanto da offrire.
Il pericolo che la nostra economia stia scivolando verso la stagflazione – uno stato di stagnazione economica affiancato da una elevata inflazione che produce un aumento del tasso di disoccupazione – è molto elevato: a lanciare l’allarme è l’Ufficio studi della Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre), il quale precisa che, seppur il rischio non sia immediato, tale quadro economico potrebbe facilmente verificarsi in Italia. “Il trend sembra essere segnato”, afferma infatti la Cgia, sottolineando che “gli effetti della guerra in Ucraina” nonchè “le difficoltà legate alla post-pandemia” rischiano “di spingere nel medio periodo l’economia verso una crescita pari a zero, con una inflazione che si avvierebbe a sfiorare le due cifre”: uno scenario che, conclude la Cgia, potrebbe “rendere pressoché inefficaci persino i 235 miliardi di euro di investimenti previsti nei prossimi anni dal PNRR”.
In queste settimane il dibattito circa l’utilizzo della schwa infiamma gruppi di studiosi e non solo. Coloro che lottano per il riconoscimento di un linguaggio più inclusivo, che elimini l’utilizzo del maschile sovraesteso e offra opportunità di riconoscimento anche per le persone non binarie, si scontrano con i “puristi” della lingua, che non comprendono la necessità di apportare delle modifiche. Il 4 febbraio un gruppo di intellettuali ha persino lanciato una petizione sulla piattaforma Change.org, dal nome Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra, che ad oggi ha raccolto più di 21 mila firme.
Prima di entrare nel merito del dibattito, è doveroso fare una premessa. La lingua è, per molti aspetti, un fenomeno sociale. La sua forma è lentamente plasmata nel tempo dai parlanti, che la adattano alle proprie necessità. È un fenomeno che evolve e trasmuta, nonostante le mura innalzate dai più pervicaci oppositori al cambiamento. Non è mai esistito un sistema linguistico chiuso e impermeabile, ma ciascuno si arricchisce continuamente di neologismi (di cui signori quali Dante o Leopardi furono prolifici inventori) e nuove forme di espressione.
Ad oggi viviamo in una società estremamente complessa e polimorfa: mezzi di comunicazione di massa e social media hanno in particolare contribuito ad eroderne la patina di pretesa omogeneità, mostrandone il volto poliedrico e offrendo a ciascuno un proprio spazio di rappresentazione e rivendicazione. La lingua, in quanto strumento tramite il quale un determinato gruppo sociale dà forma al mondo, necessariamente si adatta a questi processi: in questo senso, essa è anche un mezzo di riconoscimento e inclusione. A confermare il peso che la lingua ha nella rappresentazione della realtà basti pensare che il Dizionario della Lingua Spagnola nel 2021 ha definito l’onore come “buona reputazione determinata dall’onestà e dal pudore delle donne“.
La definizione del termine “onore” nella versione online del dizionario di lingua spagnola (https://dle.rae.es/honor). Al punto 3 si nota come una delle possibili definizioni sia “buona reputazione garantita dall’onestà e dalla modestia delle donne”
Il dibattito sull’utilizzo della schwa (in italiano la scevà) si inserisce in questo contesto. La “e rovesciata” è un grafema comune a diverse lingue e, per intendersi, ha lo stesso suono della “e” finale nella frase in dialetto napoletano “curre curre guagliò”. Viene utilizzata in determinati contesti e ambiti più o meno ufficiali (conversazioni sui social network come veri e propri bandi di concorso) per mostrare una certa sensibilità verso quei gruppi di persone che non si identificano in una sessualità binaria o per contestare l’utilizzo del maschile esteso nella grammatica italiana. Di fatto non vi è mai stata la richiesta di modifica della grammatica italiana o il lancio di campagne per l’introduzione della “ə” nelle comunicazioni scritte da parte di chi sceglie di farne uso. Prima di sperimentare l’utilizzo della schwa sono stati fatti diversi tentativi, con l’uso di asterischi (*) o chiocciole (@), ma la problematica riguardo questa modalità è l’impossibilità di trasportarla in una lingua parlata. Un’alternativa potrebbe essere costituita dalla lettera “u”, ma la scelta presenta problematiche quali la vicinanza fonetica alla “o” e l’impossibilità di declinazione al plurale. Per tale motivo viene proposta la schwa (ǝ) per il singolare e la schwa lunga (з) per il plurale.
La questione ha suscitato un dibattito alquanto acceso in certi ambiti accademici, mostrando come le posizioni dei linguisti in merito siano fortemente polarizzate. Da un lato vi è chi sostiene che la lingua sia terreno fertile per le sperimentazioni e che sia giusto lasciare che il linguaggio cambi seguendo il fluire dei cambiamenti sociali. Dall’altro, alcuni intellettuali si sono fortemente opposti alla possibilità di introdurre modifiche al linguaggio scritto e parlato, difendendo un’idea di lingua immutabile ed avulsa dal contesto sociale in cui viene utilizzata. A sostenere quest’ultima posizione vi è una petizione lanciata il 4 febbraio sulla piattaforma Change.org da Massimo Arcangeli (Università di Cagliari), dal titolo Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra. “Lingua nostra”, dichiara il titolo, come a voler tracciare sin da subito un confine netto con gli “altri”, che da quella lingua non si sentono rappresentati. Sancendo, come scrive Maurizio Decastri dell’Università di Tor Vergata al Corriere della Sera, chi appartiene o meno al gruppo che può “affermare cosa si può dire e, soprattutto, quello che non si può dire“.
L’indignazione degli accademici firmatari della petizione è derivata dalla diffusione di un documento ufficiale riguardante la procedura per il conseguimento dell’abilitazione alle funzioni di professore universitario. Nel testo alcune terminazioni plurali sono state sostituite dalla schwa. “Lo schwa e altri simboli (…) non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività” si legge nel testo della petizione, firmata da personalità di spicco del panorama intellettuale italiano, quali Massimo Cacciari, Alessandro Barbero e Luca Serianni. Curioso come si riconosca una dimensione evolutiva della lingua, la cui legittimità è tuttavia prontamente negata se invocata in nome dell’inclusività.
Il documento riguardante la procedura di conseguimento dell’abilitazione alle funzioni di professore universitario che ha incendiato il dibattito accademico sull’uso della schwa
Il dibattito circa un uso più inclusivo della lingua non è certo nato oggi: è infatti del 1987 il celebre saggio Il sessismo nella lingua italiana, a firma della linguista Alma Sabatini, nel quale l’autrice espone le ragioni per le quali l’utilizzo del “maschile neutro” in italiano è tutt’altro che neutro, ma rispecchia una storia secolare di dominio patriarcale e riduzione della donna a “qualcosa di altro”. La lingua italiana, scrive Sabatini, è intrinsecamente androcentrica: basti pensare al fatto che la parola “uomo” denota sia il soggetto di sesso maschile sia, più in generale, un generico appartenente alla specie umana, maschio o femmina che sia; il termine “donna” può riferirsi solo alla specificazione sessuale. Va aggiunto, poi, che ancora oggi alcuni termini si fatica a declinarli al genere femminile, poiché un certo numero di professioni sono state aperte alle donne solamente in tempi molto recenti (si pensi all’apertura della carriera nella magistratura, avvenuta soltanto nel 1963, e la conseguente difficoltà che ancora oggi termini come “magistrata” hanno nell’inserirsi nel discorso comune). La supposta neutralità dell’uso del maschile esteso, scrive Sabatini, “occulta la presenza delle donne così come ne occulta l’assenza”.
È chiaro che a compiere le discriminazioni non è il linguaggio di per sé, ma l’utilizzo che ne fa la società. L’introduzione della schwa non si può certo porre come soluzione definitiva al dilemma dell’inclusività, in quanto presenta difficoltà oggettive quali, per esempio, la pronuncia per noi inusuale. Come sottolinea la sociolinguista Vera Gheno, il dibattito si pone ad oggi più sul campo politico che su quello linguistico. Tuttavia, soffermarsi a decostruire i meccanismi dati per neutrali che costituiscono la base del nostro agire e pensare quotidiano, individuandone il percorso storico e sociale, può di certo contribuire a una visione critica e consapevole del fenomeno. E a una maggiore comprensione delle rivendicazioni altrui.
La Francia continuerà ad affiancare militarmente il Mali con mezzi aerei per contrastare l’insurrezione islamista nel Sahel. La decisione arriva nonostante l’ex potenza coloniale avesse annunciato all’incirca un mese fa il ritiro dal territorio, dopo l’inasprirsi dei rapporti con il governo del Mali. Le truppe francesi, 2400 in tutto, si trovavano in Mali da un decennio. Parigi ha comunicato che la sua presenza si limiterà tuttavia alle zone libere da “mercenari russi”, il cui numero sul territorio è incerto ma è stimato tra le 400 e le 800 unità.
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