domenica 23 Novembre 2025
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Malles, il comune altoatesino che sta fermando l’avanzata dei pesticidi

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Le cittadine di Malles, turistico comune altoatesino, dopo una lunga battaglia sono riuscite a fermare l’avanzata dei pesticidi. L’Alto Adige è un paese frutticolo e la coltivazione intensiva delle mele è praticata in tutta la Val Venosta. Si tratta di frutticoltura convenzionale la quale, per eliminare i parassiti che massicciamente attaccano le piante da frutto, non riesce a fare a meno dei pesticidi. Un problema notevole, considerando che quando soffia il vento, questi vengono trasportati per molti chilometri. Una dinamica che ha spinto le donne altoatesine a farsi coraggio e a contrastare il giro di interessi economici che ruota attorno all’impiego delle nocive sostanze chimiche.

Il tutto è partito anni fa, quando Martina Hellrigl, mamma imprenditrice di origini svizzere, poco dopo essersi trasferita in Alto Adige, si imbatté in un agricoltore di erbe aromatiche biologiche. Questo raccontò di come le sue piantagioni fossero risultate contaminate da pesticidi, dopo che, accanto al suo campo, vennero piantati dei meli. Non potendo fare certificare le sue erbe, trasferì la sua attività più lontano, ma di lì a poco, si verificò nuovamente il problema. L’esperienza dell’uomo colpì molto Martina, spingendola ad andare più a fondo nella questione e, indagando e chiedendo informazioni, scoprì che già da anni, alcune persone, si stavano interessando alla causa, seppur con difficoltà. Il problema dei pesticidi era un argomento quasi tabù, e se da un lato c’era la paura delle colture contaminate, dall’altro pesava la consapevolezza di essere davanti a una questione delicata, la quale andava a toccare gli interessi economici di alcune realtà e metteva a dura prova l’equilibrio relazionale della comunità.

Ciononostante Martina Hellrigl ha deciso di attivarsi. Con l’invio di diverse lettere al giornale locale Vinschger Wind, in cui venne espressa la paura per la contaminazione da pesticidi che interessava i loro terreni, e il passaparola tra le donne del paese, nacque il movimento “Hollawint”. Fu proprio grazie a quest’ultimo che venne organizzata la presentazione pubblica di una petizione referendaria presso l’ufficio comunale, durante il quale le attiviste spiegarono i loro obiettivi, le loro idee, ma soprattutto le conseguenze negative che sarebbero arrivate se avessero continuato a non affrontare il problema. Così, a fine agosto 2014, 2477 cittadini con il 76% di voti favorevoli, dissero “no” ai pesticidi.

Il referendum però, nonostante siano passati anni, non è ancora stato attuato. In più ci sono stati degli scontri, molti dei quali finiti in tribunale. Alcuni agricoltori hanno chiesto l’intervento dell’Associazione degli Agricoltori, facendo causa ai promotori del referendum e ad altre associazioni e istituzioni che sostengono la battaglia. Ma le cittadine del piccolo comune non si sono mai arrese, e hanno deciso di compiere un ulteriore passo con la fondazione della cooperativa sociale Vinterra per l’affitto di terreni da preservare. Con questa iniziativa, già 4,5 ettari compresi tra Malles e Glorenza, proliferano di colture biologiche. Inoltre, tutto il movimento creato da Hollawint ha innescato dei cambiamenti positivi nel paese: quello che prima era un tabù, adesso è un tema sentito; molte persone hanno cambiato il loro modo di pensare, tanti agricoltori sono passati al biologico e i loro prodotti vanno a ruba.

[di Eugenia Greco]

La prima pagina del quotidiano La Stampa fa riflettere sul giornalismo italiano

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Durante le ultime settimane segnate dal conflitto fra Ucraina e Russia, non abbiamo assistito esclusivamente alla violenza causata dalle armi, ma anche a una mediatica, che tradisce i valori del giornalismo e del fare informazione. La Stampa ha pubblicato, in prima pagina, un’immagine relativa a un attacco missilistico subito dalla popolazione civile russofona di Donetsk, “incorniciandola” con titoli legati invece agli assalti russi e alla tragedia vissuta dai civili ucraini. Il risultato ovvio è che chiunque abbia visto la prima pagina in questione ha inteso che la fotografia in primo piano fosse lo scatto di una strage di civili ucraini compiuta dall’esercito russo, mentre in realtà si tratta dell’esatto contrario.

La prima pagina de La Stampa

In una lettera indirizzata al quotidiano La Stampa, il professore Angelo d’Orsi, storica firma passata del giornale, ha scritto che “tutta l’impaginazione, dai titoli dei commenti tutti a senso unico, fino al pezzo che vorrebbe essere sarcastico su Luciano Canfora, e che fa ridere solo chi l’ha scritto, è a dir poco inquietante”. Nel frattempo, l’attuale direttore de La Stampa, Massimo Giannini ha affermato durante un intervento a La7 che: «Come giornale, la scelta è stata sin dall’inizio dare le immagini, anche quelle più crude, perché l’orrore della guerra non va nascosto ma esibito», ribadendo come, sulla prima pagina appena pubblicata, non veda il motivo della sussistenza di una polemica «non avendo attribuito la carneficina né ai russi né agli ucraini». Quindi non si tratta di un errore, ma di una scelta consapevole del giornale. Il titolo generico “il massacro” non indica responsabilità precise e questo secondo Giannini basta a renderlo un generico messaggio sull'”orrore della guerra”. Peccato che tutti i titoli attorno alla fotografia parlino dell’orrore della guerra a senso unico, finendo per incorniciare l’immagine utilizzata in una interprezione che indirizza il lettore a credere che si tratti di un massacro subito dai civili ucraini. Non è tecnicamente una fake news, ma forse è peggio, perché in buona sostanza è una frode ragionata nei confronti dei lettori.

Ciò che fa riflettere è che quanto accaduto sulla prima pagina de La Stampa non sia un caso isolato, ma soltanto un anello nella lunga catena di disinformazione che sta caratterizzando l’Italia. Si ricordano, ad esempio, le sequenze di un videogioco spacciate per un attacco missilistico ai danni di Kiev andate in onde sul Tg2 e riprese dal Tg1, o la notizia della distruzione, nella capitale, del memoriale della shoah, riportata da diverse testate in Italia e rivelatasi poi falsa: tutti segni dello stato attuale in cui riversa il giornalismo in Italia.

[Di Salvatore Toscano]

Russia: stretta sui VPN

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Secondo Interfax, il Cremlino è intenzionato a proseguire a oltranza con la stretta ai software e le estensioni VPN, i quali hanno visto a inizio marzo un aumento dei download del 1.500%, in Russia, in concomitanza al divieto di accesso ad alcuni social media e all’approvazione della legge riguardante le “fake news” legate alla guerra. I software e le estensioni VPN sono in grado di simulare IP nei device informatici. In altre parole, è possibile usarli per “fingere” che il proprio computer in un’altra nazione, cosa utile per circumnavigare le censure di Stato.

Italia, la Camera approva l’aumento delle spese militari

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Ieri 16 marzo la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno (O.d.G.) relativo al cosiddetto “Decreto Ucraina”, impegnando il Governo ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso la soglia del 2% del Prodotto lnterno Lordo (PIL). Il documento, avanzato dalla Lega e sottoscritto da diversi deputati del Pd, Forza Italia, Italia viva, M5S e Fratelli d’Italia, è stato approvato con larga maggioranza, registrando ben 391 voti favorevoli su un totale di 421 presenti, tra cui 19 contrari.

Evoluzione %PIL destinato alla Difesa (media Ue), fonte The World Bank

Secondo il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, la direzione presa implicherà un “passaggio graduale” dai circa 25 miliardi di euro l’anno attuali (68 milioni al giorno) destinati al settore ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno). Attualmente, infatti, l’Italia destina l’1,4% del proprio PIL alla Difesa, in linea con la media europea e un andamento decrescente avviato con il secondo dopoguerra, quando i Paesi membri hanno iniziato un lento processo che li ha portati dal 1960 a destinare non più il 4% del proprio PIL al settore, bensì l’1,5% (2020). Questa tendenza, però, era stata messa in discussione già dall’indicazione di spesa di almeno il 2% del PIL in ambito NATO, derivante prima da un accordo informale del 2006 dei ministri della Difesa dei Paesi membri dell’Alleanza e confermato poi al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles, quando la soglia venne concordata come obiettivo da raggiungere entro il 2024. Tuttavia, queste indicazioni non sono mai state ratificate dal Parlamento italiano e quindi non costituiscono un obbligo vincolante per il Bilancio dello Stato.

Percentuale del PIL che i Paesi Ue destinano alla Difesa

Nel 2020 la percentuale del PIL che l’Estonia spendeva per la propria difesa era la più alta dell’Unione (2,5%), rappresentando una sorta di “anomalia” all’interno del sistema. Tuttavia, dalla recente invasione russa ai danni dell’Ucraina, diversi Paesi hanno manifestato la volontà di seguire questa direzione. A fine febbraio il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato la creazione di un nuovo fondo per la Difesa da 100 miliardi di euro e l’intenzione di aumentare rapidamente le proprie spese per il settore, arrivando dall’attuale 1,53% del PIL alla soglia del 2%.

[Di Salvatore Toscano]

L’ISIS esiste ancora e si è dato un nuovo capo

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Combattenti ISIS

Con una dichiarazione rilasciata il 10 marzo, il gruppo terroristico dello Stato Islamico (ISIS) ha confermato la morte del suo leader, Abu Ibrahim Al-Qurashi, che gli Stati Uniti avevano detto di aver ucciso a febbraio con un attacco in Siria. Contemporaneamente, l’ISIS ha fatto sapere di aver eletto un nuovo capo. Si tratta di Abu Hasan Al-Hashemi Al-Qurashi a cui, secondo la testata The New Arab, i militanti gli hanno promesso fedeltà. Di lui non sappiamo molto altro se non il nome. Lo Stato Islamico ha fornito poche informazioni che possano aiutare a ricostruire un suo identikit, e non è neppure stata rilasciata alcuna immagine che possa essere utile alle ricerche. Tenere segrete molte di queste informazioni serve infatti a preservare la vita stessa del leader, visto che entrambi i suoi predecessori sono stati uccisi dall’esercito americano nel Nord-ovest della Siria. Gli ex capi avevano infatti provato a nascondersi in quella zona per rimanere fuori dalla circolazione, comunicando con il resto del gruppo attraverso informatori e corrieri di fiducia, ma qualcosa è andato storto.

Era stato Joe Biden, il 3 febbraio scorso, a comunicare che le forze speciali statunitensi avevano effettuato un raid antiterrorismo uccidendo Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi. In realtà, per sfuggire alla cattura, il capo dell’ISIS si è fatto esplodere, uccidendo anche membri della sua famiglia tra cui donne e bambini. La stessa sorte era toccata anche al precedente leader, Abu Bakr al-Baghdadi, morto nel 2019 dopo essersi fatto saltare in aria con la propria parentela.

Anche se in Occidente negli ultimi tempi non si è parlato molto di ISIS, il gruppo continua ancora ad operare. Lo storia dello Stato Islamico si fonda sui resti di al Qaeda in Iraq, una propaggine locale fondata da Abu Musab al Zarqawi nel 2004, svanita poi per diversi anni dopo l’ondata di truppe statunitensi in Iraq nel 2007. Ma ha cominciato a riemergere nel 2011. Dopo quegli anni infatti, l’ISIS ha approfittato della crescente instabilità in Iraq e in Siria per effettuare attacchi e rafforzarsi. Lo Stato Islamico continua operare attivamente soprattutto in Medio Oriente, in particolare nelle zone rurali dell’Iraq e della Siria. Nonostante questo, il gruppo non ha un vero e proprio controllo del territorio. Sono lontani quei tempi in cui, al suo apice, l’ISIS deteneva circa un terzo della Siria e il 40% dell’Iraq. Già nel dicembre 2017 aveva perso circa il 95% del suo territorio, comprese le sue due proprietà più grandi: tra queste Mosul, la seconda città più grande dell’Iraq, e la città siriana di Raqqa.

Il gruppo terroristico è meno attivo in Nord Africa, ad eccezione della penisola del Sinai. Ma anche qui non amministra un territorio, ma persegue una debole insurrezione nella speranza di sfinire il nemico e, infine, prendere il controllo e ricostituire lo stato a cui ambisce. Delle tre grandi aree sopra citate, l’Iraq è ancora il teatro più attivo dell’operato delll’ISIS, con attacchi che includono aggressioni, imboscate, attentati sul ciglio della strada, attentati suicidi, omicidi, rapimenti e atti di sabotaggio. In linea generale l’operato del gruppo è diminuito negli ultimi anni, ma questo non significa che qualcosa stia cambiando, o che niente possa tornare come prima. Secondo i recenti rapporti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e del Dipartimento della Difesa, ci sono ancora circa 10.000 combattenti dello Stato Islamico tra Iraq e Siria che, seppur subendo delle sconfitte, non sono mai stati sradicati del tutto dall’organizzazione.

[di Gloria Ferrari]

Tragedia ponte Morandi: Autostrade per l’Italia sceglie il patteggiamento

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Autostrade per l’Italia (Aspi) ha chiesto martedì 15 marzo il patteggiamento nel corso del processo iniziato in seguito al crollo del ponte Morandi, nel quale persero la vita 43 persone. La richiesta è stata avanzata durante l’udienza preliminare del processo e il suo accoglimento, che dovrà avvenire da parte della GUP (giudice dell’udienza preliminare) Paola Faggioni, dovrebbe essere una mera formalità, dato che ha già raccolto il parere favorevole della Procura di Genova, rappresentante l’accusa. In questo modo, Autostrade per l’Italia, indagata per responsabilità amministrativa, concluderà anticipatamente il processo, versando nelle casse dello Stato circa 30 milioni di euro. Si tratta di una cifra corrispondente a quanto Aspi avrebbe dovuto spendere per eseguire le opere di manutenzione dei piloni 9 e 10 del ponte, che invece cedettero il 14 agosto del 2018.

Il procuratore di Genova ha spiegato i motivi alla base del parere favorevole nei confronti del patteggiamento chiesto da Aspi, affermando che la società «ha adottato un nuovo modello di organizzazione, di gestione e di controllo che può prevenire reati analoghi, ha modificato il documento per la valutazione dei rischi, ha risarcito in modo pressoché integrale le vittime e ha messo a disposizione dello Stato questa somma che è l’equivalente di quanto avrebbero speso se avessero fatto i lavori per evitare il disastro, quelli alle pile 9 e 10 del ponte». Il tutto diventa più chiaro, e intuibile, se si considera il cambio di proprietà di Aspi avvenuto negli scorsi mesi a favore dello Stato. Dopo il crollo del ponte Morandi, il Governo Conte I annunciò l’intenzione di revocare la concessione alla società, ma a quella revoca non si è mai arrivati. Si è optato, infatti, per una “soluzione di mercato“, con il passaggio dell’88% di Autostrade per l’Italia detenuto da Atlantia (una holding posseduta al 30% dalla famiglia Benetton) a una cordata guidata da Cassa Depositi e Prestiti (CDP), società finanziaria controllata per l’83% dal ministero dell’Economia. L’operazione di acquisto ammonta a circa 8 miliardi di euro, di cui 2,5 versati direttamente alla famiglia Benetton.

Dunque si intuisce anche il motivo per cui, con il patteggiamento, Autostrade per l’Italia non subirà misure interdittive, che le avrebbero vietato, ad esempio, di contrattare in futuro con la Pubblica amministrazione. Per quanto riguarda invece gli altri indagati, 59 in tutto, la GUP si esprimerà a breve, decidendo per il rinvio a giudizio o meno. Gli imputati, tra cui diversi dirigenti della società, sono accusati di omicidio colposo plurimo, omicidio stradale, disastro colposo, crollo doloso, rimozione dolosa di dispositivi di sicurezza, falso, omissione d’atti d’ufficio e attentato alla sicurezza dei trasporti.

[Di Salvatore Toscano]

Italia: inflazione al 5.7%

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Secondo l’ultimo comunicato dell’ISTAT, nel mese di febbraio 2022 l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, ha registrato un aumento dello 0,9% rispetto al mese precedente e del 5,7% rispetto allo stesso periodo del 2021. Quindi, per l’ottavo mese consecutivo l’inflazione accelera, raggiungendo un livello (+5,7%) che non si registrava da novembre 1995. A spingere in alto la crescita sono i prezzi dei beni energetici non regolamentati.

Nigeria, esplode oleodotto Eni: è il secondo incidente in pochi giorni

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Nel sud della Nigeria, un oleodotto gestito da Eni è esploso provocando una vasta fuoriuscita di greggio. L’incidente ha interessato il sito di Nembe della joint venture locale Nigerian Agip Oil Company. I pozzi collegati all’impianto sono stati immediatamente chiusi e sono stati messi in atto i sistemi di contenimento. Sull’esplosione non sono stati forniti ulteriori dettagli, ma certo è che si tratta del secondo incidente avvenuto nel giro di pochi giorni. Un episodio simile è stato infatti registrato il 28 febbraio presso l’impianto di Obama. È stato così necessario interrompere temporaneamente il flusso delle esportazioni: quelle giornaliere, complessivamente, sono state ridotte di 30 mila barili. E per giustificare il calo nell’export petrolifero dalla Nigeria, sia Eni che Shell hanno fatto ricorso alla clausola di “causa di forza maggiore”. Nel mentre, i pescatori residenti nei villaggi limitrofi lamentano le conseguenze negative delle frequenti fuoriuscite di greggio nella zona. «Ogni volta che ciò avviene – ha denunciato Noel Ikonikumo, presidente di un sindacato locale di pescatori – le nostre reti e gli altri attrezzi da pesca si impregnano di petrolio e non possiamo più usarli perché l’odore allontana i pesci. Abbiamo scritto alle compagnie interessate perché ci ascoltino e ci aiutino, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta».

Quel che si sospetta – a detta del direttore della National Oil Spill Detection and Response Agency – è un atto di vandalismo. Sebbene forse, considerato il contesto, sia più idoneo chiamarlo atto di rivolta. Tra le multinazionali del petrolio e le comunità locali – in Nigeria così come in altri Paesi notoriamente sfruttati per fini estrattivi – non corre buon sangue. Un conflitto impari che va avanti ormai da oltre 80 anni dove a rimetterci sono l’ambiente e l’economia di sussistenza delle popolazioni in via di sviluppo. Ma è proprio facendo leva sulla promessa di portare ricchezza che i colossi fossili si sono insediati nel Continente africano ma, dopo quasi un secolo, quel che emerge è solo speculazione ed inquinamento. Tra tutte, l’area del Delta del Niger è quella più martoriata, da quando, nel 1956, vennero scoperti i primi giacimenti. In prima linea nello sfruttamento della zona, la Shell, che controlla circa la metà del sito, seguita da Total, Chevron ed Eni. Un territorio un tempo incontaminato, ora letteralmente colonizzato, sull’onda della corruzione, dai giganti petroliferi.

Le perdite di greggio, causate da centinaia di chilometri di tubature vecchie ed usurate, sono all’ordine del giorno. Ad oggi, sono oltre 36 mila i km² di aree naturali invasi dal petrolio. Così, secondo un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, le popolazioni locali utilizzano quotidianamente acqua proveniente da pozzi contaminati dal benzene, i cui i livelli di tossicità sono 900 volte superiori alle soglie di sicurezza fissate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Discorso analogo per l’aria. Questa è contaminata dai gas, prodotti di scarto delle estrazioni petrolifere, che dal 1985 vengono bruciati a cielo aperto per rendere l’estrazione del petrolio molto più veloce ed economica. Negli ultimi anni, però, qualcosa sta cambiando. La Shell, ad esempio, è stata già condannata a risarcire le comunità devastate, mentre lo stesso governo nigeriano ha ritirato ad Eni una grossa licenza petrolifera per sospetta corruzione. Questo non porrà di certo fine ad ogni sfruttamento e non ripristinerà le terre distrutte, ma almeno si spera che le pressioni internazionali ed una maggiore attenzione per l’ambiente guidino un significativo cambio di rotta in Africa come altrove.

[di Simone Valeri]

 

Giappone: terremoto di magnitudo 7.3

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Oggi mercoledì 16 marzo una forte scossa di terremoto di magnitudo 7.3 ha colpito il Giappone alle 23:36 locali (15:36 italiane). Le prime analisi hanno individuato l’epicentro in mare, davanti alla costa della prefettura di Fukushima, a una profondità di 60 km. Si tratta della stessa zona in cui un terremoto nel 2011 provocò un violento tsunami e il noto disastro nucleare. Attualmente non si hanno ancora notizie certe circa i danni della scossa. Nel frattempo, le autorità hanno diramato l’allerta tsunami.

In Corsica non si ferma la rivolta degli indipendentisti

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In Corsica va avanti da ormai due settimane una violenta rivolta nei confronti delle istituzioni francesi, alimentata da un mai assopito spirito separatista all’interno della regione. Le proteste corse sono una conseguenza di quanto avvenuto il 2 marzo scorso all’interno della prigione di Arles, quando l’indipendentista Yvan Colonna sarebbe stato aggredito da un altro detenuto finendo, dopo otto minuti di strangolamento, in coma. Questa ricostruzione non ha però convinto la popolazione, che così è scesa in strada per manifestare il proprio dissenso, accusando Parigi di essere responsabile del tentativo di omicidio del simbolo del movimento indipendentista.

A Calvi, in centinaia si sono riuniti nei pressi della sottoprefettura, lanciando diverse molotov sull’istituto, mentre ad Ajaccio un gruppo di manifestanti ha cercato di entrare nel Palazzo di Giustizia, provocando un incendio al suo interno. Domenica 13 marzo la protesta a Bastia è sfociata in “guerriglia urbana”, con tanto di lancio di molotov verso la prefettura e un bilancio di 67 feriti, tra cui 44 agenti delle forze dell’ordine. Per cercare una soluzione agli scontri, il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, si è recato questa settimana in Corsica, con l’obiettivo di, si legge in una nota, “aprire un ciclo di discussioni con i rappresentanti e le forze vive dell’isola”, provando così a dare risposta alle “richieste dei rappresentanti corsi sul futuro istituzionale, economico, sociale o culturale” della regione, soprattutto “a quelle del presidente del Consiglio esecutivo, Gilles Simeoni”, un ex indipendentista eletto rappresentante dell’isola che chiede lo statuto speciale autonomo. Intanto, su Twitter il collettivo separatista Ghjuventù Libera ha sottolineato, in vista della manifestazione di Bastia, le rivendicazioni dei manifestanti: verità sul tentato assassinio di Colonna, il rilascio di tutti i prigionieri politici e l’avvio di un processo di riconoscimento del popolo corso, affermando che le proteste continueranno fino al loro ottenimento.

[Di Salvatore Toscano]