Il Parlamento europeo ha adottato il regolamento per il ciclo di vita sostenibile delle batterie. Questo con 584 voti favorevoli, 67 contrari e 40 astensioni, abroga la direttiva risalente al 2006 e modifica il regolamento del 2019 (2019/1020). Nel testo di legge sono fissati obiettivi e tassi di raccolta delle batterie più rigorosi, e nuove norme finalizzate ad aumentarne la sostenibilità. Il prossimo passo sarà la negoziazione con i singoli governi dell’Unione Europea.
In cosa consiste il regolamento? Prima di tutto la normativa sostiene l’introduzione dell’obbligo di diligenza per i produttori, al fine di scongiurare il mancato rispetto dei criteri di natura sociale. Stando ai deputati europei, l’industria dovrebbe garantire maggior rispetto dei diritti umani, tenendo in considerazione i rischi relativi all’approvvigionamento, alla lavorazione e al commercio delle materie prime concentrate solo in pochi Paesi. Altro punto importante del testo è dedicato alla sostenibilità, la quale dovrà riguardare tutto il ciclo di vita della batteria. Il Parlamento Europeo, infatti, stabilisce requisiti più rigorosi in materia di sostenibilità, prestazioni ed etichettatura, introducendo la categoria “batterie per mezzi di trasporto leggeri (LMT)” – quali scooter e bici elettriche – a causa del loro crescente utilizzo, e stabilendo che le batterie vengano dotate di un’etichetta indicante la propria impronta di carbonio. Questo indicatore servirà a rendere più trasparente l’impatto ambientale di ogni dispositivo.
Altra questione affrontata dal testo di legge è lo smaltimento, il quale dovrà incentivare il riciclaggio e l’utilizzo delle tecnologie per promuovere il riuso delle batterie. Entro il 2024, le batterie portatili (smartphone) e quelle per i LMT, dovranno essere progettate in modo da poter essere sostituite facilmente e in sicurezza. Inoltre, a tal proposito, l’Europarlamento ha stabilito i livelli minimi di materie prime – litio, piombo, nichel, cobalto – da recuperare dalle batterienon più funzionanti per utilizzarle in quelle nuove.
Per la prima volta nella legislazione europea, il regolamento sulle batterie stabilisce un insieme olistico di regole con l’intento di controllare l’intero ciclo di vita del prodotto. Si tratta di un approccio innovativo, che introduce nuovi standard di sostenibilità nell’intero mercato globale delle batterie, dispositivi importantissimi per la tecnologia. Si stima non solo che entro il 2030 la domanda globale di batterie aumenterà di 15 volte rispetto al 2021, ma anche che il fabbisogno per l’Unione Europea rappresenterà il 17% della domanda totale. Tale fenomeno è da considerare una conseguenza dell’ascesa dell’economia digitale, dello sviluppo delle energie rinnovabili e del crescente aumento di veicoli elettrici alimentati a batteria.
In virtù dell’aumento del prezzo di gas, energia elettrica e carburanti la Procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine. Al momento si tratterebbe di un semplice procedimento contro ignoti e senza ipotesi di reato atto a verificare i motivi di tale aumento nonché ad individuare eventuali responsabili, ed i relativi accertamenti sarebbero stati affidati al nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Roma. L’apertura dell’inchiesta arriva in seguito alle parole del ministro della Transizione ecologica Cingolani, che negli scorsi giorni aveva definito la crescita dei prezzi una «colossale truffa».
L’Arabia Saudita ha comunicato sabato di aver giustiziato 81 persone, condannate a morte per diversi crimini tra cui omicidio “di uomini, donne e bambini innocenti”, terrorismo e appartenenza a gruppi militanti come al-Qaida o a quello dei ribelli Houthi (presente in Yemen). Qui nello specifico una coalizione guidata dall’Arabia Saudita sta combattendo i ribelli yemeniti Houthi, sostenuti dall’Iran dal 2015, nel tentativo di riportare al potere il Governo locale riconosciuto a livello internazionale. In generale le uccisioni hanno riguardato 73 sauditi, sette yemeniti e un siriano. È una delle più grandi esecuzioni di massa nella storia moderna del paese, tutte avvenute in un giorno solo.
Il numero di giustiziati ha superato persino il bilancio di una storica esecuzione di massa avvenuta nel gennaio 1980, quando 63 militanti furono condannati per aver sequestrato la Grande Moschea della Mecca nel 1979, un attacco ritenuto gravissimo perché oltraggioso nei confronti del regno e di un luogo sacro all’islam. Dopo di allora, l’ultima esecuzione di massa era avvenuta nel gennaio 2016, quando il sovrano aveva deciso di giustiziare 47 persone, tra cui un importante religioso sciita dell’opposizione che aveva organizzato delle proteste anti governative.
L’ultimo episodio poi nel 2019, quando l’Arabia Saudita decapitò 37 cittadini per presunti crimini legati al terrorismo. In quell’occasione il sovrano decise anche di “appendere” a un palo in pubblica piazza il corpo senza vita (e senza testa) di un presunto estremista, come segno di avvertimento per gli altri.
Non è raro, dunque, che l’Arabia Saudita condanni a morte i propri cittadini. È più raro, invece, che scelga di farlo in una giornata sola, una scelta che secondo alcuni analisti può essere stata dettata dalla volontà di concentrare le esecuizione mentre l’attenzione mondiale è concentrata sulla guerra in Ucraina.
Anche se il numero delle condanne è diminuito durante la pandemia da Coronavirus, il re Salman (in carica da gennaio del 2015) e suo figlio Mohammed bin Salman (principe ereditario, Primo Vice Primo ministro e ministro della Difesa dell’Arabia) hanno continuato a concedere molte autorizzazioni. Secondo l’Agenzia di stampa governativa saudita, i sovrani avrebbero garantito che agli accusati “il diritto a un avvocato e tutti i pieni diritti della difesa, ma Il regno tuttavia continuerà ad assumere una posizione rigorosa e incrollabile contro il terrorismo e le ideologie estremiste”. Ovviamente le esecuzioni hanno suscitato immediate critiche internazionali. Ali Adubusi, il direttore dell’Organizzazione saudita europea per i diritti umani, ha aggiunto che i carcerati sono stati anche torturati prima della morte e costretti a subire processi svolti in segreto.
Secondo il principe è una questione religiosa, scritta nel Corano, per cui chi toglie la vita a qualcun altro merita lo stesso trattamento: «Indipendentemente dal fatto che mi piaccia o no, non ho il potere di cambiarlo». Non è esattamente così. L’editorialista del Washington Post, Jamal Khashoggi, della cui morte e smembramento è accusato proprio il principe Mohammed bin Salman, non aveva commesso alcun crimine. Anzi, si trovava in Arabia per supervisionare e raccontare degli attacchi aerei diretti allo Yemen e che hanno ucciso centinaia di civili. Come si giustifica il suo omicidio? Nella monarchia assoluta alleata degli Stati Uniti, la stessa che Matteo Renzi ebbe l’ardire di definire “culla del rinascimanto” i diritti umani continuano ad essere calpestati. Il tutto mentre il Governo italiano, con una decisione dello scorso luglio, ha pure deciso di allentare le restrizioni sulla vendita di armi al governo saudita.
In mattinata gli studenti del liceo artistico Brera di Milano hanno deciso di occupare la succursale dell’istituto, incontrando prima l’opposizione di una parte del personale scolastico e poi l’intervento della Digos. La protesta si inserisce nella scia delle mobilitazioni avvenute negli ultimi mesi contro il modello della scuola-azienda, l’alternanza scuola-lavoro, il definanziamento degli istituti e il mancato ascolto dei bisogni degli studenti da parte delle istituzioni competenti.
Il boom di estrazioni legali e illegali di oro nella regione amazzonica ecuadoriana ha causato l’inquinamento dei fiumi e dei bacini idrici, rendendo impossibile l’approvvigionamento di acqua e pesce per le comunità locali. I livelli di contaminazione da metalli tossici, tra i quali alluminio e piombo, superano del 500% i livelli consentiti. Le conseguenze sulla popolazione, in termini di capacità di sostentamento e impatto sulla salute, sono ingenti. Alcune recenti sentenze della Corte Costituzionale, tuttavia, sembrano muoversi nella giusta direzione per restituire il potere decisionale alle comunità e corrispondere un adeguato risarcimento per i danni subiti.
L’estrazione legale e illegale dell’oro, in Ecuador, ha causato danni ambientali cospicui che hanno impatto diretto sul benessere e sulla possibilità di sopravvivenza della popolazione indigena. L’alto livello di contaminazione dei corsi d’acqua dolce ha causato in alcuni punti la scomparsa di tutti gli organismi viventi, compresi quelli che possono tollerare un certo livello di inquinamento acquatico. Nella provincia di Napo, in particolare, sono 1500 le comunità indigene la cui esistenza è minacciata dall’estrazione indiscriminata. Secondo le rilevazioni fatte da alcuni studiosi, il livello di metalli tossici nei fiumi supera del 500% i limiti consentiti. Inoltre è stato registrato un’altissimo tasso di contaminazione da mercurio, che viene utilizzato per legare le scaglie di oro e viene poi disperso nei corsi d’acqua contribuendo anche alla decimazione della fauna selvatica.
Le riserve minerarie esistenti nella provincia di Napo sono facilmente raggiungibili, elemento che costituisce un fattore di attrazione per le grandi industrie estrattive. In aggiunta a ciò, secondo i ricercatori, vi è un certo grado di complicità dei grandi proprietari terrieri e delle autorità ambientali, che non eseguono i controlli necessari e in alcuni casi avvertono in anticipo le aziende delle ispezioni, dando così la possibilità di occultare le attività illegali. Carlos Mestanza-Ramón, ricercatore presso l’Università della Calabria e la Scuola Politecnica di Chimborazo, in Ecuador, ha dichiarato a Mongabayche il Ministero dell’Ambiente, dell’Acqua e della Transizione Ecologica non applica le misure necessarie alla tutela dell’ambiente e delle popolazioni locali.
Le politiche dell’ex presidente ecuadoriano Correa hanno favorito il boom di estrattivismo e investimenti stranieri nelle compagnie minerarie tra il 2015 e il 2016, mentre tra il 2019 e il 2022 un gran numero di concessioni minerarie sarebbero state rilasciate senza tenere in considerazione i progetti già esistenti. A fungere da ulteriore incentivo per l’estrazione mineraria indiscriminata, in un meccanismo che si accartoccia sempre più su sé stesso, vi sono le scarse possibilità per la popolazione locale di ottenere un lavoro ben retribuito, accesso all’assistenza sanitaria o all’istruzione di base. Le possibilità, d’altronde, sono decimate dall’attività delle industrie di estrazione, che deturpando e inquinando l’ambiente impattano direttamente sull’agricoltura e sul turismo.
Tuttavia, tra l’autunno del 2021 e l’inizio del 2022, gli indigeni hanno ottenuto una serie di vittorie legali che aprono uno spiraglio di speranza per il futuro delle comunità, che il più delle volte subiscono la deturpazione dei loro territori senza che sia rispettato il loro diritto al consenso libero, preventivo e informato. La Corte Costituzionale, in particolare, ha emesso due sentenze importanti, una che riconosce la violazione dei diritti della natura nella foresta nebulosa di Los Cedros, in conseguenza della quale non sarà più possibile concedere permessi minerari alle imprese di estrazione ed è stato disposto il risarcimento delle comunità. L’altra, annunciata il 4 febbraio, è volta a garantire il diritto delle comunità indigene ad avere potere decisionale riguardo i progetti estrattivi nei loro territori. Iniziative che di certo non fermeranno l’avidità predatoria delle grandi aziende, ma che possono costituire un’importante strumento di tutela per le comunità locali.
Il Generale Figliuolo, commissario straordinario per l’emergenza Covid, si è opposto alla pubblicazione del contratto stipulato tra Italia e l’azienda farmaceutica Pfizer per la distribuzione di 600 mila trattamenti dell’antivirale Paxlovid per il 2022, stipulato il 27 gennaio. Il diniego segue una richiesta inoltrata dalla testata Altreconomia di fornire accesso civico alla documentazione. Si rende così evidente una nuova ingiustificata mancanza di trasparenza nei confronti dei cittadini, nonostante la produzione dei farmaci sia possibile grazie ad ingenti finanziamenti pubblici.
A suggellare la chiusura della stagione dell’emergenza Covid vi è una nuova mancanza di trasparenza da parte delle istituzioni e delle aziende farmaceutiche. Dopo la reticenza mostrata dalle Big Pharma nello svelare i contratti con gli Stati europei per i vaccini, le stesse difficoltà tornano a presentarsi per quanto riguarda i farmaci antivirali destinati al trattamento del Covid. In una lettera firmata l’8 marzo, infatti, il commissario per l’emergenza Covid Francesco Paolo Figliuolo si è opposto alla divulgazione del contratto siglato il 27 gennaio dall’Italia con l’azienda farmaceutica Pfizer per la distribuzione nel 2022 di 600 mila trattamenti di Paxlovid.
“Non si provvederà a fornire copia del contratto per la fornitura del farmaco antivirale Paxlovid finalizzato dalla Struttura Commissariale, d’intesa con il Ministero della Salute, con la casa farmaceutica Pfizer” scrive Figliuolo nel documento fatto pervenire ad Altreconomia. Il commissario riporta anche uno stralcio dell’opposizione pervenuta da Pfizer, che adduce come scusante il fatto che il farmaco in questione sia “oggetto di tutela brevettuale” e contenga “numerose clausole che costituiscono segreti commerciali”, motivo per cui “il contratto è definito nella sua interezza confidenziale ed è soggetto a una specifica clausola di riservatezza che vincola le Parti a non divulgare a terzi il contenuto dell’accordo raggiunto”.
Si configura, così, l’ennesimo caso di mancanza di volontà di trasparenza da parte delle istituzioni e della casa farmaceutica, che non può non sollevare dubbi circa la legittimità del contenuto dei contratti.
Il Ministero della Difesa ucraino avrebbe iniziato ad utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale americana Clearview AI, ma “lo scopo esatto non è chiaro” afferma l’amministratore delegato dell’azienda Hoan Ton-That. Lo riporta Reuters, che spiega come l’ad di Clearview abbia offerto la propria assistenza all’Ucraina dopo l’invasione russa per identificare gli aggressori, combattere la disinformazione e identificare i morti. Il Ministero della Difesa ucraino non avrebbe risposto alle richieste di commento. Clearview ha diverse cause legali negli USA perché accusata di violare i diritti della privacy e alcuni Paesi, tra i quali Regno Unito e Australia, hanno dichiarato le sue pratiche illegali.
I venti di guerra che soffiano da est rendono sempre più concreto il rischio di una crisi alimentare e delle materie prime in Europa a seguito della chiusura dei porti ucraini e al blocco delle esportazioni. Mentre il panico e giochi speculativi degli investitori hanno portato all’impennata fuori controllo dei prezzi. Il punto è sostanziale per quei paesi come l’Italia (e tutta Europa in generale) che negli ultimi decenni hanno riposto nel cassetto ogni progetto di autosufficienza alimentare e industriale, il problema – ha detto ad esempio il presidente ci Cia-Agricoltori Dino Scavino – non è solo quello dei prezzi ma una potenziale «difficoltà di approvvigionamento per il nostro Paese di materie prime come il grano, il mais e il girasole con conseguenze drammatiche per le rispettive filiere».
Dalla Russia, infatti, l’Unione Europea non importa solo un quantitativo considerevole di gas naturale, pari al 40% del totale, ma anche una parte cospicua di materie prime fondamentali sia per il comparto agroalimentare che per quello tecnologico-industriale. Basti considerare che secondo le stime del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), la Russia è il primo esportatore di grano al mondo, mentre l’Ucraina è il quarto: insieme i due Paesi sono responsabili del 30% del commercio globale di grano, del 25% delle esportazioni di mais e dell’80% di quelle di olio di girasole. Ma a preoccupare è anche la questione dei fertilizzanti, indispensabili sia per la qualità che per la quantità dei raccolti agricoli: come risposta alle sanzioni imposte dalla UE, infatti, il Ministero del commercio e dell’industria russo ha raccomandato ai produttori di fertilizzanti del Paese di interrompere le esportazioni, come segnalato anche dalla Coldiretti. L’amministratore delegato di Consorzi Agrari d’Italia, Gianluca Lelli, ha sottolineato che «nel settore dei concimi, se si mettono insieme le produzioni di Russia e Bielorussia si arriva al 40% delle esportazioni mondiali di potassio e al 20% di quelle di ammoniaca». Ciò significa che sono a rischio le forniture strategiche per le economie occidentali non solo in campo agricolo, ma anche in quello industriale. La Russia, infatti, è un Paese ricchissimo di materie prime, minerali e metalli preziosi e possiede buone quantità di terre rare indispensabili per il settore industriale e per la produzione dei microchip.
La guerra commerciale intrapresa dalla UE contro il Cremlino, dunque, si sta già ritorcendo contro i Paesi sanzionatori, con il rapido aumento dei prezzi delle materie prime e del gas, mentre il Cremlino guarda sempre di più all’Asia per i suoi scambi commerciali, compensando così ampiamente la perdita dei mercati occidentali: ha infatti sottoscritto di recente un vantaggioso accordo con il Pakistan – importante mercato emergente con ben 224 milioni di abitanti – per l’esportazione di circa due milioni di tonnellate di grano, mentre la Cina ha allentato le restrizioni doganali sulle importazioni di grano e mais russo, palesando così il suo sostegno a Mosca. Al contrario, ad aggravare ulteriormente il quadro commerciale dei Paesi europei è intervenuta la decisione del Presidente russo lo scorso 8 marzo di firmare un divieto di import-export verso i Paesi ritenuti ostili, tra cui l’Italia, come risposta all’iniziativa degli Stati Uniti di interrompere gli acquisti di greggio. Per il nostro Paese, ciò significa impossibilità di approvvigionamento di intere categorie di beni con un effetto a catena sull’intera filiera industriale e agroalimentare.
È anche importante rilevare come la crisi ucraina – così come precedentemente quella da Covid-19 – abbia mostrato inequivocabilmente gli scompensi della globalizzazione, che ha comportato un’interdipendenza strategica tra le nazioni, con effetti negativi per quelle che – come l’Italia – hanno trasferito quasi tutta la loro produzione di beni e servizi essenziali all’estero: se, infatti, il sistema globalizzato aveva già rivelato i suoi squilibri in “tempi di pace”, ancora più evidente è la sua inadeguatezza in tempi di crisi, per cui interi Paesi paventano il rischio di rimanere con gli scaffali vuoti. Per questo, il consigliere delegato di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia, in un’intervista al Corriere della Sera ha affermato che «La globalizzazione che abbiamo idealizzato per anni è finita. Archiviamo da ora l’errata convinzione che l’Italia sia un giardino dove non si possa produrre più niente», aggiungendo poi che «le catene internazionali degli alimenti vanno completamente ridisegnate». Ci troviamo dunque di fronte al tramonto di un sistema – e di un’era – dipinto per anni come il miglior modello possibile di “progresso” e prosperità, con tutte le pesanti ripercussioni che questo comporta in termini economici e sociali per il Vecchio continente e in particolare per il Belpaese: quest’ultimo tra i più colpiti dal caro energetico e alimentare a causa dell’enorme dipendenza dall’estero. Per tale ragione, Scordamaglia – facendo eco al Presidente francese Macron – ha auspicato il ritorno alla sovranità alimentare, da sempre considerata dalla UE sinonimo di autarchia e anacronismo storico e che, invece, appare ora come l’unica reale contromisura ad una crisi alimentare ed economica annunciata.
Si tratta di un modello alimentare acclamato da tutti i nutrizionisti e medici del mondo. Nel 2010 è stata dichiarata, dall’UNESCO, patrimonio culturale immateriale dell’Umanità. La dieta Mediterranea è un modello nutrizionale ispirato, in origine, alla tradizione alimentare di Italia, Grecia, Spagna e Marocco; anche se nel novembre 2013 tale riconoscimento è stato esteso a Cipro, Croazia, e Portogallo. Questo modello nutrizionale è stato abbandonato nel periodo del boom economico degli anni sessanta e settanta perché ritenuto troppo povero e poco attraente rispetto ad altri modelli alimentari provenienti in particolare dalla ricca America. Tuttavia oggi, in Italia, le persone tendono a credere che la dieta Mediterranea sia quella degli italiani, che sia un patrimonio dell’umanità in quanto migliore modello alimentare al mondo, che sia quella che favorisce la longevità e che consente di rimanere in salute a lungo. Ma è proprio così?
La vera dieta mediterranea non la fa più nessuno
In realtà no. Una considerazione di base che permette di inquadrare l’argomento in maniera più oggettiva è che le persone tendono a pensare che chi vive sul Mediterraneo faccia la dieta Mediterranea. Questo è un errore di fondo. Gli studi ci dicono infatti, che la vera dieta Mediterranea oggi non la fa quasi più nessuno. In Italia la dieta prevalente è una tipica dieta occidentale: troppa pasta, troppo pane, troppi zuccheri, troppi tramezzini, troppi panini, troppa pizza, troppi dolci… Di mediterraneo in senso classico è rimasto molto poco perché le cose che dovrebbero essere consumate in prevalenza per potersi classificare dieta mediterranea in realtà sono: porzioni molto abbondanti di verdure di stagione, frutta di stagione, legumi, l’olio extravergine di oliva, il pesce come proteine in prevalenza, cereali al 100% integrali invece di quelli raffinati, il vino rosso (quest’ultimo in quantità moderate), il pane a lievitazione naturale, ampio uso di aglio, cipolla e erbe aromatiche, pochissimi dolci (il dessert tipico è la frutta), frutta secca e semi con regolarità, poco latte e latticini (con prevalenza di formaggio e yogurt, quindi latticini fermentati), poca carne preferibilmente bianca come il pollo, carne rossa (manzo, maiale) poche volte al mese, e infine le uova: da cinque a sette a settimana o anche di più.
Ciò che ne scaturisce è uno stile alimentare sano e preventivo, se per dieta mediterranea si intende quello che è stato appena elencato e che fa parte della vera (tradizionale) alimentazione dei popoli del mediterraneo. Peccato che in Italia oggi gli chef e i nutrizionisti “televisivi” continuino imperterriti a far credere alle persone che la dieta mediterranea sia mangiare ogni giorno (e più volte al giorno) brioche e biscotti a colazione, fette biscottate con marmellata, pane, pasta, crackers e massimo due uova a settimana; perché altrimenti si alza il colesterolo nel sangue. Falso mito questo sul consumo di uova fra l’altro, ormai ampiamente smentito dalle ricerche scientifiche più recenti che dimostrano come l’aumento eccessivo dei livelli di colesterolo nel sangue non sia dovuto ai cibi che contengono colesterolo, bensì ad uno squilibrio di regolazione causato dall’ormone leptina.
È sana quando inserita nel suo contesto originario
Il modello alimentare mediterraneo, sano e protettivo per la salute, che abbiamo appena descritto va inquadrato peraltro come un elemento che si accompagna ad un tipico stile di vita in cui vi era un elevato consumo calorico giornaliero dato dallo sforzo fisico, perché si trattava in prevalenza di persone che lavoravano nell’agricoltura e dunque che usavano il corpo costantemente. Questo legame non è qualcosa di opzionale. È invece inscindibile e ne determina la buona riuscita in termini di reali effetti di protezione per la salute e di prevenzione delle patologie. Infatti, come tutti gli altri modelli alimentari preventivi (ce ne sono altri anche in Asia, in Nord Europa ecc.), la caratteristica fondante è un ritrovato equilibrio tra introiti e consumi. Uso di proposito l’aggettivo “ritrovato” perché è evidente che si sia perso molto del modello originario del passato, e che oggi la società italiana sia passata da essere quella agricola e contadina di alcuni secoli fa ad una industriale, tecnologica e per questo molto più improntata alla sedentarietà. Gli antenati che popolavano le coste del Mediterraneo vivevano in una società agricola e non industriale. Lavoravano nei campi per molte ore al giorno, facevano lavori molto fisici e stancanti, bruciavano tantissime calorie. Il loro fabbisogno calorico giornaliero poteva arrivare anche a 4000-5000 Kcal, quelle che oggi brucia un atleta professionista negli sport di resistenza come un ciclista o un maratoneta. È normale che queste persone mangiassero anche quantità generose di cereali e pane, rimanendo in perfetta salute e magre. Il loro fabbisogno di carboidrati era altissimo e l’organismo richiedeva dei pasti con alta densità calorica ed energetica per poter affrontare il lavoro nei campi. Oggi al contrario, si vive in una società industriale e le persone hanno un fabbisogno calorico medio di 2400 Kcal. Per cui seguire una dieta incentrata sul consumo di pane e cereali ogni giorno e al contempo avere uno stile di vita sedentario, porta ad ingrassare e ad infiammazioni. In realtà si dovrebbe evitare di parlare di dieta come qualcosa di separato dall’attività fisica. La parola dieta, del resto, veniva intesa da greci e romani come stile di vita e abitudini quotidiane, quindi non solo alimentazione ma anche movimento.
La dieta perfetta non esiste fuori dal contesto di vita
Possibile che i nutrizionisti odierni siano così ignari riguardo a questo semplice gap culturale? Possibile che si continui imperterriti a dire che bisogna mangiare cereali tutti i giorni, e anzi si preparano le piramidi alimentari e le raccomandazioni nutrizionali alla popolazione affermando che il 55-60% del fabbisogno calorico deve provenire dai carboidrati (in Italia quando si dice carboidrati si intende sostanzialmente cereali: pane, pasta, pizza, dolci)? Ci trattano tutti, in pratica, come se fossimo dei maratoneti, ma così facendo spingono la popolazione ad una nutrizione errata e a fare un pieno di carboidrati che non verranno mai smaltiti, in sostanza. Questa è una grave colpa della classe medico-nutrizionista in Italia, una miopia quasi imperdonabile, che sembra quasi un fatto voluto, ricercato e di connivenza con l’industria alimentare, la quale spinge per la iperalimentazione e l’obesità delle persone, con la produzione sempre crescente di alimenti a forte densità di carboidrati e di calorie. Esistono anche ipotesi di complotto, tra la classe medico-nutrizionista e il sistema di profitto farmaceutico, che si basa sui guadagni derivanti dalla vendita di farmaci anti-diabete, anti-colesterolo, anti-obesità. Personalmente non posso escludere che diversi illustri membri delle Commissioni preposte alle Linee Guida per l’alimentazione della popolazione italiana abbiano dei legami e interessi che si incrociano con quelli dei grandi pastifici italiani e dell’industria dolciaria italiana. Bisogna anche osservare tristemente come l’educazione alimentare e alla prevenzione sia ad un livello molto basso in Italia da sempre, sia in TV dove ogni giorno sfila il trionfo dello zucchero e della farina bianca in ogni programma sul cibo, sia presso gli ambulatori medici, le mense scolastiche, le mense ospedaliere. Non viene fornita alcuna educazione alimentare, anzi si insegna a mangiare tutto ciò che reca danno e abbatte la salute. Strano, non è vero? Una casalinga o un impiegato sedentario che seguano un regime alimentare basato sul 55-60% delle calorie dai carboidrati, come possono rimanere in salute? Lo poteva fare tranquillamente una massaia del 1800, che lavorava anche nei campi durante il giorno, ma non certamente la persona sedentaria di oggi.
L’isola di Creta e i veri seguaci della dieta Mediterranea
Il primo studioso a parlare di Dieta Mediterranea fu un medico e scienziato americano, tale Ancel Keys, che negli anni ’50 e ’70 del novecento studiò a fondo le abitudini alimentari di vari popoli del bacino del Mediterraneo, tra cui gli italiani (fece degli studi in Campania per la precisione) e gli abitanti dell’isola di Creta. Ancel Keys osservò nell’isola di Creta una dieta mediterranea molto specifica a base di cipolle, insalata, formaggio Feta, olive, yogurt greco, un po’ di pesce, pochissima carne. I cretesi mangiavano poco in generale e digiunavano spesso perché seguivano i digiuni rituali della Chiesa Ortodossa, infine conducevano uno stile di vita molto attivo e stavano molto all’aria aperta. Egli constatò che tra gli abitanti di Creta le malattie del cuore non erano affatto diffuse, le persone erano piuttosto in salute fino a tarda età. Questo ci spinge a fare una considerazione importante per noi oggi, e cioè che le abitudini alimentari dei popoli del Mediterraneo possono essere anche molto diverse a seconda dell’area geografica. Per esempio a Napoli Ancel Keys osservò che tra le classi popolari la dieta tipica era “a base di pasta variamente condita, insalate con una spruzzata di olio d’oliva, tutti i tipi di verdura di stagione e spesso formaggio, il tutto completato da frutta e in molti casi accompagnato da un bicchiere di vino”. Quindi a Creta si seguiva una dieta povera di carboidrati ma ricca di grassi, mentre a Napoli esattamente il contrario, ricca di carboidrati e povera di grassi. La validità di questi modelli alimentari era sempre legata allo stile di vita complessivo delle persone (movimento, digiuni ecc.). Anche la Sardegna ha offerto alla Scienza un modello alimentare collegato alla longevità. Quello sardo è uno dei vari gruppi di centenari presenti nel mondo: sono presenti anche in Giappone, in Sudamerica, negli USA e in altre regioni del pianeta. In Sardegna tuttavia, la percentuale di centenari è il triplo rispetto a quella di tutti i Paesi occidentali. Le persone longeve sarde mangiano carne e latticini tutta la vita ma si tratta di carni e derivati da animali salutari che non provengono dal circuito della Grande Distribuzione, bensì da filiere di allevamento ben diverse da quelle dell’allevamento intensivo e industriale tipico ad esempio della Pianura Padana.
Questo è un dato su cui sicuramente riflettere, anche perché in Sardegna i cibi animali vengono consumati regolarmente quasi tutti i giorni (soprattutto il latte e i formaggi) ma la salute media della popolazione sarda è molto buona. E i sardi sono una popolazione mediamente molto attiva e poco industrializzata, rispetto ad altre che vivono in Italia. O comunque possiamo applicare queste caratteristiche ai sardi del passato recente, i nostri nonni e bisnonni diciamo, che erano sicuramente molto attivi, lavoravano all’aperto nei campi e percorrevano distanze considerevoli anche a piedi durante la giornata, piuttosto che in auto o con altri mezzi di trasporto. Quindi ritorna ancora una volta la costante dello stile di vita nel complesso attivo e per nulla sedentario, oltre al modello alimentare. Napoletani, sardi e cretesi sono tutti esempi di modelli alimentari mediterranei, ma differenti e con specifiche caratteristiche per ognuno di essi. I cretesi avevano uno stile di vita tradizionale ben diverso da quello che si può considerare tale in Italia al giorno d’oggi.
Non esiste una sola dieta mediterrana
Anche tra italiani del sud e del nord, ritroviamo altre abitudini culinarie differenti. Facciamo alcuni esempi: la pasta col pomodoro, quanto è tradizionale come piatto in Italia? Il pomodoro è arrivato in Europa nel 16° secolo, dall’America, ma fu considerato a lungo un cibo velenoso e fu poco utilizzato. Durante i primi anni del ‘900, in Italia non si utilizzava il pomodoro, ne è prova il fatto che il celeberrimo ricettario-manuale di Pellegrino Artusi “La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”, che molti considerano la bibbia della cucina tradizionale italiana, menzioni il pomodoro soltanto 2 o 3 volte su centinaia di ricette. La pizza margherita fu inventata a Napoli nel 1889, ma alla fine dell’800 la maggior parte degli italiani non sapeva cosa fosse; e sempre nel manuale di Artusi, pubblicato nel 1891, della pizza non vi è traccia (il nome compare 3 volte ma si riferisce ad altre pietanze e non alla pizza napoletana). La parola pizza è entrata nel dizionario italiano solo nel 1915 e nel nord Italia non si è diffusa prima del secondo dopoguerra, quando arrivarono gli Alleati che risalendo l’Italia portarono aglio, olio d’oliva e pomodoro; che nell’Italia del nord non esistevano perché si usavano il burro, lo strutto e la cipolla. Anche l’olio d’oliva non era per niente diffuso nella cucina tradizionale del nord Italia di quel tempo. È evidente quindi come le tradizioni culinarie dei popoli del bacino del mediterraneo possano essere diverse tra loro. Non esiste un modello univoco di dieta Mediterranea.
In conclusione, sono vari i modelli di alimentazione tradizionale di tipo mediterraneo che si configurano come salutari. Tuttavia, i popoli mediterranei dei decenni passati mangiavano cibi integrali, mentre al giorno d’oggi si mangiano questi alimenti nella versione raffinata; lavoravano nei campi per molte ore, mentre ora è prevalente l’attività sedentaria. Insomma, non si può certo dire che la vera Dieta Mediterranea venga seguita, anche se molti ancora non se ne sono resi conto.
Nella città di Bastia, in Corsica, una manifestazione che ha coinvolto circa 7000 persone nel pomeriggio di domenica 13 febbraio è diventata violenta quando all’incirca 300 individui con cappucci hanno iniziato a lanciare molotov e altri oggetti contro la polizia e le istituzioni statali, dando anche alle fiamme un ufficio delle imposte. Negli scontri sarebbero state ferite 38 persone, delle quali 24 poliziotti. Le proteste seguono l’aggressione nel carcere di Arles dell’indipendentista Yvan Colonna, strangolato dal compagno di cella il 2 marzo e ora in coma. Il ministro dell’Interno francese Darmanin ha dichiarato che si recherà in Corsica questa settimana per tenere colloqui con i funzionari locali.
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