venerdì 28 Novembre 2025
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Escherichia coli, ammonio e glifosato: le preoccupanti condizioni del Tevere

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Escherichia coli ed ammonio, nonché tracce di glifosato, sono stati trovati all’interno delle acque del fiume Tevere, che versa in condizioni preoccupanti: è quanto emerso da un rapporto basato sulle analisi condotte – con il coordinamento scientifico dell’ecologa fluviale Bruna Gumiero – dall’Associazione A Sud insieme a cittadine e cittadini di Roma ed al Coordinamento Romano Acqua Pubblica. Il dossier, intitolato “Giù al Tevere: monitoraggio civico ambientale partecipato a Roma”, sottolinea che i valori di ammonio e del noto batterio fecale Escherichia coli siano molto elevati, ma che a preoccupare sia certamente anche la presenza del glifosato, un erbicida che la Fondazione per la ricerca sul cancro (AIRC) classifica come probabile cancerogeno.

Dal rapporto, frutto di un un anno di lavoro in cui è stato monitorato mensilmente il fiume in 8 postazioni piazzate da Roma nord a Roma sud, è emerso nello specifico che nel 79,8% dei campioni la concentrazione di Escherichia coli fosse al di sopra del limite per l’idoneità alla balneazione dei corsi d’acqua dolci. Inoltre, come anticipato, i valori di ammonio sono risultati essere “generalmente molto elevati” anche se, si legge nel report, “in considerazione del fatto che è stato usato un kit da campo di cui non si conosce ancora l’affidabilità si ritiene necessario proseguire questo campionamento con uno strumento di maggior precisione prima di fare affermazioni che potrebbero non essere del tutto corrette”. Infine, per quanto riguarda il glifosato, non solo la sua presenza e quella del suo metabolita AMPA è stata “rilevata in alcune circostanze”, ma in un caso essi sono stati “trovati in quantità molto rilevanti”. “Il 21 giugno 2021 sono stati registrati valori molto elevati di glifosato ed AMPA”, si legge infatti nel dossier, nel quale si precisa però altresì che essi dovranno essere ulteriormente verificati poiché “dopo solo un mese dal campionamento hanno subito una riduzione di 1 su 1000”.

Ad ogni modo, si tratta comunque di dati che preoccupano in quanto, come sottolineato all’interno del report, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) “l’inquinamento dell’acqua è un aspetto ambientale determinante per la salute umana, assieme all’inquinamento atmosferico o ai cambiamenti climatici e, insieme a questi ultimi ed alla perdita di biodiversità, è da considerarsi la terza emergenza planetaria”. Proprio a tal proposito, infine, non si può non ricordare che – stando alle ultime evidenze scientifiche emerse in Italia – nel nostro Paese il problema dell’inquinamento dell’acqua è ampiamente presente. Non solo infatti, come sottolineato da tale rapporto, il fiume Tevere risulta essere inquinato, ma come rilevato da un recente studio anche i fiumi lombardi sono letteralmente avvelenati a causa della elevata presenza di glifosato, la cui concentrazione nelle acque in alcuni casi supera di 8 volte il limite previsto dalla legge.

[di Raffaele De Luca]

Gli Stati Uniti annunciano nuove sanzioni contro la Russia

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Gli Stati Uniti hanno annunciato l’imposizione di nuove sanzioni contro la Russia, con le quali saranno presi di mira precisamente 328 membri della Duma russa, 48 aziende della difesa ed il numero uno della banca di Stato Sberbank, Herman Gref. A renderlo noto è stato il Dipartimento del tesoro Usa, che tramite una nota ha definito la guerra in Ucraina illegale ed ingiustificata. «Gli Stati Uniti, con i partner e gli alleati, stanno colpendo al cuore la capacità della Russia di portare a termine la sua guerra contro l’Ucraina», ha inoltre affermato la segretaria al Tesoro, Janet Yellen, commentando la decisione di imporre tali sanzioni.

L’attenzione ai profughi ucraini e il razzismo mediatico della guerra

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A quasi un mese di distanza dal suo inizio, il 24 febbraio, la guerra in Ucraina ha ricevuto una copertura mediatica straordinariamente vasta, divenendo l'evento più coperto da tutte le testate giornalistiche principali. Spesso e volentieri questa attenzione si trasforma in un resoconto di dettagli delle vite personali delle vittime che non esaurisce affatto uno scopo giornalistico, quanto più una sorta di voyeurismo ossessivo. Non si può certo affermare che un paragonabile livello di attenzione sia dedicato alle restanti guerre nel mondo, le quali spesso si svolgono nel silenzio assoluto dei ...

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Da futuro aeroporto ad area protetta, così il Messico salva il lago Texcoco

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Martedì scorso il lago di Texcoco, a Sud-Est della Valle del Messico, è stato dichiarato area naturale protetta. Durante la conferenza stampa del 22 marzo il presidente Andrés Manuel López Obrador ha dunque rispettato il risultato del referendum del 2018. Perché in un’area tanto importante dove sorge il più grande bacino di regolazione dell’acqua della Valle del Messico, l’intenzione era dare vita a un aeroporto internazionale. Un progetto devastante tanto per ragioni tecniche quanto ambientali. Grazie all’azione del Frente en Defensa de los Pueblos de la Tierra, quattro anni fa ha vinto “Yo prefiero el lago” (io preferisco il lago). Dal referendum sono partiti i lavori per fare del territorio interessato un luogo da salvaguardare e dalla recente conferenza, il Governo ha ufficialmente approvato la 184esima area protetta del Messico: Área de Protección de Recursos Naturales Lago de Texcoco.

Il progetto dell’aeroporto internazionale è quindi scemato in favore del rispetto e della preservazione di un luogo estremamente importante a livello ambientale. Non solo, ma i lavori porteranno alla costruzione di un grande parco naturale, da completarsi entro il 2023. Seguendo la tabella di marcia fissata, l’anno successivo lo spazio sarà aperto al pubblico. Lo scheletro del progetto prevede un giardino centrale, campi polivalenti, aree giochi, campi da basket, da baseball e da calcio e svariati altri spazi per il divertimento nel rispetto di un sito di grande valore. Uno spazio ecologico dove l’intenzione è che natura, cultura e infrastrutture possano coesistere. All’interno dell’Área de Protección de Recursos Naturales Lago de Texcoco sarà possibile svolgere svariate attività sempre nel rispetto dell’ambiente circostante. Dal ripristino ecologico al rimboschimento con specie autoctone, all’agricoltura e all’allevamento sostenibili fino all’ecoturismo. È stato inoltre stabilito che ogni attività potenzialmente minacciosa per l’ambiente naturale e gli ecosistemi faunistici, venga vietata.

Un passo importante, tra l’altro ufficializzato nella Giornata Mondiale dell’Acqua. Una data simbolo vista l’importanza dello specchio d’acqua anche come risorsa idrica. Il lago di Texcoco fornisce infatti fino a 43 milioni di metri cubi di acqua potabile agli oltre 15 milioni di abitanti dei 5 comuni lacustri e alla capitale, Città del Messico. Senza parlare della ricca biodiversità che caratterizza il territorio, dove vivono 678 specie tra flora e fauna. Uno spazio che accoglie alcune tra le specie più importanti del bacino della Valle del Messico e importante rifugio per gli uccelli acquatici migratori. L’area appena ufficializzata come protetta comprende ben 14mila ettari di territorio di cui quasi 11mila ettari sono zone federali, 2.971 ettari sono invece nuclei agrari di ejido e 369 ettari comprendono delle proprietà private.

[di Francesca Naima]

Ucraina, Unicef: da inizio guerra sfollato un bambino su due

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Da quando – lo scorso 24 febbraio – la Russia ha invaso l’Ucraina, la metà dei bambini ucraini è stata sfollata: è ciò che avrebbe affermato alla Cnn il portavoce del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), James Elder. «Uno su due ha dovuto abbandonare la propria casa», avrebbe infatti dichiarato Elder, aggiungendo che si tratterebbe di «una situazione mai vista prima» che sarebbe «quasi impossibile da affrontare».

24 marzo 1999: quando la NATO riportò la guerra in Europa

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Il 24 marzo del 1999 la NATO decise senza alcuna autorizzazione delle Nazioni Unite di avviare l’operazione “Allied Force”, una serie di bombardamenti sulla Repubblica di Jugoslavia che in 78 giorni provocarono morte e distruzione. In Serbia e in Kosovo, oltre agli obiettivi militari, vennero colpiti anche quelli civili: così caddero case, ospedali, scuole, edifici pubblici e culturali, lasciando un numero indefinito di vittime. Ancora oggi, a distanza di 23 anni, si parla soltanto di stime, con cifre che variano fra i 1200 e 2500 morti, non dimenticando gli oltre 12000 feriti che l’intervento NATO causò nella prima guerra combattuta in Europa dopo i due conflitti mondiali.

Jugoslavia

Per capire come si sia arrivati al 24 marzo del 1999 è necessario tornare indietro di qualche anno. Quando il 4 maggio del 1980 Josip Broz Tito, storico capo politico e militare jugoslavo, morì, lasciò il Paese con una struttura federale organizzata in sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Macedonia e Montenegro) e due province (Voivodina e Kosovo) legate alla Serbia. Nel 1991 sia la Slovenia sia la Croazia dichiararono la propria indipendenza. Nel primo caso si registrarono alcuni scontri fra le forze federali e le milizie locali, risolvendosi a favore delle seconde. Ben diverso fu il caso della Croazia, territorio caratterizzato da una forte presenza di serbi che portò Belgrado a organizzare delle milizie paramilitari per ostacolare l’indipendenza croata. Nel 1992 le ostilità si intensificarono, portando a frequenti episodi di violenza reciproca e alle prime uccisioni di civili nella regione. In poche settimane il conflitto si estese poi alla Bosnia-Erzegovina, che nel 1992 proclamò a sua volta l’indipendenza dalla Jugoslavia: anche in questo caso intervenne l’esercito federale, portando Sarajevo a diventare teatro di continui episodi di violenza. In tale contesto l’ONU, vista agli occhi dell’opinione pubblica come l’unica detentrice di una soluzione della crisi, intervenne creando una forza militare speciale delle Nazioni Unite, l’UNPROFOR, composta da militari di vari Paesi e dislocata prevalentemente in Bosnia con il compito, mai portato a termine, di creare aree protette a difesa della popolazione civile. 

Bill Clinton, Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1993 al 2001

I fallimenti dell’ONU, unitamente alla recente dissoluzione dell’URSS, accentuarono lo spirito “di risolutore” degli Stati Uniti, che nel 1994 intervennero “per ordinare il nuovo assetto internazionale sorto con la fine della guerra fredda”. Così, Washington iniziò a fornire un massiccio sostegno militare alla Croazia, che riprese a esercitare la piena sovranità sul proprio territorio, macchiandosi comunque di numerosi massacri nei confronti dei civili serbi. Contemporaneamente intervennero in Bosnia anche le forze aeree della NATO, scatenando una dura offensiva contro le unità militari della Repubblica serba di Bosnia, costituitasi qualche mese prima nella regione. La mobilitazione della NATO arrivò in un contesto in cui diversi attori politici iniziavano a interrogarsi circa le motivazioni del mantenimento dell’Alleanza, vista la dissoluzione dell’URSS. Così, già con i primi attacchi aerei alla Repubblica serba di Bosnia si iniziò a intuire la nuova natura della NATO, non più un’organizzazione esclusivamente difensiva, così come stabilito nel suo Statuto. Il 24 marzo 1999 i presentimenti divennero definitivamente concreti: l’Alleanza aveva scavalcato l’ONU per intervenire in uno Stato non-membro, il Kosovo, seguendo non una logica difensiva bensì volta all’attacco.

A fine XX secolo, la Jugoslavia era formata da Serbia e Kosovo. Fonte immagine: BBC

Il Kosovo era abitato in larga maggioranza da popolazione di etnia albanese, ma considerato dai serbi come “culla” della loro patria; i rapporti fra i serbi (ortodossi) e gli albanesi (in gran parte musulmani) erano risultati conflittuali sin dal periodo della disgregazione dell’impero ottomano, per poi degenerare a fine XX secolo, quando nel 1998 Belgrado negò l’autonomia al Kosovo, iniziando una lunga repressione che portò alla morte di diverse migliaia di kosovari. Così, in un contesto di tentativi di risoluzioni pacifiche avanzati dalla comunità internazionale, la NATO decise di risolvere la crisi jugoslava attraverso l’operazione “Allied Force”. I bombardamenti cessarono dopo 78 giorni, il 10 giugno del 1999, con l’accordo di Kumanovo che prevedeva il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo e il successivo dispiegamento di 37 mila soldati NATO nella regione.

Difendere i diritti umani dovrebbe rappresentare un caposaldo della democrazia. Tuttavia, come ha dimostrato l’intervento della NATO 23 anni fa, esso nasconde diversi problemi e coni d’ombra: dalle modalità con cui ciò avviene, generanti ulteriore distruzione e vittime civili, all’incertezza del diritto, dato che gli Statuti o comunque i documenti e le procedure vincolanti (ad esempio l’approvazione del Consiglio di Sicurezza ONU) perdono di valore, passando per quella che dovrebbe rappresentare una macchia indelebile nelle coscienze occidentali: la strategia del “due pesi due misure”, che non fa altro che discriminare le vittime e anteporre loro interessi geopolitici. Significativo appare oggi, alla luce dell’anniversario dell’Allied Force, rileggere l’articolo 1 dello Statuto della NATO: “Le parti si impegnano, come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite”.

[Di Salvatore Toscano]

Ciò che era emergenziale diventerà ordinario: Draghi tratteggia il green pass del futuro

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Mentre tutti sono stati catapultati sul fronte ucraino, ci sono manovre che sulla scia dell’emergenza Covid-19 si stanno compiendo e che andranno ad incidere profondamente sull’assetto sociale e antropologico del nostro Paese. La “guerra al virus” è mediaticamente sparita mentre si protraggono gli strascichi di misure restrittive che hanno diviso il paese tra chi è cittadino di prima classe e chi di seconda. Il Primo Ministro italiano, già manager Goldman Sachs e banchiere centrale d’Europa, Mario Draghi, durante la conferenza stampa in occasione della presentazione del Decreto riaperture, ha candidamente espresso quella che sarà la nuova normalità: ciò che era emergenziale diventerà ordinario. Il Ministro dell’innovazione tecnologica e della transizione digitale, Vittorio Colao, già CEO di Vodafone e nel Consiglio di amministrazione di Verizon, Unilever e General Atlantic, in audizione alla Commissione Affari costituzionali della Camera, ha invece prospettato il prossimo futuro digitale italiano. Le due esternazioni prese assieme danno il quadro del futuro imminente che ci aspetta.

Alla conferenza stampa in questione, Mario Draghi, con a fianco il Ministro della Salute Roberto Speranza, rispondendo alle domande del giornalista de Il Messaggero, Marco Conti, spiega che la struttura emergenziale sarà tramutata in struttura ordinaria. Infatti, cambiata la missione del generale Figliuolo e messo da parte il Comitato Tecnico Scientifico, l’apparato di sicurezza, controllo e gestione adottato durante l’emergenza pandemica rimarrà per sempre. In altre parole, una volta smussati gli angoli e gli spigoli (Figliuolo e il CTS) con la fine dello “stato di emergenza” tutto il resto sarà la nuova normalità. Il Primo Ministro Draghi risponde: «Uno degli scopi del provvedimento di oggi è proprio quello di non smantellare tutta la struttura esistente, anche perché noi siamo consapevoli del fatto che un’altra pandemia potrebbe rivelarsi importante anche tra qualche tempo, quindi vogliamo costruire una struttura permanente di preparazione a reagire a questi fenomeni; impegno che abbiamo preso in sede nazionale e internazionale». Poi Draghi aggiunge: «Gradualmente questa struttura perde i caratteri di emergenza e acquista quello di ordinarietà». Insomma, sebbene finisca il tempo emergenziale, gli strumenti dell’emergenza non saranno eliminati ma solamente messi nel cassetto. Evidentemente, a questo risponde il fatto che il Green Pass non venga abolito e cancellato ma solo sospeso, ovvero non più richiesto al momento, data la proroga di validità del medesimo strumento fino ad un totale di 3 anni.

Se alle parole di Draghi uniamo quelle pronunciate dal Ministro Colao, il quadro diviene più chiaro. Durante l’audizione alla Commissione Affari costituzionali della Camera, in cui il Ministro ha esposto i progressi del PNRR per quanto attiene al proprio ministero, Colao ha fatto affermazioni che fanno il paio con quelle pronunciate da Draghi. La disamina del Ministro è molto lunga e articolata ed espone i quattro pilastri su cui si basa l’azione del suo ministero per quanto concerne lo stato di avanzamento del PNRR, per cui dispone di circa 20 miliardi di euro. Il primo pilastro è la struttura della rete internet e la connessione veloce; in altre parole, stiamo parlando di rete 5G. Il secondo pilastro, quello di cui andremo a parlare, è quello della digitalizzazione dei servizi pubblici. Gli altri due pilastri che formano l’azione globale del ministero guidato da Colao riguardano le competenze e l’imprenditoria innovativa oltre che quelle spaziali, che entrambe hanno carattere interministeriale.

Il tema che qui riteniamo importante riguarda la digitalizzazione dei servizi pubblici. Lo strumento fondamentale per l’attuazione di questo è l’identità digitale che permetterà di accedere ad ogni servizio pubblico. L’intenzione del ministero, dice Colao, è quella di estendere l’identità digitale chiamata SPID anche ai minorenni, per poter usufruire dei servizi scolastici. L’identità digitale servirà per accedere ad ogni cosa e sarà implementata sempre di più il pagamento con valuta elettronica grazie allo strumento chiamato IDpay. Dove tutto questo voglia andare a parare lo capiamo perfettamente dalle parole pronunciate dal Ministro Colao: «Il grande tema è l’interoperabilità delle piattaforme digitali abilitanti che è molto importante per ampliare i servizi ma anche per renderne la fruizione semplice attraverso il così detto principio del One’s only, cioè il principio in cui il cittadino una sola volta deve mettere le proprie informazioni dentro il sistema e poi è lo Stato da solo che lo va a cercare e lo vede». E qui arriviamo al punto dolente. Colao aggiunge: «Questo è molto importante perché ci sono degli esempi recenti di grande benefico che abbiamo avuto da questo: il Green Pass è un grande esempio di interoperabilità, e che tra l’altro adesso sta facendo venire a mente tante altre possibili applicazioni meno drammatiche e meno di emergenza in cui si potrebbe creare un sistema che permette in maniera istantanea di conoscere lo “stato”, il “diritto”, di attivazione o di fruizione di un servizio».

Dunque, il Green Pass, strumento di discriminazione che istituisce cittadini di prima e di seconda classe, che non viene eliminato ma solo messo nel cassetto, viene considerato come strumento innovativo e come guida per il futuro sociale e pubblico di questo Paese. Un’identità digitale a cui tutte le nostre informazioni verranno collegate, quelle sanitarie, fiscali, economiche, giuridiche etc., permetterà – oppure no – di accedere ai servizi pubblici, dietro pagamento elettronico da effettuare con IDpay direttamente collegato all’identità digitale stessa. A questo punto, le possibilità che si tracciano sono molteplici. Cosa accadrà se un cittadino non avrà pagato una multa, o se il suo stato vaccinale non sarà ritenuto idoneo, o se in qualche altro modo avrà contravvenuto la norma? In fondo, come spiega lo stesso Colao, una volta che le informazioni ci sono si tratta solo di metterle insieme e, in base a quelle, decidere se il cittadino possa o meno accedere ad un servizio pubblico e/o ad un suo diritto. Oltre a questo c’è anche un serio pericolo di sicurezza dei dati e di rischio collegato a potenziali malfunzionamenti o manomissioni del sistema di gestione e controllo che potrebbero negare l’accesso anche a coloro che sarebbero in regola con le disposizioni del momento; per questo motivo sarà infatti istituita l’Agenzia Nazionale di Cybersecurity e l’istituzione del Polo Strategico Nazionale (PSN). Eppure lo stesso Colao conferma che buona parte dei nostri dati vagheranno nel Cloud commerciale, ovvero quello gestito e controllato dalle aziende private.

Qualcuno chiama tutto questo utopia e progresso, altri distopia e controllo. Quel che sembra certo è che se la retorica che si accompagna a tutto questo rimane Occidentale, il sistema sociale sembra subire una metamorfosi cinese. L’idea della cittadinanza a punti, del credito sociale, sembra pervadere sempre di più le menti italiane. Piccolo esempio pratico di questa mentalità cinese di Draghi & Co., accaduto in questi giorni, arriva dal Comune di Fidenza. Il piccolo Comune, che si trova nella Provincia di Parma, con l’adozione del sistema a punti per chi abita nelle case popolari sembra essere entrato nella provincia di Shanghai.

[di Michele Manfrin]

Birmania, indagine dimostra “crimini contro l’umanità” da parte dei militari

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Un’indagine condotta congiuntamente dal gruppo per la tutela dei diritti umani Fortify Rights e dal Centro Schell per i diritti umani internazionali della Yale Law School documenta le violenze e gli omicidi messi in atto in Birmania dai militari in seguito al colpo di stato del febbraio 2021. Il rapporto accusa la giunta della Birmania di “crimini contro l’umanità” e nomina almeno 61 funzionari che dovrebbero essere perseguiti per gli abusi, tra i quali il capo delle forze armate, leader del colpo di Stato, e il suo vice. Alcuni testimoni avrebbero riferito che uccidere gli oppositori fa parte della politica statale di terrore del governo militare.

L’Arabia Saudita sta facendo tremare il sistema del petrodollaro

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L’Arabia Saudita è in trattative avanzate con la Cina per la vendita di alcuni quantitativi di petrolio in yuan cinesi invece che in dollari USA, come riferito recentemente dal Wall Street Journal. Si tratta di un’iniziativa che – qualora si concretizzasse – potrebbe comportare lo sgretolamento del sistema del petrodollaro su cui si basa da più di mezzo secolo il sistema finanziario internazionale e il mercato delle materie prime, in seguito ad un accordo stipulato tra l’amministrazione Nixon e il Regno saudita nel 1973. Ciò avrebbe serie ripercussioni sull’impianto economico globale e su Washington che, in questo modo, perderebbe gran parte della sua centralità e del suo dominio con una progressiva de-dollarizzazione dell’economia mondiale. La Cina, infatti, è il più grande importatore di greggio al mondo, mentre l’Arabia Saudita è uno dei principali Paesi esportatori: secondo i dati dall’Amministrazione generale delle dogane della Cina, nel 2021 l’Arabia Saudita è stata il primo fornitore di greggio del colosso asiatico con una vendita di 1,76 milioni di barili al giorno, seguita dalla Russia con 1,6 milioni di barili al giorno. Se questi scambi dovessero avvenire in yuan, l’egemonia del dollaro come valuta di riferimento internazionale subirebbe un duro colpo: del resto, già la Russia – a causa delle sanzioni Occidentali – sta usando la moneta cinese come valuta di riserva per i suoi scambi commerciali con l’India.

La decisione dell’Arabia Saudita di fare a meno del dollaro negli scambi internazionali dipende dal deterioramento dei rapporti con il suo storico alleatogli USA – sotto l’amministrazione Biden, da imputarsi a diverse circostanze di natura diplomatica e geopolitica: innanzitutto, i sauditi non tollerano l’idea di un possibile accordo con l’Iran sul nucleare e, in secondo luogo, lamentano la mancata difesa militare da parte di Washington contro gli attacchi dei ribelli Houthi yemeniti. Oltre a ciò, i rapporti sono peggiorati da quando, nel 2020, Biden ha insultato il Regno saudita, definendolo uno “Stato paria”, per via dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, ostile alla Casa reale. Secondo l’intelligence USA l’uccisione sarebbe stata ordinata dal principe Mohammed bin Salman: per questo, lo stesso principe si rifiuta da giorni di rispondere al telefono al Presidente americano, il quale sollecita un aumento della produzione di petrolio. Al contrario, L’Arabia Saudita intende incrementare le sue relazioni col Dragone nella speranza di convincere Pechino a ridurre il suo sostegno all’Iran sciita, nemico dei sauditi.

Ma la volontà di rafforzare i legami economici e geopolitici con la Cina, adottando lo yuan come valuta di scambio, è anche da ricondurre al sistema di sanzioni messo in atto da Washington contro Mosca: Riyad, infatti – come del resto anche Pechino – vuole smarcarsi dall’orbita finanziaria statunitense per evitare che in futuro possa andare incontro allo stesso tipo di sanzioni, ma anche per allinearsi al nuovo polo economico emergente orientale: proprio il triangolo Russia-Cina-India segna del resto uno spostamento dell’asse dell’economia globale verso l’Asia a cui ha contribuito in modo determinante la crisi ucraina. Infatti, non solo molti Paesi asiatici – tra i quali proprio India e Cina – si sono astenuti sulla risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina approvata dall’ONU, ma hanno anche resistito alle pressioni che Washington ha esercitato per fare applicare le sanzioni a Mosca. Come ha riportato un funzionario del governo indiano, ad esempio, l’India è intenzionata ad aumentare le importazioni di gas russo a prezzi scontati pagandolo in rupie e vanificando così gli sforzi statunitensi di compattare il mondo contro il Cremlino. Al contrario, ciò che si sta verificando è una “de-occidentalizzazione” dell’economia globale che, evidentemente, l’Arabia Saudita non ha mancato di cogliere e di sfruttare, spinta anche dai suoi risentimenti verso l’amministrazione Biden.

Dal canto loro, gli Stati Uniti – per tramite di un alto funzionario – hanno definito l’idea dei sauditi di vendere petrolio alla Cina in yuan “altamente volatile e aggressiva” e “non molto probabile”. È necessario sottolineare, infatti, che non è la prima volta che l’Arabia Saudita “minaccia” i suoi alleati “storici” di abbandonare il dollaro e che il passaggio da una valuta di riferimento all’altra richiederebbe comunque tempi lunghi, in quanto, ad oggi, i due terzi delle riserve di liquidità globali sono denominate in dollari. Allo stesso tempo però va rilevato come l’inizio della fine del sistema del petrodollaro sia inevitabile – proprio a causa dell’utilizzo strumentale del dollaro come “arma finanziaria” – così come l’emergere di un nuovo centro economico alternativo a quello occidentale, ricchissimo di materie prime, metalli preziosi, minerali e terre rare, rappresentato dall’Eurasia e da buona parte dei Paesi arabi. In questo contesto, la posizione dell’Arabia Saudita – ma anche dell’India – può segnare un’accelerazione determinante verso nuovi equilibri commerciali e geopolitici internazionali che presuppongono il ridimensionamento della valuta americana all’interno del sistema economico globale e, di conseguenza, anche del dominio unipolare occidentale. 

[di Giorgia Audiello]

Mosca espelle alcuni diplomatici Usa in risposta a Washington

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Il ministero degli Esteri russo ha riferito in una nota che “il 23 marzo, una lista di diplomatici statunitensi dichiarati persone non gradite è stata consegnata al capo della missione diplomatica americana”, quindi all’ambasciatore statunitense a Mosca. La decisione, presa a poche ore dall’espulsione di 45 diplomatici russi in Polonia, è avvenuta in risposta alla misura analoga adottata da Washington alla fine di febbraio, quando 12 diplomatici russi presso le Nazioni Unite sono stati allontanati dalla sede di New York “per questioni di sicurezza nazionale”.