domenica 16 Novembre 2025
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Uova allevate a terra: un inganno del marketing che nasconde la sofferenza animale

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L’acquisto di uova provenienti dai sistemi di allevamento intensivo e industriale è sconsigliato, così come quelle “allevate a terra” che sono frutto di un inganno del marketing e dello sfruttamento totale degli animali.

Oggi gli esperti di zootecnia denunciano un altro problema degli allevamenti di galline ovaiole, quello della frattura ossea dello sterno. Da anni si sa che queste povere bestiole soffrono di osteoporosi precoce a causa dell’accrescimento troppo rapido e violento dato dal sistema di allevamento a cui sono sottoposte (la massa grassa e muscolare cresce ad un ritmo superiore di quella ossea). Nelle galline ovaiole le fratture, oltre a compromettere il loro benessere a causa del dolore, causano un calo della produzione e della qualità delle uova, con conseguente riduzione della redditività dell’allevamento.

Le fratture possano variare da allevamento ad allevamento. Queste ultime iniziano ad apparire intorno alle 25 settimane di vita e arrivano ad interessare anche il 50% dei capi alla fine del ciclo di ovodeposizione, la cui durata è di 60 settimane (15 mesi). Le galline che riportano fratture sembrano modificare il proprio comportamento e ciò potrebbe essere dovuto al dolore. Ad esempio, l’esemplare con fratture presenta tempi più lunghi nel saltare giù da un trespolo e nel muoversi all’interno delle strutture, e questi tempi si riducono somministrando analgesici. Quindi, la preoccupazione è che le galline soffrano e che i parametri di benessere animali, richiesti dalla legge, non siano rispettati da tale tipologia di allevamento intensivo. È anche probabile che le uova delle galline con fratture siano limitate in termini di quantità e qualità. La guarigione da una frattura, infatti, richiede molta energia e calcio, elementi di cui le galline hanno bisogno anche per la produzione di uova (il guscio dell’uovo è fatto in gran parte di calcio).

Più uova vengono deposte, più sono le fratture delle ossa

Il paradosso di questa faccenda è il fatto che più le galline sono stimolate ad alimentarsi, più le fratture delle loro ossa aumentano. Il motivo di ciò, secondo gli esperti, riguarda l’elevato fabbisogno di calcio richiesto dalle galline nelle attuali condizioni di allevamento, finalizzate alla elevata produzione di uova (circa 325 uova all’anno). Deporre quasi un uovo al giorno implica un impiego elevato di energia nel metabolismo delle galline e provoca la rottura del tessuto osseo per rilasciare il calcio in esso contenuto, in modo da poter essere utilizzato dall’animale per costruire il guscio. Questo fenomeno provoca la demineralizzazione ossea e rende l’osso soggetto a fratture in caso di urti o collisioni, molto frequenti nell’ambiente sovraffollato in cui le galline sono allevate. In condizioni più naturali, utilizzando galline con una genetica non mirata alla produzione di uova a ciclo continuo, le pause nella produzione permetterebbero alla gallina di ricostituire questo minerale e mantenere le ossa robuste. 

Per un acquisto consapevole

Le uova in commercio non sono tutte uguali, ma troviamo 4 tipologie di prodotto. Le possiamo distinguere, oltre che dalle diciture presenti sulle confezioni (uova “biologiche”, “allevate a terra”, “allevate all’aperto”), da un codice alfanumerico che viene stampigliato per legge sull’uovo. Quest’ultimo permette di tracciare la provenienza e sapere realmente come e dove è nato l’uovo. Il primo numero da sinistra che compare in questo codice ci dice la tipologia di allevamento che è stata posta in essere.

 Le 4 tipologie di allevamento

Quando troviamo il numero zero come primo numero del codice, abbiamo a che fare con un uovo biologico. Queste uova provengono da galline che seguono un ciclo di vita abbastanza naturale con accesso al pascolo in prato verde (10 metri quadrati di spazio verde per gallina), ai mangimi biologici e a cure fitoterapiche e non farmacologiche. La gallina, per fare un uovo dalle qualità superiori deve trovare da sola, razzolando nel prato, almeno una parte di quello che mangia (vermetti, insetti e altri piccoli animaletti, e ovviamente un ricco banchetto di erbe spontanee). Altro elemento importante di questa tipologia di allevamento è l’effetto antistress dovuto al razzolare in prossimità del manto d’erba e al beccare le verdi piantine del prato. Inoltre, le galline che vivono all’aperto sono in genere razze rustiche, più robuste, che si ammalano di meno e quindi non necessitano di farmaci e antibiotici tipici delle galline ovaiole allevate nei capannoni al chiuso. Questa tipologia di galline e di allevamento dà come risultato produttivo finale un uovo ogni 2 giorni e non uno al giorno come avviene nella tipologia di allevamento più intensivo. L’uovo biologico in Italia ha un costo medio di 40-50 centesimi.

Il codice 1 caratterizza una tipologia di allevamento in parte all’aperto e in parte al chiuso, ma di tipo intensivo (densità di popolamento: 1 gallina ogni 2,5 metri quadri di terreno). Il numero 2 è collegato a uova provenienti da allevamento a terra, in capannoni chiusi e con luce artificiale per 24 ore al giorno. Si tratta di una tipologia alquanto innaturale e forzata, caratterizzata da una alimentazione ipercalorica e da una densità di popolamento di 7-9 galline per metro quadro. Il codice 3 identifica uova di galline allevate in gabbie, una tipologia di allevamento talmente dannosa per la salute degli animali e per quella dei consumatori, che ormai quasi in tutta Europa sono in moto progetti di legge per abolirla completamente. Le caratteristiche di questo tipo di allevamento sono le stesse di quelle con codice 2 ma con una densità di popolamento di 25 galline per metro quadro. Queste uova costano al supermercato circa 13-15 centesimi cadauno soltanto.

Contenuti nutrizionali diversi

Nel 2010 negli Stati Uniti è stato pubblicato uno studio in cui si mostravano i valori nutrizionali delle uova da allevamenti in gabbie e da allevamenti biologici. Come potete osservare dalla immagine qui di seguito, i valori di vitamina E, vitamina A, betacarotene, omega-3, colesterolo e grassi saturi erano tutti nettamente migliori nelle uova da allevamento biologico.

In sostanza, le uova provenienti da allevamenti intensivi in gabbie, non solo penalizzano fortemente il benessere dell’animale e la salute dell’ambiente, ma procurano un danno alla salute delle persone in quanto si tratta di uova con un profilo nutrizionale molto basso, fortemente infiammatorio (le uova sono cariche di grassi saturi e sprovviste di grassi omega-3 antinfiammatori). Inoltre, hanno quantitativi bassissimi di vitamine preziose che intervengono, fra le altre cose, sul benessere della pelle, degli occhi e nella sintesi dell’eme, una frazione dell’emoglobina che permette il trasporto di ossigeno nel sangue. Avere una adeguata disponibilità di vitamina E è importantissimo per il sangue: nel plasma, al di sotto di certi livelli di concentrazione, i globuli rossi diventano più fragili e la loro vita media si accorcia.

Questo delle uova è il miglior esempio per imparare che non basta fare attenzione a ciò che si mangia, ma anche a ciò che mangia la fonte di cibo in questione.

[di Gianpaolo Usai]

Stati Uniti: evacuazioni in Florida a causa degli incendi

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In Florida diverse centinaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni a causa di un’ondata di incendi alimentata dalla presenza di vegetazione morta nell’area. Lunedì 7 marzo sono andati distrutti circa 4.800 ettari di territorio, interessando principalmente la comunità di Panama City, nel nord della Florida. «La crescita della copertura nuvolosa, unita all’aumento dell’umidità, dovrebbero aiutare a far rientrare l’allarme» ha detto Joe Zwierzchowski, portavoce del Florida Forest Service. Attualmente non sono stati segnalati decessi.

Ucraina, prove di trattativa: Putin ufficializza le richieste per la pace

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Ieri, 7 marzo, la Bielorussia ha ospitato il terzo round di colloqui Russia-Ucraina, ottenendo risultati scadenti. Le parti, molto lontane dal trovare un punto d’incontro, si sono dovute accontentare dello stabilire una quadra sull’istituzione di corridoi umanitari che consentiranno ai civili di abbandonare il Paese, un risultato che è messo a dura prova da un panorama bellico confuso, fatto di schermaglie che violano gli accordi e di mine antiuomo che nessuno degli eserciti osa rivendicare come proprie.

D’altronde risulta difficile per Kiev accettare le richieste del Cremlino, richieste che sono state pubblicamente formalizzate prima del confronto diplomatico. La Russia pretende che l’Ucraina si impegni a modificare la propria costituzione così da garantirsi neutrale – ovvero che si impegni formalmente a non avvicinarsi ad alcun blocco -, che riconosca la Crimea come russa e che conceda l’indipendenza alle aree separatiste del Donetsk e del Lugansk. Mosca disconosce o rinuncia quindi all’obiettivo che gli è stato attribuito sin dall’inizio dell’invasione: quello di voler sostituire l’Amministrazione ucraina con un’istituzione palesemente filo-russa.

Che il Presidente Vladimir Putin avesse in mente questi traguardi sin da subito o che li abbia ridimensionati a causa delle complicazioni belliche incontrate sul campo, poco importa, quel che importa è piuttosto che Mosca si stia mostrando maggiormente aperta all’idea di uscire dalla sua “operazione speciale” seguendo la via del dialogo. Nonostante la diplomazia stia assumendo forme locali, è impossibile non sottolineare che la possibilità di contrattazione di Kiev sia condizionata duramente dalle reazioni manifestate dall’Occidente intero. Ecco dunque che il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si lancia ripetutamente in appelli provocatori diretti ai Paesi alleati, i quali vengono accusati di ignavia nel tentativo di promuovere una narrazione per cui l’eventuale caduta dell’Ucraina sarebbe da intendersi necessariamente come un segno di fatale debolezza da parte della NATO.

Non che sia difficile intessere una tale lettura dei fatti: non solo le ripercussioni minacciate da alcuni Governi occidentali sono ben più fiacche di quanto questi avevano inizialmente dato a intendere, ma anche sul frangente degli interventi commerciali si registrano opinioni estremamente divergenti, con la Germania che esorcizza l’idea che si possano recidere i rapporti energetici con Mosca. Da notare che Berlino è la più grande importatrice europea di gas russo, seguita dall’Italia. Allo stesso tempo, anche Putin si trova a dover gestire delle complicazioni parallele a quelle direttamente connesse al conflitto ucraino.

Seppure venga citata poco dalle notizie di massa, di vitale importanza è per esempio la situazione dell’Iran, Paese coinvolto nei tentativi di resurrezione dei patti per il nucleare. Proprio questo già traballante sforzo diplomatico potrebbe complicarsi ulteriormente, qualora gli Stati Uniti dovessero porre a Teheran un veto sulla vendita di uranio arricchito alla Russia, cosa che svilupperebbe conseguenze strategiche e politiche la cui portata è difficile da prevedere. Da osservare con attenzione sono anche le mosse della Cina, la quale, pur essendo pubblicamente vicina a Mosca, si trova nella difficile situazione di dover prendere una posizione su un’invasione che, nell’interpretazione russa, ha preso il via per garantire la sopravvivenza dei separatisti del Donbass. Beijing si è sempre fatta promotrice del mantenimento dell’integrità territoriale, della non interferenza negli affari interni delle nazioni estere, supportare con troppa enfasi le mosse del Cremlino andrebbe quindi a minare la credibilità delle sue posizioni.

Zelensky, dal canto suo, cerca di spingere per trovare un compromesso che non abbia il sapore della capitolazione, ben consapevole che le pressioni finanziarie esercitate dall’Occidente sulla Russia mostreranno la loro efficacia solamente nel tempo. I prossimi colloqui sono quindi previsti per il 10 marzo ad Antalya, Turchia, Paese che nonostante sia all’interno della NATO è noto per i suoi forti legami con la Russia. «Ankara non abbandonerà né Mosca né Kiev», aveva infatti annunciato a inizio mese il Presidente turco Recep Erdoğan.

[di Walter Ferri]

8 marzo: perché c’è ancora bisogno di una giornata per la parità di genere

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In Italia, la “festa della donna” esiste in maniera ufficiale dal 1945 e a chiederne l’introduzione fu l’Unione Donne in Italia (UDI). L’8 marzo del 1946, fu celebrata per la prima volta nel Belpaese quella che in realtà nel resto del mondo viene chiamata – ben più correttamente – la Giornata internazionale dei diritti della donna, senza ridurla a una “festa”. L’Italia era arrivata tardi rispetto ad altri Paesi, basti pensare che la Giornata fu pensata originariamente nel 1907, durante il congresso socialista che vide protagonisti alcuni tra i maggiori marxisti del tempo. Due anni dopo negli Stati Uniti nacque ufficialmente il Woman’s day. In Europa invece, la data simbolo è quella dell’8 marzo 1917 quando ci fu un enorme sciopero organizzato dalle donne a San Pietroburgo. Durante le manifestazioni in Russia, le donne rivendicavano la fine della guerra. Una giornata tanto importante da essere considerata la vera radice dei movimenti a venire e di quella che è poi diventata la Rivoluzione russa.

La protesta delle donne russe dell’8 marzo 1917

L’8 marzo fu designato come giorno ufficiale dalle Nazioni Unite nel 1975, ma il primo statuto internazionale risale al 1945. Intanto, nella bella Penisola le donne dovevano ancora combattere purché i propri diritti fossero riconosciuti e si raggiungesse la parità di genere; e ancora oggi, c’è del lavoro da fare. Quando si tenne la famosa manifestazione femminista dell’8 marzo 1972 in piazza Campo de’ Fiori a Roma, le donne chiedevano la legalizzazione dell’aborto e la liberalizzazione dell’omosessualità: intollerabile per una società controllata dalla Democrazia Cristiana, tanto attenta al “bene comune” quanto pronta a ordinare alla polizia di caricare le manifestanti a suon di manganellate. La battaglia delle donne in Italia non è però solo relativa ai diritti ed è ancora accesa, per quanto dei miglioramenti siano ormai tangibili.

Uno scatto della manifestazione femminista a Campo de’ Fiori del 1972

Il grande problema è la mentalità patriarcale, l’idea malsana di famiglia tradizionale cara al cattolicesimo e un machismo che rende gli uomini prima vittime, poi ancora troppo spesso pericolosi attuatori di comportamenti violenti. Machismo che poi non è solo caratteristica degli uomini, ma anche di certe donne. Pier Paolo Pasolini è magistralmente riuscito a cogliere lo spirito della mentalità italiana: guardando oggi Comizi d’Amore, documentario in cui l’intellettuale rivolge a italiani di qualsiasi provenienza e classe sociale domande “scomode” su svariati tabù e in generale sul mondo del sesso, si capisce come mai ancora oggi esistano certi perbenismi e un atteggiamento moralista, troppo spesso padre di discriminazioni e rabbia. Erano gli anni Sessanta, poco prima dell’abrogazione del reato di adulterio (1968), dell’introduzione del divorzio (1970), la riforma del diritto di famiglia (1975) e l’introduzione dell’aborto (1978). Ancora più tardi, solo il 5 agosto 1981 con la legge 442, fu finalmente abolito il diritto d’onore.

Una panoramica che almeno in parte riesce a spiegare perché la situazione in Italia sia ancora triste, e sono i dati a parlare: Secondo il Global Gender Gap Index, il rapporto per valutare i progressi fatti verso la parità di genere nei settori della politica, dell’economia, dell’istruzione e della salute dei 153 paesi che il World Economic Forum analizza, l’Italia nel 2019 si classificava al 76esimo posto. Può rincuorare il pensiero che negli ultimi anni, comunque, ci sia stato un miglioramento: secondo il rapporto dell’associazione universitaria Alma Laurea nel 2020 le donne non solo sempre più donne frequentano percorsi universitari (quindi l’accesso allo studio è “ormai” garantito) ma fanno percorsi spesso ben più duraturi dei colleghi uomini. Eppure, la situazione nel mondo lavorativo è ancora piena di diseguaglianze e ingiustizie. Nel mercato del lavoro gli uomini continuano a essere più valorizzati e meno soggetti a trattamenti alle volte indicibili.

Oltre al fatto che a cinque anni dal titolo universitario il tasso di occupazione delle donne laureate è all’85,2 percento mentre quello degli uomini è al 91,2 percento, in media coloro di sesso maschile guadagnano fino al 20 percento in più delle colleghe e sono loro a ricoprire le migliori posizioni, soprattutto quando le donna minacciano di essere “fertili”. Poi dal 2021 il servizio studi della Camera ha predisposto un paragrafo dedicato all’analisi di impatto di genere. Ci si prova a fare passi avanti, ma si rimane paradossalmente molto statici: è anche stato modificato il Codice delle pari opportunità (Dgs. 198/2006) per ridurre le differenze sul piano retributivo e di crescita professionale. Altra novità sono la “certificazione della parità di genere” , poi una nozione di discriminazione e la “clausola di condizionalità” per l’aumento dell’occupazione femminile, oltre che giovanile. Misure teoricamente utili ma ancora da vedere pienamente realizzate, mentre non è certo quanti e quali cambiamenti effettivi esse apporteranno.

Corteo “Non una di meno” a Bologna

Intanto, rimane in auge una mentalità distruttiva per le donne spesso dettata anche da una profonda ignoranza, nel senso che letteralmente si ignora e si è seriamente disattenti. Proprio così si diffondono informazioni non del tutto corrette, come il famoso incendio (realmente avvenuto) nella fabbrica Triangle, che avrebbe dato il via alla ricorrenza odierna. L’incendio però si dilatò il 25 marzo 1911 e non l’8 marzo. Sembra un nonnulla, ma un tale errore storico riconferma ancora una volta la tendenza a vedere le donne ben più deboli di quello che sono, non ricordando che in realtà, la Giornata nasce da donne protagoniste che manifestavano contro qualcosa di enorme come la guerra e non semplici “vittime” bisognose di aiuto. Oppure, in Italia si fatica a dare appoggio e voce a figure che da anni combattono anche le ingiustizie interne a movimenti che dovrebbero abbracciare e non allontanare. Come Alice Walker e il suo womanism poi evoluto in Universalism un “nuovo” femminismo questa volta senza separazione alcuna al suo interno. Però, in Italia, si continua a credere che basti fare gli auguri per una “festa” e, perché no, regalare una mimosa.

[di Francesca Naima]

Il Governo italiano non trova un accordo sulla rimozione del Green Pass

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Il Governo italiano non riesce ancora ad accordarsi su modalità e tempistiche di rimozione della certificazione sanitaria. Se infatti la Lega chiede la totale rimozione allo scadere dello stato di emergenza (il 31 marzo) e il Movimento 5 Stelle insiste per avere almeno un alleggerimento, queste posizioni incontrano il parere contrario del resto dei partiti di maggioranza. Intervistato dalla testata Il Tempo, il sottosegretario alla salute Silleri ha affermato di voler procedere in maniera graduale «ascoltando la scienza, valutando i dati epidemiologici e i suggerimenti del Cts».

La protesta di Ghedi: il paesino lombardo pieno di bombe nucleari americane

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A una manciata di chilometri da Brescia si trova un comune di poche migliaia di anime, dove i venti di guerra tra Russia e Ucraina mettono la popolazione in allerta più che in ogni altro luogo d’Italia. Si tratta della cittadina di Ghedi, la cui base militare conserva circa una ventina di testate nucleari di proprietà statunitense. Per tale motivo la base (e l’intera cittadina) si trova in stato di preallarme dal giorno dell’esplosione del conflitto. Domenica 6 marzo qualche centinaio di persone si sono ritrovate al suo esterno, per chiedere la fine del conflitto la cui rapida escalation ha reso improvvisamente questo piccolo paese un obiettivo sensibile.

Sono appena 18 mila gli abitanti di Ghedi, una piccola cittadina a una ventina di chilometri da Brescia. Un minuscolo centro abitato, diventato improvvisamente obiettivo sensibile nel contesto della guerra tra Ucraina e Russia: si stima infatti che siano almeno una ventina le testate nucleari ospitate dalla base militare locale, che si vanno a sommare alle altre (una trentina) di Aviano, in provincia di Pordenone. Per questo motivo, domenica pomeriggio è stato organizzato un sit-in, durante il quale si è protestato contro una guerra di interessi economici, contro la censura mediatica e culturale, contro le ipocrite e discriminatorie politiche di accoglienza dei profughi e contro l’invio di armi in Ucraina.

Dalla base di Ghedi partirà infatti una parte delle armi che il Governo italiano, evitando abilmente il confronto con il Parlamento e con l’opinione pubblica, ha deciso di inviare in Ucraina. Lista peraltro secretata, della quale non è possibile conoscere con certezza il contenuto, anche se è certo che si tratti di armi pesanti e strumenti di guerra. Un modo di certo curioso di esportare la pace.

Secondo un report di Greenpeace, pubblicato nel dicembre 2020, nelle basi di Aviano e Ghedi sono custodite in tutto una quarantina di bombe. Nel caso di un eventuale attacco a queste basi, il fungo atomico generato potrebbe coinvolgere dalle 2 alle 10 milioni di persone, a seconda dell’intensità dei venti e dei tempi di intervento. L’Italia si configura (secondo le stime, poiché non esistono dati ufficiali al riguardo) il Paese che ha in custodia il maggior numero di testate nucleari di proprietà statunitense. In base agli accordi bilaterali stretti con gli Stati Uniti per la cosiddetta “condivisione nucleare”, i Paesi NATO sono tenuti a ospitare alcune delle testate nucleari e, in caso di esplosione di un conflitto, i cacciabombardieri sono tenuti a sganciare le bombe in caso di necessità. Per questo motivo si tengono esercitazioni anche in tempo di pace, come quella che si è svolta a Ghedi nell’ottobre del 2021. Tuttavia, questo in Italia avviene nonostante il nostro Paese abbia firmato e ratificato il Trattato di non proliferazione nucleare, con il quale si è impegnato per il disarmo e la non proliferazione nucleare.

L’esercitazione, dal nome Steadfast noonè avvenuta contestualmente all’ammodernamento e all’ampliamento della base di Ghedi, dove sono ora custodite le bombe B61-12 di ultima generazione e dove verranno ospitati i nuovissimi cacciabombardieri F-35A adibiti al loro trasporto. L’operazione era stata definita dalla NATO volta a “garantire che il deterrente nucleare della NATO rimanga sicuro, protetto ed efficace”.

Come ricorda Angelo Mastandrea su L’Essenziale del 5 marzo, a Ghedi ha anche sede la fabbrica di bombe Rwm, che il governo Renzi nel 2016 aveva venduto nella quantità di 20 mila ordigni all’Arabia Saudita. L’esportazione è stata sospesa nel 2019 dal Governo Conte e definitivamente interrotta nel 2021 dopo che frammenti di quelle bombe sono stati ritrovati tra le macerie di un’abitazione in Yemen, dove una famiglia di sei persone è stata sterminata.

Dall’esplosione del conflitto in Ucraina, la base di Ghedi si trova in stato di preallarme. E, per il momento, il procedere del conflitto ed i suoi esiti rimangono ancora incerti.

[di Valeria Casolaro]

 

Guatemala: la lotta dei nativi contro la mega miniera di nichel

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lago izabal

Fénix è una delle più grandi miniere di nichel, di proprietà della Solway, situata nell’America Centrale, più precisamente in Guatemala. Rifornisce compratori di ogni parte del mondo, dall’acciaieria finlandese Outokumpu all’italiana Acciai Terni Spa, una delle più grandi del nostro Paese e probabilmente l’unica a riuscire a creare prodotti in acciaio inox. La Solway, invece, è diretta da impresari russi e estoni, e anche se ha la sua sede in Svizzera, controlla la miniera di Fenix tramite due aziende sussidiarie registrate in Guatemala.

La stessa miniera, che porta sulle nostre tavole posate e pentole, sta distruggendo da anni l’ambiente e la vita degli abitanti locali, con la complicità dei proprietari e del Governo locale, che utilizzano tattiche e sotterfugi per mettere a tacere giornalisti e attivisti. Da queste vicenda ne è nata un’inchiesta, chiamata “Segreti minerari”. Spieghiamo perché.

Come si sono svolti i fatti? Nel 2019 alcuni media internazionali hanno raccontato le vicende che nel tempo si sono ripetute attorno alla miniera, descrivendo ingiustizie e soprusi. Due anni dopo, Forbidden Stories ha ricevuto una segnalazione anonima con migliaia di documenti in allegato, dati che l’organizzazione ha condiviso con 65 giornalisti di 20 media partner. Secondo i file, i funzionari di Solway Investment Group (società proprietaria della miniera) avevano a lungo nascosto le prove dei danni che il giacimento stava apportando al lago Izabal e a tutto il territorio circostante.

 

Secondo quanto riportato da IrpiMedia, la segnalazione anonima conteneva “due terabyte di dati, comprensivi di oltre 470 caselle email e otto milioni di documenti, tra cui bolle di accompagnamento dei carichi e informazioni finanziarie”. In queste cartelle c’erano prove schiaccianti riguardo ai danni ambientali provocati, l’elenco dei piani per corrompere i capi Maya e pagare mazzette a polizia e giudici, fino a veri e propri progetti dettagliati per sfrattare le comunità indigene. Insomma, i documenti hanno rivelato una lista di piani e strategie che la Solway voleva mettere in atto (e in parte ci è riuscita) per eliminare le proteste dei pescatori e dei contadini, e svolgere una continua attività di sorveglianza ai danni di attivisti e giornalisti.

Anche se per anni la popolazione indigena locale si è opposta alla miniera, denunciando l’inquinamento dell’aria, deforestazione, erosione del suolo ma soprattutto la contaminazione del più grande bacino di acqua del Guatemala, la svizzera Solway ha sempre negato tutto, dichiarando di “rispettare la legge e i regolamenti ambientali” (riportando le parole del suo amministratore delegato Dan Bronstein).

Proteste lago izabal
Proteste locali

Come hanno fatto gli abitanti del posto ad accorgersi di quanto stava accadendo? Durante la primavera del 2017 sulle sponde del lago Izabal, i pescatori si accorgono della presenza di una patina rossa sulla sua superficie. Non ci impiegano molto a capire che la causa non poteva che essere la miniera poco distante. Per la società, si trattava invece solo di alghe.

Una situazione che aveva cominciato a manifestarsi già qualche tempo prima, perché secondo i pescatori «dal 2016 abbiamo visto lamantini, lucertole, pesci e tartarughe morire». Da quel momento gli abitanti sono scesi in strada a protestare, chiedendo indagini più approfondite e accertamenti. Ma le richieste sono state azzittite con i colpi d’arma da fuoco. Sugli omicidi non si indaga, e si scopre che i giornalisti che avevano cercato di trovare delle risposte erano stati in realtà filmati e fotografati: tenuti, cioè, sotto stretto controllo.

Ad oggi la situazione non sembra destinata a migliorare. Nell’ottobre del 2021, “la regione in cui opera la miniera è stata posta sotto assedio dal presidente guatemalteco Alejandro Giammattei. L’esercito è stato inviato a proteggere le filiali della compagnia svizzera”, si legge su Irpi.

Nonostante proteste e denunce, la miniera ha ripreso a funzionare a gennaio “dopo un processo consultivo con le comunità indigene che si è concluso in modo soddisfacente”, ha riferito il Ministero per le miniere e l’energia del Guatemala. Probabilmente a colpi d’arma da fuoco.

[di Gloria Ferrari]

Sidney, 60 mila residenti evacuati per inondazioni

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In Australia le gravi alluvioni delle ultime settimane non accennano a rallentare: circa 60 mila persone hanno ricevuto l’ordine di evacuazione a Sidney, mentre l’agenzia meteorologica ha preannunciato 48 ore difficili e diffuso l’allerta per la popolazione. Il totale delle vittime dall’inizio delle alluvioni è di 21 persone. Il portavoce dei servizi di emergenza ha definito il fenomeno “l’equivalente degli incendi dell’estate nera” del 2019-2020, uno dei peggiori disastri ambientali degli ultimi anni.

Russia, Cremlino: fine operazioni militari se Kiev accetta richieste

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La Russia ha comunicato all’Ucraina che sarebbe pronta a fermare subito le operazioni militari nel caso in cui Kiev accettasse le richieste provenienti da Mosca: è ciò che avrebbe affermato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters. In tal senso, avrebbe aggiunto Peskov, la Russia vorrebbe che l’Ucraina fermasse la sua attività militare, sancisse la neutralità all’interno della sua Costituzione e riconoscesse la Crimea come territorio russo nonché l’indipendenza delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk.

 

Vietato fare ragionamenti sull’Ucraina in Tv: il prof. Orsini finisce alla gogna

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Durante un dibattito a La7, il professore Alessandro Orsini ha fornito un’analisi sulle tensioni attualmente in atto fra Russia e Ucraina. «Possiamo uscire da questo inferno soltanto se riconosciamo i nostri errori» ha affermato il docente, riferendosi all’Unione europea. Dopo aver condannato l’invasione voluta da Putin e attribuitogli la paternità della responsabilità militare, Alessandro Orsini ha fatto poi un’affermazione che, in un contesto di informazione che tende al senso unico, ha fatto scalpore: «La responsabilità politica di questa tragedia è principalmente dell’Unione europea. In primo luogo, perché questa era la guerra più prevedibile del mondo».

L’analisi continua poi su un parallelismo con la crisi missilistica di Cuba, fino a delineare uno schema di comportamenti che «va avanti da centinaia di anni e che accomuna tutte le grandi potenze», quello delle cosiddette “linee rosse” da non valicare. Ed è qui che Orsini pone l’accento per una seconda critica all’Unione europea, colpevole di non aver saputo o potuto imporre alcuna linea rossa all’interno del sistema internazionale. L’ideale, secondo il professore della Luiss, sarebbe stato «rifiutare drasticamente qualunque politica capace di mettere in pericolo la vita degli europei», riferendosi dunque alla possibilità di un’apertura della NATO a est. La reazione in studio è immediata: Federico Fubini (vicedirettore del Corriere della Sera) accusa Orsini di aver detto cose non vere, consigliandogli di «studiare meglio la storia». Il problema è che è Fubini a dire cose che non sono veritiere, come il fatto che gli Usa non abbiano mai attaccato Cuba, dimenticando la baia dei Porci e i numerosi tentati colpi di stato.

Lo scalpore non si ferma lì e la stessa Luiss decide di prendere posizione contro il suo professore attraverso un comunicato, dove si legge che l’istituto “reputa fondamentale che, soprattutto chi ha responsabilità di centri di eccellenza come l’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale, debba attenersi scrupolosamente al rigore scientifico dei fatti e dell’evidenza storica”, cosa che ha fatto Orsini, condannando sì l’azione di Putin ma allo stesso tempo estendendo l’analisi al ruolo ricoperto dall’Unione europea, fino ad ora un vero e proprio taboo nella comunicazione mainstream. Questa condanna rientra nella serie di prese di posizione di diversi istituti avvenute nei giorni scorsi, a partire dalla Bicocca di Milano che ha deciso di cancellare, tornando poi sui propri passi, il corso patrocinato da Paolo Nori su Fëdor Michajlovič Dostoevskij, evidentemente considerato dall’università come destabilizzante, “a causa del momento di forte tensione attuale”.

Siamo di fronte a tanti piccoli tasselli che, congiungendosi, spingono a riflettere sulla qualità della libertà di espressione nel nostro Paese: non si tratta di condividere, o meno, il punto di vista di chi parla. Si tratta di garantire una certa tranquillità nell’espressione, libera da qualsiasi influenza o preoccupazione esterna, sacra in un Paese democratico. Senza che un esperto, o qualsiasi persona, debba temere ripercussioni sulla propria carriera lavorativa nel momento in cui avanza, supportando con ragionamento logico e dati, analisi diverse da quelle dominanti.

[Di Salvatore Toscano]