martedì 15 Luglio 2025
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I movimenti per la giustizia climatica assediano la Pre-COP 26

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Mentre a Milano rappresentanti del Governo e delle multinazionali dell’industria fossile sono asserragliati tra le mura del MiCo per discutere per l’ennesima volta di cambiamenti climatici, gli attivisti marciano per la città, per protestare contro le manovre di greenwashing messe in atto alla Pre-COP 26.

Vari gruppi di attivisti della Climate Justice Platform hanno occupato ieri sera con tende da campeggio Piazza Affari, sede della Borsa di Milano, “simbolo nazionale di quel capitalismo finanziario che storicamente contribuisce alla devastazione ambientale”. Il quadro generale della situazione lo hanno molto chiaro in mente, dal momento che in Italia sono UniCredit, Assicurazioni generali e Intesa San Paolo le istituzioni che più scommettono sul mercato del carbone. Nel 2020 UniCredit ha finanziato con 5 miliardi di euro multinazionali dell’industria fossile quali Total ed Eni.

Nella mattinata di ieri, il gruppo di Rise Up 4 Climate Justice aveva tentato di bloccare uno degli accessi al MiCo, la sede della conferenza Pre-COP. La polizia era intervenuta subito contro i manifestanti, che si stavano muovendo in forma pacifica, utilizzando i manganelli per disperdere la folla. Le rivendicazioni del gruppo sono ben espresse nel loro manifesto online: dalla redistribuzione delle ricchezze e un reddito universale all’inclusività, dall’attivismo alla mobilitazione diretta e territoriale. Simili sono le rivendicazioni di un’altro movimento, Extintion Rebellion, attivo anch’esso a Milano in occasione del Pre-COP.

 

Nella giornata di oggi, guidati dalla “star” Greta Thunberg, sono scesi in piazza anche gli attivisti di Friday for Future per denunciare lo youthwashingovvero l’operazione di facciata messa in atto dal Governo nell’invitare 400 giovani “selezionati” per “simulare” un confronto sul futuro del pianeta (il cosiddetto Youth4Climate, la “simulazione” del Governo dei Giovani di cui il ministro Cingolani è tanto fiero). Il corteo, marciando su Milano, intende far sentire alla popolazione la vera voce degli attivisti, al di fuori di preconfezionate occasioni istituzionali. Gli eventi tenutisi al Pre-COP, secondo loro, fanno parte di un’operazione retorica che non intende apportare alcun cambiamento radicale alla situazione attuale. Ciascuno di questi gruppi, che espone chiaramente il proprio manifesto tramite i social media, invita all’azione e alla disobbedienza civile in quanto unici strumenti per poter far sentire la propria voce e creare un cambiamento.

La piattaforma Climate Justice ha inoltre inaugurato la terza edizione del Climate Camp, all’interno del quale centinaia di persone, provenienti anche dall’estero, hanno potuto confrontarsi sui temi del cambiamento climatico e del malcontento generale di fronte all’azione delle istituzioni.

Che alla Pre-COP siano in atto manovre di greenwashing sembra esser fuori di dubbio. Il simbolo di Eni compare ovunque e, pur non potendo organizzare eventi a causa della condanna per traffico illecito di rifiuti, emessa dal Tribunale di Potenza, terrà invece un incontro promosso dalla Fondazione Eni “Enrico Mattei”. Eni sta inoltre cercando di costruire due nuove centrali a gas nei territori di Brindisi e Civitavecchia, già fortemente provati dalla presenza di impianti a carbone. Tra i maggiori sponsor della manifestazione vi sono poi Enel, Edison e A2A: quest’ultima si trova al centro di una vicenda giudiziaria che la vede incolpata di disastro ambientale, mentre Edison ha appena ricevuto una condanna storica che ne determina la responsabilità per l’inquinamento della zona di Bussi, nella provincia di Pescara, conosciuta ora come la discarica di veleni più grande d’Europa. Enel, dal canto suo, si trova attualmente coinvolta in un processo per l’emissione di polveri di carbone della centrale di Cerano. Edison è peraltro promotrice della costruzione di un nuovo gasdotto che, unendo Cipro e Puglia, aprirebbe allo sfruttamento dei giacimenti della porzione di Mediterraneo compresa tra i due estremi.

Con la co-presidenza alla COP-26 e il ruolo di rilievo nel prossimo G20, l’Italia avrebbe l’occasione di compiere gesti importanti nella direzione del cambiamento. Tuttavia la direzione presa dal Governo non sembra promettente in questo senso. Tanto da fare apparire mera operazione propagandistica anche le parole di Mario Draghi che, incontrando una delegazione di attivisti di Friday For Future, ha affermato: «Vi stiamo ascoltando, abbiamo tanto da imparare dalle vostre idee».

[di Valeria Casolaro]

Rincari bollette, da oggi aumenti sino a 300 euro

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Scattato l’aumento delle bollette di luce e gas. Secondo le stime Coldiretti l’aumento ammonterebbe a 300 euro per famiglia nel 2021. Conseguenze dirette saranno la diminuzione del potere d’acquisto dei nuclei familiari e l’aumento dei costi delle imprese. Netto aumento anche dei costi dei carburanti. I rincari hanno effetto diretto sui costi di produzione nella catena del cibo, in particolare per gli imballaggi, con il risultato che si pagherà più l’imballaggio del prodotto che il prodotto stesso. La stessa Coldiretti spiega come l’unica soluzione a tali folli rincari sia l’investimento sul biometano e le risorse sostenibili, nella cui ottica il Pnrr rappresenta uno strumento fondamentale.

La Corea del Nord testa missile antiaereo di nuova concezione

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L’agenzia di stampa Kcna ha comunicato che le forze armate della Nord Corea hanno testato un nuovo missile antiaereo. La nuova tecnologia permette al missile di avere elevata reattività e precisione, oltre alla capacità di abbattere bersagli aerei a una distanza considerevolmente maggiore. Si tratta dell’ultimo di diversi test missilistici realizzati nelle scorse settimane, per i quali il segretario di Stato americano Antony Blinken ha espresso preoccupazione. La Corea del Nord ha precedentemente ricevuto sanzioni internazionali per il suo programma di armi nucleari e ha in varie occasioni violato le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Professori universitari contro il green pass: superate le mille firme

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Sono oltre mille, per la precisione 1.025, i professori universitari che hanno firmato l’appello contro il passaporto sanitario. La lista aggiornata, di quelli che spesso sui media vengono fatti passare come pochi intellettuali controcorrente, mostra invece un movimento di idee che coinvolge ben più che una sparuta minoranza. La petizione era stata lanciata un mese fa e rifiuta il green pass in quanto strumento che «suddivide la società italiana in cittadini di serie A, che continuano a godere dei propri diritti, e cittadini di serie B, che vedono invece compressi quei diritti fondamentali garantiti loro dalla Costituzione (eguaglianza, libertà personale, lavoro, studio, libertà di associazione, libertà di circolazione, libertà di opinione)».

Nel comunicato che commenta il superamento della soglia delle mille firme, redatto dal responsabile comunicazione del gruppo, il professor Lorenzo Maria Pacini, si legge: «Noi crediamo nell’Accademia come luogo di civiltà, integrazione, cultura e cittadinanza attiva e continueremo a far sentire la sua voce contro l’inaccettabile strumento ideologico del Green Pass, che non ha alcun fondamento scientifico mentre, al contrario, esso è moralmente e socialmente dannoso, tanto più ora che viene esteso a nuove categorie di cittadini. Nelle università stiamo vivendo discriminazioni, tensione emotiva, disagio e divisioni che mai avremmo voluto vedere. L’applicazione politica del Green Pass, uno strumento vessatorio, è contraria ai principi stessi della scienza e della conoscenza, principi che le nostre istituzioni dovrebbero promuovere e difendere invece che mortificare, nonché in opposizione alle libertà e ai diritti fondamentali della persona, sanciti nella Costituzione italiana e nei Trattati e Carte di valore internazionale».

Clima, attivisti occupano con le tende Piazza Affari a Milano

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Una settantina di giovani attivisti della Rise Up 4 Climate Justice e altri gruppi appartenenti alla piattaforma Justice Climate hanno occupato Piazza Affari a Milano, sede del palazzo della Borsa Italiana. Dopo aver montato numerose tende, gli attivisti hanno trascorso lì la notte, esponendo striscioni quali “Stop greenwashing” e “O la Borsa o la Vita”. L’occupazione avviene in seguito ai blocchi avvenuti ieri alla Pre-Cop e alle manifestazioni ambientaliste contro le politiche del Governo in materia di cambiamento climatico.

Kufr Qaddoum: il villaggio palestinese che da dieci anni resiste all’occupazione

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Durante la protesta di venerdì scorso nel villaggio di Kufr Qaddoum, quattro palestinesi sono stati feriti da proiettili di metallo ricoperti di gomma e altre decine sono stati soccorsi in seguito all’inalazione di gas lacrimogeni. Il portavoce del villaggio, Murad Shteiwi, ha detto ad Al Jazeera che i soldati israeliani hanno invaso le case degli abitanti, mentre alcuni cecchini sparavano ai manifestanti dai tetti di alcune case.

Ma quella di Kufr Qaddoum non è “solo” una storia di violenza e di ordinaria occupazione come le altre che arrivano dalla Palestina.  Kufr Qaddoum è un piccolo villaggio nel nord della Cisgiordania occupata, vicino alla città settentrionale di Nablus. Gli abitanti tengono proteste ogni fine settimana, negli ultimi 10 anni, contro l’esproprio di quasi 1.000 acri (405 ettari) di terra, necessario per far posto ad un insediamento israeliano. Tutto questo è legale? Per la legge no. Gli insediamenti in Cisgiordania violano l’articolo 49, paragrafo 6, della Quarta Convenzione di Ginevra, secondo la quale è vietato il trasferimento di cittadini di una potenza occupante in un territorio occupato. Citando testualmente: “La Potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato”. E ancora. Infrangere gli accordi stabili dalla Convenzione costituisce un “crimine di guerra”, secondo quanto si legge nello Statuto di Roma del 1998 della Corte Penale Internazionale (articolo 8).

Ma Kufr Qaddoum resiste, anche di fronte alla chiusura delle principali strade che collegavano il villaggio ai paesi limitrofi, avvenuta fra il 2000 (durante la seconda Intifada) e il 2003 per mano dell’Esercito Israeliano. Da quel momento gli abitanti sono costretti ad usare strade alternative per raggiungere Qalqilia, la principale strada di Nablus, chiusa per impedire proprio ai palestinesi di avvicinarsi troppo al vicino insediamento israeliano di Qadumim. Inutile dire che le conseguenze di un’azione del genere hanno avuto (e hanno tuttora) un forte impatto sull’agricoltura, sull’educazione e sulla vita economica e sociale del villaggio.

Tant’è che la resistenza non violenta in Palestina è una pratica entrata a far parte della routine quotidiana, necessaria per difendere la propria terra e la sua libertà. Infatti i manifestanti non fanno parte di un esercito o di un gruppo armato organizzato: sono persone comuni, cittadini che popolano ogni giorno le strade di Kufr Qaddoum, che la vivono e che ne hanno costruito le fondamenta.

Solitamente il corteo pacifico comincia così: dopo la preghiera i manifestanti si radunano sulla quella stessa strada chiusa che conduce direttamente alla colonia israeliana. L’aria si riempie di densi fumi neri, esalati dai copertoni bruciati per mano dei palestinesi, per non essere riconosciuti dai soldati israeliani. Questi, invece, rispondono con una violenta pioggia di lacrimogeni. Non finisce sempre così. Non con i lacrimogeni. Negli anni i residenti palestinesi di Kufr Qaddoum hanno pagato molto cara la loro resistenza, con scontri spesso finiti nel sangue. A loro dire, almeno 170 persone sono state arrestate e diverse centinaia sono state colpite da proiettili veri e proiettili d’acciaio rivestiti di gomma.

Intanto il mondo rimane a guardare. Nonostante la legge dichiari illegali gli insediamenti israeliani, paesi come gli Stati Uniti, il Canada e la Comunità Europea stessa ignorano le responsabilità di Israele. Anzi, accade che tacitamente e con gesti quotidiani ne approvino nei fatti il comportamento. Come? Accogliendo i prodotti proveniente dagli insediamenti sugli scaffali dei negozi, ad esempio, etichettati da Israele come propri: equivale ad approvare tacitamente e indirettamente l’annessione di Israele.

I residenti palestinesi della Cisgiordania, costantemente sotto occupazione, non sono considerati cittadini. Ne consegue l’impossibilità di avere una voce politica, potere decisionale e, banalmente, possibilità di voto. Cosa che invece spetta ai coloni israeliani, molti dei quali si sono trasferiti in Cisgiordania proprio per prendere il controllo della terra palestinese. Intanto Israele è considerato da molti un paese democratico, con confini riconosciuti a livello internazionale. Contemporaneamente, però, mantiene un’occupazione militare della terra su cui vivono milioni di persone, negandogli una democrazia che gli appartiene di diritto.

[di Gloria Ferrari]

YouTube ha deciso di censurare tutti i canali “contro i vaccini”

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YouTube rimuoverà tutti i «contenuti dannosi sui vaccini»: è questa la decisione presa dalla più grande piattaforma di streaming video del mondo, che nella giornata di ieri ha informato il pubblico di aver aggiornato le norme sulla «disinformazione medica». In pratica, YouTube ha stabilito che da ora in poi ad essere banditi saranno non solo i video considerati disinformativi sui vaccini anti Covid, da tempo censurati, ma anche quelli relativi a qualsiasi vaccino approvato. Si tratta, quindi, di un ampliamento da parte del sito della sua politica restrittiva in tal senso.

A tal proposito, come sottolineato dalla piattaforma stessa, dall’anno scorso sono stati rimossi «oltre 130.000 video per violazione delle politiche sui vaccini anti Covid». A questi ultimi, stando a quanto annunciato da YouTube, si andranno ora ad aggiungere anche i video che, in contrapposizione alle «linee guida fornite dalle autorità sanitarie locali o dall’Oms», pongono dubbi sui vaccini (a prescindere da quale sia esattamente il vaccino criticato), sostenendo che essi non riducano la trasmissione o la possibilità di ammalarsi, che causino «effetti collaterali cronici» (a esclusione di quelli rari riconosciuti dalle autorità sanitarie), o che contengano sostanze non elencate. I contenuti che violeranno le nuove regole, dunque, saranno eliminati e, per quanto riguarda i canali incriminati, tendenzialmente essi non verranno chiusi se si tratta della prima o seconda volta in cui sono state infrante le regole. Tuttavia, al terzo «avvertimento» effettuato da YouTube nell’arco di 90 giorni, vi sarà la chiusura automatica del canale.

Si tratta di scelte che la piattaforma giustifica così:« Abbiamo costantemente visto false affermazioni sui vaccini contro il coronavirus riversarsi nella disinformazione sui vaccini in generale, e ora siamo al punto in cui è più importante che mai espandere il lavoro che abbiamo iniziato con il Covid ad altri vaccini». A tal proposito, però, va detto che nei confronti delle misure messe in campo vi sono non pochi dubbi, che troverebbero la loro ragion d’essere se la censura dovesse essere eseguita in maniera discrezionale.

Ad esempio, per ciò che concerne il tema della trasmissione della malattia, un conto sarebbe eliminare i video in cui si afferma che i vaccini certamente non riducono la possibilità di trasmissione, mentre ben diversa sarebbe la situazione che si verrebbe a creare se venissero censurati indistintamente tutti i video che mettono semplicemente in dubbio il lavoro svolto dai vaccini in tal senso. Infatti, prendendo in considerazione il vaccino anti Covid, il fatto che esso non sia totalmente utile nell’evitare la trasmissione del virus è ormai ben noto: in Israele, ad esempio, negli scorsi mesi è emerso che, in seguito alla circolazione della variante Delta, l’efficacia di due dosi del vaccino Pfizer nel prevenire la diffusione del virus sia scesa al 64%.

Detto ciò, ad ogni modo non si può non notare come la censura sempre più stringente messa in atto dalle Big Tech ci ponga davanti ad una questione spinosa che senza dubbio dovrà essere affrontata, ossia quella di prendere in considerazione i rischi derivanti dal potere di queste piattaforme private, che possono decidere arbitrariamente quali contenuti debbano essere censurati e quali no. Ci si chiede infatti se, dato che ormai le Big Tech come YouTube controllano gran parte dell’informazione, sia arrivato il momento di porre dei limiti alle loro politiche interne così da tutelare tutta una serie di diritti riconosciuti dagli stati, come ad esempio quello della libertà di espressione. Insomma, la domanda è la seguente: chi verifica che vengano rispettati i diritti, come quelli riconosciuti dalla Costituzione in Italia, se la censura è affidata a multinazionali private e non è sottoposta ad alcun controllo pubblico?

[di Raffaele De Luca]

Ecuador: sale bilancio scontri tra detenuti, almeno 116 morti

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È salito il bilancio degli scontri avvenuti tra gang rivali nel carcere “El Litoral” della città di Guayaquil, in Ecuador. Sono infatti almeno 116 le persone che hanno perso la vita ed 80 quelle rimaste ferite. A darne notizia è stato lo stesso presidente della Repubblica dell’Ecuador, Guillermo Lasso, citato dal quotidiano locale El Comercio di Quito. Lasso ha in tal senso precisato che a morire sono stati esclusivamente i detenuti e che negli scontri non sono rimasti coinvolti individui facenti parte del personale carcerario. Inoltre, ha affermato che «adesso il governo metterà in atto uno specifico programma di riabilitazione in questo penitenziario» così da «ristabilire il pieno controllo dello stato».

Ravenna, Greenpeace occupa una piattaforma ENI: “Basta bugie”

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I militanti di Greenpeace si sono mossi su due fronti, nella giornata di ieri, per protestare in occasione del meeting delle multinazionali degli idrocarburi che ha avuto luogo a Ravenna. Una parte degli attivisti ha temporaneamente occupato la piattaforma “Porto Corsini”, al largo delle coste di Ravenna, mentre un secondo gruppo ha simbolicamente bloccato uno degli accessi al palasport che ospitava il Med Energy Conference Exhibition.

Alla conferenza, che si chiuderà il 30 settembre, hanno partecipato i giganti dell’industria dei combustibili fossili (Eni, Shell e Total), il sindaco di Ravenna e delegati di Libia, Egitto, Cipro e Italia. La protesta degli attivisti riguarda in particolare la scadenza della moratoria emessa nel 2019 dall’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che per più di due anni ha bloccato in Italia la ricerca di idrocarburi nelle zone marine e in terraferma. L’intenzione era fornire il tempo necessario ad un accurato esame del suolo, per valutare l’impatto delle estrazioni sulla fauna e studiare le caratteristiche geofisiche e vulcanologhe del terreno e dei fondali marini. Dopo due anni si è però a un nulla di fatto e, in assenza di un piano concreto, dal primo di ottobre le trivellazioni potrebbero riprendere indisturbate. Un Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiETSAI) è stato presentato a luglio, con grande ritardo, ma il contenuto presenta evidenti lacune e l’assenza di una mappatura accurata delle aree geologiche. Il Piano ignora inoltre il tema della transizione, centrale nella retorica di Governo ma di fatto marginale nella pratica.

Indossando maschere con i volti di Draghi, Cingolani e il cane a sei zampe di Eni, gli attivisti e le attiviste hanno firmato un simbolico “Patto della finzione ecologica” e hanno esposto striscioni con scritte come “Basta bugie di Eni: nascondere CO2 non salva il clima” e “CCS: ennesima bugia di Eni”. L’intenzione di Eni sarebbe infatti realizzare il CCS (ovvero un sistema di cattura, stoccaggio e riutilizzo della CO2) a Porto Corsini, progetto per il quale ha previsto di investire circa un miliardo di euro, possibilmente utilizzando fondi pubblici. Il CCS porrebbe rimedio alle emissioni industriali di CO2, secondo Eni non risolvibili mediante la transizione a tecnologie elettriche o sostenibili. I giacimenti adriatici esauriti, in particolare quelli al largo di Ravenna, sarebbero riconvertiti in punti di stoccaggio dell’anidride carbonica. La produzione industriale di CO2 sarebbe quindi stoccata sottoterra, dopo essere stata compressa sino ad essere trasformata in stato liquido. Oltre alla difficoltà di prevederne le conseguenze ambientali, un tale sistema sembra essere costruito ad hoc per favorire gli interessi economici di Eni.

Gli attivisti di Greenpeace denunciano la manovra di greenwashing del Governo, che da un lato promette soluzioni per affrontare il cambiamento climatico e dall’altra appoggia ipocritamente le iniziative dei giganti degli idrocarburi. La moratoria sulle trivelle scadrà nelle prossime ore e, senza un adeguato aggiornamento del PiETSAI, il Governo potrebbe dare il via libera a nuove trivellazioni.

[di Valeria Casolaro]

Francia: Nicolas Sarkozy condannato per finanziamento elettorale illecito

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Nella giornata di oggi, l’ex presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, è stato condannato ad un anno di carcere senza condizionale per finanziamento elettorale illecito. Si tratta del cosiddetto caso “Bygmalion”, chiamato così a causa del nome di una società che secondo i giudici emise fatture false per finanziare la campagna elettorale di Sarkozy nel 2012. Il tribunale ha però sottolineato che «la pena sarà applicata ed eseguita in base al regime della sorveglianza elettronica», motivo per cui l’ex presidente non andrà quindi in carcere. Ad ogni modo, come ha annunciato Thierry Herzog, il legale di Sarkozy, quest’ultimo ricorrerà in appello.