domenica 24 Novembre 2024
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A Bolzano un uomo è morto dopo essere stato colpito col taser dai carabinieri

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Lunedì sera, a Bolzano, un uomo in evidente stato di agitazione ha chiamato il 112 per segnalare presenze fuori dalla sua stanza. I carabinieri e il personale sanitario, giunti sul posto, lo hanno trovato in stato confusionale, presumibilmente a causa di alcol e stupefacenti; al loro arrivo, l’uomo si è lanciato dalla finestra e ha tentato di aggredire i carabinieri, venendo quindi fermato e immobilizzato con il taser. Dopo la scossa elettrica, egli ha accusato un malore, ed è morto per arresto cardiocircolatorio. È questo uno dei recenti fatti di cronaca che sta più facendo discutere nelle ultime ore, senza che tuttavia venga posto l’accento sul punto focale della vicenda: un uomo è morto in seguito all’impiego da parte delle forze dell’ordine di un’arma che, teoricamente, dovrebbe essere “non letale”. E non si tratta certo del primo caso: sono oltre un migliaio (almeno) i decessi causati dall’utilizzo di queste armi, che Amnesty ha classificato come «strumenti di tortura» e che spesso si sono dimostrate inefficaci, quando non proprio controproducenti, rispetto agli scopi preposti.

La dinamica dei fatti di lunedì sera è ancora piuttosto confusa. Secondo le prime ricostruzioni, in seguito alla telefonata, carabinieri e personale sanitario si sarebbero recati sul luogo e avrebbero provato a entrare nell’appartamento. Tuttavia l’uomo, che viene descritto in stato particolarmente confusionario, avrebbe impedito loro l’accesso e si sarebbe agitato ancor di più. In preda al panico, egli si sarebbe così lanciato dalla finestra da un’altezza di circa due metri e mezzo, e, dopo essersi ripreso dalla caduta, avrebbe provato ad aggredire i carabineri. A quel punto gli agenti lo avrebbero immobilizzato con il taser, per permettere al personale sanitario di prestargli le dovute cure. Dopo tale manovra egli avrebbe avuto un arresto cardiaco, morendo circa un’ora dopo. Perquisendo la casa, sarebbero stati trovati alcol e droghe, che, secondo i carabinieri, giustificherebbero lo stato di confusione in cui si trovava la vittima. La Procura di Bolzano ha avviato un’indagine e disposto l’autopsia per accertare le cause del decesso, nell’ambito di un procedimento penale aperto a carico di ignoti.

Al di là del contesto del singolo evento, a fare discutere dovrebbe essere il fatto che un uomo sarebbe morto dopo l’uso di uno strumento in dotazione alle forze dell’ordine che viene descritto con l’ossimorica espressione “arma non letale”. Il taser è un’arma in organico alla polizia italiana dal 2022, dotata di due “dardi” collegati a fili conduttori che trasmettono una scarica di 63 microcoulomb di elettricità per 5 secondi – una quantità sufficiente per causare bruciature e danni cardiaci. Una volta sparato, i muscoli della persona colpita si paralizzano all’istante, e il corpo rimane di fatto immobile, anche se la mente resta lucida e in grado di ascoltare. In teoria, tale effetto dovrebbe svanire in poco tempo, permettendo al soggetto di recuperare una normale forma fisica; indipendentemente dalle condizioni della “vittima”, tuttavia, gli agenti sono obbligati a richiedere l’intervento del personale sanitario. Secondo vari studi la pistola elettrica sarebbe inefficace e controproducente. L’Università di Cambridge ritiene che in realtà il taser abbia aumentato (quasi raddoppiato) il rischio che la polizia usi la violenza e che gli agenti vengano aggrediti, mentre l’ONU lo ha addirittura definito uno strumento di tortura. Anche la sua pericolosità è data abbastanza per assodata: la stessa ditta produttrice riconosce un rischio di morte dello 0,25%; questo significa che in un caso su 400 la persona su cui viene utilizzata l’arma muore, media piuttosto alta per uno strumento “non letale” che viene utilizzato con una simile leggerezza. Un’inchiesta dell’agenzia di informazione Reuters ha ricostruito che negli Stati Uniti, dal 2000 fino al 2017, si sono registrati più di mille decessi a seguito della scossa ricevuta dalla pistola elettrica.

Senza scendere nei particolari dei fatti di Bolzano, la possibile morte di una persona per l’utilizzo di una “pistola non letale” non farebbe che confermare come questo genere di armi non siano altro che strumenti di repressione mascherati da una millantata necessità di sicurezza. A riprova di ciò arriverebbero anche i fatti di Vasto di febbraio 2023, quando la polizia aveva minacciato con il taser un commerciante disarmato e sua moglie. Si scrive “sicurezza”, si legge “intimidazione”: giusto l’altro ieri Amnesty International ha rilasciato un rapporto sullo stato del diritto di protesta in Europa, sempre meno tutelato e sempre più soggetto a forme di prevaricazione da parte delle forze dell’ordine. In linea con lo studio di Amnesty, parrebbe possibile sostenere che la repressione passi anche da queste pratiche che celano la propria impronta violenta dietro la maschera della deterrenza, portando a sempre più frequenti abusi della forza e strumentalizzando quello stesso concetto di sicurezza che con esse viene in verità a mancare.

[di Dario Lucisano]

UE, lanciato un altro eurogruppo di destra radicale

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Ieri è nato un altro eurogruppo di stampo ultranazionalista e conservatore: Europa delle Nazioni Sovrane. Il gruppo parlamentare, lanciato da Alternativa per la Germania, si vuole porre come alternativa radicale al neonato gruppo del Premier ungherese Orban Patrioti per l’Europa, e proporrà una politica antagonista nei confronti del Green Deal, delle politiche migratorie, e dell’invio di armi all’Ucraina, a favore invece di una maggiore sovranità nazionale. Il gruppo conterà 25 membri provenienti anche da partiti di Bulgaria (Rinascita), Francia (Riconquista), Lituania (Unione del Popolo e della Giustizia), Polonia (Nuova Speranza), Repubblica Ceca (Libertà e Democrazia Diretta), Slovacchia (Repubblica), e Ungheria (Movimento Nostra Patria).

Abolizione dell’abuso d’ufficio e bavaglio alla stampa: cosa cambia con il ddl Nordio

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Eliminazione del reato di abuso d’ufficio, riformulazione del reato di traffico di influenze illecite, forte stretta all’utilizzo e alla pubblicazione delle intercettazioni. In poche parole, un “salva-colletti bianchi”. È questo il succo del ddl Nordio, approvato in via definitiva ieri alla Camera dei Deputati dalla maggioranza di governo, che ha incassato – come quasi sempre accade quando si discutono le leggi sulla giustizia – anche il sostegno di Italia Viva e Azione. Nel pacchetto di riforme che hanno ottenuto il semaforo verde spicca l’abolizione del reato di abuso di ufficio, ossia l’articolo specifico con cui si sanzionava “un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle sue funzioni, compie un atto in violazione di leggi o regolamenti, con l’intenzione di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale oppure di arrecare ad altri un danno ingiusto”. Potranno dunque chiedere la revoca della loro condanna tutte le persone riconosciute colpevoli di aver commesso questo reato: oltre 3.600 dal 1997. Il ddl prevede inoltre norme che mettono paletti al lavoro giornalistico, impedendo ad esempio di pubblicare il testo di intercettazioni se non relativamente alle soli parti utilizzate nel processo.

Il testo è passato con 199 voti a favore sui 301 deputati presenti, mentre i voti contrari sono stati 102 (M5S, PD e AVS). Con l’approvazione del ddl Nordio è stata formalmente abolita la norma del codice penale (art.323) che punisce il pubblico ufficiale che, attraverso una consapevole violazione di leggi e regolamenti o obblighi di astensione, procura un danno ad altri o ottiene vantaggi per sé o altre persone. Nel 2020 il testo era già stato livellato al ribasso, con la specificazione che il reato non si potesse configurare ove sussistessero margini di discrezionalità amministrativa nell’adozione di un provvedimento. Ora, invece, l’abuso d’ufficio è stato del tutto cancellato, e l’effetto primario che scaturirà dal via libera parlamentare al ddl sarà la possibilità, per chiunque sia stato punito per tale reato, di chiedere la revoca della condanna. Al contempo, occorrerà però comprendere quanto peso avrà la nuova norma, nel frattempo introdotta dall’esecutivo nel decreto carceri, che reintroduce il reato di “peculato per distrazione”, che andrà a punire con una pena da 6 mesi a 3 anni chi – sempre che non residuino margini di discrezionalità amministrativa nel provvedimento – danneggia terzi o si procura vantaggi indirizzando somme di cui è in possesso per finalità diverse da quelle previste dalla legge. Con l’ok al ddl Nordio si mette inoltre mano al reato di traffico di influenze: se la pena edittale è stata alzata – nello specifico da 1 anno e 6 mesi a 4 anni e 6 mesi – è stato considerevolmente ristretto il suo ambito di applicazione, limitandolo solo a condotte particolarmente gravi. Per essere punibili, le relazioni del mediatore con il pubblico ufficiale dovranno infatti essere “utilizzate” e non solo “vantate”; inoltre, l’eventuale utilità data o promessa dovrà essere “economica“, non bastando la sussistenza di favori diversi da quelli che hanno valore monetizzabile.

La legge Nordio ha introdotto novità rilevanti anche sul fronte delle misure cautelari. Una delle questioni più discusse riguarda infatti la norma che impone al giudice di procedere all’interrogatorio dell’indagato prima di disporre il suo arresto. Tranne nei casi in cui “il giudice ritenga di abbreviare il termine, purché sia lasciato il tempo necessario per comparire”, l’indagato dovrà essere addirittura informato “almeno cinque giorni prima”. Il vincolo all’interrogatorio preventivo decade solo quando vi sia pericolo di fuga, inquinamento delle prove o rischio di reiterazione dei reati più gravi come mafia, terrorismo, violenze sessuali o stalking. Se attualmente a disporre le misure cautelari è il giudice monocratico, con le nuove norme la decisione sulla loro adozione sarà in capo a un organo collegiale formato da 3 giudici. Novità anche sugli avvisi di garanzia, all’interno dei quali dovrà essere contenuta una descrizione solo sommaria del fatto su cui si sta indagando. Si stabilisce poi che la consegna dell’atto avvenga in modalità tali da garantire la riservatezza del destinatario. È inoltre tornato “dalla finestra” il divieto per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione di primo grado. Era una delle più note leggi “ad personam” partorita dal governo berlusconi, già giudicata incostituzionale dalla Consulta: per questo motivo, nell’ultima versione, il divieto è stato circoscritto ai reati non gravi.

Ma non è finita qui. Con l’ok al ddl Nordio si modifica pesantemente anche la normativa sulle intercettazioni. Si è infatti stabilito che pm e giudici avranno l’obbligo di stralciare dai brogliacci e dai loro provvedimenti ogni riferimento alle persone terze estranee alle indagini. È stato inoltre introdotto un nuovo bavaglio alla stampa. Gli organi di informazione potranno infatti pubblicare soltanto le intercettazioni il cui contenuto venga “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Il governo è però intenzionato a intensificare ulteriormente la “stretta”: approderà presto in aula la proposta di legge firmata dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin attraverso cui si intende introdurre il divieto delle intercettazioni oltre la durata di 45 giorni (a esclusione di quelle legate ai reati di criminalità organizzata e terrorismo). Il testo va infatti a modificare l’articolo 267 del codice di procedura penale, in base a cui attualmente le intercettazioni sono invece prorogabili illimitatamente dal Gip su richiesta del pubblico ministero. Siamo, insomma, solo all’inizio di una lunga offensiva. E le associazioni di categoria di giornalisti e magistrati sono già sulle barricate.

[di Stefano Baudino]

Toti resta ai domiciliari: il Riesame rigetta l’istanza di revoca

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Giovanni Toti dovrà restare agli arresti domiciliari. Il tribunale del Riesame ha infatti respinto l’istanza di revoca per il presidente della Regione Liguria, che lo scorso 7 maggio è stato arrestato con l’accusa di corruzione. Toti rimarrà dunque in stato di detenzione nella sua casa di Ameglia, in provincia di La Spezia. I giudici hanno respinto anche le richieste di attenuazione della misura. Nelle 33 pagine di ordinanza con cui è stata motivata la bocciatura della richiesta vengono meno le cautele nei confronti delle garanzie di indagine, ma restano le tutele in ordine al rischio di reiterazione del reato.

Fondazione per la Scuola: l’istruzione pubblica sempre più al servizio di interessi privati

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Lo scorso 24 giugno, UniCredit, Banco BPM, Enel Italia S.p.A, Leonardo S.p.A e Autostrade per l’Italia hanno presentato a Milano la Fondazione per la Scuola Italiana, ente «no-profit» che opererà in coordinamento con il ministero dell’Istruzione e del Merito per gestire risorse ed esigenze del mondo dell’istruzione attraverso lo sviluppo di progetti e bandi. L’evento, che segna un ulteriore passo verso la subordinazione della scuola pubblica agli interessi privati, è passato quasi del tutto in sordina. Nel board della Fondazione, che entro il 2029 intende raccogliere 50 milioni di euro da aziende, privati e bandi, vi sono professori universitari, ma anche presidenti di altre fondazioni private e di banche. La nascita della Fondazione rappresenta un ulteriore tassello del piano neoliberale promosso dal Word Economic Forum (e dal suo modello di New Educational Institution) e si pone in continuità con la riforma della scuola italiana, iniziata nel 2022 con l’introduzione dei licei TED, cui collaborano colossi privati.

La Fondazione per la Scuola Italiana, stata presentata presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, si occuperà dunque di recepire le esigenze territoriali e ottimizzare l’allocazione di risorse, attraverso lo sviluppo di progetti e bandi nazionali. Per la collaborazione tra il pubblico e il privato è stato firmato il Protocollo d’Intesa tra il ministero e la Fondazione che riunisce UniCredit, Banco BPM, Enel Italia S.p.A, Leonardo S.p.A e Autostrade per l’Italia. Sul proprio sito, il ministero ha sottolineato come in Italia gli investimenti dei privati nella scuola rappresentino solamente lo 0,5% delle spese totali rispetto alla media OCSE, che invece si attesta al 2%. «All’insegna di una grande alleanza tra pubblico e privato, è importante incoraggiare anche gli investimenti del mondo dell’imprenditoria e della finanza per contribuire a supportare, in sintonia con le politiche pubbliche, il sistema scolastico, rendendolo sempre più competitivo. In questa direzione va la costituzione della Fondazione per la scuola italiana», ha dichiarato il ministro Valditara. Nello svolgimento della propria attività, la Fondazione ha fissato come obiettivo la raccolta di 10 milioni di euro nel primo anno, per arrivare a 50 milioni entro il 2029. Gli ambiti in cui intervenire saranno definiti in coordinamento con il ministero dell’Istruzione e del Merito.

Nominato a presiedere la nuova Fondazione, Stefano Simontacchi, partner dello studio legale BonelliErede. Il Consiglio di Amministrazione è invece formato da Giovanni Azzone (presidente della Fondazione Cariplo), Fabrizio Palenzona (presidente del Gruppo Prelios) e Rosa Lombardi, docente ordinario dell’Università La Sapienza di Roma. Inoltre, la Fondazione si è dotata di un Collegio dei Garanti, formato da Mario Comba, in qualità di Presidente, e dai professori Giampio Bracchi, Francesco Magni, Francesco Manfredi e Anna Maria Poggi, oltre all’avvocato Umberto Ambrosoli (presidente di Fondazione BPM e di Banca Aletti), Maurizio Beretta (presidente della Fondazione Unicredit) e Nicolò Mardegan, direttore delle relazioni esterne di ENEL. «La Fondazione ha lo scopo di fornire, di concerto con il Ministero, un sostegno economico concreto alle istituzioni scolastiche italiane. Aspiriamo a instaurare un dialogo virtuoso tra aziende e istituti per contribuire a rafforzare ulteriormente il sistema scolastico per affrontare le sfide di oggi e di domani», ha dichiarato Stefano Simontacchi.

Andrea Orcel, CEO di UniCredit Group, ha commentato: «UniCredit si impegna a sostenere lo sviluppo delle competenze dei giovani e ciò si aggiunge anche alle iniziative di promozione dell’istruzione che abbiamo realizzato in tutta Europa grazie a UniCredit Foundation e alla strategia sociale del Gruppo. UniCredit conferma così il proprio ruolo attivo nel promuovere un sistema scolastico innovativo e inclusivo puntando a ridurre il divario educativo e a incrementare gli investimenti privati nell’istruzione, essenziali per la crescita e il progresso del Paese». Roberto Cingolani, amministratore delegato e direttore generale di Leonardo, ha invece affermato: «Leonardo ha aderito con entusiasmo alla nascita della Fondazione per la scuola italiana, un progetto pienamente coerente con le attività di outreach del gruppo Leonardo a sostegno della valorizzazione delle discipline Stem. La formazione dei giovani è il miglior investimento possibile per il futuro del Paese». «Il tema dell’istruzione e del capitale umano è cruciale. Lo è perché il mondo delle imprese abbia a disposizione i lavoratori con le giuste competenze e anche, e soprattutto, per una questione di equità sociale. Dobbiamo dare la possibilità ai giovani di costruirsi un futuro. I dati ci dicono oggi che sempre più spesso le imprese hanno difficoltà a trovare le competenze di cui hanno bisogno», le parole di Roberto Tomasi, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia.

A parte le considerazioni e i commenti riguardo l’equità sociale e il futuro dei giovani, quello che emerge è fondamentalmente l’interesse del settore privato a formare i lavoratori di domani, il capitale umano da mettere al servizio dei grandi gruppi privati, più che esseri umani con capacità critiche e cittadini consapevoli con una propria dignità sociale – al di là delle competenze tecniche necessarie al mondo del lavoro che cambia, che pur ci devono essere, ma non come scopo primario della scuola pubblica. Questo si pone in linea di continuità con la riforma della scuola del 2022 e l’istituzione dei licei TED, il cui programma e il cui funzionamento si avvale della rete di grandi gruppi e imprese che aderiscono al Consorzio di aziende CONSEL, tra cui figurano aziende come Microsoft, Eni, Atlantia, Huawei, BNL, Enel, Generali, IBM, Leonardo, Cisco, Nokia, Oracle, Sky, Vodafone e Snam. Tutto quanto rientra poi nel piano neoliberale più ampio portato avanti dal Word Economic Forum e il suo modello educativo “alternativo” per il futuro, chiamato New Educational Institution.

[di Michele Manfrin]

Israele, ordinata l’evacuazione di Gaza. Media: spari sulla folla

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Nella giornata di ieri le Forze di Difesa Israeliane hanno ordinato l’evacuazione da “specifiche aree” di Gaza City, spingendo i civili palestinesi a un secondo spostamento di massa dalla capitale. Le IDF avevano precedentemente dichiarato di avere ottenuto il pieno controllo della città. Secondo fonti giornalistiche, le persone intente a lasciare la città sarebbero state prese di mira dai colpi di alcuni cecchini. Nel frattempo l’esercito israeliano avrebbe iniziato l’assedio del quartiere di Tal al-Hawa nella medesima città, uccidendo, secondo il quotidiano Al Jazeera, almeno 30 persone. Dall’escalation del 7 ottobre le vittime palestinesi sarebbero arrivate a 38.295 persone; 88.241, invece, i feriti.

Secondo un nuovo studio anche il cervello controlla il battito del cuore

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Nonostante a controllare i battiti del cuore sia principalmente il sistema nervoso autonomo, anche il cervello può avere la sua parte: è quanto emerge da una nuova ricerca sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sui volumi della rivista scientifica Science. I ricercatori, diretti da Airi Yoshimoto dell’Università di Tokio, hanno stimolato particolari regioni del cervello dei ratti scoprendo che in poco tempo le cavie hanno imparato a ridurre la frequenza cardiaca entro 30 minuti e hanno ottenuto una diminuzione dei batti di circa il 50% dopo cinque giorni di allenamento. Si tratta di una...

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Sono stati pubblicati nuovi video inediti sugli attacchi dell’11 settembre 2001

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È stato reso pubblico un nuovo video, risalente a 25 anni fa, che potrebbe far luce su alcuni punti ancora oscuri riguardo gli attentati dell’11 settembre 2001. Nel video appare un uomo, Omar al-Bayoumi, identificato dal FBI come un possibile agente dell’intelligence saudita. Al-Bayoumi filmò e si fece filmare in vari quartieri di Washington, sostando davanti alla Casa Bianca, al Campidoglio e al monumento a George Washington, luoghi iconici e turistici della capitale statunitense che le autorità ritengono potessero essere l’obiettivo dell’aereo che si è poi schiantato a terra nei pressi di Shanksville, in Pennsylvania. Il filmato, girato nell’estate del 1999 e in possesso dell’FBI, è stato reso pubblico grazie ad un’azione legale di 9/11 Justice, associazione formata dai parenti delle vittime degli attentati, dai sopravvissuti e dai primi soccorritori, la quale sostiene che il governo saudita sia coinvolto negli attacchi che hanno sconvolto gli USA e il mondo.

Il video è stato reso pubblico da un giudice, su ordine del tribunale federale, che si occupa della causa che 9/11 Justice sta portando avanti da anni. Il filmato fu inizialmente trovato dagli investigatori britannici nell’appartamento di Bayoumi nei giorni successivi all’attacco del 2001, quando egli era ancora uno studente di dottorato alla Aston University di Birmingham. Nell’appartamento fu trovata anche una rubrica che, secondo gli avvocati delle famiglie, contiene i dettagli dei contatti dei funzionari del governo saudita dell’epoca. Scotland Yard consegnò poi tutto all’FBI. Nel corso di una conferenza stampa svoltasi lo scorso martedì, i membri di 9/11 Justice hanno dichiarato di essere delusi dal fatto che il presidente Joe Biden, l’ex presidente Donald Trump e i legislatori non abbiano affrontato quelle che il gruppo definisce «rivelazioni esplosive». «Non cerchiamo più di essere coccolati o confortati. Siamo arrabbiati. E il nostro governo non è riuscito a portarci responsabilità e giustizia» ha detto Brett Eagleson, presidente dell’associazione.

Questo avviene mentre si dovrà decidere se chiudere o meno la causa intentata contro l’Arabia Saudita, la quale ha fatto richiesta di archiviazione in quanto estranea ai fatti e in quanto Nazione sovrana straniera e aliena ai tribunali statunitensi. I querelanti affermano però di aver raccolto «prove schiaccianti» riguardanti i «funzionari e agenti del governo saudita», i quali costituivano una «rete di supporto essenziale per gli estremisti pro-jihadisti, compresi i primi dirottatori dell’11 settembre, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar». Queste sarebbero prove sufficienti ai sensi del Justice Against Sponsors of Terrorism Act (JASTA), la legge federale del 2016 che permette ai cittadini statunitensi di citare in giudizio Paesi stranieri che forniscono sostegno diretto o indiretto ai terroristi.

L’Arabia Saudita ha sempre negato che Bayoumi fosse un suo agente: secondo il Paese arabo, questi sarebbe stato a lungo oggetto di speculazioni a causa dei suoi legami con due uomini identificati come dirottatori dell’11 settembre, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar. Un rapporto dell’FBI, declassificato nel marzo 2022, sosteneva che esistesse una probabilità del 50% che Bayoumi fosse a conoscenza avanzata degli attacchi dell’11 settembre, proprio in virtù dalla sua relazione con Hazmi e Mihdhar. L’FBI sostiene che, quando Bayoumi stava girando il video, si trovava insieme a due diplomatici sauditi, i quali, secondo l’agenzia federale, avevano legami con al-Qaeda. Il rapporto ufficiale della Commissione sull’11 settembre, un documento di 585 pagine pubblicato nel 2004 dai risultati di un’inchiesta istituita dal governo degli Stati Uniti, riferendosi a Bayoumi, afferma: «Non abbiamo visto alcuna prova credibile che credesse nell’estremismo violento o aiutasse consapevolmente gruppi estremisti».

Perché questo filmato viene reso pubblico proprio adesso? Il documento mette nuovamente l’Arabia Saudita al centro del dibattito sui fatti dell’11 settembre, dopo anni di processi senza verità e senza nuove rivelazioni. In qualunque modo siano andate effettivamente i fatti (su cui rimangono una valanga di domande, buchi neri e omertà), è quantomai singolare che un video che potrebbe incriminare l’Arabia Saudita venga reso pubblico proprio in questo momento. Il regno saudita pare infatti volersi smarcare dalla presa occidentale, specie statunitense, e portare avanti una propria politica estera che non sia totalmente sottomessa a Washington. Dopo l’attacco israeliano a Gaza, il Paese arabo ha messo in stand-by gli Accordi di Abramo, i quali avrebbero portato alla normalizzazione dei rapporti del regno con Israele. Lo scorso anno è stato inoltre siglato lo storico accordo di pace e cooperazione firmato tra Arabia Saudita e Iran, per intermediazione della Cina, che ha cambiato gli equilibri della regione mediorientale. Inoltre, l’Arabia Saudita, dal primo gennaio di quest’anno, è ammessa al gruppo BRICS, sebbene ancora non vi abbia ancora aderito in maniera ufficiale – forse proprio per cercare di mantenere una certa equidistanza tra il blocco occidentale e quello delle nuove potenze. Da ultimo, nelle scorse settimane, l’Arabia Saudita avrebbe fatto intendere ai Paesi del G7 di essere pronta a liquidare le sue partecipazioni al debito di questi Stati qualora i 300 miliardi di euro sequestrati alla Russia fossero definitivamente confiscati. Insomma, nell’ultimo anno, l’Arabia Saudita ha cercato di ritagliarsi una propria posizione geopolitica sullo scacchiere internazionale, il che ha fatto certamente preoccupare gli apparati di Washington.

[di Michele Manfrin]

“Cari media liberali, scusate se sono sopravvissuto”: Robert Fico torna al lavoro

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«Cari media liberali progressisti e opposizione, scusate se sono sopravvissuto, ma sono tornato», è quanto ha scritto su Facebook il primo ministro della Slovacchia, dopo essere tornato a presiedere di persona martedì la riunione del governo, per la prima volta dopo il grave attentato subito lo scorso maggio. «Sto lentamente tornando al lavoro e spero che presto sarò abbastanza in forma da poter esercitare appieno la carica a cui i cittadini della Repubblica Slovacca mi hanno eletto», ha aggiunto il politico slovacco. Fico era stato gravemente ferito il 15 maggio scorso da quattro colpi di pistola – mentre si trovava nella città di Handlová, nel centro della Slovacchia – esplosi da un attentatore che ha detto di avere agito perché «in disaccordo con le politiche del governo».

Capo del partito di sinistra Smer – etichettato dai media liberali come «populista» – e primo ministro della Slovacchia dall’ottobre 2023, Fico si è distinto per le sue posizioni critiche riguardo al sostegno militare occidentale all’Ucraina, avvicinandosi alla linea politica del primo ministro ungherese Orban e guadagnandosi la nomea screditante di «filorusso» da parte degli stessi media occidentali filoatlantici. Il primo ministro di Bratislava fin da prima della sua elezione si era dichiarato contrario all’adesione di Kiev nella NATOha sostenuto apertamente che il conflitto è stato innescato nel 2014, «quando i fascisti ucraini hanno cominciato a uccidere vittime civili di nazionalità russa». Ha sospeso quindi l’invio di armi del suo Paese all’Ucraina. Il suo approccio non aderente alle politiche NATO gli ha inimicato i principali media occidentali, i quali, in seguito all’attentato, hanno lavorato per demonizzare il politico di Smer, ritraendolo come un populista, filorusso e no vax e – di contro – descrivendo paradossalmente l’attentatore Juraj Cintula, un ex guardia giurata di 71 anni, come un poeta e pacifista.

Ripresosi da un intervento estremamente delicato che gli ha salvato la vita, Fico è tornato a lavoro ieri prendendosi una piccola rivincita sui mezzi di comunicazione liberali, sottolineando l’approccio parziale e manipolatorio di quest’ultimi e dichiarando di voler tornare a lavorare per l’interesse nazionale, ossia per i cittadini che lo hanno votato.

Rapporto Amnesty: in Europa il diritto alla protesta è sempre meno tutelato

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Poco tutelato e troppo ostacolato: questo, secondo Amnesty, è lo stato del diritto alla protesta in 21 Paesi europei. Il nuovo rapporto della ONG testimonia come il diritto alla protesta pacifica sia sotto attacco in tutta Europa, in quanto «le autorità statali stigmatizzano, criminalizzano e reprimono sempre più», imponendo «restrizioni ingiustificate e punitive e ricorrendo a mezzi sempre più repressivi per soffocare il dissenso». Una situazione nella quale l’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine, anche contro i minorenni, si unisce all’impiego diffuso di nuovi strumenti di sorveglianza (come il riconoscimento facciale) e alla demonizzazione di chi protesta (spesso definito «terrorista» o «estremista»). In Italia, a tale clima contribuisce, per esempio, la legge 6/2024, volta a reprimere le proteste degli ambientalisti inasprendo le sanzioni per danneggiamento e deturpamento contro beni culturali o paesaggistici.

Il rapporto pubblicato da Amnesty nella giornata di ieri rileva un impianto sistematico di «leggi repressive, uso eccessivo o non necessario della forza, arresti e procedimenti arbitrari, restrizioni ingiustificate o discriminatorie». Per quanto concerne l’uso della violenza, l’ONG elenca una serie di casi in cui sono stati rilevati danni fisici talvolta permanenti, «tra cui ossa o denti rotti (Francia, Germania, Grecia, Italia), la perdita di una mano (Francia), la perdita di un testicolo (Spagna), slogature, danni agli occhi e traumi cranici gravi (Spagna)»; questi episodi di violenza troverebbero la loro massima rappresentazione in quelle situazioni in cui «l’uso della forza ha costituito tortura o altri maltrattamenti», talvolta riservati addirittura a minorenni. L’impiego eccessivo della forza sarebbe inoltre accompagnato da un generale clima di impunità, che si tradurrebbe in una mancanza di assunzione di responsabilità da parte delle forze dell’ordine che secondo Amnesty trova sede in numerosi Paesi europei. A schiacciare ancora di più le libertà della persona vi sono inoltre, secondo l’ONG, in sempre più integrati sistemi di sicurezza che fanno uso i misura sempre maggiore di «nuove tecnologie e vari strumenti di sorveglianza per effettuare controlli mirati e di massa», quali per esempio telecamere a riconoscimento facciale per identificare coloro che manifestano.

La violenza di cui parla Amnesty non sarebbe solo fisica, ma sfocerebbe anche nell’ambito istituzionale. Nello specifico, l’ONG fa riferimento a tutte quelle leggi repressive e «restrizioni draconiane» attive nei vari Paesi europei. Queste, secondo l’organizzazione umanitaria, andrebbero contro le molteplici norme internazionali che proteggono il diritto di riunione pacifica, ratificate da quegli stessi Stati che tuttavia «non le hanno attuate nella legislazione nazionale». Nello specifico, queste norme prendono di mira tutte quelle forme di disobbedienza civile che, nonostante le modalità pacifiche, vengono sempre più represse e criminalizzate. Nella formulazione di nuove leggi contro la disobbedienza, l’Italia figura capofila, specialmente nella sua personale lotta all’ecoattivismo, rilanciata dalla legge promulgata lo scorso gennaio. Questa battaglia all’ambientalismo assume nel Belpaese un forte valore deterrente, infatti sta ripetutamente fallendo nelle aule di tribunale.

Ultima, ma non meno importante, è quella forma di soffocamento del dissenso che, più che palesarsi nelle aule parlamentari o tra le fila dei cortei, fa da sfondo all’intero impianto repressivo: la demonizzazione dei manifestanti. Secondo Amnesty, la repressione sociale opererebbe più insidiosamente, attraverso l’uso di una «retorica stigmatizzante» che, descrivendo coloro che protestano come criminali che minacciano la sicurezza e l’ordine pubblici, fornirebbe «alle autorità un falso pretesto per imporre restrizioni ed eludere gli obblighi internazionali in materia di diritti umani». In tal senso è proprio passando dalla demonizzazione delle proteste che si riuscirebbe a giustificare quello stesso impiego della forza e quel medesimo inasprimento delle leggi che secondo Amnesty starebbero prendendo una piega preoccupante in tutta Europa. Tutti questi fattori messi insieme sarebbero causa di un vero e proprio sistema di discriminazione. Questo si baserebbe sull’«effetto intimidatorio» derivante dalle pratiche repressive in atto nei diversi Paesi europei, che colpirebbe «in modo sproporzionato le persone di gruppi razzializzati e marginalizzati». Secondo l’organizzazione umanitaria «l’identità percepita delle persone che organizzano e partecipano alle proteste, così come le cause per cui si mobilitano, influenzano le restrizioni imposte dalle autorità», fondandosi sulla falsa equivalenza minoranza = persona che manifesta = criminale, e manifestando così «razzismo istituzionale, omofobia, transfobia e altre forme di discriminazione».

[di Dario Lucisano]