«Cari media liberali progressisti e opposizione, scusate se sono sopravvissuto, ma sono tornato», è quanto ha scritto su Facebook il primo ministro della Slovacchia, dopo essere tornato a presiedere di persona martedì la riunione del governo, per la prima volta dopo il grave attentato subito lo scorso maggio. «Sto lentamente tornando al lavoro e spero che presto sarò abbastanza in forma da poter esercitare appieno la carica a cui i cittadini della Repubblica Slovacca mi hanno eletto», ha aggiunto il politico slovacco. Fico era stato gravemente ferito il 15 maggio scorso da quattro colpi di pistola – mentre si trovava nella città di Handlová, nel centro della Slovacchia – esplosi da un attentatore che ha detto di avere agito perché «in disaccordo con le politiche del governo».
Capo del partito di sinistra Smer – etichettato dai media liberali come «populista» – e primo ministro della Slovacchia dall’ottobre 2023, Fico si è distinto per le sue posizioni critiche riguardo al sostegno militare occidentale all’Ucraina, avvicinandosi alla linea politica del primo ministro ungherese Orban e guadagnandosi la nomea screditante di «filorusso» da parte degli stessi media occidentali filoatlantici. Il primo ministro di Bratislava fin da prima della sua elezione si era dichiarato contrario all’adesione di Kiev nella NATO e ha sostenuto apertamente che il conflitto è stato innescato nel 2014, «quando i fascisti ucraini hanno cominciato a uccidere vittime civili di nazionalità russa». Ha sospeso quindi l’invio di armi del suo Paese all’Ucraina. Il suo approccio non aderente alle politiche NATO gli ha inimicato i principali media occidentali, i quali, in seguito all’attentato, hanno lavorato per demonizzare il politico di Smer, ritraendolo come un populista, filorusso e no vax e – di contro – descrivendo paradossalmente l’attentatore Juraj Cintula, un ex guardia giurata di 71 anni, come un poeta e pacifista.
Ripresosi da un intervento estremamente delicato che gli ha salvato la vita, Fico è tornato a lavoro ieri prendendosi una piccola rivincita sui mezzi di comunicazione liberali, sottolineando l’approccio parziale e manipolatorio di quest’ultimi e dichiarando di voler tornare a lavorare per l’interesse nazionale, ossia per i cittadini che lo hanno votato.
Poco tutelato e troppo ostacolato: questo, secondo Amnesty, è lo stato del diritto alla protesta in 21 Paesi europei. Il nuovo rapporto della ONG testimonia come il diritto alla protesta pacifica sia sotto attacco in tutta Europa, in quanto «le autorità statali stigmatizzano, criminalizzano e reprimono sempre più», imponendo «restrizioni ingiustificate e punitive e ricorrendo a mezzi sempre più repressivi per soffocare il dissenso». Una situazione nella quale l’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine, anche contro i minorenni, si unisce all’impiego diffuso di nuovi strumenti di sorveglianza (come il riconoscimento facciale) e alla demonizzazione di chi protesta (spesso definito «terrorista» o «estremista»). In Italia, a tale clima contribuisce, per esempio, la legge 6/2024, volta a reprimere le proteste degli ambientalisti inasprendo le sanzioni per danneggiamento e deturpamento contro beni culturali o paesaggistici.
Il rapporto pubblicato da Amnesty nella giornata di ieri rileva un impianto sistematico di «leggi repressive, uso eccessivo o non necessario della forza, arresti e procedimenti arbitrari, restrizioni ingiustificate o discriminatorie». Per quanto concerne l’uso della violenza, l’ONG elenca una serie di casi in cui sono stati rilevati danni fisici talvolta permanenti, «tra cui ossa o denti rotti (Francia, Germania, Grecia, Italia), la perdita di una mano (Francia), la perdita di un testicolo (Spagna), slogature, danni agli occhi e traumi cranici gravi (Spagna)»; questi episodi di violenza troverebbero la loro massima rappresentazione in quelle situazioni in cui «l’uso della forza ha costituito tortura o altri maltrattamenti», talvolta riservati addirittura a minorenni. L’impiego eccessivo della forza sarebbe inoltre accompagnato da un generale clima di impunità, che si tradurrebbe in una mancanza di assunzione di responsabilità da parte delle forze dell’ordine che secondo Amnesty trova sede in numerosi Paesi europei. A schiacciare ancora di più le libertà della persona vi sono inoltre, secondo l’ONG, in sempre più integrati sistemi di sicurezza che fanno uso i misura sempre maggiore di «nuove tecnologie e vari strumenti di sorveglianza per effettuare controlli mirati e di massa», quali per esempio telecamere a riconoscimento facciale per identificare coloro che manifestano.
La violenza di cui parla Amnesty non sarebbe solo fisica, ma sfocerebbe anche nell’ambito istituzionale. Nello specifico, l’ONG fa riferimento a tutte quelle leggi repressive e «restrizioni draconiane» attive nei vari Paesi europei. Queste, secondo l’organizzazione umanitaria, andrebbero contro le molteplici norme internazionali che proteggono il diritto di riunione pacifica, ratificate da quegli stessi Stati che tuttavia «non le hanno attuate nella legislazione nazionale». Nello specifico, queste norme prendono di mira tutte quelle forme di disobbedienza civile che, nonostante le modalità pacifiche, vengono sempre più represse e criminalizzate. Nella formulazione di nuove leggi contro la disobbedienza, l’Italia figura capofila, specialmente nella sua personale lotta all’ecoattivismo, rilanciata dalla legge promulgata lo scorso gennaio. Questa battaglia all’ambientalismo assume nel Belpaese un forte valore deterrente, infatti sta ripetutamente fallendo nelle aule di tribunale.
Ultima, ma non meno importante, è quella forma di soffocamento del dissenso che, più che palesarsi nelle aule parlamentari o tra le fila dei cortei, fa da sfondo all’intero impianto repressivo: la demonizzazione dei manifestanti. Secondo Amnesty, la repressione sociale opererebbe più insidiosamente, attraverso l’uso di una «retorica stigmatizzante» che, descrivendo coloro che protestano come criminali che minacciano la sicurezza e l’ordine pubblici, fornirebbe «alle autorità un falso pretesto per imporre restrizioni ed eludere gli obblighi internazionali in materia di diritti umani». In tal senso è proprio passando dalla demonizzazione delle proteste che si riuscirebbe a giustificare quello stesso impiego della forza e quel medesimo inasprimento delle leggi che secondo Amnesty starebbero prendendo una piega preoccupante in tutta Europa. Tutti questi fattori messi insieme sarebbero causa di un vero e proprio sistema di discriminazione. Questo si baserebbe sull’«effetto intimidatorio» derivante dalle pratiche repressive in atto nei diversi Paesi europei, che colpirebbe «in modo sproporzionato le persone di gruppi razzializzati e marginalizzati». Secondo l’organizzazione umanitaria «l’identità percepita delle persone che organizzano e partecipano alle proteste, così come le cause per cui si mobilitano, influenzano le restrizioni imposte dalle autorità», fondandosi sulla falsa equivalenza minoranza = persona che manifesta = criminale, e manifestando così «razzismo istituzionale, omofobia, transfobia e altre forme di discriminazione».
Come ogni anno, puntuale come il rintocco di una campana, gli esami di maturità hanno dato vita a infinite polemiche. Ormai è uno sport nazionale fare di questo rito di passaggio un momento di contestazione. Merita però un approfondimento la critica mossa dal professor Claudio Giunta, che sul Foglio è stato autore di un articolo dal titolo volutamente provocatorio: «Abolire la maturità? No, teniamoci l’esame di Stato e aboliamo Ungaretti!» Ungaretti fa male ai ragazzi, li rende depressi, dunque tanto vale abolirlo!
Il casus belli è stato innescato dalla poesia scelta come traccia per la prima prova scritta: Pellegrinaggio. Ungaretti la scrisse nel 1916 durante la sua esperienza in trincea. In agguato «in queste budella di macerie, ore e ore ho strascicato la mia carcassa usata dal fango», scrive il poeta che s’interroga sulla guerra e i suoi perché. Riflessioni che se potevano sembrare anacronistiche negli anni passati, oggi all’alba di un nuovo conflitto mondiale, meriterebbero di non essere liquidate tanto frettolosamente.
Ma Ungaretti è noioso! Tocca temi troppo difficili, troppo dolorosi per i ragazzi! Perché costringerli a queste dolenti riflessioni, se fuori fa caldo e c’è il sole, si domanda il professor Giunta. L’idea alla base di queste affermazioni è che i ragazzi siano incapaci di apprezzare un testo dal contenuto profondo e luttuoso. Certo, Ungaretti è il cantore del tempo che fugge e delle mutevoli stagioni, dell’attesa di un bagliore che non arriva e se arriva è simile a un lampo che acceca. Parla di ferite che fanno fatica a rimarginarsi, «come si può ch’io regga a tanta notte» scrive, perché sì siamo uomini, non macchine, e ogni urto lascia addosso una cicatrice. Andrebbe letto quando si cerca l’eco delle proprie inquietudini nei versi di un poeta, inquietudini che i ragazzi conoscono bene dato che l’adolescenza è l’età per eccellenza delle grandi domande.
Ma la critica del professor Giunta non investe soltanto Ungaretti. Sostiene che sarebbe preferibile abolire tutta quella deprimente, e qui cito testualmente, «letteratura mortuaria». «Questa nota mortuaria – in un momento topico come l’Esame di Stato – rischia di innescare nei cervelli degli studenti brutte reazioni pavloviane: finiranno per pensare che la letteratura si occupa della morte o dei morenti, mentre fuori dalla finestra splende il sole di giugno».
Insomma far analizzare ai ragazzi poesie che parlano della morte li porta ad associare la letteratura con la morte stessa e il sottinteso è che ciò alla fine li deprima. Peccato che la letteratura, tutta la letteratura, è un dialogo con la morte. Non c’è domanda più impellente, più urgente che si ponga. Dal confronto con la morte nascono le pagine più belle di tutta la letteratura mondiale. Io adesso potrei citare romanzi come La morte di Ivan Illich o Gli ultimi giorni di un condannato a mortedi Hugo, potrei citare Dostoevskij, Dante, Tolstoj dove la ricerca di Dio, la morte e il desiderio d’immortalità sono un tutt’uno.
Ma anche nei romanzi che apparentemente celebrano la vita, che mettono in scena drammi borghesi, che sembrano estranei alle grandi domandi esistenziali, la morte è sempre lì, in agguato: è ciò che insidia la felicità terrena, ciò che mette un limite e un freno alle ambizioni e ai sogni umani, è lo sfondo su cui s’innesta ogni contrasto. La consapevolezza della mortalità si trasforma in desiderio di azioni eroiche nel Don Chisciotte, diventa ossessione e devozione della stirpe nei Buddenbrook, unica forma d’immortalità e ancora contro la vacuità delle tenebre eterne; è la cornice che alimenta i racconti boccacceschi che celebrano l’amore e il divertissement per sfuggire al dramma della peste. La morte è nello slancio verso quell’immensità e quei «sovraumani spazi e interminati silenzi» dell’Infinito; è nell’invocazione che il pastore errante di Leopardi rivolge alla luna quando si domanda «ove tende questo mio breve vagar?». La morte diventa tragedia in Shakespeare e in Eschilo quando chiede a gran voce di essere vendicata; è palcoscenico e terreno di scontro quando ci si interroga sulla sepoltura dai dare ai defunti come nell’Antigone.
La morte è l’eterna costante, il motore di ogni azione. Fare letteratura significa dialogare con la morte, ciò che cambia è il modo in cui un artista rappresenta la morte, quali sfumature ne indaga. Ma il dialogo, il confronto con la morte non è soltanto una roba da letterati. Non c’è uomo, donna o bambino che non conosca la morte. Il confronto è obbligato. Quando perdiamo un amico, un conoscente, un familiare, quando affrontiamo una malattia i nostri pensieri non saranno diversi da quelli che vengono in mente ad Amleto mentre contempla il teschio di Yorick. Che tu sia un principe danese o un uomo del XXI secolo non potrai fare a meno di chiederti: «Cosa c’è dopo la morte? Per cosa vale la pena vivere? Per cosa vogliamo vivere?»
Queste domande non trovano più posto nella nostra società dove la morte è il grande rimosso collettivo. Se nei media e nei prodotti cinematografici la morte è spettacolarizzata, nella vita quotidiana viene nascosta. Con la rimozione della morte dal tessuto collettivo, le emozioni associate ed essa prendono il nome di patologia, malessere, depressione. La tristezza, il lutto, la malinconia, l’angoscia non vanno d’accordo con il mito dell’eterna giovinezza e della felicità a tutti i costi, miti che vanno ad alimentare l’industria farmaceutica, cosmetica e qualsiasi altro commercio. Oggi la felicità non è un mito né uno stile di vita né un dovere sociale ma è un’industria. Un business. Un mercato miliardario che vende di tutto, dagli integratori agli antidepressivi ai manuali di self-help, un mercato che si autoalimenta costruendo da sé i suoi stessi miti.
Ecco perché allora in un’epoca che ha fatto della felicità un mantra, dell’essere energici e sorridenti un dovere sociale, perché un lavoratore per produrre tanto deve essere innanzitutto efficiente e un consumatore per generare profitto deve illudersi di potersi comprare la felicità, ecco in una simile epoca forse sarebbe opportuno tornare a leggere Ungaretti e tutti quegli altri poeti e scrittori «mortuari» che tanto si critica.
A Barcellona, in Spagna, migliaia di persone hanno manifestato contro il sovraffollamento di turisti in città e contro la crescente dipendenza dell’economia locale dal turismo di massa, in una città che conta 1,6 milioni di abitanti e 30 milioni di turisti annuali. La manifestazione è stata organizzata da oltre cento associazioni e guidata dall’Assemblea de Barris pel Decreixement Turístic (Assemblea dei quartieri per la decrescita turistica), che da anni chiede un ripensamento del modello turistico in favore di una maggiore attenzione alla sostenibilità. L’evento segue una lunga scia di proteste che si susseguono da settimane. I manifestanti, questa volta, hanno simbolicamente bloccato le uscite di hotel e locali affollati dai turisti con nastro adesivo e nastro rosso e bianco, fino all’intervento della polizia.
La manifestazione – partecipata da diverse associazioni, sia di coinquilini che collettivi studenteschi di sinistra – è partita dalla Rambla, viale di Barcellona che collega Plaça de Catalunya con il Port Vell, confluendo nei quartieri del centro e terminando il suo percorso sulla spiaggia della Barceloneta. All’insegna dello slogan “Basta! Mettiamo limiti al turismo”, i dimostranti si sono a più riprese fermati di fronte alle entrate degli alberghi e nei punti di ritrovo turistici più affollati, mostrando cartelli recanti scritte come “Barcellona non è in vendita” e “Turisti a casa”. Sebbene il corteo si sia svolto in maniera totalmente pacifica, sono emersi anche momenti di tensione, specie quando i manifestanti hanno spruzzato acqua contro i turisti seduti nei dehors dei punti di ristoro con pistole ad acqua. A scatenare la protesta è stata, in particolare, la riflessione sul vertiginoso incremento del costo degli alloggi in città, salito addirittura – come spiegato dal sindaco Jaume Collboni – del 68% nell’ultimo decennio e di circa il 18% soltanto nell’ultimo anno. I cittadini attribuiscono questo aumento dei prezzi proprio al turismo di massa, che ha ridisegnato l’economia cittadina e portato alla chiusura di molte botteghe tradizionali di Barcellona, che stanno progressivamente lasciando il campo a sempre più numerosi negozi di souvenir. I cittadini protestano, inoltre, per l’incessante passaggio degli autobus turistici ai danni dei bus di quartiere.
Barcellona vede arrivare ogni anno in città circa 30 milioni di turisti. Una situazione che, con il passare del tempo, risulta sempre più critica. Nei quartieri della città catalana, infatti, le licenze, facilmente accessibili per le attività commerciali, sono destinate a ristoranti finalizzati al turismo; gli orari di attività si dilatano, le cucine rimangono aperte tutto il giorno e fino a tarda notte e dove prima figuravano insegne di parrucchieri, macellai o calzolai, adesso campeggiano quelle dei noleggi di monopattini, elaborati tapas bar e ristoranti da brunch. Le misure di gestione turistica non sono riuscite a limitare un altro fenomeno che in egual misura ha influito sulla condizione dei quartieri storici, ovvero l’aumento degli expat e del nomadismo digitale. Persone con un potere d’acquisto elevato, che avendo la possibilità di vivere ovunque, grazie allo smartworking offerto da ingombranti aziende straniere, si stabiliscono, spesso per brevi periodi, in luoghi dove la qualità della vita è maggiore. Accedendo così a contratti d’affitto brevi, questa nuova comunità dà vita ad un processo che genera attività in linea con il consumismo globalizzato e che altera l’equilibrio cittadino.
A ogni modo, la cronaca ci racconta che le proteste di Barcellona non sono un caso isolato in Spagna. La scorsa settimana, per esempio, la città di Malaga ha vissutouna intensa giornata di mobilitazione con migliaia di persone che sono scese in strada per chiedere che siano intraprese misure per contrastare i danni del turismo di massa. In particolare, i cittadini hanno chiesto misure concrete per frenare il fenomeno degli affitti brevi e contrastare l’aumento dei prezzi degli affitti per i residenti sul mercato immobiliare, giunto a livelli considerati insostenibili. Poche settimane prima un’analoga mobilitazione aveva interessato le isole Canarie. Ad aprile, decine di migliaia di persone erano invece scese in piazza a Tenerife per protestare contro l’impatto del turismo di massa sull’ambiente e sull’economia locale. Il mese successivo era toccato a Palma di Maiorca, dove migliaia di persone hanno protestato contro l’overtourism al grido di “Maiorca non è in vendita!”.
Oggi in tarda mattinata è stato approvato in via definitiva il cosiddetto “ddl Nordio” che prevede varie modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare. In sede di votazione 199 parlamentari favorevoli – tra cui i deputati di Italia Viva e Azione – e 102 contrari. Il ddl Nordio tra le altre cose abolisce l’articolo 323 del codice penale relativo al reato di abuso di ufficio, che punisce chi commette illeciti nell’esercizio delle proprie funzioni di pubblico ufficiale, come nel caso dei sindaci. Tale articolo è stato spesso criticato da parte degli amministratori locali perché visto come un limite ai processi decisionali.
Le immagini dell’attacco all’ospedale pediatrico ucraino Okhmatdyt hanno fatto il giro del mondo e, mentre Kiev e Mosca si scambiano accuse circa la responsabilità dell’accaduto, i media occidentali hanno già deciso con certezza granitica dove sia la verità e da che parte della Storia stare. Anche le agenzie di stampa e le testate italiane abbracciano la ricostruzione unilaterale proveniente dall’intelligence ucraina, accusando il Cremlino di aver deliberatamente attaccato l’ospedale pediatrico. Tuttavia, colpire una struttura simile, nel centro della città di Kiev, in pieno giorno e proprio alla vigilia del vertice NATO di Washington, sarebbe stata una mossa decisamente stupidada parte di Mosca. Mentre media e politici europei moltiplicano le condanne contro quello che sarebbe un attacco deliberato, proviamo a capire cosa è successo.
Come sottolinea l’analista Francesco Dall’Aglio analizzando i video disponibili, «quello che colpisce l’area ospedaliera potrebbe essere un missile russo, più precisamente un X-101, oppure un missile di difesa antiaerea ucraina AIM-120 lanciato da un sistema NASAMS». Dai video a disposizione è praticamente impossibile verificare: «i danni sulle facciate degli edifici vicini sembrerebbero causati dai cubetti di metallo che questi missili esplodono in prossimità del bersaglio e a occhio, e mi posso tranquillamente sbagliare, mi pare più un AIM-120 che un X-101 – prosegue Dall’Aglio -. D’altro canto, la sottostazione, ovvero l’unico bersaglio dual use [sia ad uso civile che militare, ndr] di tutta la zona, quindi molto teoricamente legittimo, è stata distrutta senza colpire le altre strutture, per cui si potrebbe invece ipotizzare un attacco mirato proprio contro di lei; o potrebbe, naturalmente, essere un missile russo finito fuori bersaglio, diretto magari al palazzo del Ministro delle Infrastrutture, posto a nemmeno 100 metri dal luogo dell’impatto».
Naturalmente, le opposte letture che arrivano da Mosca e Kiev non ci possono essere d’aiuto. Inutile dire che, mentre da parte ucraina si afferma che a colpire il plesso ospedaliero sia stato un missile X-101, da parte russa si incolpa invece la difesa antiaerea ucraina. Il giorno dopo il raid, la portavoce del ministro degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha imputato a Kiev di «usare i civili come scudo», deplorando la strumentalizzazione dell’accaduto da parte di Zelensky che accusa i russi di essere «terroristi», mentre il primo ministro ucraino Denys Shmyhal su X ha chiesto ai partner occidentali di «fornire sistemi più moderni per proteggere le città pacifiche dal terrorismo russo». Di certo c’è solo che, alla vigilia del vertice NATO, Zelensky ha ottenuto dal primo ministro polacco, Donald Tusk, la firma di un accordo di cooperazione per la sicurezza che prevede che l’antiaerea polacca intercetti missili russi sul territorio ucraino qualora venissero considerati «sparati in direzione della Polonia».
Ma, seguendo pedestremente la linea filoucraina, per i media italiani che non si pongono domande, i missili sono inequivocabilmente russi (per La Stampa, «l’attacco delle forze armate russe contro un ospedale pediatrico è stato un colpo diretto e non una caduta accidentale di detriti» e «il missile era puntato incontrovertibilmente contro l’ospedale, il che ammonterebbe – sostiene l’Sbu – a un crimine di guerra»), malgrado Mosca abbia negato di avere alcuna responsabilità nell’attacco e abbia anzi accusato gli ucraini di avere intercettato un attacco russo con un loro sistema anti-missile, che a sua volta avrebbe colpito l’ospedale. Per Il Corriere, la ricostruzione del Cremlino di quanto accaduto è mera «propaganda russa» e la guerra di Putin non risparmia «neppure i piccoli pazienti dell’Okhmatdyt».
Sfruttando la tecnica dell’empatia, diversi quotidiani stanno strumentalizzando l’accaduto per alzare il livello dello scontro: «È la nuova Bucha», titola Il Foglio, per il Manifesto «C’erano solo bimbi». «La Russia colpisce un ospedale pediatrico», per L’Internazionale è «l’escalation di Putin», per Repubblica, «I missili russi su Kiev fanno un’altra strage: centrato l’ospedale che cura i bambini». Sempre per Repubblica, i video “inchiodano” la Federazione russa.
Interessante notare come i media italiani, e occidentali in genere, cambino la propria condotta in base agli autori in campo. I giornali che oggi additano senza ombra di dubbio Mosca di aver condotto una strage deliberata sono gli stessi che, il 25 giugno scorso, quando ad essere colpita fu la spiaggia di Sebastopoli in Crimea, provarono immediatamente a giustificare la caduta di detriti caduti sulla spiaggia a seguito dell’intervento della contraerea russa, pur di assolvere Kiev dall’attacco (Adnkronos: «Ucraina, missile Kiev deviato da difesa Russia su Sebastopoli: 5 morti e 120 feriti»).
Il sistema del doppio standard adottato dai mezzi di informazione prevede che la cautela giornalistica adoperata sia costantemente sacrificata alla necessità politica di colpire l’avversario dell’occidente e giustificarne l’alleato. Così, mentre il missile caduto sul plesso pediatrico Okhmatdyt è certamente russo, quando invece ad essere stato colpito è stato l’ospedale Ahly Al-Arabi di Gaza, causando l’uccisione di oltre 400 civili palestinesi, i media hanno fatto di tutto per accreditare la versione israeliana, pubblicando ricostruzioni lacunose dove si incolpava il movimento della resistenza palestinese Hamas di aver colpito il proprio stesso ospedale.
È innegabile che da anni sia in atto una nuova, moderna, Scramble for Africa, un rimpasto delle carte in tavola che ricorda molto quella conferenza che nel 1884-’85 a Berlino cambiò sensibilmente le sorti del Continente Nero. La corsa all’Africa del XXI secolo vede però di diverso l’introduzione di nuovi attori e un cambio dei ruoli di quelli già presenti in campo. Il quadro è quello di attuali grandi potenze del mondo, tra cui Russia e Cina, che scalzano sempre più le antiche potenze coloniali dai loro ex territori africani.
Antiche potenze tra cui la Francia che, soprattutto nella fascia subsahariana, è risultata più o meno sempre essere leader geopolitico indiscusso fino a tempi recenti, ma per la quale la situazione, specie a seguito di colpi di stato, riaccensione di conflitti interni e cacciata delle forze armate francesi in vari paesi dell’area saheliana e subsahariana, è ora in fase di rapido cambiamento.
Se la Russia punta ad espandere la sua area di influenza africana concentrandosi soprattutto sulla fascia del Sahel attraverso il lavoro del Gruppo Wagner, la Cina punta più a sud est, sulla costa dell’Oceano Indiano, punto strategico per rafforzare un suo futuro posizionamento commerciale e anche militare in competizione con quello statunitense nell’Indo-Pacifico. Un piano diventato particolarmente evidente con la costruzione, nel 2017, della sua prima base militare in un paese estero, a Gibuti, e destinato a portare investimenti anche in altre aree della costa orientale africana.
Partendo dal porto di Mombasa e arrivando fino al cuore dell’Africa centro-orientale, ho attraversato una delle aree africane di maggior interesse per Pechino, toccando Kenya, Uganda, Rwanda e Burundi. Il viaggio inizia da una ferrovia, la ferrovia SGT Mombasa-Nairobi, molto moderna se comparata agli standard del continente, che parte da uno dei porti storicamente più importanti d’Africa e che attraverso una rinnovata linea prossima all’elettrificazione porta fino alla capitale kenyana. Le due stazioni capolinea sono state inaugurate nel 2017 e costruite al 90% con fondi del governo cinese. Il progetto della ferrovia vedrebbe come fine ultimo l’allungamento fino al Rwanda e al Sud Sudan attraverso il Lago Vittoria e Kampala, la capitale dell’Uganda.
Proprio in Uganda la Cina starebbe rinnovando, tramite prestiti bancari dalle condizioni altamente coercitive per lo stesso governo ugandese, il primo scalo aeroportuale del paese, l’aeroporto di Entebbe. Si passa poi per l’introduzione dello studio del cinese come seconda lingua alternativa al francese, all’inglese o al tedesco nelle scuole secondarie di secondo grado in Kenya, Uganda e Rwanda e si arriva infine al Burundi, un piccolo Paese di 12 milioni di abitanti un tempo unito con il Rwandasotto il dominio belga e chiamato a volte, ironicamente, “cuore d’Africa” anche per la forma dei suoi confini, che ricorda proprio quella di un cuore umano.
Il Paese è da lungo annoverato nella lista dei più poveri al mondo assieme al vicino Sud Sudan, ma nonostante questo dispone di ricche riserve di minerali preziosi come oro, cobalto, nickel, rame e altri. La sua posizione è poi strategica nella regione, a sud di uno dei paesi più in rapida crescita d’Africa (il Rwanda) e al confine con una delle aree più instabili del continente: la Repubblica Democratica del Congo orientale, a sua volta ancor più ricca di cobalto e rame. In Burundi, passando con il bus in diversi villaggi rurali capita di notare il solito manifesto di collaborazione con la bandiera di questa piccola repubblica affiancata a quella cinese su di edifici completamente restaurati e tinteggiati di blu che presentano la scritta – vagamente distopica – “Enjoy digital life“, con sotto un rimando: “Progetto per l’implementazione di strutture per la TV via cavo in 10.000 villaggi africani“.
Non è difficile capire che questo paese, come molti altri nel continente, abbia preso parte alla famosa “Belt and Road Initiative” della Repubblica Popolare Cinese. Le stesse Nuove Vie della Seta da cui l’Italia si è ritirata nel dicembre scorso e grazie alle quali nel paese africano la Cina ha implementato nuovi mezzi per la produzione agricola e fornito finanziamenti e supporto tecnico per la costruzione di una centrale idroelettrica. Infine la nuova Casa Presidenziale del Burundi, inaugurata nel 2019 e regalata a Gitega dalla Cina, è un tipo di edificio che il Burundi non aveva mai visto nella sua storia: l’ufficio del presidente del paese era prima un locale preso in affitto in centro nella ex capitale Bujumbura.
Ogni persona burundese che si incontra e che sia dotata di uno smartphone ne avrà uno di marca cinese, unica alternativa disponibile per un abitante medio di uno dei paesi più poveri del mondo grazie ai prezzi mediamente più bassi di quelli dei telefoni a marchio occidentale. Questo non è irrilevante se si considera il ruolo che le multinazionali del tech hanno nel raccogliere i dati personali di popolazioni del mondo potendo anche, eventualmente, fornirle ai governi del proprio paese per ragioni di spionaggio e di intelligence.
Infine il burundese medio, come risulta facilmente parlando con la popolazione comune, sogna oggi di andare a lavorare o ad acquisire conoscenze tecniche in Germania oppure in Cina: il paese asiatico comincia a inserirsi nell’immaginario comune e a contrapporsi alle grandi potenze economiche europee come scelta di destinazione per un’eventuale migrazione di un giovane che cerca ricchezza e realizzazione.
Permane però un ambito in cui sembra molto difficile nel prossimo futuro una efficace penetrazione della Cina a scapito della supremazia francese: l’ambito antropologico. Centinaia di anni di dominazione francese e franco-belga di quest’area hanno modificato la mentalità dei gruppi che abitano questa parte di Africa in maniera non trascurabile. Una mentalità che, nonostante tutti gli investimenti che la Cina farà e tutti gli sviluppi economici che cercherà di portare nel medio termine alle economie africane, sarà difficilmente rimpiazzabile nel giro di pochi decenni. È vero che il cinese ha cominciato ad essere introdotto nelle scuole di alcuni paesi est africani, ma di tutti i giovani che si incontrano in Kenya, la maggior parte parlano inglese e swahili, quelli in Uganda solamente il luganda (lingua nazionale del paese) e più raramente l’inglese, mentre in Rwanda e Burundi la maggior parte parla inglese e francese e gli adulti in media parlano molto bene, delle due, solo il francese.
A dimostrazione – e a rinforzo – della supremazia non solo linguistica ma anche culturale nella sua interezza della Francia vi è la presenza de L’Institut Français di Bujumbura. Già Centre Culturel Français (CCF) prima del 2013,si tratta di un edificio qui presente fin dal 1962, anno dell’indipendenza dal Belgio, in cui, in un locale molto curato e accessibile solamente previo controllo attraverso metal detector nel quale si trova anche un bar molto frequentato ogni sera da giovani, si tengono corsi di lingua e di formazione in francese, serate a tema, musica dal vivo e proiezioni cinematografiche esclusivamente in lingua francese, grazie all’organizzazione di un istituto che vanta standard di efficienza pari ad un’istituzione del continente europeo, non certo facilmente riscontrabili altrove nel piccolo e povero “Cuore d’Africa”.
La sua architettura ed il senso di sicurezza dato dalle guardie al suo accesso non è presente – oltre che presso gli edifici governativi e presso un paio di night club frequentati dalla ristretta élite cittadina – in nessun altro luogo del paese. È un luogo quindi sicuramente invitante per la gioventù burundese, a cui il governo francese assicura standard cosiddetti “europei” (posto che questi davvero esistano) in cambio della continua impartizione della lingua e della cultura francofone attraverso media, corsi e interscambi socio-culturali.
Un modello di scambio “equo” che per i francesi sembra aver sempre funzionato: vita sociale con standard da Métropole in cambio dell’inevitabile influenza culturale sulle frange più giovani e più istruite della popolazione. Prendere o lasciare.
Chi pensa che anche i cinesi potranno applicare una simile forma di dominio di stampo prettamente culturale, dovrà prima fare i conti con i diversi stereotipi ed imitazioni sarcastiche della lingua cinese – con un’evidente sfumatura razzista – che si sentono spesso fare da diverse persone proprio in Burundi come in altri paesi dell’area, ed infine con il fatto che proprio qui mi è capitato più di una volta di essere scambiato per strada per un asiatico orientale, sia cinese che giapponese, avendo però tratti facciali evidentemente mediterranei.
Molti burundesi, anche della città, non hanno idea di che aspetto fisico abbia davvero una persona dell’estremo oriente, e quindi, un cinese. Se il livello di conoscenza e di contatto con quella regione del globo arriva ad essere tale da non riconoscere neanche i tratti somatici distintivi di chi lo abita, nel caso della Cina mediamente molto diversi da quelli di un europeo, la Cina non avrà gioco facile a spazzare via gli effetti di secoli di dominio francese/francofono ed eurocentrico su questa parte d’Africa e a penetrare, quantomeno per mezzo del famigerato “soft power“, nella mentalità collettiva est africana.
Ieri a Washington si è aperto il vertice della NATO per commemorare la nascita dell’alleanza transatlantica, che ad aprile ha compiuto 75 anni. In occasione del discorso di apertura, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti per Kiev che consisterà nell’invio di nuovi sistemi di difesa aerea Patriot. Anche l’Italia ha dichiarato che invierà ulteriori armi a Kiev, e nello specifico che spedirà un nuovo sistema Samp-T. La premier Giorgia Meloni ha inoltre assicurato che l’Italia “terrà fede ai suoi impegni” di spendere il 2% del PIL per la difesa. La chiusura del vertice di Washington è prevista domani.
Una sentenza in Ecuador definita «storica» dagli attivisti: un tribunale ha stabilito che l’inquinamento ha violato i diritti del fiume Machángara, il quale attraversa la capitale del Paese, Quito. La decisione si basa su un articolo della Costituzione ecuadoriana, la quale riconosce i diritti delle bellezze naturali e stabilisce il «rispetto integrale» della loro esistenza e mantenimento. L’amministrazione cittadina, secondo quanto riportato, avrebbe già presentato ricorso contro la sentenza ma la corte ha deciso che, in attesa di ulteriori sviluppi, il governo dovrà comunque elaborare e pres...
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Lungi dall’essere meno di quanto dichiarato dal Ministero della Sanità palestinese, i morti “attribuibili” alla campagna militare in corso a Gaza sarebbero ben al di sopra di quanto fino a oggi riportato, e precisamente ammonterebbero a oltre 185.000 persone, circa il 7,9% della popolazione totale della Striscia. A dirlo è l’ultimo studio apparso sulla rivista scientifica The Lancet, relativo al massacro di civili in corso a Gaza. L’articolo, dal titolo “Contare i morti a Gaza: difficile, ma essenziale”, prova a fare un generico bilancio delle morti causate dal conflitto in corso in Palestina, calcolando il numero di decessi diretti e indiretti – ossia dovuti a malattie, carenza di servizi, ferite incurabili, carestia, e in generale cause direttamente derivate dalla guerra – che lo stato di assedio totale della Striscia avrebbe causato. Stima, dice lo studio, decisamente al ribasso, e certamente destinata a crescere se non viene imposto “un immediato e urgente cessate il fuoco”, che sia capace di garantire “la distribuzione di forniture mediche, cibo, acqua potabile, e ulteriori risorse per i bisogni umani fondamentali”.
Lo studio della rivista The Lancet è stato pubblicato venerdì 5 luglio, e porta la firma di tre accademici, Rasha Khatib (ricercatrice presso l’Istituto di Ricerca Aurora, negli USA, e affiliata alla Birzeit University, in Palestina), Martin McKee (professore presso la Scuola di Igiene e Medicina Tropicale di Londra), e Salim Yusuf (medico e professore presso la Scuola Medica dell’Università di McMaster del Canada). Dopo avere discusso della validità dei dati condivisi dal Ministero della Sanità di Gaza, e delle evidenti difficoltà nelle operazioni di raccolta e gestione di essi, l’articolo passa al calcolo dei possibili morti attribuibili al conflitto in corso a Gaza: “i conflitti armati hanno implicazioni sulle salute indirette, che vanno oltre il danno diretto derivante dalla violenza”; essi portano alle cosiddette “morti indirette” che possono derivare tra le tante cose da “malattie riproduttive, trasmissibili o non trasmissibili”. Queste trovano la loro origine ultima nella “distruzione delle infrastrutture sanitarie, nella grave carenza di cibo, acqua e riparo, nell’incapacità della popolazione di fuggire verso luoghi sicuri”, ma anche nello stop ai finanziamenti all’UNRWA, “una delle pochissime organizzazioni umanitarie ancora attive nella Striscia di Gaza”. Come spiegano gli accademici, “nei conflitti recenti, queste morti indirette variano dalle tre alle quindici volte il numero delle morti dirette”; è per tale motivo che, “applicando una stima conservativa di quattro morti indirette per una morte diretta” alle oltre 37.000 riportate “non è inverosimile stimare che fino a 186.000 – o anche più – morti potrebbero essere attribuibili all’attuale conflitto a Gaza”.
Che a Gaza sia in atto una vera e propria catastrofe umanitaria è cosa nota e denunciata da mesi. A tal proposito l’ONU ha recentemente messo Israele nella cosiddetta “lista nera” dei Paesi che maltrattano i bambini, sottolineando lo stato di assoluta carestia in cui versano i giovani palestinesi, e non solo. Oltre a utilizzare la fame come strumento di guerra, Israele avrebbe, secondo numerosi rapporti indipendenti e di organismi internazionali (primo fra tutti “Anatomia di un genocidio” di Francesca Albanese) distrutto la maggior parte dei rifugi umanitari, degli ospedali (almeno il 77% del totale), delle case (almeno il 60%) e degli edifici residenziali (68%), delle università (tutte) e delle altre strutture del mondo dell’istruzione (60%), delle infrastrutture di telecomunicazioni (68%), di municipio (72%), e del commercio e industriali (76%), oltre che negato ai palestinesi l’accesso ad acqua ed elettricità. Contro lo Stato ebraico sono aperte indagini relative all’uso sistematico di abusi sessuali e torture sui palestinesi, ma anche una per genocidio, e un’altra indetta dalla Corte Penale Internazionale che coinvolge direttamente il Primo Ministro Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant.
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