La società di gestione dell’aeroporto di Catania ha comunicato che, a causa dell’attività eruttiva dell’Etna e alla contestuale emissione di cenere vulcanica in atmosfera, che è terminata, l’Unità di crisi ha disposto la chiusura dei settori di spazio aereo B2 e B3. La pista è infatti al momento inagibile per una copiosa ricaduta di cenere e gli arrivi e le partenze sono sospesi. Al momento si stima che potranno riprendere attorno alle ore 15 di oggi. L’intensa attività dell’Etna che ha fatto sollevare una nube di cenere alta più di 2 km che ha ricoperto Catania e provincia è iniziata nella giornata di ieri.
Il pane appena sfornato dei supermercati non è vero pane fresco
«Pane caldo», «Pane appena sfornato», «Sforniamo pane tutto il giorno», «Pan del Dì». Queste sono alcune delle scritte in rilievo che troviamo nei supermercati discount al reparto panetteria. Ma come mai non troviamo mai la scritta “pane fresco”? Perché questo tipo di pane in realtà non è fresco. E di fatto il pane fresco di giornata non è in vendita nei supermercati discount ma soltanto nei supermercati tradizionali. È bene infatti sapere che la legge vieta espressamente di chiamare fresco un pane che sia stato conservato, congelato o anche solamente completato nella cottura al momento della vendita, se quel pane è stato impastato in un periodo antecedente di giorni o settimane. Il pane fresco è per legge solo quello preparato «secondo un processo di produzione continuo, privo di interruzioni finalizzate al congelamento o surgelazione, ad eccezione del rallentamento del processo di lievitazione, privo di additivi conservanti e di altri trattamenti aventi effetto conservante». La continuità del processo è condizionata a un limite temporale, non devono decorrere più di tre giorni – 72 ore – dall’avvio della lavorazione alla messa in vendita del prodotto.
Pertanto questo tipo di pane che prendiamo in considerazione oggi nell’articolo sarà anche caldo, sarà appena sfornato, ma non è pane fresco. La dicitura «pane appena sfornato» è usata in alcune catene di supermercati discount, come abbiamo detto. Si tratta di una dicitura alquanto fuorviante e ingannevole perché il consumatore, leggendo questa scritta all’ingresso del supermercato, ha l’impressione che in quel punto vendita si possa acquistare il pane fresco di giornata.
La realtà è un’altra e ben diversa: le pagnotte di questo pane arrivano molto spesso dall’estero, sono precotte e sono surgelate (Germania, Spagna e Paesi dell’Est Europa come Romania o Slovenia). Questi pani precotti sono inoltre di bassa qualità e test di laboratorio fatti di recente dimostrano che contengono residui di diversi pesticidi e conservanti. Inoltre spesso gli si aggiungono zuccheri e miglioratori delle farine, allo scopo di allungare la conservazione del prodotto e la morbidezza. Il punto vendita del supermercato non fa altro che metterle in un forno elettrico e fare la cottura finale. Quindi il pane non è affatto fresco, ma può avere anche fino a 2 anni di vita dal suo impasto, e si mantiene commestibile per circa 2 anni solo grazie all’aggiunta di conservanti e speciali enzimi nell’impasto.
Non è illegale, ma solo ingannevole
Si badi bene: niente di tutto ciò è illegale o scorretto da un punto di vista commerciale. La dicitura «sforniamo pane tutto il giorno» può risultare ingannevole e fuorviante ma è comunque ineccepibile, nel senso che non dichiara che il pane sia fresco, e nel senso che il pane viene in effetti sfornato a più riprese durante la giornata. Ingannevole dunque non equivale a dire che sia illegale. Significa che non si può assolutamente pensare o affermare che le aziende commettano illeciti, truffe o frodi, quando siamo di fronte a dei prodotti con diciture fuorvianti come queste. Le aziende mettono delle diciture che sono perfettamente a norma di legge. “Ingannevole” significa qualcosa che trae in inganno e che fuorvia ciò che pensiamo, non significa “illegale”. Facciamo un esempio: se un’azienda scrive su un barattolo di marmellata “senza zuccheri aggiunti” ma poi nel prodotto si aggiunge il succo d’uva concentrato, quelli sono zuccheri e sono stati aggiunti quindi è ingannevole, tanto per dirne solo una, ma la dicitura è consentita dalle normative perché effettivamente non è stato aggiunto zucchero, glucosio, fruttosio, destrosio, che sono le sostanze considerate “zucchero” per legge. Dire che qualcosa è “ingannevole” è contemplato anche nell’enciclopedia Treccani come modo comune per dire che qualcosa ci trae in inganno e ci fa sbagliare nella nostra valutazione, non è definito in lingua italiana come “illecito”.
È importante inoltre segnalare che anche nelle catene di supermercati tradizionali italiani, quindi non solo nei discount, esiste il fenomeno del pane precotto congelato e poi dorato completamente nel punto vendita o presso panetterie affiliate. Anche Conad, Coop e altri marchi hanno dunque il pane congelato e precotto. La differenza sta nel fatto che i supermercati tradizionali hanno anche il pane fresco di giornata, mentre nei discount è messo in vendita solo del pane congelato e precotto, il pane fresco non c’è.
Il pane precotto e surgelato contiene pesticidi, conservanti e metalli pesanti
Un altro aspetto importante da considerare quando si acquista il cosiddetto pane «sfornato tutto il giorno» in queste catene di supermercati è che le farine utilizzate sono di pessima qualità e spesso intrise di pesticidi, oltre che di conservanti e miglioratori del pane. Niente che possa quindi farci pensare ad un pane naturale. Queste pagnotte sono state analizzate in laboratorio diverse volte, si veda per esempio il test di laboratorio della rivista Il Salvagente, nel 2016, da dove sono emersi infatti la presenza di diversi pesticidi e una bassa qualità della farina.
Un’altra inchiesta sul pane congelato che arriva dall’estero e che finisce in vendita nei supermercati italiani è quella del giornalista Paolo Berizzi, del 2011, poi ripresa e divulgata da LA7 nel servizio «Cosa c’è nel pane che mangiamo» della trasmissione La Gabbia, in cui si evidenzia non solo la pessima qualità delle farine utilizzate ma anche la presenza costante di metalli pesanti come piombo, cadmio o tungsteno all’interno di questi impasti.
Pan del Dì: informazione fuorviante
La scritta in primo piano «Pan del Dì» presente in alcuni supermercati discount può trarre in inganno il consumatore. È un evidente riferimento al pane fresco di giornata…ma a ben vedere tutto il pane in vendita presso il punto vendita non è fresco, si tratta anche in questi casi di pagnotte precotte in panifici industriali e poi congelate. La provenienza è sia da panifici industriali italiani che esteri (Spagna, Germania, ecc.)
[testo e foto di Gianpaolo Usai]
Il Parlamento italiano ha bocciato il riconoscimento dello Stato di Palestina
Il governo italiano non si impegnerà a riconoscere per via diretta lo Stato di Palestina. Ieri, alla Camera dei Deputati, si sono votate diverse mozioni sul tema: è passata solo quella della maggioranza, spalleggiata da Azione e Italia Viva – che si sono viste approvare alcune parti delle loro proposte – in cui si chiede all’esecutivo di sostenere a livello internazionale iniziative finalizzate al riconoscimento dello Stato di Palestina nel contesto di una “soluzione negoziata”, dunque con Israele a ricoprire una posizione di forza. Il governo ha così nuovamente sposato in maniera acritica la linea di Washington, che da sempre parla di una soluzione “a due Stati” da raggiungere attraverso i negoziati, nella consapevolezza che lo Stato Ebraico – come più volte dichiarato da illustri membri del suo governo – non ha alcuna intenzione di arrivarci.
Con la votazione di ieri, l’Italia ha perso l’ennesima occasione per allinearsi al diritto internazionale, che sulla base delle risoluzioni dell’ONU ha riconosciuto lo Stato di Palestina. Appellarsi pavidamente alla “trattativa negoziale” ai fini del riconoscimento dello Stato di Palestina significa, infatti, sostanzialmente dichiararsi a favore del mantenimento dello status quo, mentre Gaza da 9 mesi non è altro che un cimitero di civili a cielo aperto. La mozione che ha ottenuto il semaforo verde del Parlamento, secondo una formula impalpabile e aleatoria, impegna il governo a “sostenere nelle opportune sedi europee e internazionali iniziative finalizzate al riconoscimento dello Stato di Palestina nel quadro di una soluzione negoziata fondata sulla coesistenza di due Stati sovrani e democratici, che possano riconoscersi reciprocamente e vivere fianco a fianco in pace e sicurezza”. Non solo non è stato riconosciuto lo Stato di Palestina, ma si è in tutti i modi evitato di ragionare su diciture che contemplassero una condanna netta e una congrua definizione di quanto sta realmente avvenendo a Gaza: nel corso della seduta, il governo è addirittura arrivato a chiedere alle opposizioni di sostituire, nelle loro proposte, le parole “catastrofe umanitaria” con la più morbida formula di “crisi umanitaria”.
Le mozioni di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra sono state tutte respinte: nello specifico, il PD chiedeva al governo di adottare “tutte le iniziative necessarie volte a riconoscere la Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa”, il M5S di interrompere la vendita di armi allo Stato Ebraico e AVS di concepire “sanzioni” da applicare contro il governo di Benjamin Netanyahu. In linea con la maggioranza si sono poste Italia Viva, che per bocca del capogruppo Faraone ha criticato le forze progressiste per non aver inserito nelle loro mozioni «il riferimento al 7 ottobre 2023» e «una condanna chiara degli episodi di antisemitismo», e Azione, il cui vicesegretario Ettore Rosato ha dichiarato che «i primi nemici della pace in Medio Oriente sono Hamas, Hezbollah, Iran che hanno la distruzione dello Stato di Israele come obiettivo politico».
Le iniziative politiche più coraggiose sul tema sono arrivate da circuiti esterni al Parlamento. In particolare, lo scorso 28 giugno sono state ufficialmente consegnate al Senato della Repubblica le quasi 80mila firme raccolte dall’Associazione Schierarsi, di cui è vicepresidente l’ex deputato Alessandro Di Battista, a supporto della proposta di legge di iniziativa popolare per il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del nostro Paese. Nel testo della proposta si legge che “L’Italia riconosce lo Stato di Palestina con capitale Gerusalemme est come Stato sovrano e indipendente, conformemente alle risoluzioni delle Nazioni Unite e al diritto internazionale”. Dopo i recenti provvedimenti di Spagna, Norvegia e Irlanda, tra i 193 Stati membri dell’Organizzazione dell’ONU sono oggi 146 quelli che riconoscono il diritto dei palestinesi di esistere come entità politica e geografica, circa tre quarti della comunità internazionale (a cui si aggiunge la Città del Vaticano). Mancano però all’appello gli Stati Uniti d’America, il Canada, l’Australia e la maggior parte dei Paesi membri dell’Unione Europea.
[di Stefano Baudino]
A Viterbo arrivano le aule scolastiche sponsorizzate dalle aziende
Lo scorso 28 giugno, all’istituto comprensivo Pietro Vanni di Viterbo è stato dato il via libera all’unanimità a un progetto di raccolta fondi per la risistemazione della struttura, all’interno del quale si prevede l’intitolazione delle aule a quelle aziende che si faranno carico dei costi dei lavori. L’iniziativa nasce, come è facile immaginare, dall’impellente necessità per l’istituto di trovare strade alternative rispetto all’utilizzo di fondi pubblici sempre più esigui, ma pone sul piatto importanti riflessioni sulla direzione intrapresa ormai da tempo dalla scuola italiana. Il progetto ha infatti fatto storcere molti nasi al Pietro Vanni, dove alcuni docenti sono apparsi scettici di fronte a un’iniziativa che potrebbe costituire un precedente di rilievo nella tendenza all’“aziendalizzazione” dell’universo della (sempre meno) pubblica istruzione.
La riqualificazione delle scuole del primo ciclo all’istituto comprensivo di Viterbo dovrebbe essere a carico del Comune laziale, la cui giunta si trova però al momento a dover fronteggiare altro tipo di urgenze a livello economico. Questa delicata situazione ha indotto la scuola a volgere lo sguardo altrove per incamerare i fondi necessari alle operazioni, sapendo però di dover pagare lo scotto di tale scelta. Il progetto che ha ottenuto il semaforo verde da parte del consiglio d’istituto produrrà infatti uno scenario in cui luoghi pubblici di formazione e apprendimento si trasformeranno, di fatto, in “spazi pubblicitari”, offrendo margine di manovra alla promozione di interessi privati in uno dei pochi mondi che, almeno un tempo, aveva le carte in regola per esserne immune. La questione è, ovviamente, collegata in maniera diretta a una problematica sistemica: quella di un patrimonio scolastico che invecchia – delle 40.133 strutture censite nel nostro Paese, quasi la metà sono state costruite prima del 1976 – senza essere opportunamente conservato o rinnovato, mancando a tal fine adeguate risorse finanziarie. Non è infatti un caso che il patrimonio edilizio scolastico, solo tra settembre 2022 e novembre 2023, sia stato protagonista di ben 85 crolli. Come ha spiegato la onlus Cittadinanzattiva, che ha effettuato il computo, «le cause sono in gran parte da ravvisare nella vetustà degli edifici e dei materiali con cui sono stati costruiti, nell’assenza o carenza di manutenzione, nella riduzione degli investimenti relativi a indagini e relativi interventi su controsoffitti, solai, tetti, e nella mancanza di tempestività».
Più in generale, che i luoghi per eccellenza della cultura libera e indipendente si stiano progressivamente trasformando in una fucina sterile al servizio delle multinazionali e dello stato delle cose è un aspetto assodato ormai da anni. Basti pensare al fatto che, con la riforma denominata “Buona Scuola” del 2015, voluta dall’allora premier Matteo Renzi, si è verificato – in continuità con le riforme Moratti e Gelmini – il consolidamento dell’alternanza scuola–lavoro, che rappresenta uno dei simboli più eloquenti dello stato in cui versa attualmente la scuola italiana. Nello specifico, infatti, si è deciso che le scuole superiori debbano sacrificare centinaia di ore di apprendimento di quello che ormai viene considerato il “sapere inutile” – matematica, latino, filosofia e così via -, lasciando spazio a esperienze lavorative. Spesso, peraltro, in luoghi di lavoro incoerenti col proprio percorso di studi (o, come hanno dimostrato numerosi casi di cronaca, addirittura pericolosi). Tra i nuclei della riforma vi è poi quello dell’autonomia scolastica, criticata da più parti per avere portato gli istituti a fare a gara per “accaparrarsi” fondi privati, creando di fatto scuole di serie A e di serie B in cui gli studenti – secondo i più tradizionali criteri aziendali – sono ridotti a clienti da attirare anche attraverso operazioni di marketing. Tutti aspetti funzionali agli interessi delle multinazionali e del libero mercato, su cui non è stata fatta alcuna retromarcia.
[di Stefano Baudino]
Gaza, proseguono i raid israeliani: vittime nel nord della Striscia
Nonostante le notizie sulla ripresa dei colloqui per arrivare al cessate il fuoco a Gaza, sono proseguiti per tutta la notte gli attacchi dell’esercito israeliano sulla Striscia, in particolare nell’area nord. L’agenzia di stampa palestinese Wafa ha reso noto che cinque persone, fra le quali figurano tre bambini, sono rimaste uccise nella cornice di un bombardamento nel- l’area di Jabalia al Balad. Colpita anche Gaza City, in particolare il quartiere Daraj, dove gli attacchi dell’IDF hanno causato diverse vittime. Almeno un’altra vittima e diversi feriti si sono registrati anche ad Al-Sika Street, sempre nel nord della Striscia.
Il World Economic Forum di Klaus Schwab nel mirino per discriminazione razziale, di genere e mobbing
Un’inchiesta condotta dal quotidiano Wall Street Journal (WSJ) svela quanto accade internamente al Word Economic Forum, l’organizzazione fondata e presieduta dall’economista tedesco Klaus Schwab. L’inchiesta del giornale statunitense, per cui sono state sentite le testimonianze di dipendenti ed ex dipendenti, rivela una «atmosfera tossica» vissuta all’interno dell’organizzazione, in particolare a causa della discriminazione nei confronti delle donne, delle persone di colore e degli over 50, con molestie e mobbing da parte di colleghi e funzionari. Mentre dunque da un lato il WEF si professa come organizzazione attiva nell’inclusione sociale, nella sostenibilità e nella progettualità del futuro umano, lavorando da decenni alla costruzione di tale immagine, l’inchiesta sembrerebbe far emergere una realtà del tutto differente.
L’inchiesta svela l’ambiente di lavoro tossico celato dietro le quinte del forum economico più famoso del mondo. Dipendenti ed ex dipendenti del WEF, intervistati dal giornale, hanno portato alla luce una serie di discriminazioni, molestie e mobbing a danno di donne, persone di colore e over 50. Emerge così come, quando qualche anno fa Schwab decise che l’organizzazione aveva bisogno di abbassare l’età media dei dipendenti, fu individuato un gruppo di collaboratori sopra ai 50 e venne incaricato il capo delle risorse umane (che allora era Paolo Gallo, ex dirigente della Banca Mondiale) di licenziarli tutti. Quando Gallo si rifiutò di farlo, venne licenziato anche lui. I dipendenti intervistati dal WSJ hanno inoltre raccontato delle lamentele interne riguardo alla discriminazione razziale, dopo che i manager bianchi del Forum hanno usato più volete la parola “negro” per indicare i dipendenti neri. Questi ultimi hanno più volte sollevato lamentele formali ai leader del Forum, anche per il fatto di essere stati scavalcati per le promozioni in favore di persone bianche.
Per quanto riguarda la discriminazione, le molestie e il mobbing nei confronti delle donne, almeno sei di queste sono state espulse dallo staff o hanno visto le loro carriere arenarsi quando erano incinte o tornavano dal congedo di maternità. Un’altra mezza dozzina di donne ha descritto invece molestie sessuali subite per mano di alti dirigenti, alcuni dei quali lavorano tuttora al WEF. Due di esse hanno dichiarato di essere state molestate sessualmente, anni fa, da personaggi illustri durante i raduni del Forum, anche a Davos, dove ci si aspettava che il personale femminile fosse a completa disposizione dei delegati. Addirittura, alcuni degli intervistati hanno affermato che le donne sono abitualmente sessualizzate e oggettificate, anche dallo stesso Schwab: «Se ti ritrovi da sola con lui, potrebbe fare commenti scomodi sul tuo aspetto», riporta un testimone all’interno dell’inchiesta.
Sul suo sito, il WEF smentisce le accuse mosse dal Wall Street Journal, sostenendo di essere un’organizzazione attenta alle denunce interne, con audit che si svolgono regolarmente secondo gli «elevati standard di governance» in un quadro di «principi chiari, una politica di tolleranza zero nei confronti di qualsiasi forma di molestia e discriminazione, formazione obbligatoria per tutto il personale, canali di segnalazione riservati e un processo di indagine approfondito». Nella nota che il WEF ha pubblicato per commentare l’articolo del WSJ viene scritto: «È profondamente deludente che il Wall Street Journal stia consapevolmente pubblicando affermazioni palesemente false per caratterizzare in modo errato la nostra organizzazione, la nostra cultura e i nostri colleghi, incluso il nostro fondatore».
Vale la pena sottolineare che Dow Jones, editore del Wall Street Journal, è un partner del Forum e ha una presenza di alto profilo all’evento annuale di Davos. Questo però, come giusto che sia nel giornalismo, non ha impedito la pubblicazione dell’inchiesta che svela quanto accade dietro le quinte dell’organizzazione senza scopo di lucro, nonché think tank più influente degli ultimi anni, che genera più di 400 milioni di dollari di entrate annue e ha oltre 1.000 dipendenti sparsi nelle sue varie sedi nel mondo.
[di Michele Manfrin]
Media e femminicidi, protesta alla sede Rai di Roma
Il movimento “Bruciamo tutto” ha compiuto questa mattina un’azione di disobbedienza civile nonviolenta nei pressi della sede della Rai in Viale Giuseppe Mazzini, a Roma. Cinque membri del collettivo hanno oltrepassato i cancelli aperti della sede Rai, poi una di loro si è diretta verso la statua del cavallo, riponendo alcune bambole fra le sue zampe. Contestualmente, un’altra attivista ha sparso a terra fogli di articoli incentrati su notizie di femminicidi, dove sono state sottolineate di rosso e barrate le parti che, secondo i componenti del gruppo, rinforzano la “vittimizzazione del carnefice”.
Le teorie cospirative più diffuse su Julian Assange, smontate una volta per tutte
Non bastano 14 anni di persecuzione giudiziaria di cui 5 trascorsi nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, per aver svelato i crimini del potere che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra. Evidentemente, nessuna pena è mai abbastanza per ottenere una «patente di purezza» per coloro che in questi giorni, invece di rallegrarsi per la liberazione di Julian Assange, hanno iniziato a diffamare il fondatore di WikiLeaks con teorie a dir poco strampalate sui social, arrivando a insinuare che l’attivista e giornalista australiano sia l’ennesimo burattino dei poteri forti e che non sia mai stato in carcere (e se c’è andato è stato un complotto). Dopotutto, per una nutrita frangia della cosiddetta area del dissenso chiunque non avalli tutte le ipotesi più bizzarre è inequivocabilmente un «gatekeeper».
Non varrebbe nemmeno la pena di consumare queste righe di inchiostro digitale, se non fosse che alcuni “influencer” e improvvisati investigatori del web hanno reso virali tali teorie cospirazioniste sui social. Tralasciando la licenza di delirio e la loro libertà di avvelenare i pozzi che rimane sacrosanta, è bene però mostrare l’inconsistenza di tali assurdità, in modo che ognuno possa trarne la propria opinione. Per Corrado Malanga, per esempio, Assange è una «pedina del Deep State americano», fa parte di una mega cospirazione globale volta a «distruggere i rapporti tra i vari Stati europei» e, d’accordo con la CIA, si è fatto «mettere in galera dagli inglesi che comandano gli americani, in attesa di fare la parte della vittima». Non mancano le previsioni sull’imminente omicidio dell’attivista australiano da parte dei servizi segreti, in modo che non riveli questa scioccante verità. Peccato che in passato le previsioni millenaristiche dello stesso Malanga, sulla base di racconti ottenuti sotto ipnosi da presunti addotti, si fossero focalizzate con scarso successo sulla fine del mondo e sullo sbarco di massa degli alieni nel 2012. L’evento è evidentemente “fluttuato quantisticamente” e non è avvenuto.
Essendo apparso gonfio nelle immagini della sua scarcerazione, alcuni commentatori hanno invece dedotto che Assange si sarebbe ingozzato spassandosela allegramente negli ultimi anni. Chi non vorrebbe gozzovigliare e sfondarsi di apericena tre le sudice mura di Belmarsh? Si sarebbe insomma trattato di una clamorosa messinscena, in quanto il fondatore di WikiLeaks non avrebbe trascorso neppure un giorno in carcere («Voi lo avete visto in carcere?» è la domanda provocatoria, diventa mantra, che rimbalza sui social). Non è sfiorato a costoro – privi evidentemente di buonsenso – il pensiero che la detenzione, la mancanza di esercizio e di luce solare, un costante stato ansioso protratti per tutti questi anni e l’uso di farmaci possano aver minato la sua salute. Ricordiamo che Assange non era nemmeno in grado di seguire le udienze né di persona né via videoconferenza per la sua condizione fisica e mentale: nell’ottobre 2021 aveva avuto un piccolo ictus e solo qualche mese fa si era rotto una costola per una forte tosse. Ma nulla vale di fronte alla tenacia della paranoia dilagante e quantisticamente se non abbiamo assistito a un attacco ischemico o alla rottura di una costola, questi eventi non sono accaduti.
A corredo di queste fantasmagorie è stato condiviso dall’attore Sandro Torella un articolo di Jane Burgermeister del 2010 in cui con una sequenza di salti illogici e di forzature, si vorrebbe evincere che Assange sia un uomo dei Rothschild (soprassediamo sulla traduzione e sul fatto che nel titolo è persino sbagliato il nome della dinastia). L’articolo prende le mosse da un premio giornalistico che è stato effettivamente conferito nel 2008 al fondatore di WikiLeaks per la difesa della libertà di parola e la lotta contro la della censura: l’Economist New Media Award ai Freedom of Expression Awards. Burgermeister cita Kurt Nimmo, secondo cui l’Economist è di proprietà dei membri della famiglia Rothschild. Non c’era nemmeno bisogno di scomodare terzi: che la famiglia Rothschild sia azionista di minoranza della testata britannica è fatto noto a tutti, non bisogna essere dei segugi da tartufo per scoprirlo, basta andare sulla pagina di Wikipedia per averne conferma (in realtà dal 2015 la Exor, la holding della famiglia Agnelli, è diventata il primo azionista di The Economist).
Ma l’autrice dell’articolo, dopo aver derubricato le rivelazioni di WikiLeaks a una accozzaglia di «futili pettegolezzi» (e di Collateral Murder ne vogliamo parlare?), si spinge oltre e citando come fonte il controverso sito cospirazionista Infowars (l’articolo a cui fa riferimento non è più disponibile e non possiamo godere delle sue illuminanti ricostruzioni) ci mette a conoscenza che il settimanale economico inglese è gestito «dall’Economist Group, un noto fronte della CIA». Segue una serie di affermazioni in libertà che ricostruiscono maldestramente il ruolo dell’Economist e del Financial Times con lo scandalo dell’influenza suina (e non si capisce cosa dovrebbe c’entrare Assange in tutto questo) che conducono alla seguente lapidaria affermazione: «Se Assange fosse un vero attivista, non verrebbe seguito dai media principali». Insomma, un giornalista o un attivista dovrebbe sperare di non accendere mai e poi mai i riflettori su di sé da parte del mainstream, perché altrimenti risulterebbe sospetto e automaticamente il sottobosco cospirazionista del web sarebbe legittimato a impallinarlo. Dovrebbe semmai ricevere un premio dalla bocciofila sotto casa e anche in questo caso si sarebbe spinto oltre la linea di fuoco. Peccato che Assange che è stato osannato da una parte del mainstream quando le sue inchieste facevano comodo, poi è stato di fatto scaricato dai media internazionali, come abbiamo più volte spiegato, quando la situazione si è fatta scomoda.
L’articolo inanella una sequela di assurdità (non manca neppure una false flag bancaria) e finisce per dedurre in assenza di prove che Assange è «un agente che lavora per le banche e che potrebbe addirittura essere agli ordini diretti dei Rothschild visto il suo stretto legame con l’Economist». Come se non bastasse, il “crimine” di Assange sarebbe quello di aver offerto al Sistema «un’opportunità di chiudere i siti web e reindirizzare la gente ai media tradizionali». Tutto questo sulla base di due premi giornalistici. Già perché la seconda ignobile “macchia” sulla reputazione di Assange è il famigerato premio ricevuto da Amnesty International, «che lavora a stretto contatto con l’ONU, a sua volta associato al FMI» (proprio qua il triplo salto illogico dovrebbe lasciare sgomenti, Amnesty è una organizzazione non governativa e il fatto di aver collaborato con l’ONU non significa che ne sia una costola). Se nel precedente articolo avevamo osservato come a soffrire di più per la liberazione di Assange fosse una frangia nutrita (in tutti i sensi) di giornalisti, che si contorce le budella nel vedere l’affetto e la vicinanza del popolo alle sorti dell’attivista australiano, oggi dobbiamo ricrederci e ammettere con sgomento come nemmeno il cosiddetto «mondo del dissenso» sia in grado di riconoscere il valore umano e professionale di un’icona del giornalismo d’inchiesta che ha sacrificato 14 anni della sua vita a supporto della libertà di pensiero e di informazione. Ma sia per gli inquisitori digitali, sia per i settaristi, nessuno è mai abbastanza puro da non finire in odore di eresia o di qualche complotto.
[di Enrica Perucchietti]
TIM cede la propria rete (giudicata strategica per la sicurezza) al fondo statunitense KKR
Lo scorso primo luglio, il Gruppo Tim ha ceduto al fondo statunitense KKR la sua rete primaria e secondaria delle telecomunicazioni per un valore stimato in circa 22 miliardi di euro, conferendo così di fatto il controllo di dati sensibili degli utenti ad una compagnia straniera. L’infrastruttura è considerata strategica per la sicurezza nazionale, motivo per cui il governo italiano ha il potere di applicare il cosiddetto “golden power”, lo strumento normativo che conferisce all’esecutivo la facoltà di porre condizioni o veti in caso di tentativo d’acquisto di una compagnia strategica italiana da parte di una società straniera. Nonostante i partiti di maggioranza abbiano sempre sostenuto la necessità di assumere il controllo della rete di comunicazioni, il governo Meloni ha alla fine ceduto alle pressioni della finanza internazionale autorizzando l’operazione di vendita e ritenendola idonea a garantire la tutela degli interessi strategici connessi agli asset oggetto dell’operazione, in continuità con la posizione del governo Draghi. Dopo circa due anni e mezzo di trattative, dunque, ben 23 milioni di chilometri di cavi in rame e fibra ottica diventeranno di proprietà statunitense, mentre il ministero dell’Economia e delle Finanze italiano avrà una quota di minoranza del 16% e il Fondo F2i – il primo investitore privato specializzato in infrastrutture in Italia – dell’11,2%. «Il perfezionamento dell’operazione con KKR e MEF è frutto di due anni e mezzo di lavoro, che sono serviti a riallineare la gestione ordinaria di TIM e a individuare quelle soluzioni, industriali e finanziarie, che ci permetteranno di affrontare le prossime sfide che abbiamo davanti», ha dichiarato Pietro Labriola, Amministratore Delegato di TIM.
Il fondo KKR ha acquisito la rete telefonica attraverso la società veicolo Optix Big co: l’acquisizione da parte del fondo statunitense consentirà a Tim di alleggerire il proprio debito di circa 14,2 miliardi. Considerati però i costi di separazione e aggiustamenti, l’effetto netto, secondo quanto comunicato dalla società, sarà di 13,8 miliardi. Allo stesso tempo, l’organico della compagnia di telecomunicazioni scenderà da 37.065 dipendenti a 17.281, equivalenti a 16.135 unità a tempo pieno. Nonostante ciò, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha affermato che «il Governo interviene in un settore strategico, con una grande operazione di politica industriale che, tra l’altro, mette in sicurezza Tim e i suoi lavoratori». KKR ha valutato l’infrastruttura a 18,8 miliardi di euro, che potranno però salire fino a 22 miliardi con gli “earnout”, ossia al verificarsi di determinate condizioni, tra cui la principale è la possibilità di una combinazione sinergica con Open Fiber, la società della rete in fibra che fa capo per il 60% a Cassa depisiti e prestiti equity e per il 40% al fondo infrastrutturale australiano Macquarie. A nulla è servita l’opposizione di Vivendi, il colosso francese dei media e primo azionista di Tim con circa il 24% del capitale, che nei mesi scorsi aveva minacciato azioni legali contro il perfezionamento della cessione della rete.
Il risultato dell’operazione è che Tim incasserà probabilmente circa 22 miliardi di euro per ridurre il suo debito, ma non avrà più le reti, diventando quindi una mera società di servizi, pagando a Optix Big co l’utilizzo delle infrastrutture per l’erogazione del servizio. Ciò potrebbe comportare un aumento dei costi per gli utenti, mentre, da parte sua, KKR realizzerà profitti derivanti sia dagli interessi del credito sia dai dividendi che dalle speculazioni di Borsa, facendo investimenti solo se remunerativi e non se necessari. Uno dei grandi svantaggi delle privatizzazioni di beni e servizi pubblici prescritte dal dogma neoliberista, infatti, è che i privati non perseguono il bene comune, come potrebbe e dovrebbe fare lo Stato, bensì solo il profitto aziendale. Ma le ripercussioni della vendita della rete non si limitano al piano economico, ma coinvolgono anche quello geopolitico e della sicurezza nazionale: la rete, infatti, è decisiva per la trasmissione di dati sensibili, i quali ora saranno quindi nelle mani di una compagnia americana. Inoltre, Tim è la colonna portante delle comunicazioni internazionali lungo un asse che unisce Europa, Mediterraneo, Medio Oriente e Nord Africa, fatto di rilevanza fondamentale per gli interessi e l’intelligence d’oltreoceano, preoccupati peraltro della crescente potenziale penetrazione delle compagnie cinesi nel settore delle comunicazioni italiane. Nella sua politica di business, KKR è molto attenta a questi aspetti: non a caso, tra i suoi partner e a capo del gruppo di analisi di scenario c’è David Petraeus, generale dell’esercito americano e capo della CIA (Central Intelligence Agency) nell’amministrazione Obama. Tradotto, i dati sensibili delle telecomunicazioni italiane sono stati di fatto ceduti all’intelligence americana.
La vendita di Tim è solo il culmine di un lungo processo di svendita del patrimonio pubblico italiano iniziato negli anni Novanta sul panfilo Britannia da Mario Draghi, allora Direttore generale del Tesoro, che conferma la totale perdita di sovranità della penisola in tutti i settori, compresi quelli considerati strategici per la sicurezza nazionale. Gli USA si assicurano così il controllo sulle telecomunicazioni nazionali, un altro risultato che ottengono nonostante i propositi “sovranisti” e le dichiarate intenzioni del governo Meloni.
[di Giorgia Audiello]