lunedì 25 Novembre 2024
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La Spagna si è unita al Sudafrica nella causa di genocidio contro Israele

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La Spagna ha presentato richiesta ufficiale di adesione alla causa intentata dal Sudafrica persso la Corte Internazionale di Giustizia, nella quale si accusa Israele di stare perpetrando un genocidio nei confronti della popolazione palestinese. La Spagna diventa così la prima nazione europea a muovere un passo in questo senso: prima di lei, Belgio e Irlanda avevano manifestato l’intenzione di unirsi al procedimento presso il Tribunale dell’Aia, ma fino ad ora non è stata presentata alla CIG alcuna richiesta di adesione ufficiale. Nella causa, lo Stato di Israele viene accusato di aver violato l’art. 3 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, avendo «fallito nel prevenire il genocidio», che starebbe invece portando avanti «con lo specifico intento di distruggere i palestinesi di Gaza».

Nell’invocare l’art. 63 dello Statuto della CIG, chiedendo di potersi aggiungere al procedimento in corso, la Spagna ha sottolineato che la Convenzione sul Genocidio «non è solo un trattato di diritto penale», ma garantisce la salvaguardia di «valori e principi fondamentali del diritto internazionale», quali «la tutela della dignità umana e il principio di responsabilità», imponendo a coloro che l’hanno sottoscritta «obblighi sostanziali» che non si limitano alla «garanzia del perseguimento penale del crimine di genocidio». La decisione di Madrid, annunciata lo scorso 6 giugno, arriva a poche settimane dal riconoscimento ufficiale, da parte del governo spagnolo, dell’esistenza dello Stato di Palestina secondo i confini precedenti il 1967 – con la Cisgiordania e Gaza connesse da un corridoio e Gerusalemme Est come capitale, in conformità con le risoluzioni ONU n. 242 e n. 338.

Atti come il blocco dell’assistenza umanitaria, la distruzione di infrastrutture fondamentali (quali «ospedali, scuole e strutture delle Nazioni Unite»), il taglio di energia elettrica e carburante, unite ad alcune dichiarazioni dei politici israeliani (come quelle rilasciate nell’ottobre 2023 dall’allora ministro per l’Energia e le Infrastrutture, Israel Katz, che su X scrisse «Il limite è stato superato. […] Vinceremo. Non riceveranno una goccia d’acqua o una singola batteria finchè non lasceranno il mondo») denotano, secondo la Spagna, l’intenzione di perpetrare il genocidio della popolazione così come descritto dall’art. 2 della Convenzione.

La causa contro Israele è stata presentata dal Sudafrica alla CIG lo scorso 29 dicembre. Da allora, numerosi Paesi hanno mostrato sostegno ad essa, dal Medio Oriente all’America Latina, passando per il continente asiatico. I Paesi che, analogamente a quanto fatto dalla Spagna, hanno presentato formalmente una richiesta di adesione alla causa sono Nicaragua, Colombia, Messico, Libia e Palestina. Altri (Belgio, Maldive, Turchia, Egitto, Cile, Irlanda e Cuba) hanno poi manifestato l’intenzione di aderirvi. A questi si aggiungono inoltre più di un migliaio di organizzazioni in tutto il mondo che hanno espresso la propria solidarietà alla causa.

[di Valeria Casolaro]

Mali, attacchi a un villaggio: 40 morti

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Ieri a Djiguibombo, un villaggio situato nella regione di Mopti, nel Mali centrale, si è verificato un attacco da parte di un gruppo armato non ancora identificato, in seguito al quale sono state uccise almeno 40 persone. A comunicare la notizia – trapelata nella giornata di oggi – è l’agenzia di stampa Reuters, che ha parlato direttamente con le autorità locali. Il Mali, come molti Paesi del Sahel, è da anni teatro di numerosi attacchi da parte di movimenti islamisti, primo fra tutti Al Qaeda. Questi portano spesso a scontri violenti e assalti nei villaggi, come nel caso degli attacchi ieri.

Mafia, 25 arresti ad Aprilia: ai domiciliari anche il sindaco

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Tra le 25 persone arrestate questa mattina nel corso di un’operazione della DIA e del comando provinciale dei Carabinieri ad Aprilia, in provincia di Latina, c’è anche il sindaco della città, Lanfranco Principi. Le accuse per gli indagati sono di far parte di un’associazione mafiosa dedita ad estorsioni, usura, reati contro la pubblica amministrazione e traffico di stupefacenti. L’operazione è stata condotta dopo la chiusura delle indagini avviate nel 2018 dalle forze dell’ordine.

Siderno, la città calabrese che lotta contro le antenne 5G

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Oltre milleduecento firme sono state raccolte in soli sette giorni tra i cittadini di Siderno (Reggio Calabria) per dire no alla costruzione di un impianto 5G all’interno del Comune calabrese prima che siano pubblicati i dati riferiti all’incidenza delle radiazioni presenti nell’area. L’iniziativa è stata promossa dai membri del Comitato No al 5G Sotto Casa, che hanno lanciato e indirizzato alla sindaca e all’assessore all’Ambiente di Siderno una petizione con oggetto «Richiesta di controllo elettromagnetico per antenne e ripetitori presenti sul territorio». Mentre al Senato, nel silenzio generale, è stato approvato un emendamento con cui si è di fatto stabilita la preminenza dello Stato sugli enti locali rispetto alla localizzazione delle installazioni delle antenne per le reti 5G, le proteste dei cittadini si moltiplicano nei Comuni di diverse regioni d’Italia.

«Nel cuore della nostra comunità di Siderno, in prossimità di via Carrera, sta per essere perpetrato un attacco alla salute e alla sicurezza dei nostri cittadini – avevano scritto a fine maggio in una lettera alcuni cittadini di Siderno contrari alla realizzazione dell’impianto –. Un’antenna 5G alta circa 30 metri è in procinto di essere installata a ridosso delle abitazioni dove vivono numerose famiglie con bambini. Questo progetto scellerato, calato dall’alto senza alcun rispetto per la volontà popolare, rappresenta una minaccia gravissima che non possiamo tollerare». Secondo i firmatari, infatti, l’installazione dell’antenna, oltre a rappresentare «un pericolo per la salute», deturperebbe anche il paesaggio urbano, «degradando la qualità della vita» nel quartiere e abbassando il valore delle proprietà immobiliari di chi ci vive. «Noi, residenti del comune di Siderno, chiediamo l’immediata sospensione del progetto di installazione dell’antenna 5G – si legge ancora nella missiva –. Pretendiamo una valutazione indipendente e rigorosa dei rischi sanitari associati a questa tecnologia, con particolare attenzione alla vulnerabilità dei bambini e degli anziani che vivono nella zona». Lo scorso 4 giugno, l’amministrazione comunale e i rappresentanti del comitato No al 5G Sotto Casa hanno incontrato in Municipio i rappresentanti di Vodafone e Inwit, rispettivamente il gestore e la società realizzatrice dell’antenna, a cui sono state espresse le istanze dei cittadini e la disponibilità alla delocalizzazione dell’impianto da parte dell’Amministrazione. In attesa di una risposta da parte di Vodafone e Inwit, il Comitato ha lanciato la petizione contro l’installazione dell’antenna, chiedendo «un intervento da parte dell’assessore all’Ambiente di concerto con l’Arpacal, per un controllo dei livelli di campo elettromagnetico generato dai ripetitori o antenne summenzionate, poiché tale misurazione rientra nella verificabilità delle radiazioni elettromagnetiche emesse dalle stesse sorgenti poste in prossimità delle abitazioni dei residenti». La proposta è stata accolta dal sindaco, che mercoledì scorso ha invitato gli uffici comunali a evadere la richiesta.

Nel frattempo, il giorno successivo veniva approvato in Senato con voto di fiducia un emendamento al cosiddetto “Decreto Coesione” destinato a cambiare le sorti del Piano “Italia 5G”. Nello specifico, l’emendamento stabilisce che «la localizzazione degli impianti nelle aree bianche oggetto dell’intervento è disposta anche in deroga ai regolamenti comunali di cui all’articolo 8, comma 6, della legge 22 febbraio 2001, n. 36». Allo Stato, dunque, sarà consentito di passare sopra l’amministrazione locale in merito alla installazione delle antenne per le reti 5G, anche quando i Comuni si oppongono. Le modalità con cui l’emendamento è stato avanzato, quelle con cui è stato votato e il suo stesso contenuto sono state criticate da alcuni sindaci, visto che quella delle antenne del 5G è una questione particolarmente cara ai primi cittadini italiani, che – seguendo proteste che partono dalla cittadinanza – si stanno spesso rifiutando di ospitarle all’interno dei confini amministrativi delle proprie città.

[di Stefano Baudino]

La NATO si allarga in Italia: a Varese il quartier generale della Forza di intervento rapido

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L’Italia accresce ulteriormente il proprio impegno in campo bellico, diventando la sede della nuova forza di reazione rapida dell’Alleanza Atlantica, la Allied Reaction Force (ARF, ovvero Forze di Reazione Alleate). L’inaugurazione del nuovo strumento NATO si è svolta lunedì nella base di Solbiate Olona, in provincia di Varese, dove ha sede la NRDC-ITA (NATO Rapid Deployable Corps, ovvero le forze NATO italiane a dispiegamento rapido). Sarà proprio questa la sede provvisoria dell’ARF, fino a che non verranno realizzate strutture permanenti specificamente dedicate ad essa. Lo scopo della nuova Forza NATO, la cui creazione è stata annunciata al termine del summit di Vilnius del 2023, è quella di «produrre effetti con un preavviso più breve di quanto sia stato possibile in precedenza», aumentando così la capacità di difesa e deterrenza dell’Alleanza.

Il fine esplicito della nuova Forza multinazionale è quello di concentrarsi sul contrasto alle «principali minacce» contemporanee, poste «dalla Russia e dai principali gruppi terroristici», permettendo di «rafforzare la deterrenza in pace o in crisi» e di «creare un dilemma strategico per gli avversari». L’ARF permette, in caso di necessità, di coordinare una risposta multiforze da parte di altri componenti dell’Alleanza in tempi estremamente rapidi, mettendole a disposizione del Comandante supremo delle forze NATO (SACEUR), massima autorità dell’Alleanza. Le missioni che questa unità può svolgere sono molteplici e vanno dalla «riserva strategica dispiegabile in caso di crisi» alla «dissuasione dell’escalation verticale o orizzonale», passando per la «risposta a crisi legate a situazioni emergenti».

Nel corso della cerimonia (svoltasi alla presenza della massima autorità dell’Alleanza Atlantica in Europa, il generale Christofer G. Cavoli, e del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale di Corpo d’Armata Carmine Masiello), la guida dell’ARF è stata affidata per i prossimi tre anni al generale di Corpo d’Armata Lorenzo D’Addario, già a capo del Comando di Solbiate Olona. All’evento hanno presenziato anche i comandanti delle varie unità NATO che faranno parte delle nuove Forze di Reazione Alleate, ovvero la 1° Divisione delle Forze del Regno Unito, le forze spagnole del JSOC (le Operazioni Speciali Congiunte) e del JFAC (le Forze Congiunte Aeree), le CFSpCC, le Forze Marittime Italiane (ITMARFOR) e il Commando delle Forze Alleate per le Operazioni Speciali (SOFCOM).

Come specificato in un comunicato della NRDC-ITA, la scelta della sede di Olbiate Solona come base per la nuova Forza NATO dimostra «l’impegno dell’Italia nei confronti dell’Alleanza e della Deterrenza e Difesa dell’Area Euro-Atlantica». Un impegno non da poco, dal momento che è stato assunto ufficialmente a poche ore dall’innalzamento del livello di allerta in tutte le basi NATO europee, incluse quelle italiane, da parte degli Stati Uniti. Al momento, infatti, nelle basi dell’Alleanza con sede in Italia, Germania, Bulgaria e Romania vige un livello di allarme per «minaccia imminente di terrorismo», di poco inferiore al livello massimo di allarme e normalmente individuato quando l’esercito riceve una «minaccia attiva-affidabile». L’Italia, in questo modo, si rende sempre più protagonista in un ipotetico scenario di guerra, lasciando i discorsi relativi alla pace su un piano di pura retorica.

[di Valeria Casolaro]

La Turchia ha chiuso i confini con la Siria

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A fronte degli episodi di violenza e delle manifestazioni tenutesi in Turchia a sostegno del popolo siriano, l’amministrazione di Ankara ha deciso di chiudere i valichi di frontiera che connettono i due Paesi. Nello specifico, a venire chiusi sono stati i valichi di Bab Al-Salamah, Al-Rai, e Jarabulus. Anche in Siria è stato chiuso il confine di Bab Al-Hawa, la più importante arteria che connette Damasco con la Turchia. La scelta di chiudere i confini arriva dopo i moti di protesta scoppiati in varie aree della Turchia a causa dei crescenti episodi di violenza contro le persone siriane che si trovano nel Paese come rifugiati.

Lotta ai tumori: la mappa 3d dei tessuti malati potrà aiutare a scoprire nuove cure

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È stata sviluppata una nuova mappa 3d che permette agli scienziati di osservare il comportamento dei tessuti malati aggrediti da un tumore e di quelli sani circostanti: si chiama Open-ST, è stata creata dai ricercatori del laboratorio di Nikolaus Rajewsky presso il Centro Max Delbrück e consente di ricostruire in tre dimensioni l’espressione genica nelle cellule di un tessuto, il tutto con una precisione così elevata che permette di studiare anche le strutture molecolari e subcellulari che spesso risultano difficili da trattare nelle rappresentazioni 2D tradizionali. È ciò che emerge da una nu...

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Nel silenzio generale la Turchia sta occupando il Kurdistan iracheno

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Con la scusante di combattere i guerriglieri curdi, la Turchia sta di fatto occupando la regione del Kurdistan iracheno, nel nord dell’Iraq. Negli ultimi giorni l’escalation si è intensificata tanto in Iraq quanto in Siria, in una palese violazione della sovranità di ambedue i Paesi. Le mosse della Turchia stanno aumentando l’instabilità regionale, con il rischio di far scoppiare una guerra su di una scala più vasta a lungo termine, con implicazioni regionali e globali. Le azioni aggressive dell’esercito turco, tra cui posti di blocco, interrogatori ai cittadini per strada e sfollamento dei villaggi, dimostrano un’occupazione de facto della regione che mina la sovranità dell’Iraq e del popolo curdo. Il dispiegamento di un migliaio di soldati, centinaia di carri armati e veicoli blindati, insieme alla creazione di basi militari, solleva serie preoccupazioni sulle intenzioni della Turchia nella regione.

La recente escalation da parte della Turchia nel Kurdistan iracheno, con il pretesto di combattere i guerriglieri del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), costituisce una violazione della sovranità irachena e una minaccia alla stabilità regionale che sembrerebbe mirare a stabilire il controllo su aree strategiche, suscitando preoccupazione a livello locale e internazionale. La denuncia arriva direttamente dal KCK, Unione delle Comunità del Kurdistan, organizzazione politica curda impegnata nella realizzazione del confederalismo democratico in Kurdistan, comprendente i quattro partiti politici degli Stati da cui dovrebbe sorgere il Kurdistan: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK, turco), il Partito dell’Unione Democratica (PYD, siriano), il Partito per la Vita Libera in Kurdistan (PJAK, iraniano) e il Partito della Soluzione Democratica del Kurdistan (PÇDK, iracheno). Il dispiegamento da parte della Turchia di carri armati, soldati e posti di blocco in profondità nel territorio curdo iracheno si configurerebbe come un chiaro tentativo di occupare questa parte di Kurdistan. Questo potrebbe portare a un’escalation della guerra a lungo termine, con implicazioni regionali e globali.

Secondo quanto riportato dai media del Kurdistan orientale (Kurdistan iraniano), da fonti locali e da esperti di questioni Kurdistan-Iraq, sembra che gli sforzi dell’esercito turco per occupare porzioni significative del Kurdistan iracheno abbiano raggiunto una nuova fase. I resoconti dei media, dei residenti della provincia di Duhok e degli esperti di sicurezza sulle questioni irachene indicano che la Turchia sta tentando di impadronirsi di aree strategiche chiave di Duhok con il pretesto di contrastare i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Un rapporto pubblicato da Channel 8 rivela che, negli ultimi 10 giorni, l’esercito turco ha schierato ben 300 carri armati e veicoli corazzati nella regione del Kurdistan iracheno, ovvero nel nord dell’Iraq. Questa forza corazzata è ora di stanza nei villaggi intorno alla catena montuosa di Matina e nella regione di Bamerni, nella provincia di Duhok. Secondo questo rapporto, dal 25 giugno, quasi 1.000 militari turchi, insieme ai loro veicoli corazzati, sono stati posizionati tra i villaggi di Babira e Kani Blaff nella regione di Badinan. I militari hanno ispezionato i documenti d’identità dei cittadini, fermando e impedendo spesso il movimento dei curdi e occupando di fatto la regione irachena. Con queste azioni, la Turchia sembrerebbe mirare a stabilire una zona cuscinetto di sicurezza che si estende dalla regione di Shiladzi alla città di Batufa. In questo modo riuscirebbe a circondare una parte significativa del Kurdistan iracheno e recidere il collegamento tra i guerriglieri del PKK e altre aree del Bakur, ovvero il Kurdistan turco.

Le recenti offensive dell’esercito turco contro la catena montuosa di Matina sono iniziate dal lato orientale e hanno l’obiettivo di prendere il controllo delle basi del PKK e avanzare verso ovest attraverso le montagne. Negli ultimi tre giorni, l’operazione si è concentrata su un tratto di circa 20 chilometri da est a ovest di Matina. Secondo gli analisti militari, l’obiettivo finale della Turchia, con questo significativo rafforzamento militare, è quello di prendere il controllo delle montagne Gara, nella provincia di Duhok. Se la Turchia riuscirà in questo intento, il governo regionale del Kurdistan potrebbe perdere il controllo del 75% del suo territorio. In risposta ai vasti sforzi della Turchia per occupare il Kurdistan iracheno, Tevgeri Azadi, del Movimento per la Libertà, ha rilasciato una dichiarazione diretta ai gruppi politici della regione, chiedendo vigilanza e resistenza contro l’aggressione turca. La dichiarazione ha sottolineato la necessità che il popolo curdo e quello iracheno rimangano uniti contro l’invasione turca e sottolineato che il 22 e 23 giugno, con il pretesto di colpire i guerriglieri del PKK, la Turchia ha schierato centinaia di carri armati, veicoli corazzati e migliaia di truppe nella provincia di Duhok, nel Kurdistan iracheno. Questa misura è descritta come una minaccia significativa che fa parte di un piano più ampio per l’occupazione a lungo termine. Azadi ha condannato questa azione come una chiara violazione del diritto internazionale e un attacco alla sovranità irachena, criticando la mancanza di risposta del governo federale iracheno e sottolineando la cooperazione della famiglia curda Barzani con l’esercito turco. Il 26 giugno, il KCK ha rilasciato una dichiarazione in merito alla presenza militare turca in corso nella regione del Kurdistan e in Iraq. Nella sua dichiarazione, il KCK ha sottolineato le preoccupazioni per la mancanza di risposta da parte di Baghdad ed Erbil, considerata la capitale del Kurdistan iracheno, all’occupazione turca, descrivendola come una seria minaccia per il futuro delle comunità irachene. Il comitato per le relazioni estere del KCK ha avvertito che l’occupazione turca potrebbe diventare permanente e potenzialmente portare all’annessione.

In Siria, invece, da ieri pomeriggio, le città occupate di Bab, Azaz e Afrin sono testimoni di proteste contro la presenza turca in risposta alle pratiche razziste contro i siriani all’interno della Turchia, in particolare l’attacco alle famiglie siriane di domenica scorsa nella città di Kayseri, e la protesta contro il recente riavvicinamento tra Ankara e Damasco. Secondo le fonti, i manifestanti hanno bloccato la strada principale della città di al-Bab di fronte a una serie di camion turchi e li hanno attaccati e danneggiati. In alcuni filmati si possono vedere i manifestanti che abbattono la bandiera turca da un edificio del registro civile turco nella città di Azaz. Nella città di Afrin, attivisti hanno riferito che decine di manifestanti che chiedevano la partenza del governatore turco dalla città sono stati colpiti da colpi di arma da fuoco, davanti all’edificio “Seraya” e al comune della città, senza informazioni sulle vittime.

[di Michele Manfrin]

India, almeno 50 morti dopo calca a raduno religioso

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Almeno 50 persone sono decedute dopo la calca che si è formata durante un raduno religioso indù nel nord dell’India. Lo riportano le autorità locali di Aligarh, citate da Press Trust of India, le quali hanno comunicato che i morti sono almeno tra le 50 e 60 persone mentre l’assistenza medica alle vittime e ulteriori indagini sono ancora in corso. Altre fonti invece parlano di oltre 100 morti, mentre una testimone oculare ha riferito che la calca sarebbe avvenuta mentre le persone stavano lasciando il luogo di preghiera e improvvisamente hanno iniziato a cadere «l’uno sull’altro».

Cade l’ultima misura dell’era Covid: stop alle mascherine nei reparti con pazienti fragili

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Anche nei reparti ospedalieri in cui sono presenti pazienti fragili non è più obbligatorio indossare le mascherine chirurgiche: è quanto emerge dalla circolare del Ministero della Salute pubblicata il 1° luglio che mette la parola fine anche all’ultima misura restrittiva introdotta nell’era pandemica. Nello specifico, si passa sul punto dall’obbligo alla raccomandazione, a discrezione dei singoli direttori sanitari, chiamati a «valutare le opportunità di disporre l’uso dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie nei diversi contesti della propria struttura», considerando la «diffusione dei virus a trasmissione aerea», le «caratteristiche degli ambienti (ad esempio della ventilazione)» e la «tipologia di pazienti, lavoratori o visitatori che li frequentano». Il tutto «in funzione del livello di rischio di infezione e/o trasmissione» e «del potenziale di sviluppo di malattia grave in caso di esposizione”. I direttori sanitari dovranno inoltre potenziare «le misure igieniche di precauzione» con una «adeguata informazione» ai pazienti, al personale sanitario e «a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, sono presenti nelle richiamate strutture».

Si tratta di una circolare pubblicata «tenendo conto» dell’attuale «andamento clinico-epidemiologico dell’infezione da SARS-CoV-2 e delle sindromi simil-influenzali, la disponibilità di vaccini contro le principali infezioni respiratorie acute virali, le aumentate capacità diagnostiche e le evidenze scientifiche sulla efficacia dei dispositivi di protezione individuale per ridurre la trasmissione virale», secondo quanto riportato dal documento. A proposito di efficacia dei dispositivi di protezione, si tratta di una questione sotto i riflettori della comunità scientifica da mesi: già più di un anno fa L’Indipendente riportava che secondo uno degli studi comparati più ampi e rigorosi pubblicato per Cochrane – un’organizzazione no profit britannica considerata il punto di riferimento per eccellenza della revisione dei dati sanitari e degli studi scientifici – non vi sarebbe alcuna evidenza scientifica sul fatto che indossare le mascherine riduca la trasmissione delle malattie virali. «Non ci sono prove che [le mascherine] facciano alcuna differenza. Punto», aveva dichiarato l’autore principale dello studio. Altre ricerche, poi, confermerebbero che persino le regole imposte ai bambini sono di dubbia solidità scientifica: una revisione sistematica sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sul British Medical Journal ha analizzato oltre 22 studi da una selezione di 600 concludendo che solo 6 sembravano suggerire una protezione ma con un alto tasso di rischio di bias, concludendo che “l’efficacia dell’obbligo di indossare mascherine nei bambini non è ancora stata dimostrata con prove di alta qualità”.

Infine, risulta impossibile ignorare il fatto che il documento arrivi in seguito alle ammissioni di Fauci fatte proprio il mese scorso: l’immunologo ha infatti confermato che le misure che imponevano il distanziamento e l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale non erano supportate da alcun criterio scientifico davanti alla sottocommissione sulla pandemia da coronavirus della Camera statunitense. Fauci aveva inoltre detto ai legislatori repubblicani che la regola del distanziamento sociale di un metro e mezzo era «apparsa» senza che si ricordasse come, aggiungendo: «Non ricordo. In un certo senso è apparso». Inoltre, aveva anche ammesso di «non essere a conoscenza di studi» che supportassero il distanziamento sociale, sottolineando che tali studi «sarebbero molto difficili» da compiere con efficacia.

[di Roberto Demaio]