lunedì 5 Maggio 2025
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Influencer virtuali, le nuove instagrammer non esistono (ma fanno un sacco di soldi)

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Il fenomeno dell’influencer digitale sta diventando una forza da non sottovalutare nel settore dell’influencer marketing. Prende d’assalto i social media, con sempre più stelle emergenti su Instagram e marchi in coda, per lavorare con loro. Il 7% delle aziende sta investendo oltre un milione di dollari nel settore, creando in proprio influencer robot per pubblicare contenuti e guadagnare più denaro. Tra i personaggi digitali più noti c’è Lil Miquela (2,9 milioni di seguaci), che secondo Bloomberg farà guadagnare almeno 8.960.000 euro all’anno alla società che l’ha creata, Brud. I marchi trovano facile lavorare con gli influencer robot, poiché possono essere modificati in base alla personalità del marchio. Quelli umani, invece, hanno una identità distinta e quindi più complicata da manipolare.

Un influencer è un personaggio popolare in Rete, che ha la capacità di influenzare, appunto, i comportamenti e le scelte di un determinato gruppo di utenti. Dal 2016, tuttavia, il titolo non riguarda esclusivamente gli esseri umani, ma robot influencer o CGI: un’intelligenza artificiale (IA) creata tramite software di animazione 3D. Come la maggior parte dell’IA hanno la capacità di imparare dalle interazioni, che contribuiscono al loro sviluppo continuo, controllato dai programmatori. Gli avatar hanno molto seguito, in quanto i loro contenuti, creati ad hoc, rappresentano esperienze e stili di vita che la maggior parte della Generazione Z vorrebbe far propri.

Iraq, si riaccendono le proteste popolari: molotov contro le sedi governative

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Si intensificano le proteste popolari nel Kurdistan iracheno contro la classe politica e il governo autonomo della regione. Le manifestazioni – cominciate a causa del ritardo nei pagamenti degli stipendi pubblici – sono state particolarmente accese nelle città di Suleimaniya e Piramagrun, dove i manifestanti hanno preso d’assalto le sedi dei partiti al governo anche con il lancio di bombe molotov. La polizia è intervenuta in tenuta anti-sommossa, sparando anche pallottole di gomma. Mentre le autorità curdo-irachene hanno ordinato la chiusura dei media vicini al movimento di protesta.

Da ormai un anno l’Iraq è al centro di frequenti manifestazioni di massa, le cui richieste principali sono: le dimissioni del governo, del Parlamento e del capo di Stato, nuove elezioni anticipate sotto l’egida delle Nazioni Unite, una nuova legge elettorale e l’istituzione di un tribunale speciale per i casi di corruzione. Dal 17 marzo, le proteste si erano interrotte a causa della diffusione del Covid-19. Nonostante ciò, la popolazione ha continuato a esprimere il suo malcontento con sporadici episodi dal 10 maggio, giorno dell’elezione del primo ministro al-Kadhimi definito frutto della divisione del potere su base etnico-confessionale. I manifestanti hanno anche chiesto punizioni per coloro che hanno “ucciso, rapito, torturato e arrestato attivisti” nel corso degli ultimi mesi. Secondo un report della Missione dell’Onu in Iraq risalente a maggio, sono state documentate 800 vittime e 23 000 feriti.

Il 92% dei ghiacciai alpini potrebbe scomparire entro fine secolo

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I 4.000 ghiacciai che si trovano sulla catena montuosa delle Alpi potrebbero scomparire entro il 2100, con effetti a catena su stoccaggio dell’acqua, ambiente ed ecosistemi. Lo afferma un nuovo studio, condotto dai ricercatori della Aberystwyth University in Galles, in collaborazione con l’International Centre for Theoretical Physics (Ictp) di Trieste. Lo scopo principale della ricerca, era fare previsioni più accurate sulla probabile risposta dei ghiacciai al cambiamento climatico. Esse indicano che lo scioglimento di quasi tutti i ghiacciai Alpini è certo.

La loro scomparsa, tra i più immediati effetti del cambiamento climatico, causerebbe enormi impatti sugli ecosistemi alpini ed una diminuzione delle risorse idriche. Per impedire che ciò accada è necessario un intervento internazionale, coordinato tra scienziati ed istituzioni. È indispensabile ridurre le emissioni per stabilizzare il riscaldamento globale al di sotto della soglia di 1,5-2°C (accordo di Parigi).

Coca-Cola, Pepsi e Nestlé sono i tre maggiori produttori di rifiuti plastici al mondo

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Coca-Cola, Pepsi e Nestlé figurano per la terza volta di fila come i principali produttori della plastica che inquina il pianeta. Lo rivela Break Free From Plastic, nella sua attività annuale di pulizia e catalogazione dei rifiuti: dei 346.494 contenitori usa e getta raccolti dai 15.000 volontari sparsi in tutto il mondo, la maggior parte appartiene ai tre grandi marchi. Il primo posto spetta ancora a Coca-Cola, i cui imballaggi inquinano spiagge, fiumi e parchi di 51 su 55 nazioni prese ad esame. Con le sue 13.834 unità di plastica disperse, la Coca-Cola supera PepsiCo (5.155 unità) e Nestlé (8.633 unità). Record negativi che descrivono un “progresso zero” nella riduzione dell’usa e getta, reso più grave dal fatto che il 91% della plastica prodotta non è stata riciclata, finendo bruciata o dispersa nell’ambiente. Il report specifica che le bustine monouso (come quelle del ketchup o dello sciampo) sono il tipo di rifiuto più comunemente trovato, seguite dai mozziconi di sigaretta e dalle bottiglie di plastica.

I tre colossi si difendono dalle accuse: Coca-Cola afferma di aver introdotto sul mercato delle bottiglie interamente riciclate, Pepsi mira a ridurre del 35% la quantità di plastica vergine usata nella produzione prima del 2025 e Nestlé promette di raddoppiare gli sforzi per rendere i propri imballaggi biodegradabili. Semplicemente parole alle quali però ancora non sembrano seguire fatti.

Australia, gli incendi portano il koala a rischio estinzione: già 60mila colpiti

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Sono più di 60.000 i koala colpiti dagli incendi boschivi in Australia tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. A stimarlo, è stato un report commissionato dal WWF-Australia nell’ambito della valutazione del bilancio ecologico della cosiddetta ‘“estate nera”. Il report ha stimato, inoltre, che circa 3 miliardi di animali, di cui 2.46 miliardi di rettili, si trovavano nel percorso delle fiamme. Di questi, 143 milioni erano mammiferi: un milione di wombat, 5 milioni di canguri e wallaby, 5 milioni di pipistrelli, 39 milioni di opossum e alianti e 50 milioni di topi e ratti nativi. Ma sono i koala a preoccupare maggiormente: ne sarebbero stati interessati tra i 43.261 e i 95.180, con una media di 61.353. “Per una specie a serio rischio di estinzione, sono numeri devastanti”, ha commentato il direttore esecutivo di WWF-Australia.

Un’indagine parlamentare ha reso noto che i koala, a causa della scomparsa del loro habitat, potrebbero estinguersi nello stato del Nuovo Galles del Sud entro il 2050. Perdita di habitat, aggravata proprio dagli ultimi incendi boschivi. In alcune zone, è stato bruciato oltre l‘80% delle foreste che ospitava i mammiferi marsupiali a rischio. Gli incendi, scoppiati in Australia nel giugno 2019, hanno distrutto circa 17 milioni di ettari, uccidendo almeno 33 persone e provocando la morte di oltre 1 miliardo di animali.

Covid: farmaco antivirale blocca il virus in 24 ore nei furetti

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Il Molnupiravir (MK-4482/EIDD-2801), nuovo farmaco antivirale sviluppato contro l’influenza, blocca la trasmissione del SarsCoV2 nei furetti in sole 24 ore. Attuale è ancora in fase di sperimentazione, è facilmente assumibile per via orale. In base allo studio pubblicato sulla rivista Nature Microbiology dai ricercatori della Georgia State University, nel caso in cui venissero confermate le potenzialità del farmaco anche nell’uomo, potrebbe diventare uno strumento per frenare la progressione della malattia, ridurre il tempo di isolamento dei pazienti e spegnere rapidamente i focolai locali.

“Avevamo già notato che MK-4482/EIDD-2801 ha un ampio spettro d’azione contro i virus respiratori a Rna e che la somministrazione per via orale negli animali infetti riduce di diversi ordini di grandezza la quantità di particelle virali liberate, diminuendo drasticamente la trasmissione”, spiega il coordinatore dello studio, Richard Plemper. I ricercatori hanno pensato di testarlo sui furetti, modelli animali perfetti per studiare la trasmissione dell’infezione “perché diffondono facilmente il virus SarsCoV2 anche se la maggior parte non sviluppa sintomi severi, proprio come accade nelle persone giovani adulte”, precisa il co-autore dello studio, Robert Cox.

I furetti sono stati quindi infettati con SarsCoV2 e appena hanno iniziato a emettere particelle virali dal naso, sono stati trattati con Molnupiravir. “Quando li abbiamo messi in gabbia con furetti sani, non si è verificata alcuna infezione“, afferma il ricercatore Josef Wolf. Al contrario, i furetti infettati e trattati con placebo hanno contagiato tutti i compagni di gabbia sani.

 

Egitto, nessuna giustizia: Patrick Zaki resta in carcere

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Patrick Zaki dovrà restare in carcere altri 45 giorni. È questa la sentenza pronunciata oggi dal giudice della terza sezione del tribunale antiterrorismo del Cairo, in Egitto. La decisione è stata resa nota su Twitter dall’EIPR, l’organizzazione non governativa per cui lo studente lavora come ricercatore. L’udienza si era tenuta ieri, domenica 6 dicembre. L’EIPR riporta che il caso di Zaki è stato esaminato durante una sessione che includeva circa 700 detenuti: sono stati rinnovati gli ordini di detenzione per tutti tranne uno. Gli avvocati di Zaki avevano chiesto la scarcerazione del ragazzo, adducendo come motivazione anche le torture che avrebbe subito durante gli interrogatori da parte dei servizi segreti egiziani. Lo stesso Zaki è apparso in aula, dichiarandosi innocente e chiedendo al giudice di verificare l’autenticità dei post su Facebook, sulla base dei quali è accusato di propaganda sovversiva. All’udienza hanno preso parte anche i delegati diplomatici di Italia, Germania, Olanda, Canada e l’avvocato dell’Unione europea.

Patrick George Zaki è detenuto da febbraio nel carcere di Tora in Egitto. Più di un anno fa si era trasferito in Italia, per conseguire un Master in Women and Gender Studies presso l’Università di Bologna. È stato arrestato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio, mentre tornava nella sua città natale Mansoura.

 

 

In Colombia c’è una continua strage di leader indigeni di cui non si parla

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In Colombia c’è stata un’altra sparatoria ai danni di un gruppo di indigeni della comunità Nasa. Non si tratta del primo attacco, e probabilmente non sarà neppure l’ultimo. L’assalto è avvenuto nel comune di Santander de Quilichao, nel sud-ovest del Paese, per mano di un commando armato. Il bilancio dei morti è per ora di 4 persone uccise, diversi feriti e altri due indigeni ricoverati in ospedale.

A cosa sono dovuti questi scontri? Perché gli indigeni vengono ammazzati? Secondo l’Istituto di Studi per lo Sviluppo e la Pace (Indepaz), ogni 27 ore un “leader sociale” indigeno è assassinato. Già a metà dello scorso anno ne sono stati uccisi 36 appartenenti alla comunità Nasa. L’espressione “leader sociale”, in Colombia, non ha una connotazione unica e specifica. Comprende, in generale, qualsiasi individuo abbia a cuore la difesa dei diritti umani, civili e politici. Indigeni, contadini, afro colombiani, giornalisti e tutte le categorie esistenti, a patto che dietro ci sia una lotta per la restituzione delle terre usurpate, ad esempio, l’opposizione alle multinazionali o alle deforestazioni. Ad opporsi alla loro leadership, però, ci sono gruppi di interesse economico e politico, che spesso utilizzano i paramilitari per garantire i propri interessi,  quasi sempre collegati al traffico illecito di droga ed allo sfruttamento del territorio. A questo si aggiunge lo storico conflitto tra il governo colombiano e i ribelli delle Farc (gruppo armato attivo dagli anni ’70) gruppo ormai in smobilitazione, che ha lasciato molti dei territori un tempo controllati – specie nelle zone indigene – in balia della malavita.

L’Onu ha chiesto al governo maggiore protezione nei confronti dei leader sociali, per evitare morti come quella di Gloria Ocampo, uccisa a 37 anni, mentre era impegnata in un programma di riconversione delle coltivazioni illecite di coca. Al suo, si aggiungono circa 400 omicidi commessi negli ultimi tre anni, a fronte dei quali la giustizia colombiana ha emesso appena 22 sentenze di condanna. Anche i media colombiani contribuiscono a far scivolare questi omicidi nell’indifferenza, parlando spesso di morti accidentali. Una delle cause è l’assenza dello Stato nelle zone più ai margini del paese. Si aggiunge l’alto tasso di disoccupazione e la difficoltà nell’attuare un piano educativo e sanitario. In questo modo i gruppi criminali hanno di fatto la strada spianata.

Clima, novembre da record: in Europa è stato il più caldo di sempre

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Le temperature medie globali di novembre 2020 sono state le più alte mai registrate. Lo ha riferito il Copernicus Climate Change Service, che si occupa di monitorare la terra dell’Unione Europea. Secondo i dati novembre era vicino a +0,8 ° C rispetto al periodo di riferimento standard del 1981-2010, e più di 0,1 ° C al di sopra dei precedenti novembre più caldi: quelli del 2016 e del 2019. Temperature che, in Europa, eleggono ufficialmente questo novembre 2020 come il secondo più caldo di sempre (insieme al 2009). Anche negli Stati Uniti, in Sud America, in Africa meridionale, Antartide orientale e gran parte dell’Australia le temperature sono state elevate. Al contrario, l’Asia centrale si è mantenuta al di sotto della media. In sintesi, possiamo dire che l‘Europa ha appena vissuto il suo autunno più caldo.

Venezuela, sconfitta dei golpisti Usa: Maduro vince nuovamente le elezioni

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Con il 67% dei voti il Partito Socialista Unito del presidente Nicolas Maduro ha vinto le elezioni riconquistando la maggioranza nel Parlamento del Venezuela. Le votazioni si sono svolte senza incidenti ma sono state segnate dalla forte astensione, con l’affluenza ferma al 31% degli aventi diritto. Parte dell’opposizione aveva invitato al boicottaggio sostenendo che non ci fossero garanzie che le elezioni si sarebbero svolte senza brogli, un’idea sostenuta anche dagli Usa. Tuttavia le elezioni sono state monitorate da un gruppo di circa 300 osservatori indipendenti guidati dall’ex premier spagnolo Zapatero e al momento non sono stati rilevati brogli. Nonostante questo il segretario di stato statunitense Mike Pompeo ha definito le elezioni “una frode e una farsa”. Da ormai 20 anni gli Usa cercano di rovesciare il sistema di governo costruito dalla sinistra in Venezuela, il cosiddetto chavismo (dal nome di Hugo Chavez primo presidente socialista del Venezuela, morto nel 2013), che si basa su nazionalizzazioni, gestione sovrana delle ricchezze del paese (innanzitutto petrolio) sottratte al controllo delle multinazionali e accesso gratuito dei cittadini a educazione e sanità.

Nicolas Maduro nel suo primo messaggio dopo le elezioni ha chiesto alle opposizioni di tornare a collaborare per chiedere al nuovo presidente Usa, Joe Biden, di revocare le sanzioni economiche che colpiscono il Venezuela e che stanno mettendo a dura prova l’economia del paese. Difficile che ciò accadrà. Di certo, per ora, le elezioni segnano la probabilissima fine politica di Juan Guaidò, il leader dell’opposizione sul quale gli Usa (e gli alleati europei) avevano scommesso per rovesciare Maduro. Guaidò si era autoproclamato presidente nel 2018 e aveva ripetutamente cercato di organizzare manifestazioni di massa e invitato senza mezzi termini i vertici militari ad attuare un colpo di stato violento contro Maduro, fallendo in modo evidente in entrambi i propositi.