Il consiglio presidenziale transitorio di Haiti ha rimosso il primo ministro Garry Conille, in carica da pochi mesi, mentre la crisi politica e sociale e gli scontri con le bande armate continuano ad aggravarsi. Conille era stato nominato a maggio e aveva avuto rapporti difficili con il consiglio, soprattutto in merito alle nomine ministeriali. Al suo posto potrebbe subentrare Alix Didier Fils-Aime, imprenditore ed ex candidato al Senato. Nel frattempo, la violenza delle bande armate cresce: queste hanno preso il controllo di gran parte della capitale, Port-au-Prince, e si stanno espandendo nelle aree vicine, causando fame e lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone.
Cuba, arresti dopo proteste contro stop a elettricità
La Procura Generale di Cuba ha comunicato l’arresto di un imprecisato numero di persone per «disturbo dell’ordine pubblico» a causa delle manifestazioni di protesta che si sono verificate nei due giorni di interruzione di corrente elettrica dovuta agli effetti dell’uragano Rafael. «È in corso un procedimento penale per i reati di attentato, disturbo dell’ordine pubblico e danneggiamento», ha evidenziato la Procura in una nota, senza offrire informazioni sull’esatto numero delle persone coinvolte. Gli arresti, secondo quanto riferito, sono avvenuti a L’Avana e nelle province di Mayabeque e Ciego de Avila.
Elezioni USA, Trump vince anche in Arizona: ha 312 grandi elettori
Donald Trump, che ha battuto la rivale Kamala Harris alle elezioni presidenziali USA, ha strappato anche lo stato in bilico dell’Arizona ai democratici, portando il numero finale dei grandi elettori a 312. Tale vittoria si aggiunge dunque al resto degli ‘swing states’ di queste elezioni – Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Georgia, North Carolina e Nevada -, dove Trump ha trionfato. Molto staccata dal vincitore la candidata dem, che ha ottenuto solo 226 grandi elettori. Nel 2020, in Arizona Trump aveva perso contro Joe Biden, poi diventato presidente, per solo 10.457 voti.
Alluvione in Spagna: migliaia in piazza contro gestione emergenza
Decine di migliaia di persone si sono riversate in piazza a Valencia per protestare contro la gestione da parte del governatore Carlos Mazon dell’alluvione che a fine ottobre ha causato oltre 220 morti nella parte Sud-occidentale della Spagna. La mobilitazione è stata lanciata da un network di sindacati e associazioni civiche. Nel corso della manifestazione i partecipanti hanno scandito slogan e urla come «assassini!» e «El pueblo muriendo y Mazon comiendo (il popolo moriva e Mazon mangiava)». Migliaia di persone hanno protestato anche in altre città, tra cui Madrid, Alicante, Gandia ed Elche.
Trump chiama Zelensky: le ipotesi sul piano USA per porre fine alla guerra
L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha portato numerose e significative indiscrezioni su come la nuova amministrazione statunitense potrebbe gestire il complicato scenario del conflitto in Ucraina. L’ex presidente, che ha vinto le elezioni con una campagna elettorale focalizzata su temi di sicurezza e politica estera, ha già suscitato dibattiti accesi per il suo approccio non convenzionale alle crisi internazionali. Nelle ultime ore, l’attenzione si è concentrata su una telefonata tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Nonostante i dettagli del colloquio non siano stati resi noti, voci sempre più circostanziate suggeriscono che Trump – che in campagna elettorale si è spesso lamentato del costo del supporto militare americano, sostenendo a più riprese che avrebbe potuto porre fine al conflitto «in un giorno» – abbia espresso l’intenzione di ridisegnare la strategia americana in merito alla guerra in Ucraina.
Non è un mistero che Donald Trump stia concretamente esplorando la possibilità di una mediazione, attraverso un possibile dialogo diretto con Mosca, in vista di un potenziale cessate il fuoco. Le indiscrezioni messe sul piatto da varie testate internazionali, tra cui il Wall Street Journal e il Financial Times – suffragate dalle anticipazioni fatte nelle ultime settimane dal nuovo vicepresidente USA James David Vance – rivelano che l’entourage di Trump starebbe concependo una proposta di intesa che stabilirebbe l’occupazione Russa di circa il 20% del territorio ucraino, con una zona demilitarizzata pari a 800 miglia. E, soprattutto, la previsione di una promessa di non unirsi alla NATO per almeno 20 anni da parte di Kiev, che in cambio chiederebbe un rafforzamento organico dei legami militari con Washington. Secondo Axios, Trump potrebbe inoltre avvalersi del suo grande supporter Elon Musk – proprietario di Tesla e X – come intermediario o consulente informale per agevolare le trattative. Musk ha proposto in passato idee di pace per l’Ucraina, che però sono state respinte da Kiev poiché considerate troppo sbilanciate in favore della Russia.
Nel frattempo, appare evidente che gli alleati della NATO e le alte gerarchie UE temano che una trattativa troppo accondiscendente possa rafforzare il capo del Cremlino. Mentre Vladimir Putin, a poche ore dalla vittoria di Donald Trump, si è congratulato con il tycoon per la sua elezione, definendolo una «persona coraggiosa» e confermando che la Russia è pronta a parlare con lui, Zelensky si incontrava in Ungheria con alcuni leader UE, che hanno espresso preoccupazione per l’approccio di Trump alla materia. La linea di Bruxelles rimane infatti quella di un supporto senza compromessi a Kiev. Lo ha fatto capire molto bene quest’oggi Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che ha dichiarato: «Abbiamo sostenuto l’Ucraina fin dall’inizio e in questa mia ultima visita in Ucraina trasmetto lo stesso messaggio: vi sosterremo il più possibile».
Le ipotesi di un piano statunitense per la risoluzione del conflitto pongono interrogativi anche sul lungo termine. Trump ha spesso ribadito la sua filosofia di politica estera orientata al realismo strategico, esprimendo la volontà di riequilibrare l’impegno americano in Europa e Asia. Questo approccio potrebbe segnare un disimpegno progressivo degli Stati Uniti dal supporto incondizionato a Kiev, facendo pressione sugli alleati europei affinché, nel frattempo, assumano una quota maggiore della responsabilità militare e finanziaria. Il recente attacco nella regione russa di Kursk, attribuito a operazioni ucraine, ha inoltre aggiunto tensione a un contesto già esplosivo. Eventi simili potrebbero influenzare le scelte diplomatiche future di Washington, con Trump che potrebbe avere buon gioco a utilizzarli come giustificazione per promuovere un accordo in vista della cessazione del conflitto.
[di Stefano Baudino]
Gaza, proseguono i raid israeliani: 30 morti, di cui 13 bambini
La protezione civile della Striscia di Gaza ha annunciato oggi la morte di 30 persone, tra cui 13 bambini, a causa di due attacchi dell’esercito israeliano. Il primo raid è avvenuto a Jabalia, nel nord di Gaza, provocando almeno 25 morti, tra cui 13 bambini, e più di 30 feriti. Altre cinque persone hanno perso la vita, mentre altre risultano disperse, in un altro raid che ha colpito un’abitazione nel quartiere al-Sabra di Gaza City. «Alcuni civili sono ancora sotto le macerie», hanno affermato i servizi di emergenza palestinesi.
Verona, blocco stradale e presidio contro il ddl 1660
Oggi pomeriggio a Verona un gruppo di manifestanti appartenenti a diverse realtà, tra cui Ultima Generazione, ha bloccato per circa venti minuti la strada su Ponte Nuovo, lanciando della vernice lavabile arancione. La contrarietà al disegno di legge 1660, attualmente in discussione al Senato, e alla repressione delle lotte sociali erano alla base dell’azione dei manifestanti, che dopo una negoziazione con la Digos si sono diretti verso Piazza dei Signori, luogo designato per il presidio contro la norma liberticida.
La verità sulla “caccia agli ebrei” di Amsterdam (e su chi sono gli ultras del Maccabi)
La stampa italiana ha confermato ancora una volta il suo atavico vizio di riportare in modo parziale le notizie. Le pagine di giornale, le trasmissioni radiofoniche, i servizi in tv sono affollati dagli scontri avvenuti ad Amsterdam la sera di giovedì, 7 novembre, in cui i seguaci del Maccabi Tel Aviv hanno avuto la peggio. La stampa mainstream li ha descritti in termini di “pogrom organizzati” e “caccia all’ebreo”, gridando all’antisemitismo. Una ricostruzione demistificante, che volutamente relega gli eventi ad azioni estemporanee e sorvola su quanto successo prima (una dinamica che ben conosciamo dal 7 ottobre), nelle ore precedenti alla partita tra Ajax e Maccabi Tel Aviv, finita 5-0 per i padroni di casa. I sostenitori gialloblu del Maccabi sono tra i più violenti del panorama calcistico israeliano e lo hanno confermato seminando odio nelle strade della capitale olandese, tra cori contro i palestinesi, aggressioni e bandiere strappate via dalle case. La violenza è continuata anche all’interno della Johan Cruijff Arena, dove il settore ospiti ha fischiato durante il minuto di silenzio dedicato alle vittime dell’alluvione nella Comunità Valenciana.
A guidare la spedizione gialloblu ad Amsterdam è stato il suo gruppo principale: i Fanatics, legati agli ambienti dell’estrema destra israeliana, in particolare al ministro suprematista Ben Gvir, e connotati da una certa matrice razzista. Nel 2014 costrinsero, per le sue origini arabe, il giocatore israeliano Maharan Radi a lasciare il Maccabi Tel Aviv. L’anno seguente si opposero all’iniziativa della UEFA a favore dei rifugiati siriani, srotolando in curva un eloquente striscione con scritto: “Refugees Not Welcome”. Il loro odio si estende oltre a palestinesi e rifugiati anche verso la comunità lgbtqia+. Negli anni hanno esportato la loro violenza in giro per l’Europa; soltanto pochi mesi fa ad Atene, in occasione di Olympiakos-Maccabi Tel Aviv, gli ospiti hanno aggredito in gruppo un uomo che portava con sé una bandiera palestinese.
Proprio il simbolo di una palestinità che i sionisti fanno fatica ad accettare è stato, giovedì scorso, oggetto di violenze. Diversi video ritraggono i seguaci del Maccabi Tel Aviv intenti ad arrampicarsi sulle finestre delle case per strappare le bandiere palestinesi, violando la proprietà dei cittadini olandesi solidali con il popolo assediato a Gaza e in Cisgiordania.
Dalla sera precedente i supporter gialloblu hanno intonato nel centro di Amsterdam cori contro la Palestina e i palestinesi, aggredendo un tassista e finendo per trovare lo scontro con la popolazione locale in diverse zone della città. I disordini sono continuati appunto anche il giorno seguente. Nel pomeriggio gli hooligan del Maccabi Tel Aviv hanno aggredito un cittadino arabo, che è stato poi allontanato dalla polizia. In avvicinamento alla gara con l’Ajax, hanno inneggiato nei pressi della stazione centrale agli stupri e alla vittoria dell’esercito israeliano ai danni dei palestinesi. I cori discriminatori sono andati avanti anche durante il match, accompagnati dalla violazione del minuto di silenzio disposto per le vittime della Comunità Valenciana. D’altronde la Spagna ha riconosciuto a maggio lo Stato di Palestina ed è impegnata attivamente nel boicottaggio di import-export di armi nei confronti di Israele.
Al termine della partita, dopo due giorni di disordini provocati dai seguaci del Maccabi Tel Aviv, sono scoppiati nuovi scontri con gruppi di manifestanti vicini alla causa palestinese. Il bilancio parla di 62 arresti e di 5 israeliani feriti. Il governo di Tel Aviv aveva annunciato l’intenzione di inviare due aerei di soccorso per rimpatriare i cittadini, salvo poi fare dietrofront e optare per i voli commerciali messi a disposizione dalla compagnia israeliana El Al. Una volta arrivati all’aeroporto Ben Gurion, i supporter hanno ripreso a cantare, intonando: «Non ci sono scuole a Gaza perché non ci sono più bambini».
Mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu ha messo in moto la macchina della propaganda evocando l’immagine della notte dei cristalli, Ursula von der Leyen si è detta «indignata per gli attacchi vili della notte scorsa contro cittadini israeliani ad Amsterdam. Condanno con forza questi atti inaccettabili. L’antisemitismo non ha assolutamente posto in Europa. E siamo determinati a combattere tutte le forme di odio». Si è dunque di fronte all’ennesima strumentalizzazione del concetto di antisemitismo, avallata dalla retorica israeliana che svilisce l’Olocausto, comoda a temporeggiare di fronte al primo genocidio in diretta social della storia.
[di Salvatore Toscano]
Cremona, Tamoil usa il fotovoltaico per aggirare l’obbligo di bonificare l’area inquinata
A Cremona, Tamoil ha presentato un progetto per la costruzione di un parco fotovoltaico di 5-6 megawatt sull’ex area della sua raffineria, convertita in deposito circa 13 anni fa. Il progetto, consegnato al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, secondo alcune associazioni rappresenta una strategia della società petrolifera per eludere l’impegno alla bonifica, sfruttando lacune normative e lasciando così a Cremona una pesante eredità ambientale irrisolta.
Per la città e i suoi abitanti, il nuovo parco fotovoltaico potrebbe quindi essere un abbaglio: una promessa di energia pulita che non riesce però a dissipare le ombre di un inquinamento ancora presente. La riconversione dell’area Tamoil era già stata delineata nel 2011, quando l’azienda cessò la lavorazione del greggio. L’accordo con le istituzioni e le parti sociali, firmato presso l’allora Ministero dello Sviluppo Economico, prevedeva sia misure di sostegno economico per i dipendenti con ammortizzatori sociali, sia l’avvio delle opere di bonifica nelle aree interne e la creazione di una barriera idraulica per proteggere l’ambiente circostante. Tuttavia, gli interventi di bonifica non sono mai iniziati: una normativa permette infatti di rimandare tali operazioni finché l’area ospita attività produttive, e Tamoil ha mantenuto operativo sul sito il suo stesso deposito.
Per questo motivo il progetto del parco fotovoltaico ha suscitato critiche soprattutto da parte delle associazioni ambientaliste e dei cittadini, poiché, se da un lato rappresenta un passo verso l’energia rinnovabile, dall’altro rischia di compromettere definitivamente una bonifica completa dell’area, dove l’inquinamento da idrocarburi è ancora irrisolto. L’area industriale Tamoil ha causato infatti nel tempo gravi danni ambientali, portando il Comune di Cremona ad avviare azioni legali per ottenere risarcimenti. Dopo una lunga battaglia legale, il Comune ha raggiunto un accordo con la compagnia ottenendo 1,4 milioni di euro, a cui si è aggiunto un milione versato dopo il processo penale per disastro ambientale. Tuttavia, la cifra è ben lontana dai 40 milioni inizialmente richiesti per i danni ai terreni e alle falde acquifere.
Malgrado l’accordo, l’inquinamento sembra persistere. Alla fine del 2023, test ambientali condotti dalla Canottieri Leonida Bissolati – una storica società sportiva situata accanto all’ex sito Tamoil – hanno rilevato la presenza di contaminanti, in particolare idrocarburi surnatanti, ossia sostanze che non si mescolano con l’acqua e restano in superficie. Sebbene la barriera idraulica installata da Tamoil sia teoricamente contenitiva, i contaminanti continuano a interessare le falde acquifere dell’area, superando in alcuni casi i limiti di contaminazione consentiti.
Più ottimista il sindaco di Cremona, per cui l’area non è formalmente classificata come sito da bonificare, bensì come zona di riutilizzo, e quindi Tamoil non ha obblighi legali di bonifica. Tuttavia, tale posizione è stata fortemente criticata dalle associazioni ambientaliste locali. Già negli anni scorsi Barbara Meggetto, presidente di Legambiente Lombardia, e Pierluigi Rizzi, presidente di Legambiente VedoVerde Cremona, interrogati sulla vicenda avevano ricordato che una sentenza definitiva del 2018 sul disastro ambientale aveva riconosciuto danni irreparabili al territorio.
Il progetto di Tamoil arriva in un momento in cui la transizione energetica e le energie rinnovabili sono al centro del dibattito pubblico. Ma il caso dell’ex raffineria di Cremona solleva interrogativi su quanto un parco fotovoltaico possa effettivamente rappresentare una soluzione sostenibile quando quello che non si vede, il sottosuolo, è ricco di sostanze altamente velenose.
[di Gloria Ferrari]
Banca Mondiale: “C’è uno spettro di disoccupazione globale”
«Nel cuore delle economie emergenti una vasta generazione di 1,2 miliardi di giovani è pronta a entrare nella forza lavoro. Tuttavia, il panorama delle opportunità non si sta espandendo allo stesso ritmo: si prevede che si produrranno 420 milioni di posti di lavoro». A riferire dello “spettro della disoccupazione” è Ajay Banga, presidente della Banca Mondiale presente all’Università Bocconi per l’inizio dell’anno accademico. Sulle risposte da mettere in campo Banga fa riferimento alla privatizzazione, cardine del sistema neoliberista che la Banca Mondiale contribuisce a perpetuare.