«Non capita tutti i giorni di vincere una battaglia politica – e ancora meno spesso contro il governo più potente del mondo», ha scritto Reto Thumiger l’altro ieri su Pressenza; «ma oggi possiamo gioire perché Julian Assange è libero!» Infatti, il fondatore di WikiLeaks ha vinto la sua battaglia contro la persecuzione giudiziaria statunitense durata 14 anni, grazie alla tenacia dei suoi familiari ma anche grazie al sostegno di milioni di attivisti in tutto il mondo. Cinquanta mila persone, per esempio, erano collegate al sito Flight Checker questo martedì e mercoledì per seguire, sui loro dispositivi, l’aereo che portava Julian da Londra, dove era rinchiuso nella prigione di Belmarsh da oltre cinque anni, alla città di Saipan nelle Isole Marianne Settentrionali per una sosta di due giorni e, infine, all’aeroporto di Canberra in Australia. Gli Stati Uniti avevano progettato da tempo, invece, un esito ben diverso.
Volevano prelevare Julian all’interno di Belmarsh, ammanettarlo e portarlo, nella stiva dell’aereo della CIA che lo attendeva da mesi sulla pista di un aeroporto militare londinese, direttamente alla Corte Distrettuale di Alessandria (Virginia), a due passi da Washington. Si tratta del famigerato tribunale che incarcera d’ufficio chiunque, come Assange, venga accusato di violare l’Espionage Act, una legge del 1917 contro lo spionaggio. Invece, non è andata così. Lo scorso mercoledì mattina, Julian Assange, senza manette e dopo un viaggio comodo in un lussuoso jet privato, si è presentato, di propria volontà e grazie ad un rilascio temporaneo da Belmarsh su cauzione, presso il piccolissimo Tribunale civile di Saipan – la corte distrettuale statunitense più distante da Washington – per ratificare, davanti ad un giudice estremamente accomodante, il patteggiamento da lui concordato.
Cosa prevede l’atto di patteggiamento? In pratica, gli Stati Uniti avrebbero voluto infliggergli una pena di 175 anni (due ergastoli) e invece, alla fin fine, hanno pattuito soli 5 anni, peraltro già scontati. Avrebbero voluto accusare Julian di hacking (intrusione informatica): invece, la parola non viene nemmeno menzionata nell’atto. Avrebbero voluto imputargli 17 capi di accusa di spionaggio: si sono accontentati di uno solo, la “sottrazione e disseminazione di documenti”. Non solo, hanno accettato di ritirare la loro richiesta di estradare Julian e si sono impegnati a non ripetere in futuro la richiesta di estradizione nei suoi confronti.
Ma non finisce qui. Gli Stati Uniti hanno dovuto ammettere che le rivelazioni di Assange non hanno mai provocato danni a nessun individuo, ma solo il “rischio” di danni. Sul piano economico, mentre l’imputazione originale prevedeva multe per un massimo di quattro milioni di euro, sono riusciti a far pagare a Julian solo un contributo alle spese processuali di 90 euro. Inoltre hanno dovuto impegnarsi davanti al giudice a non chiedere a Julian, nell’avvenire, risarcimenti economici per eventuali danni futuri derivanti dalle rivelazioni di WikiLeaks. E c’è di più: hanno dovuto impegnarsi a non perseguitare Julian in futuro e a non chiedergli il silenzio rispetto alle trattative per il patteggiamento (no gag order). Per ultimo, hanno dovuto accettare una clausola che avrebbe autorizzato Assange a lasciare Saipan e a recarsi indisturbato in Australia, qualora il Tribunale avesse emesso una sentenza che non avesse rispettato tutti questi provvedimenti pattuiti. Non ci sono dubbi: gli Stati Uniti hanno cominciato questa vicenda con un pugno di ferro e sono finiti con un pugno di mosche.
Che cosa ha dovuto cedere Julian in cambio di tutte queste concessioni fattegli? Anzitutto, com’è ovvio, ha dovuto ammettere la propria colpevolezza. Ma, attenzione: si tratta di colpevolezza per uno solo dei 18 capi di accusa originari, ovvero, l’accusa di aver agito, in concorso con la whistleblower Chelsea Manning, per “ottenere documenti riguardanti la difesa nazionale” allo scopo di “comunicarli a terzi”.
Si tratta di una ammissione che, di primo acchito, sembrerebbe sì di grande portata: criminalizzerebbe il giornalismo investigativo. E questa è l’opinione di numerosi commentatori. Ma il condizionale è d’obbligo. Perché in realtà, come ha affermato Ben Witzner (l’avvocato di Edward Snowden) nello streaming Flight to Freedom mercoledì scorso, questa ammissione da parte di Julian non crea un precedente giuridicamente valido. Pertanto non potrà essere utilizzato davanti ad un tribunale in futuro. I patteggiamenti, infatti, sono semplici “intese tra le parti” – affari privati, per così dire – che le due parti stipulano proprio per evitare un lungo ed incerto processo. Invece, valgono come precedenti legali esclusivamente le sentenze emesse da un tribunale dopo aver esaminato i meriti di un caso. Il giudice di Saipan, per l’appunto, non ha esaminato i meriti del caso Assange; non ha fatto altro che prendere atto di quanto pattuito privatamente tra Julian e il Dipartimento di Giustizia statunitense. Certo, sul piano psicologico, l’atto di patteggiamento approvato mercoledì scorso costituisce una chiara intimidazione, studiata proprio per imbavagliare in futuro non solo Julian ma anche l’intera categoria dei giornalisti. Tuttavia, ripetiamolo, il patteggiamento di Julian non conta come precedente legale.
Tanto più che Julian ha volutamente lasciato nell’ombra, accettando di non evocarli, due elementi di fatto e di diritto che avrebbero forse potuto giustificare i suoi atti di giornalismo investigativo:
- la sentenza della Corte Suprema USA secondo la quale è lecito rivelare Segreti di Stato, se ciò è nell’interesse generale;
- il diritto di un cittadino degli USA come di chi non lo è, di poter invocare, nella vita privata come davanti ad un tribunale negli Stati Uniti, il primo emendamento della Costituzione – quello che tutela la libertà di espressione.
Va tenuto presente che, a Saipan mercoledì scorso, questi due elementi di fatto e di diritto non sono state valutati e tanto meno rigettati dal Tribunale. Semplicemente, non sono stati presi in considerazione in quanto Julian aveva concordato con la Giustizia USA, come prezzo per il patteggiamento ottenuto, di non sollevarli. Ma essi potrebbero sempre essere sollevati da futuri giornalisti o editori imputati ai sensi dell’Espionage Act e disposti a portare la loro causa fino alla Corte Suprema statunitense, nella speranza che quell’Atto venga dichiarato incostituzionale proprio perché disconosce “l’interesse generale” e impedisce di invocare il Primo Emendamento.
In conclusione, il patteggiamento di Julian non ha pregiudicato nulla. Assange ha semplicemente rimandato a data da destinarsi la questione dell’applicabilità o meno, in un processo ai sensi dell’Espionage Act, delle due giustificazioni soprammenzionate. In cambio ha ottenuto, nell’immediato, una serie di concessioni assolutamente impensabili tre mesi fa e, prima di tutte, la sua libertà. Ha fatto un’abile mossa del cavallo che è stata vincente. Ma a che prezzo? Oltre a dover ammettere la sua colpevolezza per uno dei 18 capi di accusa, che cos’altro ha dovuto concedere Julian per ottenere il patteggiamento?
Assange si è dovuto impegnare a:
- lasciare il territorio degli Stati Uniti e a non tornare, se non con un’autorizzazione;
- rinunciare a pretendere dal governo statunitense indennizzi per la sua persecuzione pluriennale;
- rinunciare all’utilizzo della legge FOIA (Freedom of Information Act) per entrare in possesso dei documenti sui quali il Dipartimento della Giustizia ha basato le sue accuse (un chiaro segno che il Dipartimento ha qualcosa da nascondere tra quei documenti);
- distruggere i files rimasti sul server di WikiLeaks.
Questa imposizione è assolutamente surreale perché Julian ha già inviato copie crittografate dei suoi files ai siti di informatici amici. Perciò, una volta cancellati i files sul server WikiLeaks, egli potrà benissimo riavere i medesimi contenuti dai files rimasti sui siti amici e perciò ripristinare il sito WikiLeaks come prima, questa volta con “nuovi” files. Così rispetterebbe alla lettera l’impegno preso. Nel mondo dell’informatica, infatti, non puoi eliminare un file se non eliminandone l’unico esemplare in quanto i files sono facilmente e abitualmente replicati. Quello che è ancora più stupefacente è che il Dipartimento di Giustizia statunitense non ha chiesto a Julian di impegnarsi a non creare in futuro files veramente nuovi, che contengano inedite rivelazioni scottanti fornite da una nuova leva di whistleblower. Questa omissione da parte del Dipartimento di Giustizia lascia stupiti. Apre la porta al riavvio in grande del sito WikiLeaks. Avviamoci verso la conclusione. Come si spiega, dunque, che il governo statunitense abbia concesso così tanto a Julian in cambio di così poco? Un comportamento inverosimile, che esige una spiegazione.
Certo, ha avuto un ruolo significativo la pressione dell’opinione pubblica, come ha sottolineato più volte mercoledì scorso l’attuale editore di WikiLeaks, Kristinn Hrafnsson nello streaming già citato, Flight to Freedom. Gli stessi giudici dell’Alta Corte britannica hanno percepito quell’immensa mobilitazione; nel giudizio da loro scritto lo scorso 26 marzo, hanno rilevato «l’eccezionale livello di interesse nazionale ed internazionale» cresciuto intorno al caso Assange.
Poi bisogna tener presente la grande abilità e tenacia del team legale di Julian – e di Julian stesso – nel negoziare con il Dipartimento di Giustizia USA e con le autorità britanniche per oltre un anno; possiamo, infatti, datare l’inizio delle trattative con la Lettera di Julian al Re Carlo il 5 maggio 2023. Bisogna pure tener presente che siamo in piena campagna elettorale negli USA: Biden aveva bisogno di fare qualche gesto per recuperare la sua ala progressista, dopo essersela alienata con il suo sostegno al massacro israeliano a Gaza. Bisogna altresì tener presente le elezioni politiche britanniche che sono dietro l’angolo: vinceranno sicuramente i laburisti, fratelli dei laburisti australiani i quali saranno maggiormente in grado di esercitare una pressione – già forte – per il rilascio incondizionato di Julian. Questo esito sarebbe un duro colpo per i falchi statunitensi e una sconfessione per intero del loro impianto accusatorio pluriennale; meglio allora scendere a patti, subito, prima che sia troppo tardi.
In questo contesto, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è probabilmente stato l’intervento della magistratura britannica la quale, lo scorso 20 maggio, ha consentito a Julian di fare appello contro l’ordine per la sua estradizione negli Stati Uniti. Quella sentenza ha visibilmente scosso gli avvocati statunitensi presenti in aula: non se lo aspettavano, si vedeva dalle facce che erano sconvolti. Il loro sgomento sarà sicuramente raddoppiato, quando, in seguito, gli stessi giudici, Sharp e Johnson, hanno fissato l’inizio delle udienze di appello per il 9 e 10 luglio. Cioè, invece di mandare le udienze per le lunghe, le hanno calendarizzate quasi subito. Un segnale, dunque, che stavano seriamente considerando il rigetto, puro e semplice, della richiesta di carcerazione con, di conseguenza, il contestuale rilascio di Julian da Belmarsh.
Mettiamoci un momento nei panni di questi avvocati statunitensi. Volevano infliggere due ergastoli a Julian ed ora si prospettava la concreta possibilità della sua liberazione tout court, senza alcuna penalità. Una perdita secca, insomma. Bisognava dunque cambiare strategia. Prima gli avvocati statunitensi avevano lasciato trascinarsi in avanti, senza alcuna fretta, i negoziati con Julian (forse sperando addirittura che morisse nella sua cella nel contempo). Ma dopo il 20 maggio si trovavano davanti al concreto rischio di finire con niente in mano. Meglio, a questo punto – si saranno detti tra di loro – salvare il salvabile con l’atto di patteggiamento che abbiamo visto, atto che l’ex vice presidente degli Stati Uniti (sotto Trump), il falco Mike Pence, ha definito una svendita e una ingiustizia. Se questa ipotesi è vera, dobbiamo tutti riconoscere, malgrado le sue inevitabili falle (e ne abbiamo rilevate tante), la fondamentale integrità della magistratura britannica che, alla fin fine, avrebbe osato mettere alle strette il temibile alleato statunitense. Complimenti davvero a quei magistrati. Ora cosa rimane da fare?
La moglie di Julian, Stella Morris, ce l’ha già indicato in vari video messaggi postati sul suo profilo Instagram:
- chiedere a Biden la grazia per Julian in quanto ciò ripulirebbe il suo casellario giudiziario;
- completare la raccolta di fondi per pagare l’aereo privato usato da Julian (le autorità britanniche avevano vietato l’uso di una linea commerciale);
- esigere nuove misure legislative per proteggere i giornalisti, attualmente troppo esposti; al riguardo, troverete quattro proposte alla fine di questo articolo;
- far abolire o perlomeno modificare l’Espionage Act statunitense e, in Italia, opporsi alla legge bavaglio contro i giornalisti voluta dal governo Meloni.
Julian Assange è libero. Ma il giornalismo rimane sempre sotto processo.
[di Patrick Boylan – – autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo Free Assange Italia]