domenica 24 Novembre 2024
Home Blog Pagina 152

La mossa del cavallo di Julian Assange che ha messo sotto scacco gli USA

1

«Non capita tutti i giorni di vincere una battaglia politica – e ancora meno spesso contro il governo più potente del mondo», ha scritto Reto Thumiger l’altro ieri su Pressenza; «ma oggi possiamo gioire perché Julian Assange è libero!» Infatti, il fondatore di WikiLeaks ha vinto la sua battaglia contro la persecuzione giudiziaria statunitense durata 14 anni, grazie alla tenacia dei suoi familiari ma anche grazie al sostegno di milioni di attivisti in tutto il mondo. Cinquanta mila persone, per esempio, erano collegate al sito Flight Checker questo martedì e mercoledì per seguire, sui loro dispositivi, l’aereo che portava Julian da Londra, dove era rinchiuso nella prigione di Belmarsh da oltre cinque anni, alla città di Saipan nelle Isole Marianne Settentrionali per una sosta di due giorni e, infine, all’aeroporto di Canberra in Australia. Gli Stati Uniti avevano progettato da tempo, invece, un esito ben diverso.

Volevano prelevare Julian all’interno di Belmarsh, ammanettarlo e portarlo, nella stiva dell’aereo della CIA che lo attendeva da mesi sulla pista di un aeroporto militare londinese, direttamente alla Corte Distrettuale di Alessandria (Virginia), a due passi da Washington. Si tratta del famigerato tribunale che incarcera d’ufficio chiunque, come Assange, venga accusato di violare l’Espionage Act, una legge del 1917 contro lo spionaggioInvece, non è andata così. Lo scorso mercoledì mattina, Julian Assange, senza manette e dopo un viaggio comodo in un lussuoso jet privato, si è presentato, di propria volontà e grazie ad un rilascio temporaneo da Belmarsh su cauzione, presso il piccolissimo Tribunale civile di Saipan – la corte distrettuale statunitense più distante da Washington – per ratificare, davanti ad un giudice estremamente accomodante, il patteggiamento da lui concordato.

Cosa prevede l’atto di patteggiamento? In pratica, gli Stati Uniti avrebbero voluto infliggergli una pena di 175 anni (due ergastoli) e invece, alla fin fine, hanno pattuito soli 5 anni, peraltro già scontati. Avrebbero voluto accusare Julian di hacking (intrusione informatica): invece, la parola non viene nemmeno menzionata nell’atto. Avrebbero voluto imputargli 17 capi di accusa di spionaggio: si sono accontentati di uno solo, la “sottrazione e disseminazione di documenti”. Non solo, hanno accettato di ritirare la loro richiesta di estradare Julian e si sono impegnati a non ripetere in futuro la richiesta di estradizione nei suoi confronti.  

Ma non finisce qui. Gli Stati Uniti hanno dovuto ammettere che le rivelazioni di Assange non hanno mai provocato danni a nessun individuo, ma solo il “rischio” di danni. Sul piano economico, mentre l’imputazione originale prevedeva multe per un massimo di quattro milioni di euro, sono riusciti a far pagare a Julian solo un contributo alle spese processuali di 90 euro. Inoltre hanno dovuto impegnarsi davanti al giudice a non chiedere a Julian, nell’avvenire, risarcimenti economici per eventuali danni futuri derivanti dalle rivelazioni di WikiLeaks. E c’è di più: hanno dovuto impegnarsi a non perseguitare Julian in futuro e a non chiedergli il silenzio rispetto alle trattative per il patteggiamento (no gag order). Per ultimo, hanno dovuto accettare una clausola che avrebbe autorizzato Assange a lasciare Saipan e a recarsi indisturbato in Australia, qualora il Tribunale avesse emesso una sentenza che non avesse rispettato tutti questi provvedimenti pattuiti. Non ci sono dubbi: gli Stati Uniti hanno cominciato questa vicenda con un pugno di ferro e sono finiti con un pugno di mosche.

Che cosa ha dovuto cedere Julian in cambio di tutte queste concessioni fattegli? Anzitutto, com’è ovvio, ha dovuto ammettere la propria colpevolezza. Ma, attenzione: si tratta di colpevolezza per uno solo dei 18 capi di accusa originari, ovvero, l’accusa di aver agito, in concorso con la whistleblower Chelsea Manning, per “ottenere documenti riguardanti la difesa nazionale” allo scopo di “comunicarli a terzi”.

Si tratta di una ammissione che, di primo acchito, sembrerebbe sì di grande portata: criminalizzerebbe il giornalismo investigativo. E questa è l’opinione di numerosi commentatori. Ma il condizionale è d’obbligo. Perché in realtà, come ha affermato Ben Witzner (l’avvocato di Edward Snowden) nello streaming Flight to Freedom mercoledì scorso, questa ammissione da parte di Julian non crea un precedente giuridicamente valido. Pertanto non potrà essere utilizzato davanti ad un tribunale in futuro. I patteggiamenti, infatti, sono semplici “intese tra le parti” – affari privati, per così dire – che le due parti stipulano proprio per evitare un lungo ed incerto processo. Invece, valgono come precedenti legali esclusivamente le sentenze emesse da un tribunale dopo aver esaminato i meriti di un caso. Il giudice di Saipan, per l’appunto, non ha esaminato i meriti del caso Assange; non ha fatto altro che prendere atto di quanto pattuito privatamente tra Julian e il Dipartimento di Giustizia statunitense. Certo, sul piano psicologico, l’atto di patteggiamento approvato mercoledì scorso costituisce una chiara intimidazione, studiata proprio per imbavagliare in futuro non solo Julian ma anche l’intera categoria dei giornalisti. Tuttavia, ripetiamolo, il patteggiamento di Julian non conta come precedente legale.

Tanto più che Julian ha volutamente lasciato nell’ombra, accettando di non evocarli, due elementi di fatto e di diritto che avrebbero forse potuto giustificare i suoi atti di giornalismo investigativo:

  • la sentenza della Corte Suprema USA secondo la quale è lecito rivelare Segreti di Stato, se ciò è nell’interesse generale
  • il diritto di un cittadino degli USA come di chi non lo è, di poter invocare, nella vita privata come davanti ad un tribunale negli Stati Uniti, il primo emendamento della Costituzione – quello che tutela la libertà di espressione.  

Va tenuto presente che, a Saipan mercoledì scorso, questi due elementi di fatto e di diritto non sono state valutati e tanto meno rigettati dal Tribunale. Semplicemente, non sono stati presi in considerazione in quanto Julian aveva concordato con la Giustizia USA, come prezzo per il patteggiamento ottenuto, di non sollevarli. Ma essi potrebbero sempre essere sollevati da futuri giornalisti o editori imputati ai sensi dell’Espionage Act e disposti a portare la loro causa fino alla Corte Suprema statunitense, nella speranza che quell’Atto venga dichiarato incostituzionale proprio perché disconosce “l’interesse generale” e impedisce di invocare il Primo Emendamento.  

In conclusione, il patteggiamento di Julian non ha pregiudicato nulla. Assange ha semplicemente rimandato a data da destinarsi la questione dell’applicabilità o meno, in un processo ai sensi dell’Espionage Act, delle due giustificazioni soprammenzionate. In cambio ha ottenuto, nell’immediato, una serie di concessioni assolutamente impensabili tre mesi fa e, prima di tutte, la sua libertà. Ha fatto un’abile mossa del cavallo che è stata vincente. Ma a che prezzo? Oltre a dover ammettere la sua colpevolezza per uno dei 18 capi di accusa, che cos’altro ha dovuto concedere Julian per ottenere il patteggiamento?

Assange si è dovuto impegnare a:

  • lasciare il territorio degli Stati Uniti e a non tornare, se non con un’autorizzazione;
  • rinunciare a pretendere dal governo statunitense indennizzi per la sua persecuzione pluriennale;
  • rinunciare all’utilizzo della legge FOIA (Freedom of Information Act) per entrare in possesso dei documenti sui quali il Dipartimento della Giustizia ha basato le sue accuse (un chiaro segno che il Dipartimento ha qualcosa da nascondere tra quei documenti);
  • distruggere i files rimasti sul server di WikiLeaks.

Questa imposizione è assolutamente surreale perché Julian ha già inviato copie crittografate dei suoi files ai siti di informatici amici. Perciò, una volta cancellati i files sul server WikiLeaks, egli potrà benissimo riavere i medesimi contenuti dai files rimasti sui siti amici e perciò ripristinare il sito WikiLeaks come prima, questa volta con “nuovi” files.  Così rispetterebbe alla lettera l’impegno preso. Nel mondo dell’informatica, infatti, non puoi eliminare un file se non eliminandone l’unico esemplare in quanto i files sono facilmente e abitualmente replicati. Quello che è ancora più stupefacente è che il Dipartimento di Giustizia statunitense non ha chiesto a Julian di impegnarsi a non creare in futuro files veramente nuovi, che contengano inedite rivelazioni scottanti fornite da una nuova leva di whistleblower. Questa omissione da parte del Dipartimento di Giustizia lascia stupiti. Apre la porta al riavvio in grande del sito WikiLeaks. Avviamoci verso la conclusione. Come si spiega, dunque, che il governo statunitense abbia concesso così tanto a Julian in cambio di così poco? Un comportamento inverosimile, che esige una spiegazione.

Certo, ha avuto un ruolo significativo la pressione dell’opinione pubblica, come ha sottolineato più volte mercoledì scorso l’attuale editore di WikiLeaks, Kristinn Hrafnsson nello streaming già citato, Flight to Freedom. Gli stessi giudici dell’Alta Corte britannica hanno percepito quell’immensa mobilitazione; nel giudizio da loro scritto lo scorso 26 marzo, hanno rilevato «l’eccezionale livello di interesse nazionale ed internazionale» cresciuto intorno al caso Assange.

Poi bisogna tener presente la grande abilità e tenacia del team legale di Julian – e di Julian stesso – nel negoziare con il Dipartimento di Giustizia USA e con le autorità britanniche per oltre un anno; possiamo, infatti, datare l’inizio delle trattative con la Lettera di Julian al Re Carlo il 5 maggio 2023. Bisogna pure tener presente che siamo in piena campagna elettorale negli USA: Biden aveva bisogno di fare qualche gesto per recuperare la sua ala progressista, dopo essersela alienata con il suo sostegno al massacro israeliano a Gaza. Bisogna altresì tener presente le elezioni politiche britanniche che sono dietro l’angolo: vinceranno sicuramente i laburisti, fratelli dei laburisti australiani i quali saranno maggiormente in grado di esercitare una pressione – già forte – per il rilascio incondizionato di Julian. Questo esito sarebbe un duro colpo per i falchi statunitensi e una sconfessione per intero del loro impianto accusatorio pluriennale; meglio allora scendere a patti, subito, prima che sia troppo tardi.

L’abbraccio di Julian Assange con i famigliari dopo lo sbarco in Australia da cittadino libero

In questo contesto, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è probabilmente stato l’intervento della magistratura britannica la quale, lo scorso 20 maggio, ha consentito a Julian di fare appello contro l’ordine per la sua estradizione negli Stati Uniti. Quella sentenza ha visibilmente scosso gli avvocati statunitensi presenti in aula: non se lo aspettavano, si vedeva dalle facce che erano sconvolti. Il loro sgomento sarà sicuramente raddoppiato, quando, in seguito, gli stessi giudici, Sharp e Johnson, hanno fissato l’inizio delle udienze di appello per il 9 e 10 luglio. Cioè, invece di mandare le udienze per le lunghe, le hanno calendarizzate quasi subito. Un segnale, dunque, che stavano seriamente considerando il rigetto, puro e semplice, della richiesta di carcerazione con, di conseguenza, il contestuale rilascio di Julian da Belmarsh. 

Mettiamoci un momento nei panni di questi avvocati statunitensi. Volevano infliggere due ergastoli a Julian ed ora si prospettava la concreta possibilità della sua liberazione tout court, senza alcuna penalità. Una perdita secca, insomma. Bisognava dunque cambiare strategia. Prima gli avvocati statunitensi avevano lasciato trascinarsi in avanti, senza alcuna fretta, i negoziati con Julian (forse sperando addirittura che morisse nella sua cella nel contempo). Ma dopo il 20 maggio si trovavano davanti al concreto rischio di finire con niente in mano. Meglio, a questo punto – si saranno detti tra di loro – salvare il salvabile con l’atto di patteggiamento che abbiamo visto, atto che l’ex vice presidente degli Stati Uniti (sotto Trump), il falco Mike Pence, ha definito una svendita e una ingiustizia. Se questa ipotesi è vera, dobbiamo tutti riconoscere, malgrado le sue inevitabili falle (e ne abbiamo rilevate tante), la fondamentale integrità della magistratura britannica che, alla fin fine, avrebbe osato mettere alle strette il temibile alleato statunitense. Complimenti davvero a quei magistrati. Ora cosa rimane da fare?

La moglie di Julian, Stella Morris, ce l’ha già indicato in vari video messaggi postati sul suo profilo Instagram: 

  • chiedere a Biden la grazia per Julian in quanto ciò ripulirebbe il suo casellario giudiziario; 
  • completare la raccolta di fondi per pagare l’aereo privato usato da Julian (le autorità britanniche avevano vietato l’uso di una linea commerciale); 
  • esigere nuove misure legislative per proteggere i giornalisti, attualmente troppo esposti; al riguardo, troverete quattro proposte alla fine di questo articolo; 
  • far abolire o perlomeno modificare l’Espionage Act statunitense e, in Italia, opporsi alla legge bavaglio contro i giornalisti voluta dal governo Meloni.

Julian Assange è libero. Ma il giornalismo rimane sempre sotto processo.

[di Patrick Boylan – – autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo Free Assange Italia]

Caporalato, Cgia: il giro d’affari è di 68 miliardi

0

Secondo quanto attestato da una ricerca svolta da CGIA, associazione che riunisce artigiani e piccole imprese, il caporalato in Italia alimenta un giro di affari di 68 miliardi di euro all’anno. “Il 35% circa di questo valore aggiunto prodotto dall’economia sommersa è ascrivibile alle regioni del Sud – si legge all’interno dell’analisi -. Le persone coinvolte sono poco meno di 3 milioni e, anche in questo caso, è il Mezzogiorno che presenta la percentuale più alta, 37,2%”. I numeri più allarmanti coinvolgerebbero l’ambito dei servizi alla persona (colf, badanti, ecc.) con il 42,6%. A seguire ci sarebbero agricoltura (16,8) e edilizia (13,3%).

Viaggio tra le poesie

0

«Dovremmo capire i versi dei poeti, i segnali dei satelliti, le voci degli animali»: ricordo queste parole di Jurij Michailovic Lotman, un celebre collega semiologo che incantava il pubblico con queste sue uscite visionarie e sentimentali che prefiguravano il bisogno di comprendere il vasto oceano del senso, nelle sue manifestazioni più disparate, più lontane tra di loro ma tutte attinenti alla sfera del nostro stare consapevoli nel mondo, con le nostre antenne che tracciano in continuazione sorprendenti percorsi di significato.

Abbiamo l’esigenza di sfidare l’incomprensione, siamo circondati da luoghi comuni, da stereotipi, da convenzioni anche soffocanti. Ma possiamo crearci margini di libertà, tutta nostra. Leggiamo ad esempio una poesia di Jacques Prévert, Fiesta: «E i bicchieri erano vuoti/ la bottiglia spaccata/ il letto spalancato/ e la porta sbarrata / E tutte le stelle di vetro/ della felicità e della bellezza/ scintillavano nella polvere/ della stanza mal ripulita/ Ero ubriaco morto/ ero un gioioso falò/ e tu ubriaca viva/ nuda fra le mie braccia».

Siamo in una sequenza cinematografica, facciamo parte di una scena immaginaria, decidiamo se essere uno dei due personaggi o nessuno, diventando spettatori. Abbiamo attribuito immagini a queste parole e questo è già il lavoro, il dono della poesia: aprire orizzonti multisensoriali, partecipare a sogni che non sono i nostri ma a cui non siamo totalmente estranei. A me per esempio salta agli occhi la scena iniziale del film Marylin ha gli occhi neri con Accorsi che dà di matto tra le vettovaglie e fa volare per aria qualsiasi cosa con una energia, un eros senza freni.

Pablo Neruda, ne L’oceano chiama soffre per la lontananza del mare e la poesia questa volta è sintomo di mancanza, passano tra i versi immagini di una stazione lontana dalle onde, di un tunnel che lo tiene prigioniero – nella realtà dell’esilio ma anche nell’impotenza di reagire. Io non voglio, dice il poeta, un mare qualsiasi, mi rifiuto. «Voglio il mio mare, l’artiglieria/ dell’oceano che batte sulle rive,/ quel precipizio insigne di turchesi,/ la schiuma dove muore la potenza». L’oceano è il suo liberatore.

Là dove non esiste la storia ma soltanto il mito, cioè il tempo illimitato risuonano altre parole marine. Siamo nell’Odissea, libro sesto, Ulisse, lo straniero, è arrivato tra i Feaci che dicono: «Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti,/ lontani, e nessuno viene tra noi degli altri mortali./ Ma questo è un misero naufrago che ci è capitato…/ Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere,/ e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento».

Noi lettori, a nostra volta, diventiamo ospiti di quel che leggiamo, confrontiamo, come in una fotografia virtuale, ciò che viviamo con quanto dicono i poeti, e il risultato è uno spiazzamento, uno straniamento che moltiplica la nostra realtà, che agisce come un benevolo proiettile che cambia sempre percorso.

Apro un libro di Fernanda Romagnoli e trovo quel che stavo cercando, l’inevitabile, contradittorio approccio al tempo che soltanto la poesia ci permette di esorcizzare: «Fu pura diserzione./ Silenziosa vedetta mi scortava/ all’estuario del tempo./ Lo spazio si sfilava dai miei piedi,/ mal cucito sudario./ Non v’era qui altro metro che l’eterno». 

Mai dimenticare che il poema di Omero, l’Odissea, finisce con Atena, la dèa della guerra, che si rivolge a Ulisse invitandolo potentemente a sospendere ‘’il massacro della guerra crudele”. E questo perché? Perché la poesia, il mito hanno vinto

[di Gian Paolo Caprettini]

L’Italia riconosca lo Stato di Palestina: 80.000 firme depositate in Senato

2

Sono state ufficialmente consegnate ieri pomeriggio al Senato della Repubblica le 78.514 firme raccolte dall’Associazione Schierarsi a supporto della proposta di legge di iniziativa popolare per il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del nostro Paese. Nel testo della proposta – che ha ampiamente superato la soglia minima delle 50mila firme richieste nell’arco di sei mesi per essere presentata in Parlamento – si legge che “L’Italia riconosce lo Stato di Palestina con capitale Gerusalemme est come Stato sovrano e indipendente, conformemente alle risoluzioni delle Nazioni Unite e al diritto internazionale”. Affinché la proposta possa diventare legge dello Stato, a pronunciarsi dovrà essere il Parlamento, che  non ha però – almeno formalmente – l’obbligo di discutere il testo.

Nonostante l’assordante silenzio mediatico sull’iniziativa, Schierarsi, di cui è vicepresidente l’ex deputato e attivista politico Alessandro Di Battista, è riuscita a centrare in pieno – e con largo margine -, il suo obiettivo (delle quasi 80mila firme raccolte, circa 15mila sono peraltro sottoscrizioni online certificate). Nella relazione illustrativa del testo, che ora sarà vagliato dal Presidente del Senato, i promotori hanno messo nero su bianco che “i tragici eventi occorsi dal 7 ottobre 2023 non lasciano spazio ad ulteriori rinvii rispetto alla necessità di coinvolgere in un tavolo di mediazione due popoli che abbiano entrambi la medesima dignità di cittadini di uno Stato libero, indipendente e sovrano”, evidenziando come “contribuire in modo concreto al processo di pace nella regione, da ricercare anche attraverso la soluzione del riconoscimento dei due Stati, di Palestina e di Israele” rappresenti “uno degli obiettivi frequentemente dichiarato dalle più alte Istituzioni italiane in ogni occasione di incontro con le Autorità palestinesi”. «È stata un’esperienza straordinaria: 150 Piazze attive, 1.100 iniziative su tutto il territorio nazionale, 1.400 volontari, 34 associazioni esterne che ci hanno supportato – ha dichiarato a L’Indipendente Luca Di Giuseppe, presidente dell’Associazione Schierarsi –. 78.514 cittadini italiani chiedono all’Italia di riconoscere lo Stato di Palestina. Adesso i parlamentari della Repubblica dovranno prendere posizione, oppure prendersi la responsabilità di non dare loro una risposta». «Io nel 2018 sono uscito per mia volontà dal Parlamento – ha detto invece Alessandro Di Battista poco prima di consegnare le firme al Senato – non ci ho mai rimesso piede e oggi rientrerò a nome dei cittadini che sono indignati per quel che sta facendo il terrorismo di stato israeliano e per la risposta ipocrita stomachevole da parte delle istituzioni italiane. A cominciare da questo governo pavido, composto dalla “madre, donna, cristiana”, che tace di fronte ad una strage di bambini palestinesi».

Dopo i recenti provvedimenti di Spagna, Norvegia e Irlanda, tra i 193 Stati membri dell’Organizzazione dell’ONU sono oggi 146 quelli che riconoscono il diritto dei palestinesi di esistere come entità politica e geografica, circa tre quarti della comunità internazionale (a cui si aggiunge la Città del Vaticano). Mancano però all’appello gli Stati Uniti d’America, il Canada, l’Australia e la maggior parte dei Paesi membri dell’Unione Europea. Tra questi c’è l’Italia, che ora, grazie alla presentazione in Parlamento di questa proposta di legge di iniziativa popolare, avrebbe l’occasione per voltare pagina. Ai sensi dell’articolo 71, secondo comma, della Costituzione il popolo esercita l’iniziativa legislativa mediante la proposta, da parte di almeno 50.000 elettori, di un progetto redatto in articoli. Quando un disegno di legge di iniziativa popolare viene presentato al Senato, il Presidente, prima di annunciarlo all’Assemblea, deve disporre la verifica e il computo delle firme degli elettori proponenti per accertare la regolarità della proposta. Gli organi parlamentari non hanno l’obbligo di pronunciarsi sulle proposte di iniziativa popolare e non esistono meccanismi che garantiscano forme di priorità procedurale. L’art. 74 del Regolamento del Senato impone però alle competenti Commissioni di iniziare l’esame dei progetti di legge di iniziativa popolare loro assegnati entro e non oltre un mese dal deferimento, per poi concluderlo entro tre mesi dall’assegnazione.

[di Stefano Baudino]

Corte Suprema USA, ribaltata l’accusa per i fatti di Capitol Hill

0

Venerdì 28 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che le autorità federali non potevano accusare di intralcio di procedura ufficiale i manifestanti dei fatti del 6 gennaio 2021. Nello specifico, gli imputati, oltre 350 persone, sono accusati di avere tentato di impedire la certificazione del risultato elettorale delle presidenziali. Secondo i giudici, però, non tutti i dimostranti che hanno partecipato all’assalto hanno preso parte a questo genere di azioni. Tra gli accusati figura anche l’ex Presidente e attuale candidato repubblicano Donald Trump; non è ancora chiaro gli effetti che questa sentenza potrebbe avere sui procedimenti attivi contro di lui.

In Australia l’80% dei progetti estrattivi per l’energia “green” si trova nei territori indigeni

0

La transizione energetica globale ha aumentato la domanda di minerali necessari per la produzione di batterie, pannelli solari e altre tecnologie per le energie rinnovabili. L’impatto di questa corsa alle nuove risorse è ancora ignoto, ma in alcuni casi sono già emerse criticità non trascurabili. In un nuovo studio pubblicato su Energy Research & Social Science e focalizzato sull’Australia, alcuni ricercatori hanno scoperto che il 57,8% dei progetti minerari per l’energia pulita si trova all’interno di terre indigene formalmente riconosciute. La percentuale sale al 79,2% se si includono le terre soggette a rivendicazioni di titolo nativo che non sono ancora state determinate. Storicamente, le Prime Nazioni australiane non hanno ricevuto un compenso equo o la condivisione dei benefici quando gli investitori hanno trovato risorse nei loro territori. Per evitare gli errori del passato, pertanto, gli autori del documento sostengono che le nuove politiche minerarie debbano considerare i diritti e gli interessi delle popolazioni indigene durante l’intero ciclo di vita di un progetto.

Ad oggi, sottolinea lo studio, le popolazioni indigene non hanno ancora potuto beneficiare in maniera equa ed adeguata della ricchezza generata dall’estrazione di minerali dalle riserve australiane, anche quando queste si trovano nelle loro terre. La situazione è aggravata dal fatto che non eistono ancora politiche adeguate per garantire a queste popolazioni parità di diritti. «Le popolazioni delle Prime Nazioni in Australia sono state ampiamente ignorate nella spinta accelerata del governo federale per l’esplorazione e lo sviluppo dei minerali critici» ha dichiarato Chris Croker, co-presidente del First Nations Clean Energy Network (la Rete delle Prime Nazioni per l’Energia Pulita). La Strategia per i Minerali Critici, approvata recentemente dal governo australiano per il periodo 2023-2030, dichiara infatti di voler stabilire «partenariati genuini» con le popolazioni delle Prime Nazioni, al fine di «condividere i benefici» dell’estrazione e della transizione, ma senza fornire dettagli concreti in merito alle modalità con cui ciò dovrebbe realizzarsi. Dei milioni di dollari stanziati per sviluppare progetti estrattivi, non vi è alcuna risorsa governativa che sia stata esplicitamente destinata a sostenere la partecipazione indigena. Il tutto a fronte del fatto che, se è in parte vero che il settore dell’estrazione mineraria può comportare opportunità lavorative e di arricchimento, è altrettanto vero che il suo sviluppo indiscriminato può causare ingenti danni ambientali e sociali.

Affrontare la problematica nell’ottica di un’equa distribuzione della ricchezza e delle risorse è fondamentale, se si considera che, secondo le prospettive, la domanda di minerali quali grafite, litio e cobalto potrebbe aumentare fino al 500% entro il 2050, secondo le proiezioni del Gruppo della Banca Mondiale. Si tratta di una questione che non riguarda solamente l’Australia, ma il mondo intero: secondo alcuni studi, il 54% delle riserve e delle risorse mondiali necessarie alla transizione energetica (in particolare litio, vanadio, rame, zinco e argento) si trova in territori di popolazioni native o nelle immediate prossimità. Di queste, il 29% si trova in territori in cui il controllo indigeno è riconosciuto a tutti gli effetti. In questo contesto, è stato calcolato che, a livello globale, le infrastrutture per le energie rinnovabili minacciano il 42% delle terre indigene. Senza adeguate politiche sociali, insomma, la transizione energetica si riconfermerà solamente come un modo di riproporre le stesse dinamiche di sfruttamento di sempre.

[di Valeria Casolaro]

Shein Exchange: se anche la moda di seconda mano diventa insostenibile

1

Shein, il colosso di ultra fast fashion che ha portato a un livello improponibile il concetto di moda veloce, arriva con un’imperdibile novità per tutti gli amanti del second hand: si chiama Shein Exchange, ed è la nuova piattaforma per la vendita di capi di seconda mano. Il sito in questione, che è già attivo negli Stati Uniti da quasi un anno, approda finalmente in Europa, partendo dalla Francia con un progetto di espansione negli altri stati nel giro di poco tempo. Un’ iniziativa che risponde, a detta dell’azienda, a esigenze direttamente esplicitate dai clienti (quella di poter rivendere senza troppe commissioni o spese quello che si era precedentemente acquistato). Ma anche all’esigenza dell’azienda stessa di ripulirsi un po’ l’immagine dando una parvenza di circolarità e attenzione ai temi della sostenibilità. In questo senso, attraverso un comunicato ufficiale, Shein ha espresso il proprio interesse a «promuovere l’economia circolare e il riuso, allungando il ciclo di vita dei prodotti». Dimenticando di segnalare che i prodotti, fatti appositamente di scarsa qualità, escono dalla casa madre già con la data di scadenza (la famosa obsolescenza programmata).

L’importante è iniziare a migliorare la propria immagine tramite piccoli passi volti alla sostenibilità, dove l’apparenza viene ripulita ma la sostanza rimane la stessa. A cosa serve fare i paladini della circolarità quando il modello di business è basato sulla sovrapproduzione e la spinta ad un consumo sfrenato grazie alla leva dei prezzi bassissimi? Le prime azioni oneste da intraprendere dovrebbero riguardare la riduzione della produzione ed il miglioramento delle condizioni di lavoro, ma lanciare una piattaforma di seconda mano come scusa per la riduzione dei rifiuti in un’ottica circolare è decisamente più semplice e di maggior utilità per l’immagine. 

Come funziona Shein Exchange

La sezione exchange è accessibile direttamente dalla App di Shein, dove chiunque, in possesso di un profilo attivo, potrà gestire il processo di quotazione, vendita, acquisto e spedizione di articoli di seconda mano. L’azienda addebiterà una commissione del 5% per ogni transazione, con l’obiettivo di rendere la rivendita facile e conveniente come acquistare qualcosa di nuovo. L’unico limite è che i prodotti offerti su Shein Exchange possono essere solo quelli presenti nella cronologia degli acquisti: non si potrà creare un annuncio di vendita con prodotti che non siano stati precedentemente acquistati dalla piattaforma Shein. Il sistema in tre passi è semplice: prima si fa la pulizia dell’armadio, elencando i prodotti acquistati su Shein nella sezione dell’usato, utilizzando un semplice modulo. Successivamente si aggiungono immagini reali e descrizione dei prodotti. Una volta che Shein Exchange approva l’annuncio, altri utenti possono scegliere di acquistare il prodotto.

Seconda mano, primo impulso

Il proliferare di piattaforme dedicate alla vendita di capi di seconda mano, soprattutto quelle legate al fast fashion, continua ad alimentare la cultura degli acquisti impulsivi dettati da prezzi bassi ed occasioni imperdibili. La voglia di qualcosa di nuovo, seppur usato, non si placa e la ruota continua a girare sui principi di rotazione veloce di capi nell’armadio, ricerca spasmodica della novità e acquisto di capi per periodi sempre più corti. 

[Marina Savarese]

Il linguaggio serve veramente per pensare?

4

Al contrario da quanto ipotizzato da numerosi studiosi moderni che sostenevano che usiamo la comunicazione per ragionare, il linguaggio risulta principalmente uno strumento di relazione e di divulgazione piuttosto che di pensiero: lo riporta una nuova revisione scientifica della letteratura che ha analizzato gli studi a riguardo effettuati negli ultimi decenni e pubblicata sulla rivista scientifica Nature. Secondo gli autori, sebbene lo sviluppo del linguaggio abbia indiscutibilmente trasformato la storia umana, non sembra essere tuttavia un prerequisito per il pensiero complesso, incluso il pensiero simbolico. Al contempo, «la lingua è un potente strumento per la trasmissione del sapere culturale» e «plausibilmente si è co-evoluta con le nostre capacità di pensiero e di ragionamento e riflette soltanto, piuttosto che darle origine, la sofisticazione tipica della cognizione umana», hanno concluso gli autori. Il dibattito scientifico naturalmente non si fermerà qui e un punto sul vero scopo del linguaggio, tema che non a caso riempie i quesiti dei filosofi già dall’antica Grecia, è lungi dall’essere posto.

Platone pensava che il linguaggio fosse essenziale per pensare, in quanto il pensiero «è una silenziosa conversazione interiore dell’anima con sé stessa». Tale interpretazione è stata condivisa anche da numerosi studiosi moderni, che a partire dagli anni ’60 del Novecento hanno sostenuto che l’essere umano usa il linguaggio per ragionare e sviluppare altre forme di pensiero, in quanto «se c’è un grave deficit di linguaggio, ci sarà anche un grave deficit di pensiero». Alcuni studenti però non rimasero convinti da questo assioma, tra questi vi era Evelina Fedorenko, professoressa associata presso il McGovern Institute for Brain Research: «mi piaceva molto l’idea», ma molte delle cose dette «sono state semplicemente dichiarate come se fossero fatti» nonostante la mancanza di prove, ha dichiarato la scienziata del MIT.

Dopo 15 anni di ricerche e analisi della letteratura esistente, il suo lavoro l’ha portata ad una conclusione: «Quando inizi a valutare, semplicemente non trovi supporto per questo ruolo del linguaggio nel pensiero». La dottoressa Fedorenko e il suo team hanno scoperto che i risultati a riguardo – i quali suggerivano che le stesse regioni del cervello adibite al linguaggio fossero attive anche quando le persone ragionavano ed eseguivano calcoli – erano frutto di osservazioni imprecise e che utilizzando scanner più potenti si giunge a conclusioni opposte. Per esempio, alcuni studi hanno sottoposto alcuni individui all’ascolto di frasi senza senso seguite da frasi vere e poi alla risoluzione di problemi come i puzzle. Scansionando il loro cervello, si è scoperto che le stesse regioni che «lavoravano duramente» mentre venivano elaborati pensieri complessi «sono rimaste in silenzio» quando gli esperimenti si basavano solo su questioni linguistiche. Ma le evidenze a riguardo non finiscono qui in quanto anche gli studi effettuati su persone con lesioni cerebrali punterebbero alla stessa direzione: gli scienziati hanno spiegato infatti che ictus e altri danni al cervello possono spazzare via quasi completamente la rete neuronali adibita al linguaggio lasciando le persone in difficoltà nell’elaborazione delle parole e dei messaggi. Tuttavia, altri esperimenti hanno mostrato che le stesse persone non riscontrano problemi ad interpretare numeri e calcoli aritmetici, suggerendo quindi la stessa tesi degli autori.

Il linguaggio quindi servirebbe principalmente alla comunicazione e, sebbene non sia l’origine del pensiero, sarebbe strettamente collegato alla sua evoluzione, e questo si nota per esempio nell’ottimizzazione delle lingue per trasferire le informazioni in modo più chiaro ed efficiente. Secondo uno studio infatti, le parole usate più di frequente sono brevi e così facendo si accelera il flusso di informazioni, mentre secondo un’altra ricerca basata su 37 lingue ha scoperto che vi è la tendenza universale nello scegliere le parole in modo che il loro significato combinato sia più facile da capire. Il linguaggio sarebbe quindi strettamente collegato al pensiero, ma non sarebbe la sua origine. Infine, Kyle Mahowald, un ricercatore del settore non coinvolto nello studio, ha aggiunto che separare le due attività cerebrali potrebbe aiutare a spiegare perché le intelligenze artificiali svolgono particolarmente bene alcuni compiti ma risultano inadeguate in altri mentre Guy Dove, professore di filosofia all’Università di Louisville, ha concluso: «Non c’è bisogno del linguaggio per avere dei pensieri, ma può essere un miglioramento».

[di Roberto Demaio]

Italia condannata a risarcire i migranti riportati in Libia

0

Il tribunale civile di Roma ha condannato lo Stato italiano a risarcire 5 migranti che, nel luglio 2018, dopo essere stati soccorsi con il coordinamento della nave militare italiana Duilio, furono consegnati alla Libia, paese dove successivamente subirono torture. La sentenza ribadisce che la Libia non può essere considerata un “porto sicuro” a causa delle reiterate violazioni dei diritti umani e che i migranti, anche nel caso siano soccorsi all’interno delle acque libiche, non possono essere rimpatriati. I cinque migranti sono tra i sopravvissuti di un naufragio che interessò 150 migranti, e saranno risarciti con 15mila euro ciascuno.

Germania: per avere la cittadinanza sarà obbligatorio esprimere fedeltà a Israele

6

Per avere la cittadinanza tedesca, gli stranieri che vivono in Germania dovranno esprimere fedeltà a Israele. È quanto ha stabilito il governo Scholz alla luce dei casi crescenti di antisemitismo e per frenare l’ascesa del partito considerato di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD). L’esecutivo teutonico ha quindi deciso di inserire un ulteriore requisito alla legge del 2021, che aveva accorciato a cinque anni i tempi per ottenere la cittadinanza. Gli stranieri che vorranno il passaporto teutonico dovranno dimostrare di condividere i “valori tedeschi”, tra cui il diritto di Israele a esistere. Oltre ai già previsti test linguistici e culturali, dunque, verranno aggiunte domande «sull’antisemitismo, il diritto di Israele di esistere e sulla vita ebraica in Germania», come ha spiegato la ministra dell’Interno Nancy Faeser. Saranno, inoltre, posti quesiti sulle responsabilità e sui crimini dei nazisti nei confronti del popolo ebraico.

Si tratta della risposta che l’esecutivo tedesco ha deciso di dare, ufficialmente, per limitare gli episodi di antisemitismo. Di fatto però essa risponde alla necessità di sopprimere le posizioni divergenti da quelle governative per quanto concerne la questione del conflitto israelo-palestinese che, dal sette ottobre scorso, si è trasformato in un eccidio quotidiano nella Striscia di Gaza. Avendo, infatti, Berlino accettato la controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che identifica l’odio antiebraico con l’antisionismo, chiunque esprima critiche verso Israele o simpatizzi con la resistenza palestinese e il popolo di Gaza attraverso manifestazioni, discorsi, scritti o altri tipi di espressione, può essere accusato di antisemitismo. In questo modo, le statistiche sull’odio anti ebraico possono essere gonfiate fallacemente. Proprio nei giorni scorsi, il il responsabile per la lotta all’antisemitismo, Felix Klein, ha parlato di un «catastrofico» aumento i casi di violenza contro gli ebrei in Germania, basandosi sui dati dell’ultimo Rapporto annuale sui crimini d’odio contro gli ebrei.

Il governo tedesco ha anche inasprito le regole per le espulsioni degli immigrati, previste per chi «sostiene, saluta e glorifica» atti terroristici. Le espulsioni si applicheranno anche a chi mette un solo “like” a post che inneggiano il terrorismo. Il sospetto, però, è che queste regole verranno applicate anche nei confronti di chi semplicemente simpatizza per la causa palestinese esprimendo il suo sostegno al popolo di Gaza e, viceversa, la sua disapprovazione per le azioni di Israele. Non sarebbe la prima volta, infatti, che Berlino reprime in modo autoritario la libertà di espressione su questo argomento: lo scorso aprile, ad esempio, il ministero dell’Interno tedesco aveva emesso un divieto d’ingresso nel Paese per l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis che avrebbe dovuto parlare al Congresso della Palestina a Berlino. Gli è stata negata, inoltre, anche la partecipazione digitale all’evento tramite collegamento o registrazione video e, da ultimo, la polizia tedesca ha annullato l’evento. Il politico greco, dunque, non ha avuto altra scelta che pubblicare online il suo discorso in cui sostiene i diritti umani universali in Palestina. Similmente, nel febbraio del 2023, la città di Francoforte aveva annullato il concerto del carismatico leader dei Pink Floyd e attivista Roger Waters, solo a causa delle sue critiche a Israele, definendolo «l’antisemita più conosciuto al mondo». Sempre nel 2023 Waters era stato indagato dalla polizia tedesca, che lo aveva accusato di «incitamento all’odio» per essersi presentato sul palco travestito da nazista, una performance che si ripete in maniera sempre uguale dal 1980 e caratterizzata da un evidente e inconfondibile scopo di denuncia.

Oltre alla fedeltà a Israele, coloro che vorranno prendere la cittadinanza tedesca dovranno anche dimostrare il loro sostegno all’uguaglianza di genere e alla democrazia. Si configura così uno scenario in cui si deve aderire incondizionatamente a determinati “valori” in un contesto che paradossalmente assume più i caratteri di un totalitarismo che di una democrazia, soprattutto per quanto attiene la questione palestinese. Anche a causa delle sue vicissitudini storiche, infatti, la Germania appare incondizionatamente succube alle posizioni dello Stato ebraico, a tal punto da arrivare ad imporre il suo sostegno a Tel Aviv per abbreviare la procedura che consente di ottenere la cittadinanza tedesca.

[di Giorgia Audiello]