domenica 24 Novembre 2024
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Presidenziali USA, nel dibattito TV Biden è un disastro: si torna a parlare di ritiro

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Durante il primo dibattito televisivo svoltosi tra giovedì e venerdì notte tra i due principali candidati alla presidenza degli Stati Uniti – il presidente in carica Joe Biden e l’ex presidente Donald Trump – l’attuale capo della Casa Bianca ha tenuto una performance che molti non hanno esitato a definire «disastrosa», tanto che si è tornato a parlare di un suo possibile ritiro, specie se dovesse registrarsi una perdita di consensi nei sondaggi. Durante il confronto televisivo, il presidente democratico non è riuscito a formulare le frasi più semplici, interrompendosi continuamente e confondendo dati, cifre e addirittura l’oggetto del discorso. «Il dibattito disastroso di Biden accelera i dubbi sulla sua candidatura», titola oggi il media americano Bloomberg, mentre il Washington Post scrive che «Biden inciampa in un acceso dibattito mentre Trump diffonde falsità». Lo stesso ex direttore della comunicazione del presidente, Kate Bedingfield, ha dichiarato alla CNN che «È stata una performance di dibattito davvero deludente da parte di Joe Biden. Non credo che ci sia altro modo per dirlo». Molto più chiara ed espressiva, invece, la prestazione del tycoon, sebbene diversi giornali mainstream internazionali lo abbiano accusato di raccontare «falsità». Tuttavia, l’ex presidente è stato in grado di formulare chiaramente e in modo conciso le sue idee, di cambiare tono di voce, registro e sguardo, senza doversi sforzare molto per risultare più convincente del suo avversario, tanto che in molti ritengono che dopo il confronto di ieri, Trump sia il favorito delle prossime elezioni presidenziali, con i sondaggi che già precedentemente lo davano leggermente in testa rispetto a Biden.

Uno degli scivoloni più plateali e esilaranti del candidato democratico è stato quando l’anziano presidente, invece di dire «abbiamo sconfitto il Covid», ha detto «abbiamo sconfitto il Medicare», che è il programma sanitario pubblico per gli anziani. Immediata la reazione di Trump che ha colto la palla al balzo per farsi beffe dell’avversario rispondendo «Hai ragione, lo hai colpito e affondato». Biden ha poi menzionato spontaneamente una delle operazioni più rovinose della sua amministrazione, vale a dire il ritiro dall’Afghanistan del 2021, mentre ha appena sfiorato i temi sui quali Trump poteva essere messo più in difficoltà, ossia la sua recente condanna e la questione dell’aborto. Da parte sua, l’esponente repubblicano ha incentrato il suo discorso nel ritrarre in maniera quasi onirica la sua presidenza, dipingendola come la migliore di sempre e contrapponendola, invece, a quella pessima di Joe Biden. Un passaggio significativo del dibattito riguarda l’accusa da parte di Trump al presidente democratico di essere «diventato un palestinese», sottolineando che se diventasse lui presidente permetterebbe a Israele di «finire il lavoro».

I principali temi trattati durante il dibattito hanno riguardato l’economia, l’inflazione, le tasse, l’aborto, l’immigrazione e la guerra tra Russia e Ucraina. Parlando di immigrazione, Biden ha farneticato parole senza senso facendo molta fatica a farsi capire e Trump ha commentato dicendo «Non saprei dire che cosa ha detto alla fine della frase e credo non lo sappia nemmeno lui». Rispetto alla guerra in Ucraina, invece, Trump si è detto sicuro che, qualora vincesse le elezioni, troverebbe una soluzione al conflitto prima ancora di insediarsi: «Risolverò la guerra tra Putin e Zelensky come presidente eletto prima di entrare in carica il 20 gennaio». Inoltre, non ha preso impegni sulla difesa dell’Ucraina e Biden lo ha accusato di voler fare uscire gli Stati Uniti dalla NATO.

Da notare l’assenza del candidato indipendente Robert Kennedy Jr., figlio terzogenito dell’ex procuratore generale Bob e nipote dell’ex presidente John Fitzgerald. La CNN aveva annunciato in anticipo la sua esclusione dal dibattito e il rampollo della famiglia Kennedy ha accusato l’emittente televisiva di «collusione» con i gruppi di campagna elettorale di Biden e Trump presentando un esposto alla Commissione elettorale federale. L’esclusione dal dibattito riduce significativamente le chance di “RFK” di partecipare come candidato indipendente.

Il prossimo e ultimo dibattito tra Biden e Trump si terrà il 10 settembre organizzato da ABC News, ma le ipotesi su una eventuale sostituzione di Biden potrebbe scompaginare i programmi. La poca lucidità e il declino cognitivo del presidente, infatti, sono evidenti e ciò potrebbe avere serie ripercussioni sulla sua rieleggibilità e soprattutto sul crollo dei consensi nei suoi confronti. Cosa che preoccupa non poco il Partito Democratico.

[di Giorgia Audiello]

La Commissione parlamentare approva il carcere per chi protesta facendo blocchi stradali

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È stato formalmente approvato ieri in Commissione Giustizia e in Commissione Affari Costituzionali della Camera l’art.11 del “Pacchetto Sicurezza”, Ddl varato a fine novembre dall’esecutivo, che introduce la pena del carcere da sei mesi a due anni per i blocchi stradali e ferroviari. La norma, infatti, colpirà chi “impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata ostruendo la stessa con il proprio corpo, se il fatto è commesso da più persone riunite”. In caso di blocco stradale o ferroviario compiuto da una sola persona, la pena sarà invece quella della reclusione fino a un mese o di una multa fino a trecento euro. Il provvedimento rappresenta uno dei più emblematici tasselli della capillare azione repressiva del governo contro il dissenso pacifico. Infatti, sebbene sia stata ribattezzata “norma anti-Ultima Generazione” – nome del collettivo ambientalista divenuto noto per manifestazioni attuate con tale modalità -, questa legge colpirà tutti coloro che effettuano blocchi stradali, pratica di protesta storicamente diffusa e utilizzata nei più variegati ambiti.

Fino ad ora, tali condotte venivano inquadrate come semplici illeciti amministrativi, per i quali veniva comminata una sanzione da mille a quattromila euro. Se questa misura diventerà legge dello Stato, invece, vedrà la luce un vero e proprio reato penale con previsione di una pena detentiva, rispetto a cui peraltro non si contempla l’alternativa della pena pecuniaria. Infliggendo, dunque, un durissimo colpo al diritto dei cittadini a manifestare in maniera inoffensiva contro quelle che vengono reputate ingiustizie. Nello specifico, la norma anti blocco stradale è stata approvata in maniera molto fluida in Commissione. Tutti gli emendamenti delle opposizioni, infatti, sono stati respinti e ora il testo passerà al Parlamento, che lo vaglierà a fine luglio in quella che è la sua versione originale. Ma c’è di più. Infatti, in seguito a una riformulazione funzionale a mettere d’accordo tutte le anime della maggioranza, si appresta a ottenere presto il semaforo verde anche l’emendamento presentato dal leghista Igor Iezzi – divenuto celebre per aver preso parte all’aggressione contro il deputato M5S Leonardo Donno lo scorso 12 giugno – che prevede l’innalzamento delle pene per chi protesta in modo “minaccioso o violento” contro le grandi opere infrastrutturali come il Ponte sullo Stretto o il Tav. Viene infatti inaugurata una aggravante ai reati di resistenza, violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o a un corpo dello Stato che produrrà un inasprimento fino a un terzo degli anni di galera, portando a una pena massima di venti anni di carcere (mentre nella prima formulazione del testo erano venticinque). È stata invece cestinata la proposta di modifica avanzata dalla Lega in cui si affermava che chi ostacola l’accesso ai cancelli delle fabbriche, mettendo in atto i cosiddetti “picchetti”, deve essere sempre considerato responsabile di violenza privata.

Il “Pacchetto sicurezza” è stato approvato lo scorso novembre dal governo Meloni. Nel testo è stata prevista l’introduzione di nuovi reati nel codice penale, insieme a forti inasprimenti di pena e maggiori garanzie per le forze dell’ordine. Oltre al nuovo reato contro i blocchi stradali, il provvedimento ha delineato tra le misure più salienti pene estremamente severe per chi pianifica o partecipa a rivolte all’interno delle carceri e nei Cpr, colpendo anche chi le aizza dall’esterno. Al contempo, sono state previste numerose tutele per i membri delle forze dell’ordine, con la più vigorosa repressione delle aggressioni ai loro danni e la possibilità di detenere armi private anche quando non sono in servizio. Un testo che si inserisce a pieno titolo in una scia normativa lapalissianamente indirizzata alla dura repressione e criminalizzazione di un ampio ventaglio di forme di dissenso.

[di Stefano Baudino]

Argentina, Parlamento approva le riforme liberiste di Milei

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Il Parlamento dell’Argentina ha approvato in via definitiva il programma di riforme economiche deregolamentate del presidente ultraliberista Javier Milei. Dopo mesi di forte dibattito, il testo approvato è stato profondamente rivisto rispetto alla versione originale. Con questo provvedimento, Milei ha ottenuto, tra gli altri punti, la delega dei poteri legislativi per un anno, incentivi per i grandi investimenti per 30 anni, flessibilità nella legislazione sul lavoro e l’autorizzazione a privatizzare una dozzina di aziende pubbliche. Grandi proteste da parte della popolazione, che stanno continuando in queste ore davanti al Parlamento di Buenos Aires, hanno accompagnato l’iter delle riforme.

“No peace no panel”: i giornalisti RAI chiedono spazio per la pace nella TV pubblica

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I giornalisti della RAI hanno lanciato una mobilitazione dal basso per cambiare la narrazione realizzata quotidianamente sulle guerre, chiedendo che sia dato maggior spazio alle posizioni pacifiste. L’iniziativa, denominata No Peace No Panel, lungi dal voler assumere posizioni puramente ideologiche, vuole soprattutto «garantire un contraddittorio» e «tornare a fare un’informazione sana», ha spiegato il suo ideatore Max Brod. A sostenere l’iniziativa, ieri presentata in Senato vi sono, tra gli altri, Ordine dei Giornalisti, CGIL e Rete Italiana Pace e Disarmo, il cui coordinatore nazionale Francesco Vignarca ha sottolineato come negli ultimi mesi, a fronte della costante minaccia nucleare, «sentiamo tutti parlare di armi e guerra, tranne noi: la nostra esperienza su questi temi è sparita dall’orizzonte dell’informazione».

L’iniziativa No Peace No Panel è stata lanciata collettivamente da un gruppo di giornalisti RAI ed è stata presentata martedì 25 giugno presso la Sala Capitolare del Senato della Repubblica. All’incontro sono intervenuti portavoce di varie realtà, tra cui ⁠il Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Bartoli, il Presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana Vittorio di Trapani, Monica Pietrangeli dell’esecutivo USIGRAI (il sindacato dei giornalisti RAI), il Segretario della CGIL Maurizio Landini, e Roberto Zuccolini della Comunità di Sant’Egidio. L’iniziativa intende restituire un contraddittorio alla narrazione bellicista che caratterizza la televisione nazionale, in cui il dibattito pubblico ruota spesso attorno al tema della guerra: «eppure», si legge nella presentazione dell’incontro, «i rappresentanti dei movimenti nonviolenti non sono quasi mai interpellati» e si finisce così per rendere impraticabile «immaginare percorsi di pace», e «sviluppare un dibattito che informi i cittadini sulle alternative al bellicismo». La proposta nasce sulla scia del panel organizzato dai firmatari della campagna “Diamo voce alla pace”, lanciata da Max Brod nel 2022, e oggi soggetto di un nuovo slancio con la stessa No Peace No Panel. Contrariamente a quanto possa apparire, il senso dietro l’iniziativa non vuole essere politico, ma «fornire una rappresentazione paritaria ed equilibrata delle opinioni sulla guerra nei dibattiti tv e non solo». Come comunica l’Ordine dei Giornalisti, la Senatrice Barbara Floridia del Movimento 5 Stelle «ha annunciato che proporrà  alla Commissione di Vigilanza un atto di indirizzo affinché il servizio pubblico garantisca il giusto equilibrio negli spazi di informazione», dando voce anche alle istanze pacifiste.

L’iniziativa No Peace No Panel vuole andare controcorrente in un quadro di generale propaganda bellicista, che non coinvolge i soli salotti televisivi, ma viene spesso portata avanti anche nelle città italiane. Giusto un anno fa, l’Esercito italiano promuoveva una vera e propria campagna propagandistica in un centro commerciale di Catania, mentre lo scorso Natale a Modena è comparsa una controversa istallazione con un Babbo Natale seduto sopra un carro armato militare. Tutto questo genere di iniziative, come quelle volte a silenziare le voci di pace – si pensi a tal proposito al caso della cittadina della Spezia identificata dalla polizia per avere appeso uno striscione di protesta contro la NATO – sembrerebbero in tale ottica forme più o meno nascoste di abituare i cittadini alla guerra nella loro quotidianità, senza far sentire loro l’altro alto della campana.

[di Dario Lucisano]

Borsa Italiana, primo sciopero dei dipendenti di Piazza Affari

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Si è svolto questo pomeriggio dalle 15.30 alle 17.30 il primo, storico, sciopero dei dipendenti di Borsa Italiana. I lavoratori hanno scioperato su iniziativa delle sigle sindacali Fabi, First Cisl e Fisac Cgil, in particolare contro lo spostamento del centro decisionale a Parigi (e la conseguente marginalizzazione di Milano). Tra i punti principali della protesta, ci sono i rischi per la tenuta occupazionale nella Penisola, mancati aumenti salariali, il sistematico ricorso al lavoro straordinario e la progressiva perdita di autonomia direzionale e strategica delle società italiane all’interno del gruppo Borsa Italiana.

Kenya, continuano manifestazioni antigovernative e scontri con polizia

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Nonostante l’annuncio del presidente William Ruto sul ritiro della contestata legge finanziaria che avrebbe imposto notevoli aumenti delle tasse e che ha scatenato violente proteste in tutto il Paese, le manifestazioni non sembrano essersi ancora arrestate. I protestanti hanno commemorato le persone rimaste uccise in questi giorni di scontri continuando a manifestare non solo nella capitale, ma anche in altre città come Mombasa e Migori. Secondo l’organizzazione di giornalisti Kenyans inoltre, a Mombasa la polizia avrebbe sparato proiettili veri contro i manifestanti, anche se attualmente non risultano segnalati né feriti né vittime. Altri reporter hanno segnalato che le proteste di oggi «non sono meno intense di quelle dei giorni precedenti».

Rainforest Alliance: cos’è realmente il marchio della rana sui prodotti alimentari

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Sono molte le narrazioni che circolano online in merito al marchio Rainforest Alliance, sorta di sigillo di garanzia che si trova apposto su numerosi prodotti in vendita al supermercato, inclusi quelli di molte multinazionali. Contraddistinto dall'immagine stilizzata di una rana, il marchio dovrebbe servire a rendere immediatamente riconoscibili ai consumatori i prodotti sostenibili non solo da un punto di vista ambientale, ma anche sociale, ovvero realizzati garantendo il benessere degli agricoltori e delle comunità forestali. Tra chi accusa l'ONG di apporre il marchio su prodotti che conteng...

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TikTok sta di nuovo censurando i contenuti de L’Indipendente

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TikTok è tornato a censurare i post de L’Indipendente. Questa volta, si tratta di contenuti che hanno a che fare con il conflitto in Palestina. In particolare, è stato rimosso dal nostro profilo un video pubblicato ieri, che ripercorre la storia dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi nel corso degli ultimi decenni. Un video (ancora visualizzabile sulle nostre pagine Instagram e YouTube) frutto di un lavoro giornalistico attento e basato su fonti ufficiali, che va oltre la narrazione superficiale comunemente riportata dalla stragrande maggioranza dei media mainstream. Nonostante siano molti i contenuti de L’Indipendente che TikTok, per i motivi più vari (e alquanto incomprensibili), ha censurato negli ultimi mesi, quest’ultimo costituisce un caso particolare, poiché questa volta il social network ha minacciato di rimuovere direttamente il nostro account dalla piattaforma. Dunque, a una eventuale nuova “violazione delle norme della community”, vi è il rischio che L’Indipendente sparisca da TikTok.

Nello specifico, nell’ultimo video censurato da TikTok si riassumevano i contenuti di Palestina Papers, primo libro edito da L’Indipendente come risposta alla disinformazione con cui i media mainstream hanno trattato e continuano a trattare il tema della guerra in Palestina. Come scritto nelle comunicazioni ufficiali arrivate al nostro account dalla piattaforma, i motivi della presunta violazione sono riconducibili a “Contenuti scioccanti ed espliciti”. Si legge infatti che “parte del buonumore su TikTok sta nel trovare contenuti nuovi e inaspettati”, ma “la piattaforma non è un luogo in cui mettere a disagio, sconvolgere o disgustare intenzionalmente gli altri” e il nostro contenuto “può essere disturbante, causare danni psicologici o portare a estremo disagio”.

Con la stessa giustificazione, negli ultimi mesi TikTok ha rimosso molti altri contenuti pubblicati dall’account della nostra testata, nella maggior parte dei casi sulla Palestina e sugli scontri tra polizia e manifestanti. Addirittura, TikTok è arrivata a rimuovere un video inerente l’epidemia di morti per overdose da oppioidi tra le tribù dei popoli indigeni negli USA, con la motivazione che ci sono “rischi connessi al commercio e all’uso di queste sostanze” e “non è consentito mostrare o promuovere l’uso di droghe ricreative o il commercio di alcol, prodotti del tabacco e droghe”. A febbraio, inoltre, la piattaforma aveva operato la censura su un nostro video incentrato sull’annuncio da parte del governo sull’entrata in vigore della “identità digitale con codice QR” per disinformazione, nonostante fossero stati fatti – come per ogni articolo – tutti i riscontri sulle fonti utilizzate e sui contenuti pubblicati.

Non è la prima volta che TikTok censura con una certa metodicità i nostri contenuti. Già nel novembre 2021, il social network aveva oscurato tre video pubblicati dal profilo ufficiale de L’Indipendente, ripristinando poi soltanto uno di essi. La censura del social nei nostri confronti era proseguita con una sanzione al nostro profilo, cui era stato impedito di pubblicare contenuti per un certo lasso orario. Nel caso di uno dei due video rimasti oscurati, riguardante la vicenda di Aldo Bianzino, morto nel 2007 dopo essere stato arrestato per possesso di cannabis, la rimozione era legata alla categoria «Attività illegali e beni regolati» (con ogni probabilità l’algoritmo del social ha censurato il contenuto solo poiché esso conteneva la parola “cannabis”); per quanto riguarda l’altro, basato sul nostro articolo «Inchiesta sui dati: quanto ha speso realmente l’Europa per i vaccini», la violazione contestataci rientrava nella categoria «Autenticità e moralità», che punisce i contenuti atti ad ingannare o a diffondere false informazioni. Eppure, ancora una volta, all’interno del video non era presente alcuna fake news, trattandosi di un articolo che si basava esclusivamente sui fatti.

[di Stefano Baudino]

Big Tech: le telecomunicazioni Ue chiedono maggiori controlli

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La European Telecommunications Network Operators’ Association (ETNO), gruppo industriale rappresentante molti dei più grandi operatori di telecomunicazioni europei, ha pubblicato un report in cui si chiedono maggiori controlli rivolti alle Big Tech straniere. Realtà come Netflix e Youtube starebbero consumando ampiezza di banda in maniera disproporzionale rispetto ai costi, occupando la Rete e lasciando alle aziende di telecomunicazione il compito di farsi carico del mantenimento e della costruzione delle infrastrutture. Inoltre, agli operatori europei sarebbero richiesti «requisiti specifici, restrizioni sulle offerte in bundle e obblighi di effettuare comunicazioni di emergenza», tutte questioni che «costituiscono discrepanze» non indifferenti tra i due settori.

Bolivia: è fallito il golpe che voleva impedire la rielezione del socialista Evo Morales

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È fallito il tentativo di colpo di Stato che nella giornata di ieri ha scosso la Bolivia facendo temere l’ennesimo terremoto politico nella Nazione sudamericana, una delle più turbolente e politicamente instabili della regione. Da quanto emerso, il fallito golpe, organizzato dal generale dell’esercito boliviano Juan José Zúñiga, è stato ordito in vista delle prossime elezioni del 2025 con l’obiettivo di impedire la ricandidatura di Evo Morales, ex presidente boliviano rimosso dal suo incarico nel 2019 in seguito a un “golpe morbido”. Non sarebbe la prima volta che la destra boliviana – supportata dagli Stati Uniti – mette in atto tentativi di colpo di Stato per sabotare Morales e il suo partito, il Movimento al Socialismo (MAS), e lo stesso Morales, in seguito alla sua rimozione nel 2019, aveva apertamente accusato gli USA di avere pianificato il golpe contro di lui. Sostenitore di un programma di riforme istituzionali e socioeconomiche, Morales, durante i suoi tre mandati, si è opposto a ingerenze straniere, nazionalizzando tutte le riserve di gas naturale e il settore energetico, promuovendo la riforma agraria e l’aumento dei salari. Considerata la ricchezza di risorse naturali della Bolivia, la nazionalizzazione e l’estromissione di multinazionali straniere dalla possibilità di sfruttare tali risorse hanno certamente messo in cattiva luce il governo socialista di Morales da parte di Paesi terzi, tra cui Washington. Da parte sua, la Casa Bianca ha fatto sapere che sta monitorando da vicino lo sviluppo degli eventi.

Le crescenti tensioni per le elezioni del 2025 hanno portato il generale Zúñiga a dichiarare che Morales non dovrebbe potersi ricandidare, minacciando apertamente di bloccarlo se avesse tentato di farlo. Ciò, a sua volta, ha spinto il presidente Arce a rimuoverlo dal suo incarico, fatto che ha poi innescato il tentativo di colpo di Stato. Quest’ultimo è durato circa tre ore, durante le quali i militari hanno occupato temporaneamente Palacio Quemado, la sede del governo a La Paz, dopo avervi fatto irruzione con un veicolo blindato. Il presidente ha denunciato il tentativo di rovesciare il governo parlando di «mobilitazione irregolare di alcune unità dell’esercito boliviano» e invitando al rispetto della democrazia. Arce, dunque, ha subito nominato un nuovo comandante dell’esercito, il generale José Wilson Sánchez, che ha ordinato ai soldati di ritirarsi sventando il colpo di Stato. Un video della televisione locale ha mostrato il presidente affrontare il generale ribelle nell’androne del Palacio Quemado, dicendogli «sono il suo capitano e le ordino di ritirare i suoi soldati e non permetterò questa insubordinazione». Subito dopo, l’insurrezione – che ha causato nove feriti – si è conclusa con l’arresto di Zúñiga. Poco prima del suo arresto, il generale aveva affermato che fosse stato lo stesso Arce a chiedergli di organizzare il golpe per aumentare la sua popolarità: non ci sono, però, prove a sostegno di questa tesi e lo stesso presidente boliviano ha categoricamente smentito le accuse.

L’ex presidente Morales si è unito ad Arce nel chiamare a raccolta la popolazione affinchè si mobilitasse a sostegno della democrazia: «Non permetteremo alle forze armate di violare la democrazia e intimidire la gente», ha detto. Il risultato è stato che migliaia di cittadini si sono ritrovati in Plaza Murillo per difendere l’attuale presidente, scontrandosi con i militari ribelli, che hanno risposto alle proteste popolari con il lancio di lacrimogeni. Nel frattempo, diversi capi regionali hanno espresso il loro pieno sostegno ad Arce: «Esprimiamo la più forte condanna del tentato colpo di stato in Bolivia. Il nostro totale sostegno al presidente Luis Alberto Arce Catacora», ha detto su X il presidente messicano Andres Manuel Lopez Obrador. La stessa opposizione ha condannato il tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale: «Respingo pienamente la mobilitazione dei militari in Plaza Murillo che tenta di distruggere l’ordine costituzionale», ha scritto sempre su X l’ex presidente Jeanine Anez, incarcerata nel 2022 in seguito a disordini politici, aggiungendo che «Il MAS con Arce ed Evo deve essere eliminato con il voto del 2025. Noi boliviani difenderemo la democrazia».

L’insurrezione militare è avvenuta nel pieno di una crisi economica e politica che sta destabilizzando il già precario equilibrio dello Stato sudamericano: la crisi che attanaglia il Paese deriva, infatti, almeno in parte, da una profonda divisione interna al MAS (Movimento la Socialismo) che vede contrapposti l’attuale presidente Arce e il suo ex alleato Morales, entrambi membri del partito. La lotta politica tra i due per la corsa alla presidenza del 2025 ha complicato gli sforzi dell’attuale governo per affrontare la difficile situazione economica, causata da alta inflazione, scarsità di dollari e dalla diminuzione della produzione di gas. La tensione tra i due politici era nata nel 2019, quando Morales si era candidato per un quarto mandato giudicato incostituzionale. Tuttavia, il Tribunale costituzionale boliviano aveva autorizzato il politico socialista a ricandidarsi e alle consultazioni, Morales si era aggiudicato la maggioranza dei voti. Successivamente, accusato di frode e travolto da violente proteste di massa, il primo politico indigeno boliviano era stato costretto a fuggire e alle elezioni del 2020 era risultato vincitore il suo ex alleato Arce. Quest’ultimo, ora, vede la candidatura di Morales come un rischio per la sua rielezione, anche considerato che Morales è ancora estremamente popolare tra le comunità indigene del Paese. Alle accuse di incostituzionalità circa la sua campagna elettorale, in un recente discorso l’ex presidente ha risposto che «abbiamo rispettato le regole».

Anche a causa della sua enorme ricchezza di risorse e giacimenti di gas, la Bolivia è un Paese attraversato da forti turbolenze e divisioni interne: da metà Ottocento, quando dichiarò la sua indipendenza dalla Spagna, il Paese ha subito 190 colpi di Stato. Con la prossimità delle elezioni politiche e il timore di un ritorno al potere di Morales, le tensioni sono tornate a destabilizzare lo Stato sudamericano, già afflitto dalle proteste per il tracollo economico.

[di Giorgia Audiello]