Decine di migliaia di cittadini pakistani stanno marciando da giorni verso la capitale, Islamabad, in sostegno all’ex primo ministro Imran Khan e per chiederne la scarcerazione. Lo hanno fatto a piedi o in auto, creando code chilometriche lungo le principali arterie stradali che arrivano in città. L’Alta Corte del Pakistan ha infatti deciso di concedere al politico, in carcere dal gennaio scorso con accuse di diffusione di segreti di Stato e di corruzione, la libertà su cauzione. Le forze dell’ordine hanno isolato la città chiudendo le principali vie di accesso e istituendo una Zona Rossa, e cercato di fermare l’avanzare dei manifestanti. Nei violenti scontri che si sono verificati, tra lancio di gas lacrimogeni, sassi, proiettili veri e di gomma, sono stati registrati sei morti e decine di feriti, mentre sono circa 4 mila le persone arrestate.
La lunga marcia sulla capitale, alla quale hanno preso parte decine di migliaia di pakistani, si sarebbe messa in moto già da sabato. Intorno alle 9.30 di oggi (ora italiana, circa le 13.30 locali) i manifestanti sono entrati nella capitale Islamabad, riuscendo ad avvicinarsi alla Zona Rossa, dove è stato dispiegato l’esercito. Questa comprende diversi edifici governativi, tra i quali l’ufficio del primo ministro e il palazzo dell’Assemblea Nazionale, e la piazza centrale D-Chwok, verso la quale i manifestanti sembrano volersi dirigere. All’arrivo in città, la folla in marcia si è scontrata con le forze di polizia, che ha lanciato gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Tra le richieste dei manifestanti vi sono la fine della persecuzione politica di Khan, che questi sia rilasciato insieme a tutti gli altri prigionieri politici e che venga riconosciuto il vero risultato delle elezioni parlamentari svoltesi all’inizio dell’anno, la cui vittoria, secondo i sostenitori di Khan, sarebbe stata conseguita dalla Lega Musulmana Pakistana (PML-N) di Nawaz Sharif in modo fraudolento. Secondo alcuni media, che citano dichiarazioni del ministero dell’Interno, sarebbero almeno sei i morti registrati negli scontri, quattro paramilitari e due poliziotti.
Al governo dal 2018, nel 2022 Khan viene destituito attraverso un voto di sfiducia da parte del partito che gli garantiva la maggioranza e sostituito da Shehbaz Sharif, suo rivale. A contribuire alla sua rimozione, tra le altre cose, vi è la scomoda politica interna da lui mantenuta, improntata alla lotta contro la corruzione dilagante nella nazione islamica, e la politica estera non allineata con gli interessi statunitensi. È lui stesso a denunciare le forti ingerenze USA, che hanno indotto i politici pakistani a piegarsi alla volontà della Casa Bianca, confermando la subalternità della classe dirigente della nazione. Dopo la destituzione Khan viene arrestato ma successivamente scarcerato su ordine della Corte Suprema del Pakistan, dopo un’ondata di proteste molto violente. Nello stesso anno, Khan è vittima di un tentato omicidio. Nel 2023, Khan viene arrestato nuovamente con l’accusa di corruzione e condannato a 3 anni di carcere, fatto che scatena nuovamente l’ira popolare. Secondo i suoi sostenitori, infatti, le accuse contro di lui sono tutte di natura politica. Nel febbraio di quest’anno si sono svolte elezioni parlamentari, nelle quali, secondo quanto sostenuto dai sostenitori di Khan, i candidati indipendenti legati all’ex primo ministro avrebbero ottenuto la quota maggiore in Parlamento. Al momento del risultato, Khan si trovava in carcere con una condanna a 10 anni per aver divulgato segreti di Stato, giunta proprio a ridosso delle elezioni.
A distanza di cinque anni, otto cittadini del quartiere Tamburi di Taranto sono stati condannati a un’ammenda di oltre 1.000 euro o, in alternativa, a 30 giorni di carcere per aver interrotto un consiglio comunale del 2019. L’azione, che secondo l’accusa i cittadini avrebbero intrapreso «urlando e pronunciando frasi ingiuriose all’indirizzo dei consiglieri», nasceva dalla disperazione legata alle collinette ecologiche dell’ex Ilva. Queste strutture, progettate per contenere la diffusione delle polveri minerali, si erano rivelate discariche abusive di rifiuti tossici. Nei pressi delle collinette, sequestrate nello stesso anno, sorgevano le scuole Vico e Ugo De Carolis, dove erano stati segnalati malori tra gli alunni, portando alla chiusura degli istituti e al trasferimento di oltre 700 studenti. «Eravamo esasperati, era in gioco la salute dei nostri figli e non siamo stati ascoltati», hanno dichiarato alcuni dei cittadini condannati, che hanno annunciato che faranno ricorso contro il provvedimento.
La notizia dell’ammenda ai cittadini tarantini è stata data da una delle persone coinvolte nei fatti del 2019, oggi consigliere comunale di Europa Verde, Antonio Lenti. L’avviso di condanna penale, emesso dal tribunale, impone agli otto accusati una multa di 1.125 euro o, alternativamente, 30 giorni di carcere. «Ricordo bene quei giorni», scrive Lenti. «Venivamo da notti passate per strada all’interno della scuola Deledda, da presìdi e proteste sotto il Comune. Volevamo tutelare la salute ed il diritto allo studio dei bambini che frequentavano le scuole, dall’inquinamento provocato da Ilva, dalle collinette artificiali, soprattutto durante i giorni di Wind Days. Chiedevamo gli impianti di areazione per le scuole e condizioni sicure». La vicenda, infatti, si colloca all’apice di una serie di tentativi di attirare l’attenzione sulla precarietà delle scuole del quartiere Tamburi, che andarono, tuttavia, a vuoto. La zona ospitava infatti le cosiddette “collinette ecologiche”, aree verdi costruite negli anni ’70 per schermare la diffusione delle polveri del siderurgico e diventate, invece, discariche di rifiuti industriali. Nei cosiddetti “Wind Days” — così venivano chiamati i giorni di vento intenso che soffiava da ovest e nord — i bambini dei Tamburi dovevano restare a casa e non potevano fare lezione, perché gli impianti di aerazione per difenderli dalle polveri non erano ancora in funzione.
In quei mesi, l’Arpa Puglia accertò un superamento delle concentrazioni-soglia di contaminazione nell’area delle collinette, sequestrate a febbraio. A marzo il sindaco emise un’ordinanza di chiusura temporanea delle scuole, disponendo successivamente la loro chiusura fino a giugno. I genitori occuparono simbolicamente le scuole chiuse, chiedendo che venisse assicurato il diritto a un’istruzione sicura per i propri figli, con il collaudo degli impianti d’areazione e una successiva riapertura dell’istituto Grazia Deledda, che era già stato oggetto di interventi per migliorare l’isolamento e l’impianto di aerazione. Le proteste arrivarono anche a ritardare la compilazione degli scrutini, ma rimasero inascoltate. «Abbiamo percorso tutte le strade possibili con mail, PEC, comunicati stampa, richieste di incontro, ma siamo sempre stati ignorati». Dopo varie sollecitazioni a sindaco, Regione, e prefetto, i cittadini, esasperati, entrarono in consiglio comunale. «Visto che non venivano da noi, siamo andati noi da loro, in Comune», spiega Lenti. I bambini tornarono a scuola a settembre, e gli impianti vennero ultimati solo nel 2022. Oggi i genitori sono accusati di aver interrotto la seduta del consiglio comunale e di aver ingiuriato i consiglieri, ma hanno già annunciato che presenteranno ricorso.
«Il 20 gennaio, come uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per addebitare a Messico e Canada una tariffa del 25% su tutti i beni in entrata negli Stati Uniti». Sono queste le parole con cui il futuro presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato nuovi dazi nei confronti degli Stati limitrofi agli USA, che il tycoon accusa di non fare abbastanza per frenare le ondate di immigrazione irregolare e di commercio di stupefacenti oltre confine. In aggiunta, Trump ha annunciato un’ulteriore tariffa del 10% sui beni cinesi, che si aggiungerà ai dazi già attivi verso Pechino.
La giustizia argentina ha emesso una sentenza storica nei confronti dell’imprenditore Ricardo Adolfo La Regina, responsabile nel 2021 di una strage di oltre un centinaio di pinguini nella provincia patagonica di Chubut. L'uomo, che sterminò parte di una colonia di una specie classificata come "minacciata" per far costruire una strada, è stato dichiarato colpevole di “danno ambientale irreversibile” e “crudeltà sugli animali”. La pena potrebbe variare dai quattro ai dodici anni. I giudici hanno accolto la richiesta del pubblico ministero Florencia Gómez che ha definito l’azione di La Regina un ...
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La strana e ancora inspiegabile morte di Bernardino Budroni, per tutti Dino, appena archiviata dalla Corte di Appello di Roma con la prescrizione per il reato di omicidio colposo dell’agente di polizia Michele Paone, è iniziata molti anni fa, in un sabato sera d’estate a Fonte Nuova, alle porte della capitale. Dove la Via Nomentana si spoglia via via del grigio di palazzi e palazzoni e si veste col verde della campagna, mentre il traffico incessante lascia lentamente il posto a casolari, fattorie e filari di alberi. Era il 30 luglio 2011, quando Dino è uscito di casa dopo cena, alla fine di un’altra giornata canicolare: una doccia, la camicia pulita, lo stereo della Focus acceso e via verso Cinecittà, pancia a sud-est dell’Urbe. Destinazione Via Quintilio Varo, nel reticolo fitto di strade alle spalle della Tuscolana, a casa della sua compagna. Una donna di 41 anni che ha convissuto con lui per cinque mesi nella casa della famiglia Budroni, dove Dino viveva con genitori e sorella e dove hanno atteso 13 anni la verità, o perlomeno qualche spiegazione più plausibile di quelle che hanno letto nei verbali e negli atti giudiziari. Tredici anni per capire cosa sia davvero successo quella maledetta notte, la notte in cui Dino è finito col capo riverso sul volante della sua auto, con un proiettile calibro 9 in corpo, la vita volata via e un catalogo completo di cose, particolari e indizi che non tornano, si contraddicono, non hanno spiegazione o, anche peggio, non sono mai stati presi in considerazione.
Lite sotto casa al Tuscolano
I Carabinieri indagano sul luogo dove è stato ucciso Dino
La versione ufficiale, quella che è stata spazzata via sette anni dopo con la condanna di un poliziotto, assolto in primo grado nel 2014, è la fotografia di tante situazioni tristemente dolenti. Lui che va da lei e dà in escandescenze, i toni che si alzano, le porte che sbattono o che vengono forzate, la chiamata al 112 per chiedere aiuto. Lo hanno definito stalker, anche gli agenti intervenuti sul posto. La fidanzata che aveva dormito da lui anche tre sere prima dei fatti, ha presentato denuncia per minacce e danneggiamento alle 6.15, circa un’ora dopo di quella in cui sarebbe avvenuta la sparatoria – secondo la ricostruzione degli inquirenti – e ben oltre secondo un testimone che passando in auto sul Grande Raccordo Anulare per andare al lavoro, ha visto il corpo senza vita di Budroni al posto di guida, con la sua auto ferma e le volanti ferme dietro. Il testimone, l’unico testimone oculare di cui si è avuta notizia, non è mai stato sentito o interpellato da nessuno. Si chiamava Franco Casalino.
Corsa sul raccordo tra buio e luce
Gli agenti hanno messo a verbale che Budroni è stato visto salire in macchina e allontanarsi a forte velocità, e a fari spenti, dall’abitazione della fidanzata, e da lì ha poi preso il via un inseguimento da parte di due volanti della Polizia nel buio più totale, secondo quanto dichiarato dall’ispettore Stabile che guidava Volante 10, al suo fianco l’ispettore Michele Paone che hai poi aperto il fuoco. Peccato però che per le effemeridi di quel giorno abbiano registrato l’alba civile alle 4.30, ossia il momento la visibilità è piena e non serve più luce artificiale: o Stabile non ricordava bene, oppure i verbali che datano più tardi il tutto, contengono orari inesatti e non corretti.
Lo scontrino fantasma
Per gli orari, che in ogni fatto di cronaca sono uno dei criteri per diradare le nebbie, c’è anche un altro particolare mai appurato. Nel portafoglio di Dino è stato trovato lo scontrino di un bar sulla Nomentana battuto alle ore 4.14, il documento era stato inserito nel fascicolo. Come poteva essere in quel locale a quell’ora, a due passi da casa, se negli stessi momenti lo hanno segnalato e poi inseguito al Tuscolano? Oltre tutto, poco prima delle 4, ha ricevuto una telefonata dal cognato che chiedeva sue notizie, rassicurandolo sul suo imminente rientro a casa: complicato immaginarlo che potesse dirlo mentre era inseguito sul GRA da due volanti – a cui si è poi aggiunta una gazzella dei carabinieri – lanciate a tutta velocità.
Auto in corsa, praticamente ferme
I fori dei due colpi di pistola esplosi dall’agente Michele Paone sulla Focus di Dino
Tutta la vicenda e il suo esito giudiziario è ruotata attorno a quello che è stato definito un inseguimento «a forte velocità», il punto dirimente è se la Focus di Budroni fosse ancora in movimento o si fosse fermata, nel momento in cui Paone ha esploso due colpi dalla sua Beretta di ordinanza. «Budroni si è buttato sulla destra con l’intenzione, probabilmente, di prendere quell’uscita; io così ho avuto il modo di stringerlo contro il guardrail costringendolo a rallentare fino a fermarsi». Queste le dichiarazioni del carabiniere Giudici, autista della gazzella dei Carabinieri che ha partecipato all’inseguimento. E poi ancora: «Ci siamo fermati, direi quasi contemporaneamente all’arresto dei veicoli ho sentito due colpi di pistola… mi ponevo proprio davanti la vettura di Budroni. Vedevo il Budroni immobile e mi parve alzare le mani in segno di resa, subito dopo però lo stesso si è accasciato». Dalla deposizione dell’uomo dell’Arma, pare proprio che le vetture fossero ferme e che Dino Budroni avesse arrestato la sua Focus all’intimazione delle forze dell’ordine. La Ford è stata trovata incastrata verso il guardrail, tra le due volanti e la pattuglia dei carabinieri, difficilmente da quella posizione avrebbe potuto svicolare e buttarsi nell’uscita Nomentana in prossimità della quale è successa la sparatoria. Il corpo di Budroni era riverso a destra verso il sedile passeggero che è stato trovato reclinato, senza nessun motivo apparente e senza che nessuno ne abbia accertato il motivo.
«Vagli addosso!»: due colpi di Beretta e poi il silenzio
Il giudice di primo grado ha assolto l’agente Paone, che avrebbe dovuto essere al posto del collega alla guida della volante, dall’accusa di eccesso colposo di uso legittimo delle armi. Per il magistrato, sparare è stata una condotta «adeguata e proporzionata» al contesto, per interrompere «quel comportamento di grave e prolungata resistenza». Il pubblico ministero, al contrario, ha sostenuto che Paone ha sparato male e soprattutto inutilmente, visto che la Focus era già ferma e non c’era bisogno di ricorrere all’uso delle armi. L’autopsia ha accertato che la morte sia sopraggiunta per un colpo sparato da dietro verso avanti, da sinistra verso destra e dal basso verso l’alto: i fori di entrata, nello sportello posteriore sinistro, lasciano immaginare le loro traiettorie, uno dei due colpi dopo aver trapassato le lamiere si è conficcato nella schiena di Budroni, provocandogli la morte. Agli atti dell’inchiesta, però, non è stata inserita la perizia del consulente della famiglia, dottorCarlo Messina, così come le perizie balistiche e stradali. C’era però una corposa relazione dei Ris, secondo la quale l’inseguimento si è svolto tra 50 e 80km/h, non certo a folle velocità, e i proiettili sono stati sparati a distanza di 0,9-1,14 secondi uno dall’altro. Paone ha sostenuto di aver sparato mirando alle gomme della Focus, gli avvocati della famiglia hanno sempre sostenuto che i colpi sono stati sparati ad altezza d’uomo e coi veicoli fermi, come testimonierebbe un’audio dell’inseguimento che era stato stranamente smarrito e non compariva agli atti. Nello stesso audio,si sentono le voci degli operatori delle Forze dell’Ordine che urlano «vagli addosso!», mentre nelle ricostruzioni sarebbe stato Budroni a speronare le volanti con la sua Focus.
Contro le leggi di Newton
Sui due colpi sparati, poi, il caso Budroni, tra le sue stranezze e i suoi buchi logici e investigativi, sembra aver controvertito addirittura le regole di Newton. I bossoli della Beretta sono stati rinvenuti davanti alla Volante 10 e a sinistra, rispetto al punto in cui sono stati sparati, nonostante il fatto che la Beretta abbia l’espulsione destrorsa, come quasi tutte le armi da fuoco. Se i veicoli fossero stati in movimento, come sostenuto dai legali di Paone, i bossoli sarebbero stati risucchiati alle loro spalle, come succede a qualcosa che venga gettato dal finestrino ad auto in corsa: i bossoli, invece, sono stati trovati dalla parte opposta rispetto alla quale avrebbero dovuti essere secondo elementari leggi fisiche. Eppure, secondo i Ris, la valutazione della loro posizione è «un dato non stringente per la ricostruzione dei fatti».
«Colpito a morte, ha parcheggiato l’auto»
«In ragione del tenore della ricostruzione dell’episodio fornita dai predetti carabinieri risulta inoltre incontrovertibile che il Budroni, dopo essere stato colpito, è riuscito ad arrestare la sua Focus, inserendo addirittura e verosimilmente la prima marcia e il freno a mano, e ad alzare le mani, in seguito all’intimazione rivoltagli dal carabiniere Giudici, prima di accasciarsi sul sedile di destra». Secondo le motivazioni del giudice di primo grado, in buona sostanza, Dino Budroni già colpito a morte dal proiettile sparato dall’agente Paone ha arrestato la sua macchina, ha inserito la marcia, ha tirato il freno a mano e ha alzato le braccia per arrendersi: agonizzante, appena arrivato all’ospedale Pertini è stata dichiarata la sua morte, ha praticamente parcheggiato l’auto e si è arreso. Nel secondo grado di giudizio, nel 2018, la prima sezione della Corte di Appello ha ribaltato completamente un impianto giudiziario di questo tipo, evidentemente non proprio solido. L’agente Paone è stato giudicato colpevole di «omicidio colposo con eccesso colposo dell’uso legittimo delle armi putativo e per un evento diverso da quello voluto».
L’avvocato della famiglia: ucciso a sangue freddo
Nel 2019 la Cassazione ha accolto il ricorso dei legali dell’agente e ha annullato la sentenza di secondo grado per vizio di motivazioni: dallo scorso gennaio si è svolto un processo bis nel quale l’avvocato della famiglia Budroni, Sabrina Rondinelli, ha ribadito che Dino è stato praticamente ucciso a sangue freddo, senza nessuna«grave e prolungata resistenza» ribadita dal difensore dell’agente Paone. La Corte ha stabilito che la prescrizione, intervenuta nel frattempo, impedisce di procedere, condannando però l’agente ad un risarcimento del danno alla mamma e alla sorella di Dino. Non è più possibile accertare le sue responsabilità perché la giustizia non è riuscita a farlo nei tempi che essa stessa si è data: il solito finale di chi decide di non decidere.
Il Regno Unito ha emesso il più grande pacchetto di sanzioni contro la cosiddetta “flotta fantasma” russa, ovvero la flotta di navi che la Federazione utilizzerebbe per aggirare le restrizioni commerciali sul petrolio. A essere colpite da questo ultimo pacchetto di sanzioni sono 30 navi, che si aggiungono alle 43 precedentemente sanzionate. L’annuncio odierno arriva in occasione di un incontro dei ministri degli Esteri del G7 in Italia, al termine del quale il Regno Unito ha lanciato un appello agli altri Paesi affinché mantengano «la pressione sulla macchina da guerra russa, parallelamente agli sforzi per intensificare il sostegno militare e finanziario all’Ucraina».
È in lega di rame, raffigura un guerriero appartenente ad una particolare classe di combattenti e, soprattutto, testimonierebbe come l’adorazione e la cultura dei gladiatori fosse diffusa anche ai confini dell’impero romano: è il manico di coltello risalente a circa 2.000 anni fa trovato dall’English Heritage a Corbridge Roman Town sul Vallo di Adriano, una barriera difensiva costruita dai romani occupanti nel nord-est dell’Inghilterra. L’oggetto, trovato nel fiume Tyne, presenta inoltre una peculiarità tutt’altro che indifferente: raffigura un gladiatore che era mancino e ciò, secondo gli esperti, è probabile che significhi che il manico rappresentasse uno specifico combattente. «Anche oggi, quasi duemila anni dopo, il fascino dei gladiatori persiste e si è ulteriormente esteso alla cultura popolare moderna», ha commentato Frances McIntosh, curatrice delle collezioni per il Vallo di Adriano e il Nord Est presso l’English Heritage.
Nel periodo in cui è stato realizzato il manico di coltello, l’Impero Romano stava vivendo uno dei suoi periodi di massima espansione, arrivando a dominare vasti territori che si estendevano dalla Britannia fino all’Africa del Nord e all’Asia Minore. In particolare, la zona nord-orientale dell’Inghilterra era sotto il controllo romano, ed è qui che fu costruito il Vallo di Adriano, una fortificazione che segnava il confine dell’impero. Il vallo, che si estendeva per circa 117 chilometri attraverso la penisola, aveva la funzione di difendere i confini dai popoli delle terre selvagge al di là di esso. Corbridge Roman Town, una delle città più significative in questo contesto, si sviluppò da un forte militare a un insediamento civile prospero, divenendo un importante centro commerciale e strategico. Il vallo, inoltre, non solo fungeva da barriera fisica, ma anche come simbolo del potere romano nelle terre lontane. In un contesto simile, è facile aspettarsi che la figura del gladiatore aveva un’importanza notevole visto anche che le arene romane erano un popolare intrattenimento pubblico ed i gladiatori stessi, provenienti da varie classi sociali, rappresentavano valori di forza, coraggio e resistenza.
La curatrice dell’English Heritage Frances McIntosh esamina l’impugnatura di coltello romano appena scoperta. Credit: English Heritage
Tra i combattenti vi erano i “secutors”, a cui venivano accompagnati i “reziari”, due dei più noti tipi di guerrieri, rispettivamente, pesantemente armati e dotati di spada e grande scudo, e leggermente armati e dotati di una rete e di un tridente per intrappolare e sconfiggere l’avversario. Il manico di coltello appena ritrovato, quindi, sembrerebbe appartenere alla classe dei “secutors” visto che raffigura un gladiatore con un elmo, un grande scudo e la mano protesa, con cui probabilmente impugnava una spada. In particolare, la mano protesa è la sinistra e ciò, secondo gli esperti, suggerisce che fosse mancino – una caratteristica considerata sfortunata nel mondo romano – e che quindi la statuetta potrebbe raffigurare un gladiatore specifico. Questo perché i combattenti di successo godevano di uno status di celebrità, «avendo fan individuali che li seguivano e facevano loro dei regali», spiega Frances McIntosh, curatrice delle collezioni per il Vallo di Adriano e il Nord Est presso l’English Heritage, aggiungendo: «Quindi, potrebbe essere che questa persona (il proprietario del coltello) amasse davvero questo gladiatore e abbia fatto realizzare il manico del suo coltello appositamente per rappresentarlo». Infine, ha concluso affermando: «È raro trovare un pezzo di cimelio dei gladiatori in Gran Bretagna e trovare un pezzo così ben conservato e interessante è particolarmente notevole. Questo manico di coltello splendidamente realizzato è una testimonianza di quanto fosse diffusa questa cultura delle celebrità, che arrivava fino al Vallo di Adriano, ai confini dell’Impero Romano».
Ha 32 anni Abazaj Rexhino, “Gino” per gli amici e compagni, il militante antifascista italo-albanese di cui l’Ungheria chiede l’estradizione. Arrestato in una banlieue parigina in ottemperanza di un mandato di arresto europeo, Abazaj è detenuto da quasi una settimana nella prigione francese di Fresnes. Durante la prima udienza, tenutasi il 20 novembre, il giovane ha manifestato la propria opposizione alla richiesta di estradizione. Le accuse che hanno portato i tribunali ungheresi a emettere il mandato di arresto europeo (MAE) sono le stesse che avevano determinato la detenzione di Ilaria Salis per oltre un anno nelle prigioni di Orbán. Si tratta degli scontri avvenuti ai margini del cosiddetto Tag Der Ehre, il “Giorno dell’Onore” celebrato nel febbraio 2023. Questo evento annuale richiama centinaia di neonazisti da tutta Europa nella capitale ungherese, allo scopo di commemorare le gesta dei soldati di Adolf Hitler contro l’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale.
Abazaj Rexhino, uno dei 17 antifascisti accusati dall’Ungheria di aver causato disordini a Budapest durante una manifestazione neonazista, si trova attualmente al centro di una controversia internazionale. Tra gli arrestati per gli stessi eventi figura anche Ilaria Salis, detenuta in condizioni deplorevoli nelle prigioni ungheresi e minacciata di una condanna fino a 20 anni per reati che, in Italia, sarebbero stati considerati di lieve entità. «Ancora una volta il tiranno Orbán prova a calpestare i valori dell’antifascismo e dello stato di diritto», ha dichiarato su X l’europarlamentare Salis, aggiungendo: «La mia vicenda dimostra chiaramente che, per Gino e per tutti gli antifascisti, in Ungheria non ci si può aspettare né un processo giusto né condizioni di detenzione rispettose dei diritti fondamentali. Spero che l’energia collettiva che mi ha liberata e riportata a casa possa aiutare anche in questa occasione». Salis è stata scarcerata grazie alla sua elezione al Parlamento Europeo nel giugno scorso, ma l’Ungheria ha recentemente richiesto la revoca della sua immunità parlamentare per poterla riportare in carcere. La richiesta è attualmente in fase di valutazione.
Nell’ultimo anno e mezzo l’offensiva giudiziaria ungherese non ha fatto che crescere: nel dicembre 2023 a Berlino a farne le spese è stata Maja T., antifascista estradata quasi di nascosto dalla Germania per evitare l’opposizione tardiva della Corte Costituzionale tedesca e tuttora nelle carceri di Budapest. Il mandato di arresto europeo ha raggiunto anche il giovane italiano Gabriele Marchesi, 23 anni, arrestato nel novembre scorso. Tuttavia, la giustizia italiana ha negato l’estradizione, riconoscendo il rischio di trattamenti disumani e degradanti, equiparabili alla tortura, nelle carceri ungheresi. Ora è il turno di Abazaj, contro il quale pende un mandato di arresto europeo emesso il 30 ottobre 2023. Abazaj, soprannominato “Gino”, è arrivato in Italia all’età di tre anni, dove ha vissuto per oltre vent’anni. Tuttavia, non ha mai ottenuto la cittadinanza italiana a causa di segnalazioni legate al suo attivismo politico. Sin da giovane, si è impegnato nelle lotte per il diritto alla casa, nei movimenti studenteschi e nell’antifascismo. Le sue attività politiche gli hanno attirato l’attenzione della polizia, che gli ha negato l’accesso alla cittadinanza. Per questo motivo, Abazaj si è trasferito in Finlandia e successivamente a Parigi, dove è diventato attivo nella polisportiva popolare antifascista Menilmontant FC, impegnata a garantire il diritto allo sport e a combattere ogni forma di discriminazione.
La prima udienza tenutasi in Francia è servita a formalizzare la posizione di Abazaj sulla richiesta di estradizione. Dichiarandosi contrario, le autorità francesi hanno richiesto all’Ungheria di fornire ulteriori dettagli sui capi d’accusa, che al momento restano ignoti. Gli avvocati francesi di Abazaj, Youri Krassoulia e Laurent Pasquet-Marinacce, hanno sollevato dubbi non solo sulle condizioni di detenzione nelle carceri ungheresi, ma anche sulla sproporzione delle pene previste rispetto ai reati contestati. Secondo loro, l’estradizione esporrebbe l’attivista al rischio di gravi violazioni dei diritti umani e a un processo ingiusto. All’udienza erano presenti i genitori di Abazaj, arrivati dall’Italia per sostenere il figlio, e due deputati de La France Insoumise solidali con l’attivista. In un comunicato pubblicato martedì scorso, il gruppo parlamentare del movimento guidato da Jean-Luc Melanchon ha dichiarato: «Nell’Ungheria di Orbán, non ci sono le condizioni per garantire a Gino un processo equo. Chiediamo che la Francia respinga la richiesta di estradizione, in conformità con l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». La prossima udienza, dedicata alla discussione del caso, è fissata per il 18 dicembre. Fino ad allora, Abazaj resterà probabilmente detenuto nella prigione di Fresnes, in attesa di ulteriori sviluppi.
La nave turistica “Sea Story” è naufragata oggi nei pressi delle coste di Marsa Alam, sul Mar Rosso, in Egitto. Fino ad ora sono state soccorse 28 persone, mentre proseguono le operazioni di ricerca per trovare 17 dispersi. Lo ha riferito il Governatorato del Mar Rosso in Egitto, non fornendo dettagli sulle nazionalità di naufraghi e dispersi. Al momento, non risulta che a bordo fossero presenti cittadini italiani. Le ricerche stanno proseguendo in queste ore con il coinvolgimento della Marina e le Forze armate.
Musica e canti, balli, alcool e preghiere. Una festa religiosa condita di attacchi e incursioni contro la comunità palestinese che già vive segregata dal 1997 nella stessa città, al-Khalil per il mondo arabo, Hebron per quello ebraico. Sono decine di migliaia i coloni israeliani e i sionisti provenienti dall’estero che venerdì 22 e sabato 23 novembre si sono radunati nella città contesa per festeggiare il Shabbat Chayei Sarah, “la giornata di Sara”. Una festa che ricorda la moglie di Abramo sepolta nella famosa Cava dei patriarchi, che da anni si trasforma in una sorta di pogrom contro i palestinesi che abitano quei quartieri e non solo. Anche quest’anno non sono mancati attacchi a case, macchine e negozi palestinesi, tentativi di incendio e marce massive, anche se in misura leggermente inferiore al solito.
I devoti hanno iniziato ad arrivare in città già a partire da giovedì 21 novembre: pullman provenienti dalle colonie di tutta la Cisgiordania e da Israele hanno portato migliaia di giovani, famiglie, coloni e militari a campeggiare in tende intorno alla Moschea Ibrahimi e Al-Shuhada Street. Proprio qui è iniziata la festa, tra il sacro monumento storico costruito sopra la caverna che contiene i sepolcri di Abramo, sua moglie Sara, e i figli Isacco e Giacobbe, e la strada che ormai da 27 anni è quasi inaccessibile ai palestinesi, chiusa dai militari dopo il cosiddetto Protocollo di Hebron nel 1997 e l’inizio dell’apartheid geografico di al-Khalil. Hebron è infatti una città divisa, una Palestina in miniatura: tornelli metallici, muri e ben 28 check-points separano la zona H1, controllata dagli israeliani, dalla H2, in mano all’Autorità Palestinese. Almeno 20 mila palestinesi vivono nella zona controllata dallo Stato ebraico, che oltre ad aver diviso famiglie e comunità costringe migliaia di persone a dover attraversare quotidianamente lunghi controlli di sicurezza e a subire maltrattamenti, abusi e chiusure arbitrarie di interi quartieri. Secondo la mappa di OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) del settembre 2023, in tutto i blocchi interni alla città sono 80, ma dal 7 ottobre sono aumentati fino a diventare 113 nella città vecchia e 180 in tutta Hebron. La festività dello Shabbat Chayei Sarah è una di quelle giornate che peggiorano la condizione di vita già dura per i palestinesi che vivono ad al-Khalil: l’intera area è stata blindata ai palestinesi e i check-points completamente chiusi, in modo da impedire il passaggio da una parte all’altra della città.
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Itamar Ben-Gvir, leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit e Ministro della sicurezza nazionale
Hebron è una città divisa, una Palestina in miniatura: tornelli metallici, muri e ben 28 check-points separano la zona H1 che controllata dagli israeliani dalla H2, che è invece in mano all’Autorità Palestinese
Il venerdì sera, gruppi di devoti hanno effettuato marce notturne nel quartiere di Jaber e nelle aree abitate dai palestinesi vicino alla colonia di Kiryat Arba, cantando slogan e insulti contro arabi e palestinesi. Presente anche il ministro della Sicurezza Nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, che nel pomeriggio era a festeggiare lo Shabbat Chayei Sarah circondato da fedeli e la sera guidava un gruppo di coloni intonando slogan anti-arabi. Ben Gvir è uno dei circa ottomila abitanti dell’enorme colonia illegale di Kiryat ed è noto per le sue posizioni estremiste e violente. Da questa colonia proveniva anche Baruch Kopel Goldstein, il terrorista israelo-americano che nel 1994 aprì il fuoco contro centinaia di mussulmani che pregavano nella Moschea Ibrahim, uccidendo 29 persone e ferendone 125. Ben Gvir era anche famoso per tenere l’immagine del terrorista nel suo salotto.
Sabato, alcuni gruppi di giovani si sono radunati in uno degli outpost principali interni alla città, l’insediamento di di Beit Romano. Riuniti al di là del cancello che chiude al-Shuhada, una delle strade che erano il cuore dei negozi di al-Khalil ma che sono ad oggi chiuse all’accesso palestinese, hanno iniziato a lanciare sassi e gridare insulti e slogan contro gli arabi. Spesso, negli anni passati, i militari permettevano e facilitavano una marcia che invadeva la città vecchia, obbligando i mercatari arabi a chiudere le bancarelle e a barricarsi in casa per paura delle violenze dei coloni. Quest’anno la marcia non si è tenuta, probabilmente a causa della situazione politica attuale.
«Per fortuna quest’anno ci sono state poche violenze» racconta a L’Indipendente B., membro di un’associazione per i diritti umani locale. «Ma la vita ad al-Khalil sta diventando sempre più difficile. Viviamo in apartheid, e dal 7 ottobre le cose sono ancora peggiorate. Aprono e chiudono la città come vogliono: dopo l’inizio del conflitto per dieci giorni consecutivi siamo stati costretti in casa con un’ora al giorno in cui potevamo uscire». Un vero e proprio apartheid interno all’apartheid a cui sono già costretti i palestinesi in Cisgiordania. «Da casa mia, nel quartiere di Jaber [zona H2, ndr], io impiegherei cinque minuti ad andare a piedi alla moschea. Ora non ci vado più, dovrei attraversare 8 posti di blocco, tra chiusure stradali e check-points. Il loro obbiettivo è stancarci, per farci andare via da questi quartieri». B. parla di «voiceless displacement», di rimozione silenziosa dei palestinesi a causa dei continui abusi, delle violenze, e delle difficoltà economiche che i palestinesi sono costretti a subire. «Dal 2000, dall’inizio dei muri e dei check-points, più di 580 negozi sono stati chiusi per ordinanze militari, e oltre 1800 negozi hanno subito enormi ripercussioni economiche o hanno chiuso per la limitata mobilità delle persone in città». Oltre alle sofferenze legate alle molestie e alle infinite attese dei check-points, i raids, gli arresti, le detenzioni arbitrarie. «Anche io ho fatto la prigione, come quasi tutti in Palestina». È il modo di agire dell’ideologia sionista, continua B. «Fanno le cose con gradualità, cercano di cambiare la demografia dei quartieri. Fanno in modo che le persone se ne vadano in maniera silenziosa perché le costringono a una non-vita. E poi si prendono tutto».
Sono circa 700 i coloni che abitano nella città vecchia, protetti da 2300 soldati. «Per ogni colono ci sono 3 soldati: questo dà l’idea della situazione», dice B., parlando di una città completamente militarizzata. E ormai i coloni hanno indossato una divisa e sono diventati anche loro militari, con un conseguente aumento delle violenze verso i palestinesi. «Al-Khalil è l’unica città in Cisgiordania dove gli insediamenti sono anche interni alla città». E cercano di ingrandirsi i continuazione.
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