Negli ultimi vent’anni le televisioni, la radio, i giornali non hanno fatto altro che parlare di resilienza. Tra i tanti vocaboli che hanno infestato i quotidiani e le trasmissioni televisive, resilienza occupa un posto d’onore. Tutti la usano: giornalisti, psicologi, economisti, politici. Addirittura compare all’interno del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza appunto. Per capire perché sia nata la moda dilagante di usare questa parola, è necessario rileggersi Steinbeck.
Furore di John Steinbeck è uno di quei romanzi che dovrebbero far parte della biblioteca ideale di ogni lettore, ma i suoi sfollati, i suoi desiderati, i suoi uomini alla disperata ricerca di un lavoro o perlomeno del miraggio di un lavoro non erano così interessanti negli anni Sessanta, all’epoca del grande boom economico. Non avevano molto in comune neanche con gli anni Ottanta; difficilmente il grido di Steinbeck contro la voracità delle banche e il liberalismo selvaggio avrebbe fatto breccia nelle orecchie degli yuppies.
La storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la propria terra per cercare lavoro altrove parla direttamente all’Europa degli anni Duemila, a quell’Europa fiaccata dalla crisi del 2008 prima e dalla pandemia poi. Non abbiamo assistito a un esodo di massa né abbiamo visto le autostrade invase da convogli di sfollati, ma siamo stati testimoni del grido d’impotenza delle imprese che chiudono, dei prezzi che aumentano, delle tasse che si moltiplicano.
Se I miserabili è il poema di Parigi e dei suoi bassifondi, e Guerra e pace il poema della Russia e dei suoi salotti, Furore è il poema della Grande Depressione e dei suoi diseredati. Furore è il poema di quel mezzo milione di contadini che abbandonarono le loro case e le pianure inaridite del Midwest e s’incamminarono lungo la Route 66 in un esodo di massa verso la California. È il poema della crisi, «di chi scappa dalla polvere e dal rattrappirsi della proprietà, di chi fugge dai turbinosi venti che arrivano ululando dal Texas e dalle inondazioni che non portano ricchezza alla terra ma la depredano di ogni ricchezza residua».
Quando la famiglia Joad approda finalmente in California, la terra promessa si rivela in realtà una sorta di deserto dei diritti e delle garanzie. La legge della domanda e dell’offerta regola con precisione matematica il mercato agricolo: se qualcuno rifiuta un salario così basso, ci sarà qualcun altro che lo accetterà. Quando calerà ancora, qualcun altro avrà così fame da accettarlo. L’agricoltura è diventata a tutti gli effetti un’industria, e i proprietari emulano l’antica Roma. Importano schiavi, anche se non li chiamano schiavi. Il libero mercato infatti ha trasformato i cittadini, fiaccati dalla fame, in inconsapevoli crumiri di un caporalato economico.
«Metti che tu hai lavoro per un operaio, e che per avere quel posto si presenta solo uno. Ti tocca dargli la paga che vuole. Ma metti che si presentano in cento. Metti che quei cento hanno dei bambini, e che quei bambini sono affamati. Tu offrigli cinque centesimi, e vedi se non s’ammazzano tra loro per avere i tuoi cinque centesimi».
Se Steinbeck fosse vissuto nei nostri anni, non avrebbe esitato a mettere la parola resilienza in bocca ai ricchi magnati dell’industria agroalimentare. La diffusione di questo vocabolo in Italia è coincisa con lo scoppio della crisi economica del 2008 ed è nuovamente tornato in auge durante gli anni della pandemia. L’uso, la diffusione e la ciclica predominanza di determinate parole non sono mai casuali. Le parole non sono soltanto un insieme di lettere, di segni grafici e di suoni, ma racchiudono idee, filosofie e visioni; definiscono orizzonti politici e culturali. Cosa contiene, cosa racchiude allora la parola resilienza? Una rappresentazione neanche poi tanto simbolica dei rapporti che intercorrono tra stato e cittadino, tra azienda e lavoratore. Ma per capire appieno la portata di questa parola, occorre ripercorrerne la storia.
Resilienza è una parola presa in prestito dal mondo della fisica. Ha resilienza un «materiale capace di assorbire continui urti senza rompersi. Restando intatto, inerte». La plastica è resiliente. La gomma è resiliente, non importa quanto la colpisci, resta sempre uguale. Il vinile è resiliente, un materiale che viene usato per le pavimentazioni. Flessibilità, adattabilità, resilienza, tutti aggettivi che vanno di moda nel mondo del lavoro, sono presi in prestito dallo stesso mondo: quello delle pavimentazioni.
In una società in cui i lavoratori sono chiamati «risorse umane», in cui le vittime delle guerre prendono il nome di «danni collaterali e costi umani», come nei bilanci aziendali, in cui si appellano i migranti con il nome di «carico residuale», gli esseri umani devono vantare qualità e caratteristiche proprie del mondo inorganico, devono essere resilienti.
Nel romanzo di Steinbeck la protesta dei contadini è soffocata nel sangue; oggi invece la repressione del dissenso non è visibile. È manifesta ma pervasiva e nascosta; indossa i guanti di velluto, passa attraverso la manipolazione linguistica. La resilienza non è soltanto una parola ma è una filosofia iscritta all’interno di una narrazione che ha mitizzato lo sfruttamento esaltando il precariato e l’apprendistato infinito. Fanno parte di questa narrazione storie come quella della bidella pendolare che trascorre otto ore al giorno in treno o del rider felice di percorrere cinquanta chilometri in bicicletta per consegnare un panino. La filosofia della resilienza disciplina il malcontento, stempera la rivolta, seda la ribellione, oscura, marginalizza e stronca qualsiasi critica al sistema, mentre esalta, promuove e incoraggia una placida, arrendevole acquiescenza, incoraggiando ad oltranza l’adattamento dell’individuo.
Il contrario della resilienza la troviamo nel finale di Furore. La violenza con cui i cartelli dei coltivatori piegano e stroncano ogni resistenza, alla fine fa maturare in Tom, il maggiore dei Joad, il seme della rivolta, della ribellione, della lotta. La rassegnazione cede il posto al furore. «Io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto… sarò negli urli di quelli che si ribellano», con queste parole Tom Joad prende congedo da noi lettori. Furore in questo senso non è soltanto un titolo simbolico, allusivo, una parola dalla forte carica eversiva, esprime anch’essa come parola una filosofia, una critica potente, un orgoglio che si desta, una voglia di rivendicazioni. La rabbia diventa quindi la conditio sine qua non del cambiamento, un bel passo in avanti rispetto alla mollezza, alla docilità, all’inerzia racchiusa all’interno della filosofia della resilienza.
[di Guendalina Middei, in arte ”Professor X”]