domenica 24 Novembre 2024
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Tumori fra giovani sportivi, 7 arresti per traffico di anabolizzanti

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I carabinieri del Nas di Trento hanno eseguito 7 ordinanze di custodia cautelare tra le città di Roma (2 in carcere e 1 domiciliari), Milano (3 in carcere) e Bolzano (1 in carcere) per un vasto traffico di anabolizzanti che venivano spediti in tutta Italia. Risultano coinvolti sette cittadini italiani, tra i quali è presente anche una donna. L’inchiesta ha avuto origine a Bolzano in seguito a una serie di segnalazioni sull’insorgenza di particolari tumori – collegati all’utilizzo di sostanze anabolizzanti – in giovani sportivi. A Milano è stato scoperto un deposito con oltre duemila confezioni di anabolizzanti per un valore di 100mila euro.

 

 

In Kenya vince la rivolta popolare: il presidente Ruto ritira la legge finanziaria

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Il Presidente keniota, William Ruto, ha annunciato di aver ritirato la proposta di legge finanziaria che avrebbe imposto notevoli aumenti delle tasse e che ha scatenato violente proteste in tutto il Paese. Negli scorsi giorni, i manifestanti hanno infatti preso d’assalto il Parlamento, a Nairobi, e lanciato manifestazioni in tutto il Kenya, annunciando ulteriori azioni per questa settimana. Sono almeno 23 i manifestanti morti nel corso degli scontri con la polizia, mentre sono decine i feriti. La mossa di Ruto è vista come una vittoria rilevante per un movimento di protesta guidato dai giovani e cresciuto online, il quale è stato in grado di dar vita a raduni di massa per chiedere una revisione delle politiche del Paese. Si tratta di una delle crisi più gravi della storia recente del Kenya e della presidenza di Ruto. Alcune frange di manifestanti hanno annunciato sui social media che, nonostante il passo indietro del Presidente, avrebbero continuato con le proteste anche nella giornata di oggi, per chiedere le complete dimissioni del Presidente.

L’annuncio del ritiro della nuova finanziaria di adeguamento alle richieste del Fondo Monetario Internazionale è stato rilasciato ieri in una nota stampa del Presidente. Nel comunicato, Ruto promette di organizzare – entro i prossimi 14 giorni – un incontro “multisettoriale e multilaterale” per ridiscutere il disegno di legge e la “necessità di misure di austerità“. A proposito di tagli alle spese pubbliche, nella nota di Ruto si legge anche che il Presidente ha “ordinato l’adozione” di ulteriori decurtazioni che coinvolgono l’ufficio presidenziale fino a toccare “l’intero esecutivo“. Malgrado le promesse, alcuni dei dimostranti hanno già annunciato la volontà di procedere con la lotta, fino a che il Presidente non rassegnerà le proprie dimissioni. Non sono infatti pochi gli attivisti che reputano che con la mossa di ieri Ruto stia solo provando a prendere tempo, e che in verità egli abbia ancora intenzione di firmare la legge. A tal proposito, sui social è uscito il nuovo hashatg “RutoMustGo“, ed è stata lanciata la proposta di occupare la residenza presidenziale a Nairobi.

Il moto di protesta dei giovani kenioti va avanti ormai da giorni, ed è scoppiato dopo che il Presidente Ruto ha redatto, su pressione del FMI, la cosiddetta Finance Bill, il disegno di legge sulle finanze pubbliche che prevede l’introduzione di nuove tasse e l’aumento della spesa pubblica nel Paese per una cifra complessiva di 2,7 miliardi di dollari. Il disegno di legge è passato in terza lettura e prima dell’annuncio di ieri, era in attesa della sola firma del Presidente, motivo per cui martedì 25 giugno, al culmine delle proteste, i manifestanti sono arrivati ad assaltare il parlamento di Nairobi.

[di Dario Lucisano]

Le importazioni di gas dal Congo non stanno andando come ENI aveva promesso

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Il tempo è galantuomo, ripeteva Voltaire. Dopo due anni è possibile tracciare un quadro di un fallimento già annunciato, nonostante la retorica impiegata ai tempi dal “governo dei migliori” e rilanciata a più riprese dalla compagine meloniana attraverso il fumoso Piano Mattei per l’Africa. Le cifre teorizzate nel 2022 nell’accordo che ha legato l’Italia al Congo per l’importazione di gas non hanno infatti retto la sfida con la realtà. A fronte di un miliardo di metri cubi previsti da ENI per l’inverno passato, lo Stato africano ha esportato verso Roma solo 150 milioni di metri cubi di gas naturale liquefatto (GNL), come riporta la piattaforma Kpler. Il colosso italiano dell’energia ha registrato ritardi nella fabbricazione degli impianti necessari, oltre ad avere un non trascurabile problema con il flaring, dunque la pratica che vede le compagnie energetiche lasciar bruciare il gas naturale al posto di catturarlo poiché si rivelerebbe troppo “oneroso”. Insomma, l’ennesimo strumento in mano ai ricchi che massimizza il profitto a spese dell’ambiente e della salute.

Tra i circa cento produttori di gas naturale figura anche la Repubblica del Congo, che sconta però l’assenza di un sistema efficiente per l’estrazione e l’esplorazione. Qui si inserisce l’ENI, che ha realizzato il progetto Congo LNG con grosse ambizioni, fino ad ora disattese. Al momento si registrano infatti soltanto due carichi via nave diretti verso l’Italia, di cui uno incompleto che dovrà essere integrato con del GNL targato USA. La prima fase del progetto si è dunque conclusa lontano dagli obiettivi prefissati; ENI non demorde e punta sulla seconda fase, che prevede la costruzione di un’ulteriore nave FLNG, in grado cioè di liquefare a bordo il gas naturale, con una capacità operativa circa sei volte superiore a quella della nave attualmente utilizzata. Anche qui però si registrano dei ritardi rispetto alla tabella di marcia. Come riporta Greenpeace, la costruzione della nave è stata affidata alla Cina, nello specifico alla società Wilson che, attraverso alcuni documenti, ha reso noto che la fabbricazione potrebbe protrarsi fino a giugno del 2026. Una bella batosta per la retorica dell’ENI e del governo (prima Draghi oggi Meloni), che puntavano ad avere dal Congo un import annuale di GNL pari a 4,5 miliardi di metri cubi a partire dal prossimo inverno.

Poco più di due anni fa si concludeva in Congo «una missione molto importante per il governo italiano» – per usare le parole dell’allora ministro degli Esteri Luigi di Maio. Un passo che avrebbe dovuto contribuire alla fine della dipendenza dal gas russo entro 18 mesi, almeno secondo le previsioni di Roberto Cingolani, che accompagnò Di Maio in Africa in qualità di ministro della Transizione ecologica. Obiettivo ancora oggi, a distanza di oltre due anni, mancato. Allo stesso modo non è stato rispettato l’intento della diversificazione degli approvvigionamenti, con l’Algeria che nei numeri ha praticamente rimpiazzato la Russia pre-guerra (coprendo circa il 41% dei consumi italiani), complice anche il flop in Congo. Due Paesi su cui l’Italia ha deciso di virare dopo le sanzioni economiche a Mosca, in un paradosso tutto tricolore: punire uno Stato autoritario per arricchirne altri.

Protagonista di repressioni violente del dissenso, accompagnate da arresti arbitrari e diritti limitati, l’Algeria è da tempo sotto i riflettori delle principali organizzazioni non governative dei diritti umani, tra cui Amnesty International che per lo scorso anno ha denunciato un peggioramento dello stato della democrazia nel Paese. La Repubblica del Congo si basa su una struttura autoritaria, con a capo il generale Denis Sassou Nguesso dal 1979, escludendo il periodo tra il 1992 e il 1997. Nguesso ha spinto su un certo culto della personalità, reprimendo libertà e diritti. Il Paese è al centro di diverse denunce da parte delle ong, che hanno documentato una serie di violazioni dei diritti umani commessi dalle forze di sicurezza congolesi da aprile a settembre del 2021. Durante questo periodo, almeno 179.000 cittadini della confinante Repubblica Democratica del Congo, tra cui molti rifugiati e richiedenti asilo, sono stati “rastrellati, arrestati arbitrariamente e costretti a lasciare la Repubblica del Congo”.

[di Salvatore Toscano]

Bolivia, sventato un tentativo di colpo di Stato

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È stato sventato il tentativo di colpo di Stato in Bolivia durato circa tre ore, e portato avanti dal generale dell’esercito Juan José Zuniga, che è stato arrestato. Il golpe è iniziato attorno alle 16.00 locali, quando il generale Zuniga, alla guida di un contingente di militari, ha circondato il palazzo della presidenza situato in Piazza Murillo, a La Paz, e fatto irruzione nello stesso edificio. Dopo l’occupazione del palazzo, c’è stato un confronto tra lo stesso Zuniga e il Presidente boliviano Arci, che ha nominato tre nuovi capi responsabili delle forze armate e ordinato che venisse liberata la piazza, rilasciando un mandato di arresto per Zuniga.

Il piano di Trump per la fine della guerra in Ucraina

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Due stretti consiglieri militari dell’ex presidente statunitense Donald Trump hanno pubblicato un piano per porre fine alla guerra in Ucraina in caso di vittoria del candidato repubblicano alle prossime elezioni presidenziali. Il piano è stato stilato da Keith Kellogg e Fred Fleitz, entrambi capi di stato maggiore del Consiglio di sicurezza nazionale di Trump durante la sua presidenza nel periodo 2017-2021 ed è stato pubblicato sul sito dell’America First Policy Institute, un think tank pro-Trump in cui Kellogg e Fleitz ricoprono posizioni di spicco. Obiettivo fondamentale del programma dei due consiglieri dell’ex presidente è porre fine al più presto alle ostilità tra Russia e Ucraina, portando le due nazioni in guerra al tavolo delle trattative. Il fine dei negoziati dovrebbe essere quello di raggiungere un cessate il fuoco sulla base delle linee di battaglia prevalenti durante i colloqui di pace. Secondo il documento redatto dai militari, Mosca verrebbe persuasa a sedersi al tavolo delle trattative anche grazie alla promessa di una sospensione a lungo termine dell’adesione dell’Ucraina alla NATO. Qualora l’Ucraina decidesse di sottrarsi ai negoziati, il piano prevedrebbe di interrompere completamente il sostegno a Kiev, mentre – viceversa – se Mosca dovesse rifiutare i colloqui, Washington aumenterebbe gli aiuti al Paese est europeo.

In occasione della pubblicazione del documento, il portavoce presidenziale del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato che «Il presidente Putin ha ripetutamente affermato che la Russia è stata e rimane aperta ai negoziati, tenendo conto della reale situazione sul terreno». Da parte sua, invece, l’Ucraina non ha apprezzato il “piano Trump”, in quanto il consigliere presidenziale ucraino, Mykhailo Podolyak, ha dichiarato ieri che il congelamento delle ostilità lungo le linee del fronte sarebbe «strano», dato che «la pace può basarsi solo sul diritto internazionale» ha detto all’agenzia di stampa Reuters. Congelare il conflitto lungo la linea del fronte, infatti, per l’Ucraina significherebbe rinunciare ai territori che hanno aderito alla Federazione russa il 30 settembre 2022, vale a dire gli oblast’ di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kerson, oltre alla penisola di Crimea. Secondo il piano stilato dai consiglieri di Trump, Kiev non dovrebbe cedere formalmente i territori alla Russia, ma sarebbe quasi impossibile che possa riconquistarli secondo Fleitz. «La nostra preoccupazione è che questa sia diventata una guerra di logoramento che ucciderà un’intera generazione di giovani», ha affermato lo stesso.

Il portavoce di Trump, Steven Cheung, ha fatto sapere che «Il presidente Trump ha ripetutamente affermato che una priorità assoluta nel suo secondo mandato sarà negoziare rapidamente la fine della guerra russo-ucraina» e, in base a quanto riferito da Fleitz, il tycoon si sarebbe espresso favorevolmente rispetto al piano. Quest’ultimo è il documento più dettagliato elaborato dai consiglieri di Trump e segnerebbe un cambiamento radicale nella posizione degli Stati Uniti sul conflitto in Ucraina. Per questo motivo, si prevede che lo stesso dovrà affrontare l’opposizione degli Stati europei e di una parte dello stesso partito Repubblicano.

[di Giorgia Audiello]

La liberazione di Assange nei miserabili editoriali dei media italiani

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Qual è stata la reazione dei media alla liberazione di Assange, ufficializzata oggi dal tribunale di Saipan? Come era già capitato, a livello internazionale, possiamo notare una polarizzazione nelle reazioni di quegli stessi “colleghi”, che in passato avevano coccolato e aiutato il fondatore di WikiLeaks nell’analisi delle fonti e nella pubblicazione delle inchieste, per poi scaricarlo una volta diventato “scomodo”. Come avevamo già analizzato in un precedente articolo, i media mainstream occidentali hanno sofferto a lungo nel dare voce alla causa di Assange, tra chi lo ha dimenticato o relegato in un cantuccio e chi lo ha invece demonizzato, accusandolo di essere “semplicemente” un hacker, se non addirittura una spia al soldo del Cremlino. Anche oggi sembra che a soffrire di più per la liberazione di Assange sia proprio una frangia nutrita (in tutti i sensi) di giornalisti, che si contorce le budella nel vedere l’affetto e la vicinanza del popolo alle sorti dell’attivista australiano, diventato per molti un’icona del giornalismo d’inchiesta

Quasi ci fosse uno scettro da contendersi e non la ricerca indefessa della verità, anche nel nostro Paese diverse testate, che trasudavano fino a qualche mese fa una forma di apparente compiacimento per la persecuzione dell’attivista e giornalista australiano, oggi paiono deluse al pari di cani bastonati e riversano bile sulla carta stampata e sui social. In cima al podio troviamo (ancora una volta) Il Foglio, con gli articoli a firma di Giuliano Ferrara e Luciano Capone. Se quest’ultimo firma un inutile pezzo in cui accusa Amnesty International di aver guidato una campagna incessante a sostegno di Assange e di non aver scritto nulla su Gershkovich e Kara-Murza, il primo, araldo del padrone a stelle e strisce, ci ricorda che «Assange di suo è un po’ spia, tratta notizie anche riservate». Parola di chi da ex informatore a libro paga della CIA (come confermò lui stesso), l’argomento evidentemente lo mastica bene e proietta la sua esperienza sugli altri. Ferrara inserisce Assange nel girone dei giornalisti rei di aver commesso «reati contro la sicurezza che devastano il segreto di Stato in maniera rischiosa e senza filtri diversi dal personale narcisismo». Continua regalando ai lettori una lezione di deontologia, derubricando l’esperienza di WikiLeaks a «paccottiglia», spacciata per giornalismo di denuncia. E conclude invitando a non erigere «un monumento ai ficcanaso che odiano il nostro modo di vivere». Peccato che siano proprio i media mainstream a creare in continuazione inutili eroi di cartapesta che non reggono al tempo e alle intemperie.

A condividere il podio con Il Foglio e le sue accuse ad Amnesty troviamo una raffica scatenata di tweet su X a firma di Marta Ottaviani, che, dopo aver specificato che Assange «non è mai stato un giornalista», accusa gli «anti americani d’accatto» di aver provato a «martirizzare un furbetto che del martire non ha nulla». Già, perché per Ottaviani (con lei «la disinformazione ha le ore contate»), Assange sarebbe un agente disinformatore, una «pedina di Mosca» che ha cercato di «sovvertire la democrazia» e un «utile idiota travestito da martire dell’informazione», immancabilmente al soldo del Cremlino. E non mancano gli attacchi ai colleghi ebeti che lo hanno difeso e al padre di Assange, accusato di essere filorusso. Se Zagrebelsky su La Stampa firma un appassionato ritratto di Assange e spiega che la sua persecuzione «ha voluto colpirne uno per impaurirne cento, perché ciò che egli ha fatto non abbia più a ripetersi», Semprini sulle colonne dello stesso quotidiano ci ricorda che, con Collateral Murder, il fondatore di WikiLeaks ha scoperchiato i crimini di guerra degli USA in Iraq, ma poi è finito per favorire Trump e gli autocrati. Insomma, il ragazzo era partito bene, ma poi è diventato nientemeno che un «cecchino digitale di Vladimir Putin»

Per Repubblica, che sposa la politica cerchiobottista, Assange rimane «controverso». Eroe? Criminale? Martire della libertà? Giornalista? Agente al soldo altrui? Assange ha attratto negli anni le etichette più varie. Sempre Repubblica, in un’intervista a Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci tiene a sottolineare come le rivelazioni di Assange siano state “irresponsabili”, come a sottolineare che la persecuzione giudiziaria se la sia cercata. E qua torna il pluridecennale adagio rinsaldato da Mastrolilli nella colonna a fianco: «Le motivazioni della determinazione con cui Washington aveva perseguito Assange stavano nel fatto che le sue azioni avevano messo a rischio la vita di soldati e altro personale americano». I fatti, però, sconfessano questa diceria. Seppure più equilibrato di altri colleghi, Mastrolilli non può fare a meno di evocare anche le maldicenze per cui Assange sarebbe stato un agente disinformatore al soldo del Cremlino: «[…] aveva pubblicato i file ricevuti da Mosca nel nome della libertà di informazione, protetta negli USA dal Primo emendamento della Costituzione, oppure come agente del Cremlino impegnato a creare il caos negli Stati Uniti?». Tornando a Emmott, questi assicura che negli USA «Assange sarebbe stato giudicato mantenendo tutti i suoi diritti». Peccato che la CIA avesse sviluppato piani per silenziare Assange, compresi agguati a Londra, per catturarlo e portarlo furtivamente negli Stati Uniti attraverso un Paese terzo, e l’omicidio. Lo conferma non un sito di complottisti, ma Wired, che nel 2021 parlava apertamente di «sete di vendetta» degli USA. E tutto ciò suonava poco rassicurante in vista di una sua possibile estradizione.

Anche Flippo Facci su il Giornale  esalta il sistema giudiziario statunitense, per cui gli Stati Uniti «restano una democrazia di riferimento», e ricorda che la liberazione di Assange è potuta avvenire «solo nel suo, nel nostro Occidente». Il sottotraccia continuo in questo genere di articoli è il confronto con la Russia di Putin. Alle tifoserie pro-USA non sfiora il pensiero che la decisione del patteggiamento, che era nell’aria da mesi, sia stata una mossa meramente pragmatica e sia avvenuta nel pieno della campagna elettorale a causa delle critiche condizioni psicofisiche di Assange e del pressing dei Dem (e di Canberra) su Biden, in pieno calo di consensi e in piena emorragia nei sondaggi. Pochi colleghi hanno focalizzato l’attenzione su un punto: il patteggiamento crea un precedente inquietante, un’ombra che si allunga sul giornalismo d’inchiesta. Proprio la moglie di Assange, Stella Morris, ha annunciato che il marito chiederà la grazia agli Stati Uniti sul patteggiamento, perché «altrimenti sarebbe un precedente inquietante per la libertà di espressione». E questo, al di là delle tifoserie, è il punto cruciale e il fardello che tutti noi ereditiamo dalla persecuzione giudiziaria di Assange: la sua liberazione non è dovuta a un compassionevole principio di giustizia. La vessazioni che ha subìto valgono come un monito per tutti coloro che vogliano seguire il suo esempio. D’ora in avanti, un giornalista d’inchiesta che si trovasse tra le mani del materiale scottante sa che rischierebbe di fare la fine di Assange. Perché non è necessario uccidere un uomo per spegnergli la voce.

[di Enrica Perucchietti]

In Italia a chi si ammala di cancro servono 1.800 euro l’anno per cure non garantite

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Sebbene negli ultimi anni si sia riscontrato un aumento della sopravvivenza al cancro, il più delle volte la qualità di vita dei pazienti oncologici non subisce miglioramenti, che vengono riscontrati solo in 4 sperimentazioni su 10 tra quelle in cui viene dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza. È quanto ha attestato la Società Europea di Oncologia Medica (Esmo), che all’interno di un nuovo report si è soffermata sulla tossicità finanziaria, una delle condizioni che influiscono di più sulla qualità di vita dei pazienti. Nel rapporto si sostiene che i problemi economici provochino una riduzione della sopravvivenza, con un rischio di morte aumentato del 20%. Secondo le ultime stime rese note dal presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) Francesco Perrone, che figura tra gli autori del rapporto, in Italia ogni paziente oncologico è mediamente costretto a spendere di tasca propria più di 1.800 euro all’anno per mezzi di trasporto, farmaci supplementari o integratori e visite specialistiche.

Il documento Esmo, risultato del lavoro di 19 esperti provenienti da 11 Paesi, è stato presentato venerdì scorso a Bologna, in occasione della XXI Conferenza Nazionale dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom). Il report, dal titolo “ESMO expert consensus statements on the screening and management of financial toxicity in patients with cancer“, ha certificato come la tossicità finanziaria rappresenti “un onere aggiuntivo per un paziente”, traducendosi in “danni psicosociali, economici e di altro tipo” che conducono “a esiti oncologici non ottimali lungo l’intero percorso di diagnosi, trattamento, cure di supporto, sopravvivenza e palliazione”. Nello specifico, i fattori intrinseci associati alla tossicità finanziaria includono “sesso femminile, fasce d’età estreme, minoranze etniche, reddito annuo (familiare) più basso, perdita di reddito durante il trattamento e copertura assicurativa sanitaria assente o inadeguata (nei Paesi in cui è rilevante)”. All’interno della ricerca si evidenzia che “il costo molto elevato dei nuovi farmaci antitumorali contribuisce alla tossicità finanziaria quando la copertura assicurativa è assente o parziale e quando è richiesto il pagamento di un ticket”. Nell’ambito dei sistemi sanitari a finanziamento pubblico, sovente ciò si verifica “quando i nuovi agenti costosi vengono prescritti per indicazioni off-label, che potrebbero non essere coperte se non in alcuni casi”.

II fatto che i costi vivi sostenuti dai malati di cancro anche nel servizio sanitario pubblico contribuiscano alla tossicità finanziaria correlata alla malattia è già stato attestato da precedenti report, alcuni dei quali incentrati sulla situazione italiana. L’ultimo, curato – tra gli altri – dallo stesso Francesco Perrone, risale al 2022 ed è inerente alle spese individuali a carico dei pazienti oncologici tra il 2017 e il 2018. La ricerca ha attestato come il valore medio della spesa sanitaria Out Of Pocket annua per ogni malato oncologico abbia raggiunto i 1.841,81 euro, con i valori più elevati per i trasporti (359,34 euro) e per gli esami diagnostici (259,82 euro). Spese significativamente più alte sono state riscontrate al Nord e al Centro rispetto alle aree del Sud e alle Isole (167,51 contro 138,39). “Si tratta di condizioni che possono causare problemi economici, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione”, ha dichiarato Perrone, secondo cui «la tossicità finanziaria dovrebbe essere inclusa tra gli indicatori monitorati nel Programma Nazionale Esiti», strumento di misurazione, analisi e monitoraggio che sviluppa nel Servizio Sanitario italiano la valutazione degli esiti degli interventi sanitari. Essa, conclude l’esperto, è infatti «conseguenza della qualità ed efficienza della presa in carico da parte del servizio sanitario nazionale».

[di Stefano Baudino]

Il falso mito della resilienza: istruzioni per l’uso

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Negli ultimi vent’anni le televisioni, la radio, i giornali non hanno fatto altro che parlare di resilienza. Tra i tanti vocaboli che hanno infestato i quotidiani e le trasmissioni televisive, resilienza occupa un posto d’onore. Tutti la usano: giornalisti, psicologi, economisti, politici. Addirittura compare all’interno del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza appunto. Per capire perché sia nata la moda dilagante di usare questa parola, è necessario rileggersi Steinbeck. 

Furore di John Steinbeck è uno di quei romanzi che dovrebbero far parte della biblioteca ideale di ogni lettore, ma i suoi sfollati, i suoi desiderati, i suoi uomini alla disperata ricerca di un lavoro o perlomeno del miraggio di un lavoro non erano così interessanti negli anni Sessanta, all’epoca del grande boom economico. Non avevano molto in comune neanche con gli anni Ottanta; difficilmente il grido di Steinbeck contro la voracità delle banche e il liberalismo selvaggio avrebbe fatto breccia nelle orecchie degli yuppies.

La storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la propria terra per cercare lavoro altrove parla direttamente all’Europa degli anni Duemila, a quell’Europa fiaccata dalla crisi del 2008 prima e dalla pandemia poi. Non abbiamo assistito a un esodo di massa né abbiamo visto le autostrade invase da convogli di sfollati, ma siamo stati testimoni del grido d’impotenza delle imprese che chiudono, dei prezzi che aumentano, delle tasse che si moltiplicano.

Se I miserabili è il poema di Parigi e dei suoi bassifondi, e Guerra e pace il poema della Russia e dei suoi salotti, Furore è il poema della Grande Depressione e dei suoi diseredati. Furore è il poema di quel mezzo milione di contadini che abbandonarono le loro case e le pianure inaridite del Midwest e s’incamminarono lungo la Route 66 in un esodo di massa verso la California. È il poema della crisi, «di chi scappa dalla polvere e dal rattrappirsi della proprietà, di chi fugge dai turbinosi venti che arrivano ululando dal Texas e dalle inondazioni che non portano ricchezza alla terra ma la depredano di ogni ricchezza residua». 

Quando la famiglia Joad approda finalmente in California, la terra promessa si rivela in realtà una sorta di deserto dei diritti e delle garanzie. La legge della domanda e dell’offerta regola con precisione matematica il mercato agricolo: se qualcuno rifiuta un salario così basso, ci sarà qualcun altro che lo accetterà. Quando calerà ancora, qualcun altro avrà così fame da accettarlo. L’agricoltura è diventata a tutti gli effetti un’industria, e i proprietari emulano l’antica Roma. Importano schiavi, anche se non li chiamano schiavi. Il libero mercato infatti ha trasformato i cittadini, fiaccati dalla fame, in inconsapevoli crumiri di un caporalato economico.

«Metti che tu hai lavoro per un operaio, e che per avere quel posto si presenta solo uno. Ti tocca dargli la paga che vuole. Ma metti che si presentano in cento. Metti che quei cento hanno dei bambini, e che quei bambini sono affamati. Tu offrigli cinque centesimi, e vedi se non s’ammazzano tra loro per avere i tuoi cinque centesimi».

Se Steinbeck fosse vissuto nei nostri anni, non avrebbe esitato a mettere la parola resilienza in bocca ai ricchi magnati dell’industria agroalimentare. La diffusione di questo vocabolo in Italia è coincisa con lo scoppio della crisi economica del 2008 ed è nuovamente tornato in auge durante gli anni della pandemia. L’uso, la diffusione e la ciclica predominanza di determinate parole non sono mai casuali. Le parole non sono soltanto un insieme di lettere, di segni grafici e di suoni, ma racchiudono idee, filosofie e visioni; definiscono orizzonti politici e culturali. Cosa contiene, cosa racchiude allora la parola resilienza? Una rappresentazione neanche poi tanto simbolica dei rapporti che intercorrono tra stato e cittadino, tra azienda e lavoratore. Ma per capire appieno la portata di questa parola, occorre ripercorrerne la storia.

Resilienza è una parola presa in prestito dal mondo della fisica. Ha resilienza un «materiale capace di assorbire continui urti senza rompersi. Restando intatto, inerte». La plastica è resiliente. La gomma è resiliente, non importa quanto la colpisci, resta sempre uguale. Il vinile è resiliente, un materiale che viene usato per le pavimentazioni. Flessibilità, adattabilità, resilienza, tutti aggettivi che vanno di moda nel mondo del lavoro, sono presi in prestito dallo stesso mondo: quello delle pavimentazioni. 

In una società in cui i lavoratori sono chiamati «risorse umane», in cui le vittime delle guerre prendono il nome di «danni collaterali e costi umani», come nei bilanci aziendali, in cui si appellano i migranti con il nome di «carico residuale», gli esseri umani devono vantare qualità e caratteristiche proprie del mondo inorganico, devono essere resilienti. 

Nel romanzo di Steinbeck la protesta dei contadini è soffocata nel sangue; oggi invece la repressione del dissenso non è visibile. È manifesta ma pervasiva e nascosta; indossa i guanti di velluto, passa attraverso la manipolazione linguistica. La resilienza non è soltanto una parola ma è una filosofia iscritta all’interno di una narrazione che ha mitizzato lo sfruttamento esaltando il precariato e l’apprendistato infinito. Fanno parte di questa narrazione storie come quella della bidella pendolare che trascorre otto ore al giorno in treno o del rider felice di percorrere cinquanta chilometri in bicicletta per consegnare un panino. La filosofia della resilienza disciplina il malcontento, stempera la rivolta, seda la ribellione, oscura, marginalizza e stronca qualsiasi critica al sistema, mentre esalta, promuove e incoraggia una placida, arrendevole acquiescenza, incoraggiando ad oltranza l’adattamento dell’individuo. 

Il contrario della resilienza la troviamo nel finale di Furore. La violenza con cui i cartelli dei coltivatori piegano e stroncano ogni resistenza, alla fine fa maturare in Tom, il maggiore dei Joad, il seme della rivolta, della ribellione, della lotta. La rassegnazione cede il posto al furore. «Io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto… sarò negli urli di quelli che si ribellano», con queste parole Tom Joad prende congedo da noi lettori. Furore in questo senso non è soltanto un titolo simbolico, allusivo, una parola dalla forte carica eversiva, esprime anch’essa come parola una filosofia, una critica potente, un orgoglio che si desta, una voglia di rivendicazioni. La rabbia diventa quindi la conditio sine qua non del cambiamento, un bel passo in avanti rispetto alla mollezza, alla docilità, all’inerzia racchiusa all’interno della filosofia della resilienza.

[di Guendalina Middei, in arte ”Professor X”]

L’Europa arma il Kenya per reprimere le proteste popolari

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È alta la tensione in Kenya, dove ieri manifestanti esasperati hanno assaltato il parlamento di Nairobi per protestare contro un disegno di legge che prevede un aumento delle tasse. In questo contesto, il Consiglio europeo ha adottato il 24 giugno la prima misura di assistenza a sostegno delle forze di difesa del Kenya del valore di 20 milioni di euro, nell’ambito dello Strumento europeo per la pace, armando di fatto lo Stato africano per reprimere le proteste. L’obiettivo dichiarato dal Consiglio è «proteggere l’integrità territoriale e la sovranità del paese e la sua popolazione civile da minacce interne ed esterne». Il tempismo con cui arriva l’iniziativa europea, tuttavia, coincide proprio con la necessità di sopprimere le rivolte in corso, anche considerato che i manifestanti hanno dichiarato l’intenzione di proseguire le contestazioni contro l’aumento delle tasse e che i principali Stati occidentali – tra cui Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania – hanno espresso preoccupazione per i recenti episodi di violenza. Lo strumento europeo finanzierà le attrezzature, le forniture e i servizi connessi, compresa la formazione tecnica, ove necessario, delle forze di difesa del Kenya. Saranno quindi forniti aeromobili senza equipaggio tattici, intercettori e disturbatori non letali, sistemi per neutralizzare gli ordigni esplosivi improvvisati, sistemi di guerra elettronica, veicoli militari tattici transnazionali e una postazione medica mobile, come si legge sul sito del Consiglio.

La Nazione, guidata dal presidente William Ruto è attualmente nell’orbita delle istituzioni finanziarie occidentali, tra cui il Fondo Monetario Internazionale (FMI) che sta esortando il governo a tagliare la spesa pubblica per ottenere maggiori finanziamenti. Il disegno di legge, passato in terza lettura e in attesa solo della firma del presidente, mira a raccogliere 2,7 miliardi di dollari in tasse come parte di uno sforzo per alleggerire il pesante carico del debito del Kenya, considerato che i soli interessi sullo stesso consumano il 37% delle entrate annuali. Anche il Kenya si trova, dunque, nella morsa del debito creato dalle istituzioni occidentali che impongono l’austerità e le politiche economiche neoliberiste del Washington Consensus in cambio di finanziamenti. Nairobi ha dovuto far fronte, negli ultimi anni, a diverse crisi causate dalla pandemia di Covid19, dalla guerra in Ucraina, dal deprezzamento della valuta e da due anni consecutivi di siccità.

L’approvazione del disegno di legge sull’aumento delle tasse rappresenta quindi il culmine di un malcontento generale e di una crisi economica che è sfociata in violenza: dopo l’assalto al Parlamento si sono, infatti, verificati scontri tra i manifestanti e la polizia. Quest’ultima ha sparato sulla folla che cercava di entrare nel Parlamento uccidendo almeno cinque persone, dopo che i gas lacrimogeni e gli idranti non sono riusciti a disperdere i dimostranti. Il ministro della Difesa Aden Duale ha fatto sapere successivamente che l’esercito è stato schierato per aiutare la polizia ad affrontare una «emergenza di sicurezza» che ha provocato «la distruzione e la violazione di infrastrutture critiche». Proprio il dispiegamento dell’esercito spiega lo stanziamento repentino di fondi da parte dell’Ue per sostenere le forze armate kenyote. In un discorso televisivo alla nazione, Ruto ha detto che il dibattito fiscale è stato «dirottato da persone pericolose»: nonostante il tentativo di addossare le responsabilità delle tensioni solo su un gruppo ristretto, seppure pericoloso, della nazione, la disapprovazione generale della popolazione è evidente. Le proteste si sono diffuse in tutto il Paese con la folla che incitava alle dimissioni di Ruto. Si assiste, dunque, ad una spaccatura netta tra la popolazione e il governo kenyota, quest’ultimo sostenuto dai Paesi occidentali e dall’UE nel tentativo di reprimere le proteste con la forza.

[di Giorgia Audiello]

NATO, Mark Rutte sarà il nuovo Segretario Generale

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Il Primo Ministro olandese Mark Rutte sarà il prossimo Segretario Generale della NATO. A dare l’annuncio è la stessa Alleanza Atlantica, che in un breve comunicato stampa riporta che Rutte rivestirà la carica a partire dal 1 ottobre 2024, succedendo dopo dieci anni all’attuale Segretario, il danese Jens Stoltenberg. Rutte è leader del Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia, di orientamento conservatore, ed è stato premier olandese per quattro mandati consecutivi, a partire dal 2010. A breve lascerà la carica di Primo Ministro per cederla al nuovo esecutivo a guida del Partito per la libertà di Geert Wilders, di destra nazionalista.