La Banca Centrale Europa (BCE) ha pubblicato ieri il primo rapporto sui progressi della fase preparatoria dell’euro digitale, lanciata lo scorso primo novembre, che si concentra soprattutto sui pagamenti offline con l’obiettivo di rendere la moneta digitale il più possibile simile ai contanti. L’euro digitale sarà la «valuta digitale della banca centrale» emessa dalla BCE che non sostituirà, ma affiancherà la cartamoneta e – a differenza delle criptovalute – sarà di proprietà della Banca centrale che ne dovrà garantire la sicurezza, la stabilità del valore e lo scambio al valore nominale con l’euro contante. Nel suo ultimo rapporto, l’istituto di Francoforte ha sottolineato l’importanza della privacy nelle future transazioni digitali: da qui l’idea di studiare una modalità di pagamento che garantisca la riservatezza al pagatore e al beneficiario della transizione attraverso un sistema offline che sia il più possibile simile a un pagamento in contanti. «Il progetto dell’euro digitale include una funzionalità offline che garantirebbe all’utente un livello di riservatezza simile al contante per i pagamenti nei negozi fisici e tra individui. Pagando offline i dettagli della transazione sarebbero conosciuti solo dal pagatore e dal beneficiario e non sarebbero condivisi con i fornitori di servizi di pagamento, l’Eurosistema o eventuali fornitori di servizi di supporto», si legge nel rapporto. La BCE, inoltre, sta studiando dei limiti di detenzione delle valute digitali per garantire la stabilità finanziaria e ha completato la prima bozza del regolamento che stabilisce le regole e le procedure per standardizzare i pagamenti digitali in euro in tutta l’eurozona.
Per quanto riguarda i pagamenti offline, l’Eurosistema sta sviluppando una funzionalità «che permetterebbe agli utenti dell’euro digitale di pagare senza una connessione internet, dopo aver caricato il proprio conto digitale in euro tramite Internet o un bancomat». I pagamenti potrebbero avvenire tramite dispositivi offline (come telefoni o carte di credito) appartenenti alle parti coinvolte nella transazione, senza dover fare affidamento a terzi. Come anticipato, la BCE sta lavorando anche per preservare la stabilità finanziaria e la trasmissione della politica monetaria. Per questa ragione, «le disponibilità in euro digitali dei singoli individui non sarebbero remunerate e sarebbero soggette a limiti di detenzione». L’istituto di Francoforte è già al lavoro per stabilire le regole e le procedure per rendere omogenei i pagamenti digitali in tutta l’area euro e ci si aspetta che la versione aggiornata del Regolamento dell’euro digitale sia pronta entro la fine del 2024. In un articolo su La Repubblica, Piero Cipollone – componente italiano del Comitato esecutivo della BCE – ha spiegato che l’euro digitale offrirebbe ai consumatori una scelta in più, coniugherebbe la comodità del contante con i sistemi digitali, semplificherebbe alcuni pagamenti in tutta Europa e darebbe più concorrenza, mentre la Bce preserverebbe la circolazione del contante. Usare o no questo strumento di pagamento sarebbe una libera scelta dell’utente.
Rendere i pagamenti digitali in tutto simili a quelli in contante, senza eliminare la cartamoneta e tutelando la privacy, sembrerebbe voler fugare ogni dubbio circa le finalità di controllo insite nei pagamenti elettronici, che si collocano nel contesto più ampio costituito anche dall’identità digitale, preservando allo stesso tempo i principali obiettivi dell’introduzione di questa nuova modalità di pagamento: vale a dire, mantenere incontrastato il ruolo delle banche centrali nell’emissione e nel controllo della moneta per tutelarsi dall’ascesa delle criptovalute emesse da privati e adeguarsi ai repentini cambiamenti del sistema finanziario che si stanno verificando a livello internazionale. «Anche in un mondo completamente diverso, come il mondo digitale, abbiamo bisogno di una moneta basata sulla sovranità e sulle banche centrali. Questo sarà l’euro digitale quando nascerà», ha dichiarato già un anno fa il Commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni, rivelando così il reale obiettivo della moneta digitale. Lo scorso novembre, invece, la BCE aveva scritto che «il successo di un euro digitale potrebbe trasformare l’Europa, che diverrebbe leader mondiale della finanza digitale e delle valute digitali delle banche centrali», dando un vantaggio competitivo al Vecchio Continente. Molte nazioni e potenze emergenti, infatti, stanno studiando sistemi digitali per aggirare le stesse sanzioni occidentali e ciò potrebbe favorire un cambio epocale del sistema finanziario.
L’istituto di credito europeo ha annunciato che fornirà consulenza tecnica alle istituzioni europee coinvolte nelle deliberazioni legislative. Il Consiglio direttivo della BCE, infatti, deciderà sulla possibile emissioni dell’euro digitale solo una volta adottata la legislazione pertinente, una cornice essenziale per il concreto funzionamento del nuovo metodo di pagamento.
Julian Assange è un uomo libero: ad annunciarlo è la stessa WikiLeaks, il gruppo fondato dal giornalista, che in una nota scrive che Assange ha lasciato la corte di Saiapan, nelle Isole Marianne Settentrionali, dopo avere patteggiato con gli USA, partendo alla volta dell’Australia. In seguito al patteggiamento, Assange si è dichiarato colpevole ed è stato condannato a cinque anni di detenzione, quelli già scontati nel carcere di Belmarsh, nel Regno Unito, da cui era uscito la mattina di ieri. È dunque tornato in Australia, e da ora in poi non potrà più tornare negli USA senza autorizzazione.
La Corte Suprema di Israele ha stabilito oggi all’unanimità che non esiste più alcun quadro giuridico che permetta al governo di Tel Aviv di “concedere esenzioni totali dal servizio militare agli studenti ortodossi delle scuole religiose”. Nella sentenza, il collegio allargato di nove giudici guidati dal presidente ad interim, Uzi Vogelman, ha scritto che “nel mezzo di una guerra estenuante, il peso della disuguaglianza è più duro che mai e richiede una soluzione”. Come riferito dai media israeliani, il procuratore generale Gal Beharav-Miara ha ordinato al ministero della Difesa di reclutare nell’immediato 3mila giovani ortodossi nell’esercito.
Tornano a manifestare i portuali di Genova, che da questa mattina hanno chiamato un presidio non autorizzato in sostegno della Palestina per bloccare i varchi portuali della città e protestare contro il traffico di armi verso Israele. Al corteo presenti circa 800 persone, che oltre ad avere bloccato il traffico hanno sfilato davanti a un edificio di Leonardo, l’azienda italiana leader degli armenti e della guerra. “Lo Stato italiano è complice delle guerre in corso“, producendo armamenti e fornendo “supporto logistico anche tramite i suoi porti, per garantire che queste armi arrivino a destinazione”: queste le accuse lanciate dai portuali, che già a novembre si erano dati appuntamento per bloccare le armi dirette a Israele. Il presidio lanciato dai portuali di Genova si colloca infatti in un generale movimento di protesta dal basso contro il traffico marittimo di armi, che in Italia – come in Europa – ha portato a muoversi tanto i lavoratori del settore, quanto le comunità cittadine.
Il presidio è iniziato alle 6.00 del mattino e intendeva bloccare i varchi del porto di Genova per denunciare “la complicità dell’Italia nel genocidio in corso in Palestina”. A partire dalle prime ore dell’alba, i manifestanti si sono dunque riuniti per bloccare il varco di San Benigno, per poi muoversi verso gli altri terminal, bloccando anche quelli di Ponte Etiopia (dalle 7.45/8 circa) e Albertazzi. Vani, invece, i tentativi di arrivare al varco di Ponente, presidiato dalle camionette delle forze dell’ordine. Durante il corteo i dimostranti hanno fermato il traffico portuale di merci e passeggeri, e sono poi virati verso l’autostrada, causando code e rallentamenti su tratti delle autostrade A12, A10, e A7. Visto il presidio della polizia, parte del corteo si è spostata davanti a un edificio di Leonardo, assediandolo con fumogeni, sassi, cerchioni di macchina, e scritte.
Alla manifestazione dei portuali di Genova hanno partecipato diverse realtà provenienti da tutta Italia. Tale presidio rientra infatti in un generale moto di protesta attivo in tutta Europa, in solidarietà alla Palestina, e in generale contro il traffico e la produzione di armi. In Spagna lo stesso Governo si è mosso per bloccare l’arrivo della nave Borkum, sospettata di trasportare armi verso Israele; la stessa nave è poi arrivata anche a Venezia, dove decine di cittadini si sono radunati per contestarne la presenza. Giusto una settimana fa, in Grecia, si è presentata una analoga situazione, ma a contestare la presenza della nave (la MSC Altair) sono stati gli stessi portuali; la nave ha poi fatto tappa a Gioia Tauro, in Calabria. I portuali di Genova, inoltre, si erano già mossi a novembre per protestare contro il traffico di armi verso Israele, e in generale in tutta Italia gli scioperi e le manifestazioni di categoria contro il traffico di armi vanno avanti da almeno un anno.
Oggi a Nairobi, capitale del Kenya, migliaia di dimostranti hanno stato assaltato il palazzo del Parlamento, in seguito a una manifestazione di protesta contro la nuova finanziaria appena approvata. Nello specifico, i manifestanti sarebbero riusciti a sfondare il cordone delle forze di polizia a protezione dell’edificio, penetrando dentro il palazzo. Le immagini che circolano sul quotidiano Daily Nation mostrano una parte dell’edificio in fiamme. A fuoco anche il comune e altri edifici cittadini. Secondo le prime ricostruzioni, a ora, ci sarebbero almeno otto vittime tra gli stessi contestatori.
Sono circa 90 mila le sottoscrizioni alla petizione sulla salute in Lombardia depositate dal Comitato La Lombardia SiCura – formato da decine di associazioni, organizzazioni, osservatori e sindacati – al protocollo della Regione Lombardia. L’iniziativa, lanciata il 1° marzo e conclusa il 10 giugno, ha promosso con successo la battaglia in favore di un Referendum per la Sanità Pubblica, sostanziatasi in 5 punti: miglioramento delle prenotazioni, snellimento delle liste di attesa attraverso interventi mirati, introduzione di medici a gettone, miglioramento dell’insieme dei servizi di cura e assistenza per le persone anziane e diffusione e potenziamento dei servizi territoriali con maggiori risorse. L’azione del Comitato è stata supportata da diversi enti locali e Consigli comunali, tra cui quelli di Milano e Mantova, che hanno approvato ordini del giorno con i contenuti della petizione. In conferenza stampa, i membri del Comitato hanno dichiarato che il grande successo dell’iniziativa «è la chiara conferma del pesante stato di disagio nella popolazione e della urgenza di azioni strutturali di modifica della gestione della sanità in Lombardia, per un pieno ripristino del Servizio sanitario pubblico in tutte le sue valenze».
L’idea della raccolta firme nasce dalla necessità dei cittadini di riappropriarsi del «diritto alla salute e alla sanità pubblica», di anno in anno sempre più compromessi. Secondo l’ultimo Rapporto della Fondazione GIMBE, infatti, tra il 2010 e il 2019 alla sanità italiana sono stati sottrattioltre 37 miliardi di euro, nonostante il Fabbisogno Sanitario Nazionale sia nello stesso periodo aumentato di 8,2 miliardi di euro. Di conseguenza, è sempre più complicato garantire i Livelli Essenziali di Assistenza, mentre aumentano le diseguaglianze sul piano regionale. Inoltre, da un recente sondaggio di ANAAO (il principale sindacato dei medici ospedalieri) è emerso come il 72% dei medici impiegati nella Sanità pubblica voglia abbandonare il Servizio Sanitario Nazionale, in quanto sottoposti a carichi di lavoro estremamente pesanti e pochissimo tempo da dedicare alla vita privata. Per tutti questi motivi, il Comitato ha riferito che «andremo avanti nella richiesta del referendum e vi terremo aggiornate e aggiornati sugli sviluppi».
La Corte penale internazionale (CPI) ha emesso due mandati di cattura per l’ex ministro della difesa di Mosca Sergei Shoigu e per Valery Gerasimov, vice ministro e capo di Stato maggiore delle forze armate. Lo riporta la CPI con un comunicato stampa, nel quale spiega che «i due sono entrambi responsabili del crimine di guerra di aver diretto attacchi contro obiettivi civili, del crimine di guerra di aver causato danni accidentali eccessivi a civili o danni a beni civili e del crimine contro l’umanità derivante da atti disumani».
Questa giornata del 25 giugno 2024 è una data che non dice niente a nessuno, qui in Occidente. Nessun significato, nessun riferimento, nessun episodio a cui legarla. Eppure è una data che noi, come Paese Italia, per esempio, abbiamo contribuito a rendere storica. Però le vicende che la rendono tale non sono state raccontate. Si perdono nei fumi di una narrazione intermittente, tronca, quando non apertamente falsa. Eppure gli ingredienti ci sono tutti: migrazione, petrolio, guerra, democrazia. Ma nella nostra mente ce li siamo disposti secondo un ordine sparso e non ne vediamo pertanto il filo che li tiene uniti e che ci porta dritto in Libia. La data di oggi è un decennale. Una ricorrenza sinistra in un mondo che ha perso i suoi equilibri e in un Mediterraneo sempre più caldo. Cosa successe dunque il 25 giugno 2014 in Libia? Forse qualcuno lo ricorda? La Libia post Gheddafi, in preda alle bande armate dalla NATO, cercava quel giorno una via o quella che sarebbe dovuta essere una via.
Una transizione verso il caos
Il periodo di transizione andava superato. L’8 agosto 2012 era stato istituito il Congresso Nazionale Generale, uscito da un voto popolare, tenutosi il 7 luglio 2012. A vincere le elezioni era stata l’Alleanza delle Forze Nazionali con il 48% dei voti. Un partito liberale moderato che spopolò ai seggi a scapito del partito legato alla Fratellanza Musulmana (che invece era salita al potere in Tunisia ed Egitto), il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, creato sul modello dell’AKP di Erdogan in Turchia, che arrivò secondo con il 10% dei voti.
Nonostante questa schiacciante vittoria però, l’Alleanza delle Forze Nazionali conquistò solo 39 seggi su 200, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo ne conquistò 17 e i rimanenti 144 seggi furono spartiti in sostanzialmente altrettante forze politiche in ossequio alla democrazia, al diritto di rappresentanza e soprattutto al caos. Il proposito del Congresso era quello di scrivere la nuova costituzione ed indire nuove elezioni in un periodo massimo di 18 mesi.
E così arriviamo alla data di cui oggi ricorre il decennale: il 25 giugno 2014. Quel giornosi tennero le ultime elezioni della Libia post-Gheddafi. In sostanza, dunque, oggi fanno 10 anni dacché in Libia non si vota. Conoscere questa notizia non è poco, dal momento che si tratta di un Paese che abbiamo bombardato al fine di esportarvi la democrazia. Ma conoscere i motivi del perché in Libia non si voti da 10 anni, credo sia interesse generale che però sfugge ai più. Lo sostengo serenamente perché constato la totale assenza di queste informazioni nel dibattito italiano, quando non la totale assenza del dibattito sulla Libia e punto.
Esportare la democrazia per boicottare la democrazia
Ma torniamo al 25 giugno 2014. Anzi, ai mesi che precedettero questa data. I 18 mesi a disposizione del Congresso Nazionale Generale furono spesi per spostare l’asse pian piano a favore della deriva islamista creando un clima favorevole alla Fratellanza Musulmana. Perno di questa operazione fu Nuri Busahmein, presidente del Congresso, berbero della città di Zuwara, tra le più ferventi sostenitrici della “rivoluzione del 17 febbraio 2011”, città costiera della Tripolitania da cui negli anni a seguire salperanno centinaia di migliaia di migranti verso l’Europa grazie alla commistione tra milizie e traffico illegale di petrolio ed esseri umani.
La presidenza di Busahmein è servita anche per chiudere un occhio sul proliferare di bande armate nel Paese, con l’arruolamento di migliaia di giovani libici alettati dagli alti guadagni, nel tentativo di mettere sotto controllo i pozzi di petrolio. Sin dai primi mesi del 2014 la città di Bengasi è di fatto occupata militarmente da gruppi armati islamisti tra cui Ansar al-Sharia (nell’ottobre 2014 sarà direttamente l’Isis a scendere in campo e a conquistare Bengasi, poi liberata dall’Esercito Nazionale Libico). Questo spinge il generale Khalifa Haftar, fino a quel momento a capo di alcuni reparti sparsi del dissolto esercito gheddafiano, a lanciare un’operazione militare per la liberazione della città chiamata “Operazione Dignità“. Il nucleo di questo piccolo esercito, che contava solo poche migliaia di unità all’epoca, andrà a costituire poi l’Esercito Nazionale Libico, votato dal Parlamento il 2 marzo 2015. Ma manca di raccontare come quel Parlamento è stato eletto.
Nel mentre che Haftar getta le basi per la resistenza libica ai gruppi islamisti, lo stesso dichiara ormai il Congresso Nazionale Generale decaduto, perché ormai in balia dei terroristi. Messo con le spalle al muro e costretto dagli eventi, il Congresso indice nuove elezioni per il 25 giugno 2014. La situazione nel Paese sta sfuggendo di mano. La gente vuole votare, ma la guerra civile infuria e solo il 18% degli aventi diritto raggiunge le urne. Se alle elezioni del 2012 avevano votato un milione 400mila libici, il 25 giugno 2014 votano soltanto 630mila elettori. Nonostante questo, i risultati furono una porta in faccia alle speranze di potere della Fratellanza Musulmana e dei gruppi islamisti. Così il Parlamento eletto, definito Camera dei rappresentanti, si riunisce per la prima volta il 4 agosto 2014 a Tobruk, sulla costa orientale del Paese, perché in quel momentosia Tripoli che Bengasi sono in mano ai gruppi armati.
La Fratellanza Musulmana attraverso alcuni deputati del Congresso non rieletti, va per conto proprio e a Tripoli, il 25 agosto, forte della protezione dei gruppi armati, viene istituito il Governo di Salvezza Nazionale, senza che nessuno lo voti (il primo aprile 2016 prenderà il nome di Alto Consiglio di Stato, organo coloniale non eletto che a Tripoli fa la veci del parlamento eletto che invece sta a Bengasi). Il 31 agosto 2014 successivo sempre a Tobruk, Abdullah al-Thani viene votato primo ministro dal parlamento eletto. Non paga, la Fratellanza Musulmana, braccio della Nato in quel momento, che a Tripoli controlla diversi organi di Stato con la minaccia delle armi, il 6 novembre di quell’anno impone alla Corte Suprema l’annullamento delle elezioni. Come la comunità internazionale abbia poi deciso di risolvere la situazione è oggi ancora la causa delle mancate elezioni in Libia. Perché da lì in poi è passato un concetto ingiusto e diffamatorio: quello che in Libia le elezioni non contino, ma conti di più la “rivoluzione del 2011“. In altre parole, che l’agenda delle potenze straniere conti più del voto dei Libici.
Il gioco di prestigio
Il 17 dicembre del 2015, dopo oltre un anno di stallo, con gli accordi di Skhirat, le Nazioni Unite a spinta USA decidono infatti che le parti in conflitto sono due: da un lato istituzioni votate dal 18% degli aventi diritto (causa guerra civile) e dall’altra le bande armate della fratellanza in quanto moralmente depositarie della Rivoluzione. In sostanza si è deciso di recidere la filologia del voto in Libia e di concedere potere politico a chi aveva solo un potere militare. Ed è così che Al-Thani, votato primo ministro con i voti del parlamento a Tobruk, da quel giorno diventa poco più che un amministratore di condominio, mentre Fayez al-Sarraj, non eletto da nessuno, a Tripoli diventa primo ministro. Questo gioco di prestigio perdura da allora, anche se ora a Tripoli c’è un nuovo primo ministro, Abdul Hamid Dabaiba, che doveva rimanere in carica fino al dicembre 2021, consegnando il Paese a nuove elezioni poi istericamente annullate ad una settimana dal voto.
Il primo comandamento dell’agenda Nato in Libia
Nella nostra testa ci sono ancora oggi due parti che si combattono in Libia: da una parte Tripoli, dall’altra Bengasi. Come se fossero Pisa e Livorno, Inter e Milan. In realtà non c’è nessuna differenza etnica o tribale sul campo. A Tripoli sta chi sostiene per interesse l’abominio storico chiamato “rivoluzione”, a Bengasi chi difende la democrazia e il popolo libico. Chi ha ruoli di responsabilità da anni ormai si è trasferito nel luogo dove sta più sicuro. I parlamentari della Casa dei Rappresentanti di origine tripolina oggi vivono a Bengasi, così come i terroristi di Bengasi oggi vivono a Tripoli sotto la protezione del governo Dabaiba. La gente? Abbozza di fronte all’occupazione delle milizie a Tripoli e gira a testa alta se invece risiede a Bengasi.
Questo da noi non si racconta, non è in linea con i comandamenti dell’agenda NATO. Comandamenti, il cui primo recita: «in Libia non conta la democrazia, conta l’occupazione militare del territorio e il saccheggio delle risorse». È in base a questo comandamento che la Stephanie Williams, diplomatico americano, in un’intervista a Lorenzo Cremonesi del dicembre 2021 sul Corriere della Sera, all’indomani del voto annullato, affermava: «In Libia il voto non è importante: più importante è la stabilità». È in base a questo comandamento che nel marzo 2022 l’ambasciatore americano a Tripoli, Richard Norland, ha usato l’espressione «causa di forza maggiore», pur di non fare il nome di Saif Gheddafi come causa della soppressione delle elezioni, per evitare che le vincesse e diventasse il prossimo presidente libico. Esattamente. Perché dal dicembre 2021, da quando è ritornato sulla scena pubblica, dopo anni di latitanza, Saif al-Islam Gheddafi, figlio del colonnello, su cui pende un mandato di cattura della Corte Criminale Internazionale ma scagionato dai tribunali libici, da allora le elezioni sono soppresse, rinviate a data da destinarsi. In ossequio al primo comandamento non scritto dell’agenda NATO in Libia: «il voto non è importante: più importante è l’occupazione».
Il decennio maledetto per noi
E così oggi sono 10 anni dalle ultime elezioni in Libia. Nel frattempo il vuoto politico che abbiamo causato recidendo la filologia del voto in Libia ha prodotto il traffico di esseri umani a Tripoli, i centri di detenzione della Tripolitania, la riduzione in schiavitù e la tortura a scopo di estorsione dei migranti. Ha prodotto il saccheggio del petrolio libico a favore di Italia e Turchia (40% di greggio illegale che scompare ogni anno). Ha prodotto il primo concreto sostegno militare dei governi italiani a gruppi armati, attraverso l’ospedale da campo di Misurata, dove le armi inviate nominalmente ai soldati italiani, passano di mano alle milizie di Tripoli, nell’indifferenza del dibattito nazionale.
Ha prodotto quel sofisticato meccanismo, perfezionato da Minniti e proseguito dai suoi successori, per cui noi diciamo di mandare soldi e motovedette a Tripoli per fermare i migranti, quando al contrario sono tutti strumenti per il contrabbando del petrolio che prosegue indisturbato da 10 anni, anzi protetto da missioni come Frontex o Irini, che dovrebbero impedire l’accesso di armi in Libia e proteggere i confini sacri dell’Europa, ma al contrario presidiano il furto delle risorse libiche.
Ha prodotto una recente nuova corsa agli armamenti in Libia che vede ormai sul terreno soldati e mercenari NATO a Tripoli fronteggiare sempre più militari della Wagner ed armamenti russi a Bengasi, sull’orlo di un nuovo conflitto per il controllo del Mediterraneo e del Sahel. Ha prodotto insomma il decennio maledetto che ha cambiato in parte anche la fisionomia al nostro Paese: economica, politica, sindacale, sociale, culturale. Ed è per questo che oggi, 25 giugno 2024, pur non sapendolo, noi Italiani ignoriamo un anniversario che ci riguarda, che ci chiama in causa, che ci inchioda. Ma noi non lo sappiamo.
[di Michelangelo Severgnini*]
* Autore del documentario “Una storia antidiplomatica” (2024, ’75), che racconta le vicende della Libia dalla “rivoluzione del 2011” e del documentario “L’urlo“, opera censurata che racconta il lato oscuro del traffico di migranti. Una storia antidiplomatica sarà trasmesso il 25 giugno 2024 alle ore 18 sull’emittente televisiva Byoblu.
Secondo un sondaggio sulle riserve auree delle banche centrali (CBGR), condotto tra il 19 febbraio e il 30 marzo scorsi, il 29% delle banche interpellate intende aumentare le proprie riserve entro i prossimi 12 mesi, dopo che nel 2023 avevano registrato un aumento record di 1.037 tonnellate (il secondo acquisto annuale della storia dopo le 1.082 tonnellate del 2022). Si raggiungerebbe così il livello di scorte più alto mai registrato da quando si è cominciato a effettuare il sondaggio, nel 2018. La mossa servirebbe soprattutto a riequilibrare strategicamente le riserve e placare le preoccupazioni dei mercati finanziari in merito a maggiori rischi di crisi e aumento dell’inflazione.
Nel nostro Paese sono tornati a salire gli ingressi in carcere per reati di droga: ben 10.697 delle 40.661 entrate nelle case circondariali italiane del 2023 sono infatti state causate dall’art. 73 del Testo Unico, ovvero «detenzione a fini di spaccio». Si tratta del 26,3% del totale (nel 2022 era il 26,1%). È quanto emerge dai dati pubblicati nella nuova edizione del Libro Bianco, un rapporto indipendente redatto da associazioni e sindacati sul modo in cui il Testo Unico sugli stupefacenti impatta sul sistema penale, sui servizi e sulla società. Il report rivela che, degli oltre 60 mila detenuti presenti in carcere nel periodo di riferimento, 12.946 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo Unico, mentre altri 6.575 lo erano per il combinato disposto tra art. 73 e l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Solo 994 erano in galera esclusivamente per l’art. 74. Complessivamente, si trova dietro le sbarre per la legge sulle droghe oltre il 34% dei detenuti, quasi il doppio della media europea (18%) e molto di più di quella globale (22%).
Nel rapporto si legge che “la simulazione di un carcere senza i prigionieri frutto della legge proibizionista sulle droghe rende evidente che non ci sarebbe sovraffollamento e il carcere potrebbe essere l’extrema ratio”, così come “scomparirebbe anche l’intasamento dei tribunali”. Il Libro Bianco spiega inoltre che un’ampia fetta delle persone che entrano in galera fa uso di droghe. Restano infatti elevatissimi i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti che vengono definiti “tossicodipendenti”, che dopo la fase pandemica sono tornati ad aumentare: nello specifico, lo sono il 38,1% di coloro che sono entrati nei centri di detenzione, mentre all’ultimo giorno del 2023, dietro le sbarre, se ne contavano ben 17.405 “certificati”, circa il 29% del totale. “D’altro canto, continuano ad aumentare le misure alternative, ma senza svuotare le galere, che subiscono un costante aumento di ristretti, e continuiamo a registrare una distonia tra il generico affidamento in prova ai servizi sociali, cui si accede prevalentemente dalla libertà, e quello specifico per tossicodipendenti, che nella gran parte dei casi passa per un ‘assaggio’ di carcere”, scrivono ancora gli autori del documento. Esaminando i numeri si nota infatti che, oltre ai 60mila detenuti, al 31 dicembre del 2023 erano in carico per misure alternative e sanzioni di comunità (Messa alla Prova) “ulteriori 83.703 soggetti”. Il rapporto fa notare che le misure alternative hanno fatto registrare negli ultimi anni un enorme incremento, pari addirittura al +1.037,7% sul 2006.
All’interno di un paragrafo, il Libro Bianco si focalizza sul tema delle segnalazioni e delle sanzioni amministrative per il consumo di droghe illegali. Nel report si attesta come, dal 2020 in poi, il numero di persone segnalate rimarrebbe pressoché stabile, aggirandosi intorno alle 40mila unità. “Il 38% delle segnalazioni finisce con una sanzioni amministrativa, le più comuni la sospensione della patente (o il divieto di conseguirla) e del passaporto – si legge nel documento -. Questo anche in assenza di un qualsiasi comportamento pericoloso messo in atto dalla persona sanzionata”. Dal 1990, più di un milione di persone sono state segnalate per possesso di derivati della cannabis. Il rapporto dà inoltre atto di come la repressione per il consumo di droghe si stia abbattendo sui minori, che “entrano così in un percorso sanzionatorio stigmatizzante e alla fine dei conti desocializzante e controproducente”. Tra coloro che sono oggetto di segnalazione, il 97% lo è per cannabinoidi.
La Corte Europea dei diritti umani chiede al nostro Paese di mettere mano al dramma del sovraffollamento carcerario dall’estate del 2009, quando partorì la prima condanna ai danni dell’Italia a causa della violazione dell’art. 3, che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante. Eppure, il governo Meloni ha fin da subito cercato di mostrare mediaticamente il suo “pugno di ferro” attraverso la costante creazione di nuove fattispecie di reato, come testimoniano le norme contenute nel “decreto Rave”, nei decreti immigrazione e nel “decreto Caivano”. Lo scorso novembre è stato poi varato dall’esecutivo il pacchetto sicurezza, in cui è stata prevista l’introduzione di nuovi reati nel codice penale e forti inasprimenti di pena. Fratelli d’Italia punta inoltre all’inasprimento delle pene per spaccio e detenzione di droga, anche nei casi di lieve entità: nell’aprile del 2023, la deputata Augusta Montaruli, condannata per peculato nel caso rimborsopoli, ha presentato una proposta di legge in cui si alza a 5 anni la pena massima per chi produce, traffica e detiene sostanze stupefacenti o psicotrope quando il fatto è “di lieve entità”.
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