domenica 24 Novembre 2024
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Amministrative, ballottaggi: il centro-sinistra vince nei capoluoghi

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La tornata elettorale delle Amministrative di giugno si è conclusa con i ballottaggi, che hanno visto una scarsa affluenza (47,71%). Il centrosinistra ha trionfato in tutti e 5 i capoluoghi di Regione in palio (6 considerando Cagliari vinto al primo turno): Bari, Campobasso, Firenze, Perugia e Potenza. Le forze progressiste vincono anche a Cremona e Vibo Valentia. Il centro-destra ha confermato Urbino e Vercelli e ha conquistato Lecce, Rovigo e Caltanissetta. Avellino e Verbania saranno invece governati da amministrazioni civiche. Sommando i risultati del primo turno, il centrosinistra amministrerà 17 capoluoghi (quattro in più), 10 il centrodestra (che ne ha persi due).

 

I retroscena sulla liberazione di Assange e l’accordo con gli USA

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Julian Assange è stato liberato su cauzione dalla prigione londinese di Belmarsh ed è salito su un aviogetto all’aeroporto di Stansted a nord di Londra in direzione del suo paese natio Australia, con una tappa di due giorni (oggi e domani mercoledì) nelle Isole Marianne Settentrionali. Lì dovrà presentarsi davanti ad una corte statunitense, dichiararsi colpevole del reato di uso improprio di documenti ufficiali, ricevere una condanna a cinque anni, ovvero quelli già trascorsi a Belmarsh, ed uscire dal tribunale come uomo libero. È previsto che raggiungerà poi l’Australia mercoledì sera. Le Isole Marianne Settentrionali costituiscono, dal 1986, un “territorio non incorporato” degli USA dopo essere stato un territorio fiduciario strappato ai giapponesi nel 1944  durante la seconda guerra mondiale.  La corte marianna, che ha sede nella capitale Saipan, è la giurisdizione statunitense più lontana dalla terraferma USA e la più vicina all’Australia. Secondo Sarah Galashan, esperta legale dell’emittente canadese CBC News, il patteggiamento consisterà nell’accettazione di un documento già concordato con gli avvocati di Julian e depositato in tribunale insieme ad una lettera rivolta al giudice di Saipan. Il documento descrive in dettaglio l’asserito reato “commesso” da Assange insieme al suo informatore (whistleblower) Chelsea Manning, accettandolo Julian dovrà confessare in cambio di una condanna a 62 mesi di reclusione ma con il riconoscimento del tempo da lui già passato in carcere, con il risultato che la pena risulterà già espiata.  

Presumibilmente verranno annullate le udienze del 9 e del 10 luglio davanti all’Alta Corte del Regno Unito, che doveva decidere sulla legittimità o meno della richiesta di estradizione di Assange negli Stati Uniti.

Lo scorso agosto, l’ambasciatrice degli Stati Uniti in Australia, Caroline Kennedy (figlia del Presidente J.F. Kennedy), aveva già lasciato intendere l’esistenza di trattative in corso per un non meglio specificato patteggiamento. Tuttavia, la famiglia di Assange – la moglie Stella Moris e il padre John Shipton – avevano sempre negato decisamente l’esistenza di qualsiasi trattativa.  

La questione è infatti delicata: riconoscendosi colpevole di una serie di reati, anche se minori, Assange confermerà la tesi del Dipartimento di Giustizia statunitense secondo la quale è reato divulgare informazioni segrete, per quanto ciò sia nell’interesse generale a difesa del diritto dei cittadini di sapere gli eventuali misfatti dei loro governanti che questi cercano di celare ponendoli sotto Segreto di Stato. Si tratta di un precedente estremamente pericoloso per la sopravvivenza del giornalismo investigativo ed è in palese contrasto con una sentenza del 1971 della Corte Suprema statunitense che dichiarava perfettamente legale rivelare materiale segretato purché sia stato fatto, appunto, nell’interesse generale.  

Già due anni fa, chi scrive, aveva ipotizzato l’esistenza di trattative tra Assange e le autorità britanniche e statunitensi, interpretando la misteriosa apparizione di una lettera scritta da Julian al Re Carlo in occasione della sua coronazione. Ora tutto è chiaro: quella lettera era, infatti, un segnale lanciato da Julian all’inizio delle trattative, per dire che non avrebbe scambiato la propria libertà per una promessa di silenzio una volta liberato e un impegno a non riattivare il suo sito WikiLeaks. Oggi, invece, dopo due anni di negoziati, sembra che Julian sia arrivato ad un compromesso in grado di soddisfare sia i suoi principi, sia le esigenze della giustizia oltre atlantico. Secondo quanto trapela, almeno fino ad ora, nell’accordo non vi sarebbe nessun impegno da parte di Assange in cui assicura di non ricominciare a fare attività giornalistica. 

The Intercept, importante giornale di giornalismo investigativo, ha scritto oggi che «i difensori della libertà di stampa hanno accolto con favore la fine della saga di Assange, ma sono preoccupati per i risvolti». Il giornale cita poi Jameel Jaffer, direttore esecutivo del Knight First Amendment Institute della Columbia University: «Questo accordo prevede che Assange accetta la pena di cinque anni di carcere per attività che i giornalisti svolgono quotidianamente» e questo potrebbe risultare un pericoloso precedente.

Il condizionale è d’obbligo, però. Infatti, conosciamo i documenti in base ai quali il giudice di Saipan dovrà rilasciare Assange entro domani; ma non sappiamo le promesse fatte e gli impegni presi a monte della stipula del patteggiamento. Questo lo sapremo solo dai fatti, nei mesi a venire. Quello che conta per ora è che entro 48 ore Julian dovrebbe poter abbracciare non solo la moglie Stella, ma anche i figli Gabriel (anni 6) e Max (anni 4), i quali non hanno mai visto il loro padre in libertà. Quanti festeggiamenti gioiosi ci saranno poi in tutto il continente australiano dove la popolarità di Julian non è continuata a crescere durante la prigionia, raggiungendo l’80% della popolazione. 

Da oltre quindici anni Julian, che compirà 53 anni il prossimo 3 luglio, è stato braccato, confinato, imprigionato soltanto perché ha osato dire la verità in faccia al potere, quello che dovrebbe fare ogni giornalista. Ora il cofondatore di WikiLeaks potrà tirare un sospiro di sollievo e ripensare il suo futuro. Chissà quali sorprese ci riserverà.

[di Patrick Boylan – autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo Free Assange Italia]

 

Julian Assange è stato liberato

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Il fondatore di WikiLeaks è stato liberato dal carcere inglese di Belmarsh dove era detenuto da ormai cinque anni e sta tornando in Australia. A darne notizia è stata la moglie, Stella Morris, che alle tre di questa notte ha scritto su X: «Julian è libero!!!! Le parole non possono esprimere la nostra immensa gratitudine a VOI, sì proprio VOI, che vi siete tutti mobilitati per anni e anni per far sì che tutto ciò diventasse realtà». Parole accompagnate dalle prime immagini video di Assange, che appare in buone condizioni prima mentre parla con i suoi avvocati e poi mentre sale le scale dell’aereo destinato a riportarlo in patria. Secondo quanto riportato da WikiLeaks la libertà gli è stata concessa su cauzione dall’Alta Corte di Londra dopo un accordo raggiunto con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti.

Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, il fondatore di WikiLeaks avrebbe «accettato di dichiararsi colpevole dell’accusa di cospirazione per aver ottenuto e diffuso informazioni sulla difesa nazionale». Questo l’accordo che i suoi legali avrebbero raggiunto con il Dipartimento di Giustizia americano, che farà in modo che il pubblico ministero possa chiedere una condanna a 62 mesi di carcere, tempo che equivale al periodo che Assange ha già scontato nel Regno Unito mentre combatteva contro l’estradizione.

«Julian Assange ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Belmarsh la mattina del 24 giugno, dopo avervi trascorso 1901 giorni. Gli è stata concessa la libertà su cauzione dall’Alta Corte di Londra ed è stato rilasciato nel pomeriggio all’aeroporto di Stansted, dove si è imbarcato su un aereo ed è partito dal Regno Unito. Questo è il risultato di una campagna globale che ha coinvolto organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni Unite. Ciò ha creato lo spazio per un lungo periodo di negoziati con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che ha portato a un accordo che non è stato ancora formalmente finalizzato. Forniremo maggiori informazioni il prima possibile. Dopo più di cinque anni in una cella di 2×3 metri, isolato 23 ore al giorno, presto si riunirà alla moglie Stella Assange e ai loro figli, che hanno conosciuto il padre solo da dietro le sbarre. WikiLeaks ha pubblicato storie rivoluzionarie di corruzione governativa e violazioni dei diritti umani, ritenendo i potenti responsabili delle loro azioni. In qualità di caporedattore, Julian ha pagato duramente per questi principi e per il diritto delle persone a sapere. Mentre ritorna in Australia, ringraziamo tutti coloro che ci sono stati accanto, hanno combattuto per noi e sono rimasti totalmente impegnati nella lotta per la sua libertà. La libertà di Julian è la nostra libertà», questo il comunicato integrale rilasciato da WikiLeaks.

 

Da ormai una settimana il Kenya è in rivolta

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Non accennano a fermarsi le proteste dei giovani kenioti, che dalla settimana scorsa scendono in piazza contro la Finance Bill, il disegno di legge sulle finanze pubbliche che prevede l’introduzione di nuove tasse e l’aumento della spesa pubblica nel Paese per una cifra complessiva di 2,7 miliardi di dollari, fortemente caldeggiate dal Fondo Monetario Internazionale al fine di ridurre il deficit del bilancio. Le proteste, ampiamente organizzate e condotte attraverso i social da giovani per la maggior parte sotto i 30 anni, sono identificate dall’hashtag #OccupyParliament (“occupare il parlamento”) e #RejectFinanceBill2024 e mirano ad esercitare una pressione sull’esecutivo affinchè il nuovo disegno di legge sia abbandonato. Ieri, dopo una settimana di scontri e disordini che ha preso del tutto alla sprovvista l’esecutivo, il presidente del Kenya, William Ruto, si è detto disposto a dialogare con la popolazione. Con un post sul social X, Ruto ha dichiarato che «Il coraggio e l’unità che i nostri giovani hanno dimostrato nella gestione degli affari del nostro Paese sono incoraggianti. Li coinvolgeremo per discutere le loro preoccupazioni e costruire un Kenya migliore per tutti».

Le riforme, introdotte dopo l’intervento del Fondo Monetario Internazionale, sono rivolte a ridurre l’indebitamento dello Stato aumentando le entrate nel bilancio 2024/2025 e dovranno essere approvate entro il prossimo 30 giugno. Martedì 18 giugno, il parlamento si è riunito per discutere delle modifiche apportate alla legge finanziaria, le quali hanno eliminato alcuni dei provvedimenti inizialmente previsti, tra i quali l’IVA al 16% sul pane e sui servizi finanziari e quella al 2,5% sui veicoli a motore, ma procederà comunque con l’aumento delle tasse in molte altre forme, nel tentativo di appianare un debito pubblico che a dicembre 2023 ammontava ad oltre 82 miliardi di dollari.

Il contenuto della Finance Bill ha da subito sollevato lo scontento della popolazione, dando luogo ad un partecipato movimento di protesta che ha colto alla sprovvista l’esecutivo di Ruto e condotto per la maggior parte dai giovani della cosiddetta “Generazione Z” (ovvero nati tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000). Nonostante, secondo quanto riportato dai media locali, le proteste siano state per lo più di natura pacifica, hanno immediatamente incontrato una reazione «spropositata» da parte delle forze dell’ordine, intervenute utilizzando anche proiettili veri, oltre a manganelli, idranti e granate lacrimogene. I manifestanti sono scesi in piazza in almeno 20 contee e hanno paralizzato gran parte delle attività commerciali. A Nairobi, questi hanno tentato più volte di raggiungere il palazzo dove ha sede il parlamento, ma hanno incontrato la resistenza delle forze dell’ordine. Secondo i media locali, centinaia di giovani hanno subito arresti illegali, mentre molti altri sono stati feriti e una persona è stata uccisa da un colpo di pistola esploso da un poliziotto mentre cercava di fuggire. Secondo quanto denunciato da Amnesty International, almeno 400 persone sarebbero state arrestate (e poi rilasciate senza accuse) nella sola giornata di martedì a Nairobi, dove almeno 200 manifestanti sarebbero rimasti feriti da proiettili e lacrimogeni, mentre altre 115 sono state arrestate in altre 19 contee. In un comunicato reso pubblico oggi, Amnesty e altre ventisei organizzazioni hanno inoltre espresso preoccupazione per la possibilità che nel Paese venga bloccata la rete internet, al fine di impedire ai manifestanti di organizzarsi.

In un tentativo di contenere la rabbia della popolazione, il presidente Ruto ha aperto alla possibilità di instaurare un dialogo con i manifestanti. Tuttavia le proteste, connotate anche da una forte critica all’imperialismo statunitense nel Paese, rischiano di mettere in seria difficoltà l’esecutivo del presidente, alleato fedele di Washington.

[di Valeria Casolaro]

Ue, approvato 14esimo pacchetto di sanzioni contro la Russia

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I 27 ministri degli Esteri dell’Unione Europea riuniti in Lussemburgo hanno ufficialmente dato il via libera al 14esimo pacchetto di sanzioni contro la Russia di Putin. Attraverso le nuove sanzioni, verranno colpiti vari settori dell’economia russa, tra cui l’energia, la finanza e il commercio. L’obiettivo è peraltro quello di rendere sempre più difficile la loro elusione da parte di Mosca. Nel frattempo, l’Alto rappresentante Ue per la Politica estera, Josep Borrell, ha fatto sapere che la prima tranche proveniente dagli extra profitti degli asset russi congelati dovrebbe essere consegnata all’Ucraina «la prossima settimana».

 

“Stop all’assalto speculativo dell’eolico”: la Sardegna torna in piazza

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Ad appena una settimana di distanza dalle ultime proteste, i cittadini sardi sono tornati nelle strade per ribadire il proprio no alla massiccia costruzione di parchi eolici sul proprio territorio. Nel finesettimana si sono infatti svolte diverse manifestazioni nel sud della Sardegna, in particolare nei pressi dei parchi eolici di Guspini, Sanluri e Quartu e a Oristano. Come specificato ripetutamente dai cittadini in ogni sede delle proteste, queste non sono rivolte a osteggiare la transizione verso l’utilizzo di fonti energetiche più sostenibili, ma la speculazione che vi ruota attorno, la quale va a scapito della popolazione sarda e del patrimonio ambientale e paesaggistico dell’isola.

«La transizione energetica deve servire, non asservire»: è questo il motto con il quale il Comitato Su Entu Nostu ha preso parte alle mobilitazioni contro la speculazione eolica, svoltesi durante tutto il finesettimana in Sardegna. «La transizione energetica deve essere ecologica e giusta. Vogliamo dare il nostro contributo per la difesa del pianeta ma lo vogliamo fare in una posizione di parità, non ci sono cittadini e territori di categoria inferiore». A partecipare a incontri, sit in e cortei vi erano diversi comitati e realtà locali, oltre a sigle sindacali quali COBAS e USB. Come spiegato da Su Entu Nostu, comitati e cittadini non intendono negare in toto la possibilità di realizzazione di impianti eolici, ma «pretendono un ruolo nell’ambito della progettazione che adesso appare per ciò che è, ovvero un ennesimo abuso coloniale».

Sebbene la Sardegna sia una Regione che può vantare uno dei maggiori impieghi di fonti rinnovabili a livello nazionale, il numero di concessioni sta rapidamente crescendo, superando di gran lunga il fabbisogno dell’isola e andando a intaccarne il patrimonio naturale. Sono 809 le richieste di allaccio di impianti di produzione di energia rinnovabile alla rete nazionale presentati negli ultimi anni. Nel caso in cui venissero approvati, questi produrrebbero 57,67 gigawatt di potenza, coprendo tutti i quadranti dell’isola, comprese le aree costiere. Secondo quanto riferito dal Centro Studi Agricoli, in questo modo oltre 200 mila ettari di territorio rischierebbero di essere compromessi – l’installazione delle pale eoliche comporta la cementificazione di ampie parti di territorio, tanto per fare un esempio. Altro elemento da tenere in considerazione è che la corsa al business dell’eolico ha comportato anche la svendita di grandi parti di territorio ad aziende straniere. È successo a fine aprile, quando la Chint, la più grande fabbrica di pannelli fotovoltaici della Repubblica Popolare Cinese, ha acquisito dalla spagnola Enersid il più importante progetto solare mai concepito a livello europeo, appropriandosi di oltre mille ettari di terreni nel nord della Sardegna. Pochi giorni dopo, la presidente della Regione Alessandra Todde ha approvato un disegno di legge che introduce il divieto di realizzare nuovi impianti di produzione e accumulo di energia elettrica da fonti rinnovabili che causano direttamente nuova occupazione di suolo per 18 mesi. Tuttavia, per i comitati il provvedimento non è sufficiente. I progetti che sono stati presentati e che, in parte, hanno già ottenuto l’approvazione, prevedono infatti installazioni di parchi eolici in aree di elevato valore paesaggistico, archeologico e culturale, oltre a necessitare della distruzione del territorio già semplicemente al loro transito. Per permettere il passaggio dei mezzi che trasportano le pale (che possono superare i 18 metri di altezza), infatti, sono state livellate aiuole e abbattute diverse centinaia di alberi, poi «disintegrati» sul posto.

Gli attivisti sono intenzionati a dar battaglia «finché la transizione energetica non sarà a misura di comunità, gli speculatori non se ne andranno via e lo Stato non si imporrá più sulle scelte della popolazione sarda». La loro posizione, hanno ribadito più volte, non è impedire il passaggio all’eolico e alle fonti di energia rinnovabile, ma lottare contro la speculazione selvaggia, per un processo di transizione che avvenga con la collaborazione dei cittadini e nel rispetto di un territorio il cui patrimonio naturale è sempre più martoriato dall’attività umana.

[di Valeria Casolaro]

La Columbia University equipara antisionismo e antisemitismo per criminalizzare le proteste

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Sull’onda delle proteste in sostegno del popolo palestinese che hanno travolto le principali università americane, la Columbia University aveva nominato una “task force” chiamata a discutere e ridefinire la nozione di «fanatismo» e la definizione di «antisemitismo». Nonostante le proteste degli studenti e di parte del corpo docente che hanno denunciato la mossa dell’università come un tentativo di criminalizzare le manifestazioni per Gaza, la task force è andata avanti nel proprio lavoro e – poco sorprendentemente, dato che tre dei suoi co-presidenti si erano dichiarati apertamente sionisti, ovvero sostenitori dello Stato di Israele – ha rilasciato un documento che ridefinisce il concetto di antisemitismo (ovvero di odio anti-ebraico) includendo al suo interno anche l’antisionismo, ossia la negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Nessun effetto hanno sorbito le proteste, che hanno anche sottolineato come all’interno della stessa comunità ebraica esistano da sempre correnti antisioniste. Da oggi, così, per gli studenti criticare l’esistenza dello Stato Israeliano comporterà essere bollati come antisemiti.

La task force ha rivelato la decisione non in un comunicato a docenti e studenti, ma in un articolo pubblicato sul quotidiano israeliano Haaretz. Gli attuali membri della facoltà statunitense hanno appreso dall’articolo anche che tutti i nuovi studenti e docenti della scuola saranno obbligati a seguire un orientamento sull’antisemitismo.

Formatasi lo scorso novembre, quando la pressione politica contro le critiche a Israele nei campus è aumentata, la task force della Columbia University ha deciso di esaminare le nozioni specifiche di fanatismo all’interno dell’Università, la quale è diventata un punto focale delle proteste statunitensi contro la guerra e il massacro perpetrato da Israele sui palestinesi. Proteste che puntualmente sono state represse dalla polizia con violente cariche e arresti all’interno del campus.

Mentre si attende che il rapporto ufficiale della task force venga depositato, secondo quanto dichiarato dai suoi stessi autori ad Haaretz, la nuova definizione di antisemitismo «dovrebbe determinare che le dichiarazioni che invocano la distruzione e la morte di Israele e del sionismo possano essere considerate antisemite, mentre le critiche al governo israeliano non lo saranno». Tale definizione rispecchia, quindi, la contestata e nazionalista definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance, IHRA, che gode di un ampio sostegno bipartisan nella politica americana, formato dalla totalità dei repubblicani e buona parte dei democratici.

Questa decisione non farà che aumentare la confusione tra antisemitismo e antisionismo nella cultura universitaria. Le opinioni dei palestinesi, degli ebrei antisionisti e di molti altri all’interno della comunità che esprimono critiche nei confronti di Israele sono destinate quindi ad essere delegittimate, se non addirittura attaccate, proibite e punite.

Una tale definizione di antisemitismo, che comprenda quindi anche la contrarietà al sionismo, e che quindi insiste nel difendere Israele come Stato etnico avrà la conseguenza di mettere ulteriormente a tacere le voci palestinesi e pro-palestinesi o degli ebrei antisionisti, accostandoli a coloro che invece attaccano gli ebrei in quanto tali. Sin dalla sua formazione l’anno scorso, numerosi studenti e docenti hanno espresso preoccupazione per la composizione, la metodologia e l’ambito della task force sull’antisemitismo. «Da quando è stata annunciata la task force, abbiamo temuto che avrebbe equiparato il sionismo e l’ebraicità [..] Il sionismo è un’ideologia politica, non un’identità etnica o religiosa», hanno scritto quattro laureati ebrei antisionisti, in un editoriale per il Columbia Spectator. Infatti, tutti e tre i co-presidenti della task force, ovvero Ester R. Fuchs, Nicholas Lemann e David M. Schizer, sono membri dell’Academic Engagement Network, un’organizzazione di difesa sionista, e hanno sottoscritto una dichiarazione in sostegno dei legami della Columbia University con Israele. Una tale decisione si rivelerà facilmente una nuova fonte di conflitto ed emarginazione delle voci contrarie alle politiche israeliane.

Ultima nota di contesto utile per il lettore: anche in Italia si avvistano i primi tentativi di emarginare le proteste più radicali contro Israele attraverso l’arbitraria equiparazione tra antisionismo e antisemitismo. Un proposta di legge che va nella medesima direzione è stata depositata in Parlamento dalla Lega nel febbraio scorso.

[di Michele Manfrin]

Il Consiglio UE approva nuove raccomandazioni per spingere i vaccini anticancro

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Il Consiglio UE ha approvato la raccomandazione della Commissione europea, risalente allo scorso 31 gennaio, che mira a promuovere i vaccini anticancro tra la popolazione per prevenire, in particolare, i papillomavirus umani (HPV) e il virus dell’epatite B (HBV). I ministri della Salute dei Ventisette Stati membri, riuniti a Lussemburgo, hanno dato il via libera all’iniziativa con l’obiettivo di sostenere gli Stati membri nell’aumento dei tassi di vaccinazione e nel migliorare il monitoraggio della copertura vaccinale. Nello specifico, sono stati fissati tre obiettivi: vaccinare completamente almeno il 90 per cento delle ragazze contro l’HPV a livello dell’UE entro il 2030; aumentare significativamente la vaccinazione dei ragazzi contro l’HPV nello stesso periodo; esortare i governi a fare di più per avere una copertura vaccinale HBV del 95 per cento per i bambini e i neonati e il tasso di screening del 95 per cento per le donne incinte. L’accesso gratuito ai sieri antitumorali e una migliore campagna di informazione sono gli strumenti chiave per raggiungere questi obiettivi. La commissaria per la Salute, Stella Kyrikides, ha ringraziato gli Stati membri per aver approvato la raccomandazione, che «rappresenta un altro importante passo avanti nella nostra lotta contro il cancro», considerando che «ogni anno nell’Ue vengono segnalate oltre 16 mila nuove infezioni da epatite B». La vaccinazione preventiva sarebbe quindi, secondo Kyrikides, «un’opportunità storica di eliminare il cancro cervicale e altri tumori causati da questi virus».

Le raccomandazioni approvate dal Consiglio non sono vincolanti per gli Stati membri, ma costituiscono una sorta di linea guida politica che serve a orientare le azioni dei governi. Sebbene la Commissione europea non abbia competenze in materia sanitaria, infatti, anche in quest’ambito punta a indirizzare le scelte nazionali. Inoltre, le competenze in tale settore sono state rafforzate dopo la crisi del Covid19. Frank Vandenbroucke, vice primo ministro e ministro della Salute del Belgio, Paese con la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, ha sottolineato che «Un’alta percentuale di casi di cancro è prevenibile» e che la vaccinazione contro HPV e HBV «permette di ridurre considerevolmente il rischio di una persona che sviluppa tumori legati a questi virus». Attualmente, in molti Stati membri la quota di copertura vaccinale contro l’HPV per le ragazze è al di sotto del 50%, mentre per i ragazzi e i giovani adulti i dati sono limitati e c’è una grave carenza di dati per quanto riguarda la vaccinazione contro l’HBV.

Gli obiettivi di Bruxelles ricalcano quelli fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), soprattutto per quanto riguarda l’HBV. L’agenzia, infatti, aveva programmato di raggiungere il 95 per cento di copertura vaccinale (terza dose) della vaccinazione infantile contro l’HBV; di sottoporre a screening per l’epatite B il 95% delle donne in gravidanza e di raggiungere il 95 per cento dei neonati che hanno ricevuto tempestivamente la vaccinazione anti-HBV entro 24 ore dalla nascita. Le raccomandazioni delle UE si conformano, dunque, a quelle dell’OMS, la quale però non è esente da critiche per conflitti d’interesse legate proprio al tema delle vaccinazioni. Tra i primi cinque finanziatori dell’organizzazione istituita dall’ONU nel 1948 compaiono, infatti, anche la Bill & Melinda Gates Foundation e la GAVI Alliance, entrambe attive nella promozione e nel finanziamento della produzione di vaccini.

Le campagne vaccinali appaiono quindi coordinate e decise “dall’alto”, da parte di enti sovranazionali che non di rado hanno il peso necessario per imporre le linee da seguire ai governi. Nel 2014, ad esempio, al Global Health Security Agenda, un gruppo di più di 70 nazioni, organizzazioni internazionali e ONG istituito nel 2014 in risposta alla minaccia globale delle malattie infettive, è stato deciso che l’Italia doveva diventare capofila delle strategie vaccinali nel mondo. In seguito a quel summit negli Stati Uniti, alla presenza di Obama e con la partecipazione dell’allora ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, nel 2017 in Italia sono state introdotte dieci vaccinazioni obbligatorie per i minori tra gli zero e i sedici anni. Al netto degli eventuali benefici per la salute, dunque, il peso di enti sovranazionali in queste scelte è ormai indubbio e la presenza di conflitti di interesse solleva diversi interrogativi circa i reali obiettivi della promozione dei vaccini anticancro, nonché sulla legittimità degli obblighi di vaccinazione. Questione sollevata recentemente anche dalle decisioni relative ai vaccini anti Covid-19. Al contempo, si rileva anche la tendenza sempre più marcata delle istituzioni europee di influenzare e orientare le politiche sanitarie nazionali.

Ucraina, esercito russo colpisce grande centro di armi occidentali

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Nelle ultime ore, l’esercito russo ha colpito un grande centro logistico delle forze armate ucraine in cui si trovavano immagazzinati missili e armi di fabbricazione occidentale. «L’aviazione, i velivoli senza pilota, le forze missilistiche e l’artiglieria delle forze armate russe hanno colpito un grande centro logistico delle forze armate ucraine, dove avviene l’immagazzinamento, lo stoccaggio e la ridistribuzione di armi, compresi i missili, consegnate al regime di Kiev dai Paesi occidentali», si legge all’interno di un comunicato diramato dal servizio stampa del ministero della Difesa russo, citato dall’agenzia di stampa Ria Novosti.

Belluno: le associazioni vincono in tribunale e fermano la speculazione nel Comelico

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Accogliendo il ricorso avanzato dalle associazioni ambientaliste Italia Nostra, Mountain Wilderness Italia e Lipu contro una sentenza pronunciata dal TAR del Veneto, il Consiglio di Stato ha ripristinato i vincoli paesaggistici sui Comuni del Comelico e su Auronzo (Belluno) apposti nel 2019 da un decreto del ministero dell’Ambiente. I giudici amministrativi hanno dunque sancito che non si potranno avviare progetti speculativi in una vasta area del Parco delle Dolomiti, patrimonio Unesco, che costituisce una delle porzioni di territorio più importanti del nostro Paese dal punto di vista paesaggistico. In questo modo, è stato ufficialmente messa in discussione la realizzazione di impianti di risalita e di un collegamento sciistico fra Comelico e Pusteria che aveva precedentemente ottenuto il via libera.

Nel 2022, il TAR aveva dato ragione ai comuni di Auronzo, Comelico Superiore, Santo Stefano di Cadore, Provincia di Belluno e Regione Veneto – supportati da Confindustria Belluno, Confartigianato Belluno e Provincia Autonoma di Bolzano –, che si erano opposti ai vincoli paesaggistici stabiliti dal Ministero. Il dicastero di via Cristoforo Colombo, secondo il TAR, sarebbe infatti intervenuto in una materia di competenza degli enti locali, senza peraltro aver svolto un’appropriata istruttoria, abusando della sua autorità. Il Consiglio di Stato si è invece mosso in direzione uguale e contraria, attestando che il vincolo delineato dal Ministero, diversamente da quanto ricostruito dal TAR, “risulta accompagnato da una adeguata e congrua istruttoria”, che si è avvalsa anche dei risultati di “diversi sopralluoghi” svolti dai funzionari incaricati “anche mediante sorvoli in elicottero”, attraverso i quali “è stato possibile prendere visione delle peculiarità che contraddistinguono l’ambito paesaggistico, verificando la qualità architettonica e urbanistica dell’edilizia esistente”. Da questi elementi, ha scritto il Consiglio di Stato, è possibile “trarre la sussistenza dei presupposti della fondatezza e meritevolezza della dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’area in questione”. Analizzando la questione sul piano giuridico, i giudici amministrativi scrivono che il Ministero ha “esercitato un potere di sua competenza in maniera pertinente”, anche in base a una pronuncia della Corte Costituzionale, che nel 2021 aveva sancito che, “sul piano delle competenze costituzionali attinenti ai beni paesaggistici”, la tutela ambientale e paesaggistica, “gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, venendo dunque a “trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni”.

Esultano Italia Nostra, Mountain Wilderness e LIPU, che parlano di una sentenza «destinata a fare storia nella difesa dei paesaggi naturali». Questa notizia conferma che, anche attraverso mobilitazioni per vie legali, per i cittadini può essere possibile contribuire a fermare progetti speculativi. Se il risultato è stato raggiunto nel Comelico, però, a poca distanza procedono – apparentemente inarrestabili – quelli in vista delle Olimpiadi del 2026. A fine febbraio, infatti, a Cortina d’Ampezzo sono iniziati i lavori per la costruzione della nuova pista da bob in piano per le gare olimpiche, presi in carico dalla ditta Pizzarotti di Parma. Nonostante i costi elevatissimi, le proteste dei gruppi ambientalisti, la presentazione di una alternativa molto più pratica e sostenibile e il parere negativo del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), le motoseghe sono state accese al fine di abbattere 500 larici secolari per la costruzione della pista. In pochi giorni, sono stati recisi circa 1.200 metri cubi di alberi (solo cento metri cubi in meno di tutti gli alberi abbattuti a Cortina dal 2009 al 2020). La scorsa settimana, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini ha annunciato “il via con ghiaccio sulla pista” già “nella prima settimana di luglio”.

[di Stefano Baudino]