venerdì 14 Novembre 2025
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Lucano è stato dichiarato decaduto

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Il Tribunale di Locri ha dichiarato decaduto il sindaco Domenico Lucano, accogliendo la richiesta della prefettura di Reggio Calabria. La sentenza arriva in seguito alla condanna definitiva a 18 mesi per falso, emessa nell’ambito del processo Xenia sui presunti illeciti nella gestione dell’accoglienza delle persone migranti nella cittadina calabra. Lucano era stato assolto da tutte le altre accuse. Il sindaco ha annunciato che farà appello contro la decisione del Tribunale.

Sesto Fiorentino: stop alla vendita di prodotti israeliani nelle farmacie comunali

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A partire dal 1 luglio, le farmacie comunali di Sesto Fiorentino non venderanno più prodotti israeliani, inclusi farmaci, parafarmaci, attrezzature mediche e preparati cosmetici provenienti da aziende israeliane. Questa decisione, storica per la città, segna il primo caso di boicottaggio economico attuato in Italia con queste modalità. La delibera approvata dal Comune sancisce anche la fine di ogni forma di collaborazione istituzionale tra l’Amministrazione comunale e i rappresentanti del governo israeliano o le istituzioni ad esso collegate, fino a quando non verrà ripristinato il rispetto de...

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India, esplosione in fabbrica farmaceutica: almeno 39 morti

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Si è attestato ad almeno 39 morti e 34 feriti il bilancio dell’esplosione e del successivo incendio in una fabbrica farmaceutica della Sigachi Industries, nello Stato indiano del Telangana. L’incidente, avvenuto lunedì, ha causato il crollo dell’intera struttura. I soccorritori sono ancora al lavoro per rimuovere le macerie e verificare la presenza di altri lavoratori intrappolati. Al momento dell’esplosione, all’interno si trovavano 108 persone. Le vittime saranno identificate con test del DNA. Le cause non sono state rese note, ma la produzione resterà sospesa per 90 giorni. Il governo ha annunciato un’indagine e compensi alle famiglie delle vittime.

Un’inchiesta dimostra che l’IDF ha sparato apposta sui palestinesi in fila per gli aiuti

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«È un campo di sterminio». Sono queste le parole utilizzate da un soldato delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per descrivere la attuale situazione a Gaza. La sua testimonianza è riportata, assieme a quella di molti altri militari, dal quotidiano israeliano Haaretz in una inchiesta in cui sostiene che «ai soldati dell’IDF è stato ordinato di sparare deliberatamente ai cittadini di Gaza disarmati in attesa di aiuti umanitari». Una pratica ormai consolidata e normalizzata, riportano le testimonianze, su cui nessuno, neppure gli ufficiali, sembrerebbe interrogarsi. La situazione sarebbe peggiorata notevolmente da quando la distribuzione degli aiuti è passata nelle mani della Gaza Humanitarian Foundation, i cui centri – quattro in tutta la Striscia – sono costantemente sorvegliati dai soldati israeliani. Dalla loro apertura, lo scorso 27 maggio Israele ha ucciso oltre 500 persone in fila per gli aiuti e ne ha ferite oltre 4.000.

Secondo le testimonianze raccolte da Haaretz, le IDF sparerebbero a chi arriva prima dell’orario di apertura dei centri per impedirgli di avvicinarsi, e dopo la loro chiusura per disperderli. Tale pratica, venduta ai soldati come se fosse un modo come un altro per mantenere l’ordine, verrebbe effettuata con ogni mezzo a disposizione: fucili, mortai, cannoni di carri armati, mitragliatrici, granate, cecchini. Diversi soldati riportano che i colpi di arma da fuoco e di artiglieria verrebbero scagliati direttamente verso i civili, anche se disarmati e a centinaia di metri di distanza. «Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da poche centinaia di metri di distanza, e a volte lo attacchiamo da distanza ravvicinata», sostiene un soldato; «ma non c’è pericolo per le forze. Non c’è nemico, non ci sono armi». Il medesimo soldato afferma di non essere a conoscenza di nessun caso in cui dall’altra parte sia stato aperto il fuoco.

I quattro centri GHF sono gestiti da personale statunitense e palestinese, sono sorvegliati dalle IDF, e rientrano in un confine di sicurezza delimitato che si estende per diverse centinaia di metri. Il perimetro di sicurezza delle IDF include carri armati, cecchini e mortai. I centri aprono una sola ora al giorno, generalmente la mattina, ma da quanto riportano le testimonianze di Haaretz tale orario verrebbe cambiato spesso senza notificare per tempo i civili. «Non so chi prenda le decisioni, ma diamo istruzioni alla popolazione e poi o non le seguiamo o le modifichiamo», ha affermato un ufficiale. In questo primo mese di funzionamento dei centri, riporta la testimonianza, è successo che le IDF cambiassero in itinere l’orario di apertura dei magazzini, spostandolo di pomeriggio, e che i civili palestinesi si presentassero all’entrata durante i soliti orari mattutini.

Le testimonianze di Haaretz descrivono la pratica di sparare ai civili in fila per gli aiuti come una prassi «normalizzata». La pratica sarebbe talmente tanto radicata da avere preso il nome di “Operazione Pesce Salato”, un richiamo, spiega Haaretz, al nome ebraico del gioco “Un, due, tre, stella”. Un riservista sostiene che «Gaza è diventato un posto con le sue regole», in cui «la perdita di vite umane non significa nulla»; un altro riservista riporta di un episodio in cui sarebbero stati uccisi otto adolescenti; un alto ufficiale ha riportato di un altro episodio in cui i soldati avrebbero ucciso 10 persone, per «un ordine proveniente dall’alto». La pratica, effettivamente, sembra incoraggiata dagli stessi comandanti: un ufficiale che lavora nel centro settentrionale riporta che il capitano in comando, il generale di brigata Yehuda Vach, ordinerebbe frequentemente di aprire il fuoco contro i palestinesi in attesa degli aiuti per disperderli; un alto ufficiale conferma l’esistenza di «un’ideologia sostenuta dai comandanti sul campo, che trasmettono alle truppe come piano operativo», mentre una fonte militare sostiene che anche i vertici militari «parlano di usare l’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale».

Dall’apertura dei centri GHF, Haaretz ha registrato 19 occasioni in cui è stato aperto il fuoco vicino ai magazzini. Di questi, sostiene il quotidiano, non tutti sono riconducibili all’esercito, ma visto che le IDF controllano il perimetro sembra difficile individuare responsabili diversi dallo stesso esercito israeliano o dalle milizie a esso collegate. Le testimonianze parlano infatti anche di casi in cui ad aprire il fuoco sarebbero state le milizie di Yasser Abu Shabab, che farebbero addirittura parte delle squadre di supervisori palestinesi attive nei centri. Secondo un ufficiale, le IDF continuerebbero a sostenere il gruppo di Abu Shabaab e altre fazioni. «Ci sono molti gruppi che si oppongono ad Hamas – Abu Shabaab si è spinto ben oltre», ha detto. «Controllano territori in cui Hamas non entra, e le IDF lo incoraggiano».

A incentivare la pratica sarebbe, infine, anche la speculazione edilizia. Un veterano riporta che a Gaza opererebbero diverse ditte appaltatrici, incaricate di demolire le abitazioni dei palestinesi. Per ogni edificio abbattuto, sostiene il veterano, gli appaltatori otterrebbero 5.000 shekel, l’equivalente di circa 1250 euro. «Stanno facendo una fortuna. Dal loro punto di vista, ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro». Gli appaltatori opererebbero dove vogliono, lungo tutta la linea del fronte. Di conseguenza, ha aggiunto il veterano, la campagna di demolizione degli appaltatori li porterebbe, insieme alle loro squadre di sicurezza, vicino ai punti di distribuzione o lungo le rotte utilizzate dai camion degli aiuti. E così «scoppia una sparatoria e delle persone vengono uccise». Eppure, «queste sono zone in cui ai palestinesi è permesso stare», spiega il veterano: per le ditte appaltatrici, insomma, «per guadagnare 5.000 shekel è considerato accettabile uccidere persone che cercano solo cibo».

Nessuna giustizia per Mario Paciolla: il tribunale di Roma archivia il caso per suicidio

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«Con questa sentenza, Mario è stato ucciso una seconda volta». Lo ripetono i familiari, gli amici, chi ha conosciuto Mario Paciolla soltanto dopo la sua morte e ne ha preso a cuore la storia, unendosi a quel grido di dolore che da cinque anni chiede verità e giustizia. Ieri il giudice per le indagini preliminari (GIP) di Roma ha accolto la richiesta della Procura e archiviato il caso, sostenendo che la vita del cooperante ONU morto in Colombia nel 2020 si sia interrotta con un suicidio. Una tesi che stride con una serie di dati tecnici emersi durante l’autopsia e con l’alterazione della scena del crimine a opera delle Nazioni Unite, oltre che con lo stato d’animo di Mario il quale, non sentendosi più sicuro in Colombia, avrebbe dovuto partire a giorni per l’Italia.

Mario Paciolla era un cooperante ONU, che dal 2018 lavorava in Colombia per garantire l’applicazione degli accordi di pace tra il governo e i guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC). Il 15 luglio del 2020 il corpo di Mario venne ritrovato senza vita presso la sua abitazione, a San Vicente del Caguán. Da allora una serie di depistaggi, silenzi e inerzie ha montato un caso complesso, che coinvolge un Paese straniero e la massima organizzazione internazionale. L’iter giudiziario inizia in Colombia, dove nel settembre 2022 la morte di Mario Paciolla viene archiviata per suicidio. Un mese dopo la Procura di Roma giunge allo stesso esito, che il giudice però respinge, sostenendo che l’ipotesi del suicidio non è logica perché presta il fianco a molti sospetti. Vengono così disposte nuove indagini, ma i pubblici ministeri non cambiano idea e a giugno 2024 avanzano la seconda richiesta di archiviazione, che a distanza di un anno il GIP accoglie. «Noi sappiamo non solo con le certezze del nostro cuore, ma con le evidenze della ragione frutto di anni di investigazione e perizie, che Mario non si è tolto la vita ma è stato ucciso perché aveva fatto troppo bene il suo lavoro umanitario in un contesto difficilissimo e pericoloso in cui evidentemente non bisognava fidarsi di nessuno», ha commentato la famiglia Paciolla, abbracciata ieri dalla solidarietà dei cittadini napoletani riunitisi in presidio a piazza Municipio, nei pressi della sede comunale. Un unico, eloquente, striscione ha parlato per tutti: «Mario Paciolla non si è suicidato! ONU criminale, Italia complice».

Secondo la versione del suicidio avanzata dalla Procura di Roma, il trentatreenne napoletano avrebbe tentato una prima volta di impiccarsi senza riuscirci, ripiegando dunque sul taglio delle vene. Come sottolinea l’avvocata Alessandra Ballerini in una recente inchiesta di Fanpage, la seconda ferita avrebbe dovuto comportare un gocciolamento dato dal primo polso tagliato pochi attimi prima, di cui però non c’è traccia sui vestiti. Mancano anche le impronte insanguinate sul materasso, il che presupporrebbe un balzo con un colpo di reni — non proprio semplice con ferite del genere — per andare in giro per la casa, verso il computer. Qui si registrano dei gocciolamenti, precisi e metodici, senza alcun barcollamento. «Non ci sono impronte né di scarpe né di piedi scalzi, quindi Mario sta attentissimo a non mettere mai il piede su una goccia di sangue che ha lasciato», dice Ballerini. Il balzo felino si ripeterebbe per tornare sulla sedia, il tutto senza appoggiare le mani, dal momento che mancano le impronte. Mario si metterebbe dunque in punta di piedi, a nove centimetri e mezzo dalla grata attraverso cui far passare la corda con un lancio. A questo punto si impiccherebbe in condizioni anomale: «la sedia incredibilmente non cade e Mario la tocca coi piedi», racconta l’avvocata della famiglia Paciolla.

A questa ricostruzione si aggiungono altri punti oscuri. Lo ricordano in ogni occasione utile i genitori di Mario, Anna e Pino, che si sono avvalsi nel tempo di perizie tecniche a sostegno della loro battaglia. Nelle conclusioni dell’autopsia effettuata sul corpo del cooperante ONU, il medico legale Vittorio Fineschi scrive: “Vale il conto, tuttavia, di precisare che talune evidenze – non trovando spiegazione alternativa nell’ambito dell’ipotesi suicidaria – sostengono in maniera prevalente l’ipotesi dello strangolamento con successiva sospensione del corpo”. Compatibile con tale ipotesi è la rottura dell’osso ioide rilevata sul corpo del trentatreenne napoletano oltre che la presenza di un anestetico paralizzante, la lidocaina, nel sangue. Riguardo ai tagli sui polsi, Fineschi afferma: “le evidenze riscontrate nell’ambito della vitalità non consentono di escludere in termini di ragionevole certezza la possibilità che le lesioni siano venute a prodursi in limite vitae o addirittura post-mortem”. A ciò si aggiunge l’inquinamento della scena del crimine da parte del responsabile della sicurezza della missione ONU, Christian Thompson, che dopo aver usato della candeggina per ripulire diversi punti dell’appartamento ha buttato alcuni oggetti, violando i protocolli delle stesse Nazioni Unite senza però incorrere in alcuna sanzione o condanna ma venendo addirittura promosso. D’altronde la massima organizzazione internazionale ha imposto ai suoi dipendenti il massimo riservo sulla questione, non collaborando al percorso di verità e giustizia intrapreso dalla famiglia Paciolla, che ha più volte raccontato dell’inquietudine provata da Mario nei confronti di Thompson. Negli ultimi giorni di vita, il cooperante parla coi genitori di problemi seri, in una telefonata risalente all’11 luglio dice che “gliela faranno pagare”. La versione è confermata dalla compagna Ilaria Izzo, secondo cui Mario Paciolla si sentiva tradito e spiato dallo staff dell’ONU, probabilmente a seguito di alcune scoperte fatte nella gestione della missione.

La famiglia Paciolla, insieme a tanti amici e conoscenti, continuerà la sua lotta. L’appello è rivolto innanzitutto al governo italiano e alle Nazioni Unite, per una collaborazione con le autorità colombiane in grado di stabilire le dinamiche e le responsabilità di quel 15 luglio, andando oltre un’archiviazione di comodo. Quest’ultima, alla luce dei tanti punti d’ombra emersi nella ricostruzione, pare configurarsi infatti come un tentativo di non disturbare equilibri e relazioni internazionali, scontentando tutti coloro che hanno a cuore la storia di Mario. Al di là del canale istituzionale, il comitato giustizia per Mario Paciolla ha fatto sapere che dopo aver capito le ragioni dell’archiviazione ci si riorganizzerà per il futuro, «nuovi elementi saranno a disposizione della campagna di sensibilizzazione per Mario, senza perdere la speranza perché nuove prove sono in attesa di essere scoperte, nuove persone sono in attesa di essere messe in contatto. C’è tanto da fare. Questa è una storia difficile, ma non impossibile».

Da spazio degradato a presidio di resistenza sociale: gli Orti Urbani di Livorno

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La storia degli Orti Urbani di Livorno è una storia di presidio sociale, ambientale e culturale contro la speculazione edilizia e la cementificazione. Gli Orti Urbani sono una realtà di autogestione, di resistenza cittadina collettiva per la sostenibilità e la tutela del territorio, rappresentando un esempio concreto di restituzione di uno spazio degradato alla cittadinanza, con una forte attenzione alla trasparenza, all’inclusione e alla sostenibilità ambientale. A Livorno, come in tutta Italia, sono numerosi gli spazi e i terreni, sia pubblici che privati, lasciati in stato di abbandono da anni, alcuni comprendenti scheletri di edifici in cemento mai finiti. Gli Orti Urbani di Livorno si estendono su un’area di 6 ettari compresa tra via Goito, via dell’Ambrogiana, via dell’Erbuccia, via Corazzi e via da Verrazzano, in pieno centro cittadino, vicino al mare. Quest’area, che fino al 1973 era adibita a uso agricolo, è stata tramutata in area per servizi. Da quel giorno a oggi, la proprietà è passata nelle mani di ben 5 cooperative edili. Nessuno dei progetti presentati all’amministrazione comunale – impianti sportivi, centri commerciali, palazzi abitativi, strade e parcheggi – è mai partito. Di fatto, l’ultimo e unico uso per cui questo terreno è stato utilizzato è la coltivazione.

Da spazio abbandonato a realtà collettiva

Per 35 anni, un terreno situato in pieno centro a Livorno, storicamente adibito a coltivazioni e sottratto alla cittadinanza per realizzare opere mai avviate, è stato lasciato in completo stato di abbandono. Così, nel 2011, il Comitato Precari e Disoccupati di Livorno e i militanti della Ex caserma occupata decisero di ripulire l’ultima grande area verde del centro cittadino, ormai diventata una giungla di rovi e una discarica a cielo aperto, a non molta distanza dal mare e dalla famosa Terrazza Mascagni. La bonifica ha incluso la rimozione di rifiuti di ogni tipo, anche pericolosi – come l’amianto. Una volta che l’area è stata ripulita e che si sono formati i vari collettivi per la sua conservazione, è nata la diatriba con il Comune di Livorno. Quest’ultimo, quasi sfruttando il lavoro svolto da questi cittadini (e forse per impedire anche che prendessero piede iniziative dal basso, oltre a voler fare cassa), decise infatti di autorizzare la costruzione di opere nell’area. In questo modo il proprietario del terreno, che all’epoca era la Cooperativa Lavoratori delle Costruzioni (CLC), si trovò tra le mani un’area che acquisì un grande valore immobiliare, valutata tra i 3 e i 4 milioni di euro. Così partirono i nuovi piani di urbanizzazione e cementificazione. Il progetto, rimasto sostanzialmente invariato da allora, prevedeva, e prevede, la costruzione sul 20% dei 6 ettari di superficie totale dell’area. L’apertura del cantiere avrebbe però portato a chiudere tutta l’area, non solo la parte su cui si sarebbe edificato. E la storia rimane la medesima anche oggi. 

Nel 2016, quando ormai gli Orti Urbani erano una realtà collettiva affermata che aveva spezzato la lunga storia di abbandono e degrado, la CLC provò a utilizzare la forza e inviò gli operai con le ruspe sul posto, recintando la zona per iniziare i lavori. Una volta arrivati, gli operai trovarono i membri dei vari collettivi intenti a piantare alberi proprio lungo la recinzione, frapponendosi in maniera pacifica tra la zona verde e le ruspe. Il tentativo della CLC fallì: gli operai, infatti, non vollero forzare la situazione e si astennero dal proseguire ogni azione di fronte a persone pacifiche che si opponevano a quelle grandi macchine con la piantumazione di alberi. Vari sono i cittadini, anche molto anziani, come il novantenne Franco, che hanno ricevuto una denuncia per quell’azione pacifica contro le ruspe. Nel 2023 furono tutti assolti. Mentre scriviamo, si attende la discussione in Consiglio comunale della petizione firmata da 1200 cittadini che chiedono che non si costruisca e che si ritorni all’uso agricolo dell’area, così da non permettere cementificazione e speculazione edilizia. La petizione è stata sottoscritta per opporsi alla prima asta pubblica per la vendita dell’area, presso il Tribunale di Livorno, per una base d’asta di quasi 2 milioni di euro.

Uno spazio restituito alla città e ai cittadini

I collettivi che formano gli Orti Urbani hanno sempre rifiutato i tavoli di concertazione con l’amministrazione comunale, rifiutando in toto i progetti di cementificazione da essa proposti. L’aumento di porzioni di terreno coperte da cemento, infatti, è legata in maniera diretta a problematiche quali le ondate di calore e l’incapacità del suolo di ricevere e trattenere acqua, con i conseguenti allagamenti in caso di piogge intense. Proprio a Livorno, negli ultimi anni, si sono verificate diverse alluvioni che hanno causato molti morti tra la popolazione, ma i piani dell’amministrazione comunale non sono cambiati.  

Gli orti rappresentano uno spazio vissuto quotidianamente, aperto e senza barriere, che offre attività culturali, sociali e di aggregazione, coinvolgendo anche scuole e famiglie. L’area è attraversata da bambini che la usano come percorso sicuro da casa a scuola, evitando le trafficate strade livornesi e, soprattutto d’estate, ospita molte persone, tra cui mamme con figli che giocano e persone anziane che si riparano dal forte calore all’ombra degli alberi, conversando e fuggendo dalla solitudine casalinga. 

Nell’area degli Orti Urbani ci sono circa 100 particelle, ciascuna assegnata a una o più persone. Il collettivo funziona tramite assemblea, dove tutte le decisioni vengono prese collettivamente, anche da chi non possiede un orto – che può partecipare a condizione di condividere i valori del progetto. Il collettivo ha come scopo principale la restituzione e la gestione condivisa del grande spazio verde, mantenendo attività aperte e collettive come il cinema gratuito, cene popolari e il mercato contadino con prodotti a chilometro zero, promuovendo autosufficienza, sostenibilità e riduzione degli imballaggi, oltre a incentivare l’uso di contenitori riutilizzabili.

Le attività degli Orti Urbani

Fin dall’inizio e ancora oggi, gli orti vengono assegnati in appezzamenti di circa 5 metri per 5. Ogni persona o gruppo deve prendersi cura del proprio pezzo di terreno, mantenendolo pulito e in ordine. Non è obbligatorio coltivare ma è fondamentale la manutenzione e la cura. Le assegnazioni degli orti avvengono tramite una pagina dedicata, seguendo l’ordine cronologico delle richieste, per evitare favoritismi o raccomandazioni. In caso di abbandono, le particelle vengono riassegnate secondo questa procedura trasparente. Gli orti sono irrigati con acqua di una sorgente naturale che passa sotto l’area. La cementificazione metterebbe a rischio questa preziosa risorsa.

Non tutti i 6 ettari sono stati parcellizzati ma, in virtù dei princìpi che hanno spinto all’occupazione del terreno, sono stati mantenuti anche grandi spazi comuni. Tra questi c’è l’area ristoro dove vengono organizzate feste, cene di autofinanziamento ed eventi culturali e dove vengono svolte le assemblee nelle quali viene decisa ogni cosa in maniera collettiva e democratica. Vi sono poi il cinema estivo (gratuito), spazi per praticare sport, il mercato contadino autogestito e molto altro. Questi spazi favoriscono la socialità e l’aggregazione intergenerazionale, tutto in maniera autogestita e volontaria. 

Polonia: annunciati controlli ai confini con Germania e Lituania

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La Polonia introdurrà controlli temporanei lungo i confini con Germania e Lituania. L’annuncio è arrivato dal primo ministro del Paese Donald Tusk, che ha affermato che i controlli partiranno a partire dal 7 luglio. La scelta di aumentare i controlli al confine, spiega Tusk, intende contrastare l’immigrazione irregolare, specialmente il flusso di persone che entrano in Polonia dalla Germania. La Polonia non è il primo Paese che annuncia misure di contenimento delle entrate irregolari: quest’anno, anche Belgio e Germania hanno ripristinato i controlli alle frontiere.

In Italia continua a calare il numero degli affitti brevi turistici

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Nelle principali città italiane e nelle località di villeggiatura, per il primo anno dal post‑Covid è stata confermata una diminuzione dell’offerta di immobili destinati agli affitti brevi. L’unione di maggiori oneri, costi di gestione e fiscali più elevati e rendimenti netti deludenti ha infatti indotto molti proprietari a ritirare i propri immobili dal mercato degli affitti brevi, causandone una significativa contrazione. Tale andamento, tuttavia, non ha toccato i canoni medi di locazione, i quali continuano a salire, sospinti dalla domanda sempre solida e dalle nuove incombenze normative. Mentre il numero di annunci online è sceso di oltre 25mila unità in un solo anno, le tariffe restano infatti in crescita in quasi tutte le zone monitorate.

L’offerta di case in affitto breve è calata da 508.000 a 484.000 annunci online nell’ultimo anno, secondo i dati di AIGAB (Associazione Italiana Gestori Affitti Brevi). Marco Celani, presidente dell’associazione, ha spiegato a Il Sole 24 Ore che la riduzione — pari a circa 25.000 unità — è dovuta sia a chi è passato al contratto 4+4, sia a chi, non volendo adeguarsi alle nuove regole, ha preferito lasciare la casa sfitta. Le stime indicano che 50.000 unità sono uscite definitivamente dal mercato degli affitti brevi. Tra le cause primarie, il nuovo obbligo di inserire il Codice Identificativo Nazionale (finora rilasciati 586.000 CIN) e di dotare gli alloggi di estintori e rilevatori di gas, con sanzioni in caso di omissioni, ha imposto spese aggiuntive e tempi di adeguamento; tariffe medie giornaliere di 100–140 € valgono poco contro i costi di gestione e una fiscalità più gravosa, tanto che il 38,5 % degli ex‐host denuncia guadagni inferiori a quanto inizialmente atteso.

Se è vero che tale fenomeno sta determinando un’inversione di tendenza nel mercato immobiliare, con un aumento dell’offerta di affitti stabili destinati ai residenti, secondo l’ultimo report di Scenari Immobiliari per il quotidiano economico-finanziario i canoni medi delle locazioni brevi nelle grandi città italiane hanno fatto segnare incrementi compresi tra il +2,7 % di Milano (dove si mantengono i livelli più elevati) e il +5,4 % di Firenze. In alcune località balneari gli aumenti sfiorano il +6 % su base annua. Nel complesso, i prezzi sono cresciuti del 4,7 % e i rendimenti medi si attestano al +4,4 % rispetto a dodici mesi fa.

Secondo l’Istat, in Italia esistono 35 milioni di immobili residenziali, di cui 25 milioni occupati e 9 milioni sfitti. Di questi, 700.000 unità – circa il 2 % del complesso – sono destinate agli affitti brevi. La maggior parte degli appartamenti oggi offerti con questa formula non proviene da un passaggio diretto dal lungo termine, ma da immobili che i proprietari hanno ereditato (32%), o che un tempo abitavano in prima persona prima di trasferirsi altrove (28%), oppure erano rimasti vuoti per anni (26,1 %). Solo una minima parte (2,2 %) è stata trasformata da contratti di locazione di durata classica. Sul fronte fiscale, la cedolare secca al 26%, introdotta nel 2024, è stata applicata finora da appena l’11,3 % dei locatori di case brevi. Il trattamento agevolato si estende solo a chi dichiara canoni da almeno due unità, mentre sul primo appartamento rimane l’aliquota al 21%. Nel frattempo, Pro.Loco Tur ha presentato ricorso alla Corte di Giustizia UE contro il pacchetto Vida, che dal 1° luglio 2028 (o 2030, a seconda delle scelte nazionali) potrebbe introdurre l’IVA sui canoni dei portali online.

Che il mercato degli affitti brevi in Italia, dopo una lunga fase di crescita, avesse registrato un calo significativo è risultato evidente dallo scorso marzo, quando, secondo l’AIGAB, gli annunci online erano scesi da 75.000 a 66.660 dal mese di gennaio. La riduzione si era assestata all’11%, raggiungendo a Firenze il 20%. Le cause principali, oltre agli adempimenti richiesti a livello nazionale, si sono rivelate anche le nuove normative locali, come quella della Toscana che consente ai Comuni di imporre limiti o divieti nelle aree più turistiche. La legge toscana, nata da forti mobilitazioni cittadine, è stata impugnata dal governo per presunta violazione delle norme su concorrenza e libertà d’impresa. Lo scorso novembre, il collettivo “Salviamo Firenze” aveva inscenato una protesta simbolica contro gli affitti brevi, coprendo con adesivi rossi circa 500 key box, le scatole utilizzate dai proprietari per l’accesso agli appartamenti. Gli adesivi riportavano la scritta “Salviamo Firenze X Viverci”, un messaggio diretto contro la speculazione immobiliare che, secondo i manifestanti, stava trasformando il centro storico in un luogo sempre meno vivibile per i residenti. Proteste simili si sono verificate anche in altre città italiane, come Roma, dove gruppi locali hanno sabotato le key box in segno di protesta.

Parigi-Milano, collegamenti ferroviari sospesi per danni da maltempo

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I collegamenti ferroviari tra Milano e Parigi sono stati sospesi a causa dei danni provocati dai violenti temporali nella Savoia francese, al confine con l’Italia. SNCF ha annunciato che, per consentire la pulizia del fango e verificare eventuali danni ai binari, la sospensione dei treni — inclusi i regionali — durerà «almeno per qualche giorno», ma potrebbe prolungarsi in caso di interventi più complessi. Trenitalia ha cancellato gli AV per «condizioni meteo critiche in territorio estero», dato che i due servizi condividono la stessa linea. I temporali di lunedì, seguiti a un’ondata di caldo, hanno fatto esondare il torrente Charmaix a Modane, allagando strade.

L’AIEA smentisce Trump: nessun danno decisivo al nucleare iraniano

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Il danno statunitense al programma nucleare iraniano è stato «severo», ma «non totale», e la Repubblica Islamica ha tutte le capacità per riprendere l’arricchimento. A dirlo non sono le autorità iraniane, ma quelle dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Secondo il direttore dell’AIEA, Rafael Mariano Grossi, l’Iran ha «chiaramente» le possibilità di proseguire il proprio programma nucleare. I danni alle strutture non sono infatti tali da impedire a Teheran la ripresa delle operazioni, e le centrifughe potrebbero tornare operative entro qualche mese. Non è, tuttavia, una questione di tempistiche: «Le conoscenze ci sono e la capacità industriale pure», ha detto il direttore. «Dobbiamo capire che, operazioni militari o meno, il problema non si risolverà militarmente». Per bombardare l’Iran, gli USA hanno manipolato il contenuto di un rapporto dello stesso Grossi, accusando Teheran di stare costruendo una bomba atomica. In quel rapporto, l’AIEA non parlava di armi nucleari, ma Grossi ha affermato che «molte persone» gli hanno chiesto di inserire nel documento riferimenti alle presunte aspirazioni iraniane.

Le dichiarazioni di Rafael Grossi sono state rilasciate alla emittente statunitense CBS, in occasione di un’intervista con la giornalista Margaret Brennan. Nel corso dell’intervista, Grossi, pur rimanendo sul vago quando parla dei danni alle strutture iraniane, è piuttosto chiaro nello stabilire che questi non sono stati «totali» come invece affermato da Trump: «Francamente, non si può dire che tutto sia scomparso e che non ci sia più niente». Secondo Grossi, gli Stati Uniti sarebbero riusciti a infliggere danni significativi al programma nucleare iraniano, ma i dubbi circa l’efficacia degli attacchi sono diversi.

In primo luogo, resta ancora da capire dove siano quei 400 chilogrammi di uranio arricchito di cui l’Iran era a disposizione prima dell’attacco. Come rimarca la stessa Brennan, «questi vengono stoccati in piccoli contenitori, relativamente facili da spostare» e Teheran potrebbe averli trasferiti prima dell’attacco, come del resto sembravano suggerire le immagini satellitari dello stabilimento di Fordo scattate nei giorni antecedenti al bombardamento statunitense. «Possiamo supporre, e credo sia logico presumere, che quando [le autorità iraniane] hanno annunciato che avrebbero adottato misure di protezione» del programma nucleare, lo spostamento dei barili di uranio «rientrasse tra queste misure», ha detto Grossi. Successivamente, sottolinea Grossi, va considerato che «l’Iran aveva un programma molto vasto e ambizioso», ma soprattutto aveva, e ha tutt’ora, una solida base industriale, tecnologie avanzate, e sviluppate conoscenze tecniche: «Non si può “disinventare” tutto questo». La soluzione, insomma, non può essere militare; e questo non per ragioni politiche, ma per questioni strutturali: «Non si possono distruggere le conoscenze o le capacità» di qualcuno. Nel corso dell’intervista, come in quelle precedenti, Grossi ha rimarcato che quando si tratta di nucleare, non è una questione di tempi, ma che, se dovesse avanzare stime, l’Iran potrebbe riprendere l’arricchimento entro una «manciata di mesi».

In quella che è stata definita “Guerra dei 12 giorni”, Trump e Netanyahu hanno manipolato il contenuto di un rapporto dello stesso Grossi, in cui il direttore sosteneva che l’Iran stava aumentando l’arricchimento dell’uranio, accusando il Paese di tramare in segreto per dotarsi di armi atomiche. Tale ipotesi è poi stata smentita dallo stesso Grossi, oltre che da varie agenzie di intelligence statunitensi. Nel corso di questa ultima intervista, il direttore dell’AIEA è stato piuttosto esplicito: «Davvero, chi può credere che questo conflitto sia avvenuto a causa di un rapporto dell’AIEA?», ha detto Grossi. «Per l’agenzia, l’Iran non aveva armi nucleari». Ciò su cui il rapporto sollevava dubbi, «erano altre cose poco chiare. Ad esempio, avevamo trovato tracce di uranio in alcuni luoghi dell’Iran, che non rientravano nelle normali strutture dichiarate». Nessun riferimento, insomma, a presunte aspirazioni iraniane; Grossi tuttavia ha affermato di essere stato oggetto di pressione perché venissero inserite nel rapporto: «molti, posso assicurarvelo, dicevano: “Nel vostro rapporto, dovete dire che hanno armi nucleari, o che sono molto vicini ad averle”», ha rivelato il direttore. «Noi però non lo abbiamo fatto perché non era ciò che vedevamo».