giovedì 11 Dicembre 2025
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La Cina compra MediaWorld e Unieuro: test del golden power per il governo Meloni

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Silenziosamente, ma con precisione chirurgica, la Cina ha messo un piede nel cuore della distribuzione elettronica europea. Il colosso cinese dell’e-commerce JD.com ha annunciato l’acquisizione del gruppo tedesco Ceconomy, la holding tedesca che controlla MediaMarkt e Saturn. L’operazione regala al dragone rosso l’accesso a due marchi simbolo del retail tecnologico tedesco e italiano: MediaWorld e Unieuro. Con il controllo di Ceconomy, JD.com ottiene, infatti, un accesso indiretto anche a Unieuro, in quanto, la holding tedesca detiene il 23,4 % della francese Fnac Darty, che nel 2024 ha acquistato la catena italiana.

Si tratta di un affare da 2,2 miliardi di euro, con un’offerta pubblica d’acquisto al prezzo di 4,60 euro per azione. Una mossa studiata nei minimi dettagli: JD.com acquisisce così una rete distributiva imponente con 48.000 dipendenti, oltre 22 miliardi di euro di fatturato (dati 2023/2024) e una presenza in 11 Paesi. In Italia, dove MediaWorld è il secondo mercato per volumi dopo la Germania, la rete conta 144 negozi e 5.000 lavoratori. Il completamento dell’operazione è previsto per la prima metà del 2026, dopo il monitoraggio e il via libera delle autorità antitrust europee. La mossa non è solo economica, ma geopolitica e in Italia dovrebbe accendere più di un campanello d’allarme.

JD.com – terzo player cinese dell’e-commerce dopo Alibaba e Pinduoduo – non è nuovo ai colpi di scena. Già attivo in Francia, Regno Unito e Paesi Bassi con la sua piattaforma Ochama, ora entra dalla porta principale nel Vecchio Continente con l’acquisizione di Ceconomy. Fondata nel 1998 da Richard Liu con il nome 360Buy, JD.com è diventata negli anni una delle realtà più avanzate dell’e-commerce globale, distinguendosi per una strategia radicalmente diversa dai competitor cinesi come Alibaba e Temu. Mentre questi ultimi si affidano a modelli marketplace aperti a venditori terzi, JD.com controlla direttamente l’intera filiera, dalla logistica alla consegna, fino alla piattaforma tecnologica. In Cina può contare su oltre 820 magazzini, più di 37.600 veicoli per le consegne e una forza lavoro logistica di oltre 323 mila persone.

Questa integrazione verticale consente al gruppo non solo di ottimizzare i tempi di consegna e ridurre i costi, ma anche di accumulare enormi quantità di dati sugli utenti. La piattaforma JD Pay, le soluzioni cloud e i sistemi di intelligenza artificiale sviluppati internamente permettono di tracciare, analizzare e prevedere i comportamenti dei consumatori con una precisione inquietante. Solo nel primo trimestre del 2024, l’app di JD.com ha raggiunto 569,3 milioni di utenti attivi mensili, responsabili del 78,5% delle transazioni mobili. Negli ultimi anni, la multinazionale ha accelerato la sua espansione internazionale per contrastare la crisi interna dell’economia cinese. In Olanda ha lanciato i negozi ibridi Ochama, in cui si ordina online e si ritira in store automatizzati, mentre nel Regno Unito ha testato il marketplace Joybuy. Nel 2024 ha persino valutato l’acquisto di Currys, storica catena britannica di elettronica, prima di puntare sulla più strategica Ceconomy: un colpo solo per conquistare mezza Europa.

Non è la prima volta che un colosso cinese entra in punta di piedi nel mercato europeo: TikTok, Huawei, CATL, Nio, ecc. Pechino punta su penetrazione graduale e controllo infrastrutturale, bypassando guerre commerciali e aggirando vincoli apparentemente rigidi. JD.com è l’ennesimo tassello di una strategia più ampia: non si limita a vendere, ma costruisce reti.

Nel tentativo di rassicurare autorità e opinione pubblica, il colosso cinese ha promesso che Ceconomy manterrà “indipendenza operativa”. Nessun cambiamento di contratto per i dipendenti, nessuna fusione dei sistemi IT, nessun trasferimento di dati sensibili. Promesse: in assenza di vincoli giuridicamente cogenti, qualsiasi “autonomia” è temporanea.

A questo punto entra in gioco Palazzo Chigi. Il governo Meloni è ora chiamato a valutare se attivare il cosiddetto golden power, lo strumento previsto dalla legge italiana per bloccare – o vincolare – acquisizioni straniere in settori strategici per la sicurezza nazionale. È lo stesso meccanismo già ipotizzato nel caso UniCredit, ed è contemplato anche per operazioni che, pur avvenendo all’estero, possono avere ricadute dirette sull’economia italiana. Se l’anno scorso per l’entrata dei francesi di Fnac in Unieuro il golden power non si era attivato, in questo caso il governo dovrebbe muoversi in modo diverso. Il vero nodo della questione è che JD.com è cinese, non europea. Il dilemma è se frenare o meno l’avanzata di Pechino per non indispettire la Casa Bianca.

Inoltre, JD.com non è soltanto un marketplace. È una macchina da guerra logistica che integra magazzini, veicoli per le consegne e intelligenza artificiale applicata al comportamento dei consumatori. Con l’accesso a migliaia di transazioni quotidiane nei negozi italiani, il gruppo cinese potrebbe potenzialmente profilare milioni di utenti, tracciando abitudini, preferenze, consumi. Si tratta, quindi, di controllo tecnologico, logistica, supply chain e – soprattutto – dati.

In gioco non c’è solo il commercio, ma un avamposto strategico nel cuore d’Europa. L’operazione è un tassello di una strategia geopolitica mirata al controllo delle reti logistiche e digitali europee. L’Italia è sul tracciato e rischia di diventare il punto debole dell’intera architettura del Vecchio Continente.

Gaza, Israele compie ennesima strage di persone in attesa aiuti umanitari

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Sono almeno 35 le persone uccise da Israele nella sola giornata di oggi mentre erano in coda per ricevere aiuti umanitari. L’esercito israeliano, secondo quanto riferiscono testimoni sul posto citati da Al-Jazeera, hanno aperto il fuoco contro i civili in attesa. Questi omicidi portano a oltre cinquanta il numero di persone uccise da Israele oggi lungo tutta la Striscia di Gaza, alle quali si aggiungono le 7 morte di fame (tra le quali vi è un bambino) per la carestia indotta dal blocco degli aiuti da parte del governo israeliano. In tutto, sono 169 i civili palestinesi uccisi dalla mancanza di cibo: 93 di questi sono bambini.

Riconoscere la Palestina, senza far nulla per farla esistere: l’ultima ipocrisia europea

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In questi giorni dal mondo Occidentale fioccano dichiarazioni forti, in cui i vertici politici si dicono finalmente pronti a riconoscere lo Stato di Palestina. A inaugurarle è stato Macron, in una lettera rivolta al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas in cui gli comunica che il riconoscimento avverrà a settembre, in occasione dell’apertura del nuovo ciclo dell’ONU. «La pace è possibile», «non c’è alternativa», l’impegno è «di portata storica». Parole che sono giunte rapidamente ai suoi alleati, per essere nella sostanza ripetute dal premier britannico Starmer e dal Canada di Carney: tre Paesi del G7, pronti a riconoscere uno Stato senza volere fare nulla di solido per garantirne l’esistenza. Il riconoscimento è infatti subordinato al disarmo, a riforme orientate, alla cessione della supervisione militare e politica e, per Starmer, alla condotta di Israele. Condizioni concordate con lo stesso Abbas, orientate a completare la trasformazione dell’intera Palestina storica in una colonia israeliana, e a salvare la faccia di una politica ipocrita, incapace di adottare misure concrete per fermare un genocidio.

L’annuncio dell’intenzione di riconoscere la Palestina da parte dei leader Occidentali è arrivato a margine della conferenza franco-saudita per la Palestina, tenutasi a New York. Al termine degli incontri, 15 Paesi hanno firmato una dichiarazione in cui annunciano che prenderanno in considerazione l’idea di riconoscere lo Stato di Palestina; poco dopo, è arrivato l’annuncio di Macron. Nella sua lettera, il presidente francese si rivolge direttamente ad Abbas e annuncia che, alla luce delle sue dichiarazioni di giugno, riconoscerà la Palestina. Di preciso, Macron fa riferimento a una lettera redatta dallo stesso Abbas e inviata – oltre che al presidente francese – all’Arabia Saudita. In essa, il presidente dell’ANP sostiene che i tempi per l’implementazione di una soluzione a due Stati sono maturi, e, in cambio del riconoscimento della Palestina e dell’aiuto nelle trattative per un cessate il fuoco, si impegna a: indire elezioni nel 2026, attuare riforme suggerite dai Paesi occidentali e cedere la supervisione della riorganizzazione politica a un coordinamento internazionale; ordinare il totale smantellamento di Hamas, e impedire al movimento di prendere il potere a Gaza; disarmare lo Stato e cedere la supervisione militare a una forza internazionale. Dopo Macron, anche Carney e Starmer hanno annunciato la propria intenzione di riconoscere uno Stato palestinese. Il secondo, tuttavia, ha detto che riconoscerà la Palestina «a meno che il governo israeliano non compia passi sostanziali per far sì che la terribile situazione a Gaza finisca, accetti un cessate il fuoco, e si impegni a implementare una pace duratura», fermando anche le annessioni in Cisgiordania.

Da Londra, insomma, il riconoscimento della Palestina arriverà solo se Israele non fermerà i massacri; in caso contrario, Starmer ha suggerito di essere pronto a ritirare l’opzione dal piatto. La misura ha dunque tutta l’aria di costituire una sorta di ultimatum a Israele, più che quella di essere un tentativo di risolvere la questione palestinese; pare, insomma, una mossa politica. Francia e Canada, invece, sembrano intenzionate a riconoscere la Palestina a prescindere dalla condotta dello Stato ebraico; le condizioni imposte, tuttavia, non paiono rendere la loro «misura storica» realmente diversa da quella britannica. La Palestina che disegnano, infatti, è uno Stato indipendente solo nel nome: smilitarizzata, con forze internazionali sul territorio, e costretta ad applicare riforme imposte da terzi. Tra di esse, lo stesso Abbas ricorda quella che taglia i sussidi statali per i parenti dei martiri e delle persone in prigione, voluta da USA e Israele che la vedevano come un modo per «fomentare il terrorismo»; si potrebbe ricordare anche quella di gennaio, con la quale bandì temporaneamente l’emittente qatariota Al Jazeera in Cisgiordania, adducendo le stesse motivazioni che il governo israeliano fornì quando ordinò la chiusura degli uffici della medesima emittente.

Il preannunciato riconoscimento della Palestina appare come l’ultimo degli atti ipocriti dei leader occidentali, mossi non da un improvviso slancio umanitario, ma da ragioni puramente politiche: esso, causalmente, arriva in un momento in cui i crimini israeliani sono talmente evidenti (e la pressione dal basso talmente forte) da non permettere più che ciò che accade a Gaza venga ignorato. Il tempismo e le modalità sembrano incastrarsi con precisione chirurgica con l’esigenza di apparire risoluti davanti a una opinione pubblica che chiede sempre più intensamente risposte, senza fornirgliele realmente. Le misure che potrebbero prendere gli Stati per esercitare una reale pressione su Tel Aviv, infatti, sono diverse, e il riconoscimento di uno Stato palestinese è solo la prima e più scontata di queste: i Paesi potrebbero emanare sanzioni contro i coloni, i ministri e le entità che collaborano con il genocidio; potrebbero interrompere in via definitiva i rapporti commerciali con le colonie, così come il traffico di armi; potrebbero unirsi alla causa di genocidio intentata dal Sudafrica e presentare memorie contro Israele; potrebbero interrompere gli accordi di scambio, come, nel caso dell’UE, l’Accordo di Associazione UE-Israele.

Questo non significa che riconoscere la Palestina non comporti nulla. La legittimazione politica di una entità indipendente è necessaria per affermare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese; a mettere in dubbio l’efficacia – e i presunti intenti umanitari – degli annunci dei leader del G7 sono le caratteristiche dello Stato palestinese che questi suggeriscono tra le righe, e il fatto che le trionfanti parole usate per parlare del futuro riconoscimento della Palestina non sono state accompagnate da altrettanto risoluti annunci di contromisure, se Israele non si adegua e ferma il genocidio; perché sebbene riconoscere la Palestina sia importante, farlo senza prendere misure concrete per garantire la sua esistenza rischia di non servire a niente.

Il World Economic Forum ha truccato i dati per far sembrare la Brexit un fallimento

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Il World Economic Forum (WEF) avrebbe manipolato i dati del proprio rapporto del 2017/2018 sulla competitività globale, che classifica i Paesi in base alla produttività e alla prosperità a lungo termine, con un preciso scopo politico: mostrare i BRICS più deboli e la Brexit come un fallimento. Non si sarebbe trattato di un errore metodologico, ma di un’alterazione consapevole dei dati per far apparire l’uscita del Regno Unito dall’UE una scelta sbagliata e al contempo per proteggere rapporti politici con alcuni Paesi, come l’India (pur facendo parte dei BRICS). Secondo quanto riportato da un’inchiesta pubblicata sul quotidiano britannico Telegraph, fu proprio il fondatore ed ex presidente del WEF, Klaus Schwab, ad ordinare che il Regno Unito non fosse mostrato in miglioramento nella classifica, nonostante i dati raccolti avrebbero comportato una scalata dal settimo al quarto posto, perché altrimenti quel progresso sarebbe stato «sfruttato dai sostenitori della Brexit».

La Brexit, all’epoca dei fatti approvata dai britannici in un referendum ma non ancora attuata, venne già bollata come una minaccia per la competitività britannica. L’uscita dall’Unione Europea doveva essere punita simbolicamente con un arretramento, anche solo apparente. Una scomunica digitale nei confronti del popolo britannico che aveva preferito lasciare l’Unione Europea.

Questa vicenda rivela la natura intrinsecamente narrativa (è lo stesso Schwab che ha dedicato un saggio al potere delle “narrazioni”), manipolatoria e ideologica degli strumenti economici dominanti, dove i dati venivano forgiati e branditi come armi per indirizzare le opinioni pubbliche e influenzare le politiche globali. Il PIL, le classifiche sulla competitività, gli indicatori di “prosperità” sono diventati strumenti per fabbricare consenso e normalizzare disuguaglianze, legittimando l’agenda delle élite globaliste. Non è un caso che lo stesso PIL sia stato più volte criticato da economisti eterodossi come indicatore inadeguato a misurare benessere reale. È uno specchio deformante che sorride ai grandi conglomerati multinazionali e strizza l’occhio ai diktat geopolitici occidentali. Non misura la sovranità, lo sviluppo umano, la distorsione delle diseguaglianze, ne la capacità di una nazione di garantirsi indipendenza energetica, alimentare e industriale, ma quanto si è conformi al modello neoliberista.

Ma non finisce qui. Come se si fosse rotto un incantesimo, tutta una serie di informazioni infamanti su Schwab sta emergendo alla luce del sole e le crepe, divenute voragini, stanno facendo traballare il suo impero dorato. Il Telegraph cita un informatore interno che ha fatto scattare un’indagine approfondita. Le manipolazioni non avrebbero riguardato solo il Regno Unito, ma anche altri Paesi: l’India, ad esempio, non doveva scendere di venti posizioni in classifica, perché ciò avrebbe potuto irritare il primo ministro Narendra Modi, compromettendo la sua partecipazione al Forum di Davos. «Dobbiamo proteggere le nostre relazioni con l’India prima di Davos 2019», avrebbe ordinato Schwab, a conferma che la classifica globale non era uno strumento oggettivo ma una leva di pressione geopolitica.

La caduta rovinosa di Schwab ha aperto un vaso di Pandora. Secondo quanto riportato dal quotidiano svizzero SonntagsZeitung e dal Berliner Zeitung, Schwab e la moglie Hilde sotto finiti sotto indagine a seguito a una lettera di alcuni whistleblower resa pubblica dal Wall Street Journal lo scorso aprile. I capi d’accusa riguardano presunte irregolarità finanziarie – spese esorbitanti sospette per oltre 836.000 sterline – manipolazioni di rapporti ufficiali e comportamenti inappropriati verso i dipendenti. Lo scorso anno, infatti, il Wall Street Journal aveva svelato casi di discriminazione, mobbing e abusi. Sotto la supervisione decennale di Schwab, il Forum di Davos avrebbe fatto proliferare un ambiente di lavoro tossico, ostile alle donne e alle persone afroamericane. 

Ad aprile, Schwab era stato costretto alle dimissioni precipitose, in una riunione straordinaria del board, dopo che il World Economic Forum aveva aperto un’indagine formale su lui. Una lettera anonima contenente gravi accuse di natura finanziaria ed etica a carico suo e della moglie, Hilde, inviata al Consiglio di amministrazione del Forum, denunciava un uso improprio delle risorse dell’organizzazione e una governance opaca. 

Il caso Schwab mostra come la verità sia diventata un dettaglio negoziabile, sacrificabile sull’altare degli obiettivi politici da parte del WEF, istituzionalizzando di contro la menzogna in difesa dello status quo. Schwab non ha solo piegato i dati, ma ha incarnato il volto di un’ideologia che considera la trasparenza una minaccia e la sovranità un ostacolo.

Una donna ha denunciato l’ASL per tortura: le negò l’accesso al suicidio assistito

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Era affetta da sclerosi multipla da oltre vent’anni, costretta a vivere in condizioni di sofferenza estrema, legata a macchinari per la sopravvivenza e totalmente dipendente dai suoi caregiver. Martina Oppelli, donna triestina di 50 anni, ha scelto la Svizzera per porre fine alle sue sofferenze tramite il suicidio assistito. Ma, prima di lasciare il nostro Paese, ha deciso di denunciare chi, a suo dire, l’ha costretta a una tortura istituzionalizzata. Attraverso la sua procuratrice speciale Filomena Gallo – avvocata e segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni – ha infatti depositato una denuncia-querela nei confronti dell’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina (Asugi), colpevole secondo lei di averle negato per tre volte l’accesso legale al suicidio medicalmente assistito. I reati oggetto della denuncia sono pesanti: rifiuto di atti d’ufficio e tortura.

A darne notizia è stato Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e rappresentante legale di Soccorso Civile, durante una conferenza stampa tenutasi a Trieste in seguito al decesso della donna. La vicenda di Oppelli, oltre a riaprire il dibattito sul fine vita in Italia, mette sotto accusa il comportamento dell’azienda sanitaria friulana, che avrebbe – secondo quanto denunciato – ignorato ripetutamente i diritti garantiti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019, conosciuta come “sentenza Cappato-Antoniani”.

Il punto centrale della contestazione è il reiterato diniego, da parte dell’Asugi, a riconoscere la «dipendenza da trattamento di sostegno vitale», uno dei quattro requisiti stabiliti dalla Corte per accedere al suicidio medicalmente assistito in Italia. Nonostante Martina, come evidenziato dall’Associazione Luca Coscioni, fosse «totalmente dipendente dall’assistenza di terze persone», senza il cui ausilio non avrebbe potuto svolgere «nessuna funzione vitale e quotidiana», nonostante assumesse «massicce dosi di farmaci» e utilizzasse «la macchina della tosse», senza la quale avrebbe rischiato «il soffocamento», la commissione medica dell’azienda sanitaria ha negato per ben tre volte la sussistenza di quel requisito. L’Asugi, secondo l’Associazione Coscioni, avrebbe persino rifiutato di rivalutare le condizioni cliniche della paziente, sostenendo che un ulteriore esame rappresentasse un costo inutile per la pubblica amministrazione. Una posizione che ha costretto Oppelli a presentare ricorso d’urgenza al Tribunale di Trieste nel 2024, ottenendo un’ordinanza che imponeva nuove verifiche. Il 13 agosto 2024, la ASUGI aveva inviato ai legali della donna la relazione finale e il nuovo parere del NEPC in ottemperanza a quanto ordinato dal Tribunale di Trieste. «Nonostante l’evidente peggioramento delle condizioni di salute di Martina, documentato da copiosa documentazione medica, la ASUGI ha nuovamente negato la sussistenza del requisito del “trattamento di sostegno vitale” e ciò in palese contrasto anche con la nuova interpretazione fornita dalla sentenza n. 135/2024 della Corte costituzionale di questo criterio», spiega l’Associazione Coscioni.

«Non solo le ha negato un diritto, ma l’ha fatta soffrire inutilmente, causandole danni fisici e psicologici che per legge si configurano come una vera e propria forma di tortura», ha messo nero su bianco l’Associazione. Martina ha affermato di essere stata «vittima di un trattamento inumano e degradante da parte delle istituzioni che hanno ignorato le sue sofferenze, costringendola a vivere per anni in una condizione di dolore estremo, aggravata dal rifiuto reiterato e immotivato di Asugi di riconoscerle l’accesso legale alla morte assistita». A sottolineare il valore simbolico e politico della denuncia è stato lo stesso Cappato: «Seguendo le volontà di Martina, abbiamo agito pubblicamente assumendoci le responsabilità per l’aiuto a lei fornito. Questa volta però, con Claudio Stellari, Matteo D’Angelo e Felicetta Maltese, abbiamo deciso di non recarci dalle forze dell’ordine per autodenunciarci, perché la denuncia c’è già, ed è la denuncia di Martina contro uno Stato che l’ha costretta a subire una vera e propria tortura, contro un Servizio sanitario di Regione Friuli Venezia Giulia che non ha fatto il proprio dovere, in linea con le posizioni politiche del presidente Fedriga in materia».

A differenza dell’eutanasia, in cui è il medico a somministrare direttamente il farmaco letale, nel suicidio assistito il paziente mantiene il controllo sull’atto finaleassumendo autonomamente il farmaco prescritto. Questa pratica è legale in alcuni Paesi, come Svizzera, Canada, Belgio e in alcuni stati degli USA, dove è regolata da normative stringenti che prevedono una valutazione medica accurata per verificare la lucidità del paziente e la gravità della sua condizione. In Italia, invece, il suicidio assistito è vietato, sebbene la Corte Costituzionale abbia aperto alla possibilità di non punire chi aiuta una persona a morire, in determinate circostanze stabilite dalla storica sentenza n. 242 del 2019 (caso Cappato-Dj Fabo). Nello specifico, il soggetto deve essere capace di prendere decisioni libere e consapevoli, affetto da una patologia irreversibile, sperimentare sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e dipendere da trattamenti di sostegno vitale.

Thailandia, tempesta tropicale Wipha ha causato almeno 6 morti

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Sei persone sono morte in Thailandia a causa della tempesta tropicale Wipha, che negli ultimi giorni ha provocato inondazioni e frane, colpendo oltre 230mila persone. Dal 21 luglio, forti piogge hanno allagato 12 province, soprattutto nelle regioni settentrionali e centrali. Le autorità locali, attraverso il Dipartimento per la prevenzione e la mitigazione dei disastri, stanno monitorando l’impatto e coordinando gli aiuti nelle aree colpite. Sebbene le piogge siano previste diminuire, l’attenzione rimane alta, ricordando le tragiche alluvioni del 2011 che causarono oltre 500 vittime e ingenti danni.

State lontani dal nostro futuro

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Mercanti di morte, state lontani dal nostro futuro. Vorreste continuare a governare con l’odio e col vostro sporco interesse, alimentando paure e insoddisfazioni, gestendo con cinismo gli umori negativi della gente, sperando che si rassegni alla vostra incompetenza, al vostro desiderio di morte, facendo credere che sia ritenuto inevitabile quanto voi avete escogitato, badando bene che non se ne scoprano le vere ragioni.

State giocando sul sistema nervoso di centinaia di milioni di cittadini, suggestionandoli con la falsa idea di una supremazia di un popolo sull’altro, di una nazione sull’altra, rendendo tutti poveri di valori e di sicurezza sociale, imputando la responsabilità di quanto accade a nemici costruiti ad arte.

Siete lontani dalla storia, state diventando nemici del bene, agenti prezzolati di destini fallimentari. Vi piace comunque essere odiati, calati perfettamente nella sindrome dei dittatori democratici in balia di ordini superiori. Basta! non caricate più di tasse, oneri e balzelli minacciando orizzonti di guerre, pestilenze, epidemie, ventilando nemici alle porte, quando i veri nemici state diventando voi governanti oscuri che fate gestire le democrazie d’ Europa come dei casinò dove si corre il rischio ogni volta di perdere per false aspettative.

Avete gettato l’Europa indietro di secoli, siete voi i nuovi barbari, non gli immigrati, non gli stranieri, voi che governate diventate sempre più come alieni, disegnando futuri senza speranza, assediati dalla vostra prepotenza e ignoranza.

E soprattutto escogitando patti occulti con coloro che fate apparire i nostri competitori. Patti che prevedono ad esempio la svendita dell’Occidente civile, a vantaggio di chi? Proviamo a fare delle ipotesi…

Volete spingere i popoli ad accettare i vostri piani, voi che avete formato un ceto arrogante e competente soltanto nei vostri interessi, che sa nascondere i propri tornaconti tra le pieghe di regolamenti, di necessità artificiose, inconsistenti, incomprensibili, lontane da una minima felicità pubblica.

Avete poco tempo davanti, costruite prospettive di guerra perché sentite il fiato corto, ci illudete di futuri fantascientifici, di portata planetaria, perché avete perso il senso del pane quotidiano, della voglia di seminare e raccogliere, di lavorare per sé e per la propria famiglia. 

Non amate i vostri popoli, perché obbedite a un odio oscuro, perché siete merce di copertura per chi vuole prevalere a tutti i costi.

Dobbiamo al più presto riprenderci una vera democrazia, una opposizione intelligente e intransigente che ci faccia uscire da questo pantano, da questo clima di risentimenti reciproci e meschini che ci è calato addosso.

Mercanti di morte, vi terremo lontani dal nostro futuro.

Colombia, ex presidente Álvaro Uribe condannato a 12 anni per corruzione

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Álvaro Uribe Vélez, ex presidente della Colombia, è stato condannato a 12 anni di arresti domiciliari per frode processuale e corruzione di testimoni. La sentenza, emessa dal giudice Sandra Liliana Heredia, prevede anche una multa di 710.000 euro e un divieto di cariche pubbliche per oltre otto anni. Uribe e il suo avvocato sono accusati di aver manipolato testimonianze di ex paramilitari in un caso che aveva visto l’ex presidente denunciare il senatore Iván Cepeda. La difesa ha annunciato il ricorso in appello.

Trump rilancia l’escalation verbale con la Russia e schiera due sottomarini nucleari

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Il botta e risposta tra il presidente statunitense Donald Trump e l’ex presidente russo Dimitry Medvedev ha raggiunto il suo apice nella serata di venerdì 1° agosto, quando Trump ha dichiarato di aver disposto il posizionamento di due sottomarini nucleari «nelle regioni appropriate» – senza specificare quali, ma lasciando intendere che si tratti di regioni della Federazione Russa. Lo scambio di battute tra i due politici era iniziato lo scorso lunedì, quando Trump aveva dichiarato di concedere alla Russia 10 giorni di tempo per portare a termine la guerra in Ucraina.

Dopo le dichiarazioni del presidente statunitense, il 28 agosto Medvedev aveva pubblicato un post sul proprio profilo Twitter, dichiarando che ogni ultimatum rivolto da Trump alla Russia costituisce «una minaccia e un passo verso la guerra. Non tra Russia e Ucraina, ma con il suo stesso Paese». Sul suo canale Telegram Medvedev aveva poi definito l’accordo sui dazi raggiunto con l’Europa «apertamente anti-russo», in quanto vieta l’acquisto di gas e petrolio da Mosca, e fatto apertamente riferimento al programma Dead Hand, il sistema russo risalente alla Guerra Fredda di controllo automatico delle armi nucleari. «A proposito delle “economie morte” dell’India e della Russia e del fatto che “stanno entrando in un territorio molto pericoloso”, ricordategli [a Trump, ndr] i suoi film preferiti sul “morto che cammina” [riferimento a The Walking Dead, ndr] e a quanto possa essere pericolosa la mitica Dead Hand».

La risposta non si è fatta attendere. «Sulla base delle dichiarazioni altamente provocatorie dell’ex Presidente della Russia, Dmitry Medvedev, che ora è il Vice Presidente del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, ho ordinato di posizionare due sottomarini nucleari nelle regioni appropriate, nel caso in cui tali affermazioni sciocche e infiammatorie si rivelino qualcosa di più – ha scritto Trump sul suo social Truth – Le parole sono molto importanti e spesso possono portare a conseguenze non volute, spero che questo non sia uno di quei casi. Grazie per la vostra attenzione a questo problema!».

La battaglia social dei due politici è iniziata dopo che, all’inizio della scorsa settimana, nel corso di un meeting con il premier inglese Starmer, Trump aveva dichiarato di aver ridotto da 50 a «10-12 giorni» il tempo massimo per la Russia per giungere a un cessate il fuoco con l’Ucraina, minacciando il Paese di dazi se questo non fosse stato rispettato. Secondo quanto dichiarato a Reuters da fonti governative statunitensi, i messaggi di Medvedev non sarebbero tuttavia stati considerati una minaccia da Washington, sottolineando anche che è improbabile che le dichiarazioni di Trump spingano la Russia a cambiare la propria linea sull’Ucraina. Non sarebbe dunque chiaro cosa abbia spinto Trump a rilasciare una dichiarazione del genere. Da quando è iniziato il suo mandato, all’inizio di quest’anno, il presidente USA ha usato spesso il proprio social Truth come piattaforma per fare annunci politici di varia natura. Al momento, la Marina USA e il Pentagono non hanno commentato ufficialmente le dichiarazioni del presidente.

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Serbia, sei arresti per crollo di Novi Sad

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In Serbia sei persone, tra cui l’ex ministro Tomislav Momirović, sono state arrestate per il crollo della tettoia della stazione di Novi Sad, avvenuto lo scorso novembre e costato la vita a 16 persone. L’incidente, simbolo della corruzione del sistema di potere del presidente Vučić, aveva scatenato proteste diffuse nel Paese, proseguite per mesi, con centinaia di migliaia di persone riversate nelle piazze. Gli arrestati sono accusati di aver gonfiato i costi dei lavori, affidati a due aziende cinesi, e aver sottratto fondi pubblici per quasi 100 milioni di euro. A dicembre erano già stati arrestati altri 11 indagati, tra cui l’ex ministro Goran Vesić.