mercoledì 17 Dicembre 2025
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Grecia ancora alle prese coi roghi: un morto e diverse case distrutte

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Una persona è morta e numerose abitazioni sono state distrutte a causa di incendi boschivi che stanno interessando diverse zone della Grecia, tra cui la periferia meridionale di Atene e il Peloponneso, con particolare impatto su Archea Olympia. La vittima, un anziano di Keratea, è stato trovato senza vita nella sua abitazione. I recenti incendi, alimentati da forti venti e dalla stagione estiva, hanno costretto le autorità a emettere ordini di evacuazione in vari comuni dell’Attica orientale, tra cui Synterina, Dimolaki e Drosia. I vigili del fuoco stanno lottando per contenere le fiamme.

L’asse dei BRICS si rafforza per contrastare la guerra economica di Trump

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Dopo che il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato negli ultimi giorni l’imposizione di tariffe commerciali nei confronti di India e Brasile, i Paesi colpiti dai dazi si stanno muovendo per rafforzare le loro relazioni politiche e economico-commerciali in funzione anti-USA. Il risultato è un consolidamento dell’asse dei BRICS, l’organizzazione politico-commerciale nata in prospettiva antioccidentale, i cui membri fondatori (Brasile, India, Cina, Russia e Sudafrica) si trovano nel mirino dell’amministrazione statunitense guidata dal Tycoon. Non solo il primo ministro indiano Narendra Modi ha avuto ieri un colloquio telefonico con il presidente brasiliano Lula per rafforzare i legami commerciali tra le due nazioni, ma l’India ha anche annunciato un «partenariato strategico» con la Russia «per creare un nuovo ordine mondiale più giusto e sostenibile». Allo stesso tempo, Nuova Delhi sta lavorando per coinvolgere in questo processo anche la Cina: secondo quanto riferito dal media economico Bloomberg, infatti, Modi parteciperà a un vertice del gruppo di sicurezza regionale guidato da Pechino – l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai – e terrà un incontro bilaterale con il presidente Xi Jinping a margine. Sebbene il colloquio telefonico e il viaggio in Cina di Modi fossero già stati programmati assumono un significato diverso alla luce dell’uso politico delle tariffe commerciali attuato da Trump.

Durante la conversazione telefonica, Lula e Modi hanno discusso l’imposizione unilaterale di dazi contro le loro nazioni. Il presidente brasiliano ha osservato che «il Brasile e l’India sono, ad oggi, i due paesi più colpiti» dai dazi statunitensi. I due capi di Stato hanno, dunque, concordato di espandere l’accordo commerciale dell’India con il Mercosur, l’unione doganale sudamericana che comprende anche il Brasile, e hanno discusso circa i sistemi virtuali di pagamento delle loro nazioni, tra cui il brasiliano Pix, attualmente sotto indagine commerciale da parte degli Stati Uniti. «Ci impegniamo ad approfondire il nostro partenariato strategico, anche in settori quali commercio, energia, tecnologia, difesa, salute e altro ancora. Un partenariato solido e incentrato sulle persone tra le nazioni del Sud del mondo è vantaggioso per tutti», ha scritto Modi sul suo account X. Durante la chiamata è stata inoltre confermata la visita di Lula in India prevista per il prossimo anno, secondo la dichiarazione del Brasile. La reazione del primo ministro indiano è la conseguenza della più grave crisi nelle relazioni tra Stati Uniti e India da quando Trump è tornato al governo.

Ma le mosse di Nuova Delhi – duramente colpita dai dazi di Trump che dovrebbero entrare in vigore alla fine di agosto – non si sono limitate a un approfondimento della cooperazione con il Brasile, ma hanno coinvolto anche la Russia. Durante i colloqui bilaterali sulla sicurezza tenutisi giovedì a Mosca, infatti, i due Paesi hanno sottolineato il loro impegno per un «partenariato strategico». All’evento si sono incontrati il consigliere per la sicurezza nazionale indiano Ajit Doval e il segretario del Consiglio di sicurezza russo, Sergei Shoigu, sottolineando l’importanza delle relazioni tra i due Paesi. «Ci impegniamo a promuovere una cooperazione attiva per creare un nuovo ordine mondiale più giusto e sostenibile, garantire la supremazia del diritto internazionale e combattere insieme le sfide e le minacce moderne», ha dichiarato Shoigu a Doval in un commento televisivo. Da parte sua, secondo l’agenzia di stampa Interfax, Doval ha affermato che «Abbiamo ormai instaurato ottimi rapporti, a cui diamo molto valore, un partenariato strategico tra i nostri Paesi». Per quanto riguarda la Cina, invece, l’ambasciatore cinese in India, Xu Feihong, si è schierato esplicitamente dalla parte di Modi sulla questione delle tariffe commerciali che, secondo diversi osservatori, sono delle sanzioni mascherate. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, del resto, ha denunciato l’uso delle tariffe «come arma per sopprimere altri paesi».

India e Cina sono diventati i principali acquirenti di petrolio russo via mare da quando la Russia ha attaccato l’Ucraina nel 2022. Si tratta di uno dei motivi principali che ha indotto Donald Trump a imporre dazi complessivi del 50% all’India a partire dalla fine di agosto, applicando di fatto delle sanzioni secondarie mascherate. Lo stesso presidente statunitense non ha escluso di poter applicare le tariffe anche alla Cina. «Potrebbe succedere, non posso ancora dirvelo», ha detto Trump ai giornalisti, aggiungendo che «Lo abbiamo fatto con l’India. Probabilmente lo stiamo facendo con un paio di altri. Uno di questi potrebbe essere la Cina». Con queste dichiarazioni, il capo della Casa Bianca ha confermato che i dazi non sono una misura strettamente commerciale, bensì uno strumento politico per piegare le nazioni al volere di Washington. Di fatto, dunque, almeno da questo questo punto di vista, Trump sta continuando le politiche del suo predecessore Biden, che imponeva sanzioni a chiunque non si allineasse con la potenza a stelle e strisce contro Mosca. La stessa cosa è accaduta in Brasile, dove le tariffe doganali sono state imposte anche come ritorsione per il processo all’ex presidente Jair Bolsonaro, alleato politico di Trump.

Tuttavia, la tattica del tycoon di applicare tariffe al mondo per imporre le sue condizioni agli Stati e rallentare così il declino egemonico di Washington non sta facendo altro che consolidare e rafforzare i legami politici e commerciali del cosiddetto Sud globale, rappresentato dai BRICS, blocco che si è espanso rapidamente negli ultimi anni. Il risultato sembra un’accelerazione verso la formazione di nuovi equilibri politici e commerciali globali indipendenti dal polo occidentale.

 

Gaza, due attacchi israeliani su persone in cerca di cibo: almeno 7 morti

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Almeno sette palestinesi sono stati uccisi e 34 feriti in due attacchi dell’Esercito israeliano (Idf) consumatisi a Gaza stamane. Cinque civili sono morti e 33 sono stati feriti in un attacco a nord del campo di Nuseirat, mentre altri due palestinesi sono stati uccisi e uno ferito in un attacco a sud di Gaza City, vicino a un punto di distribuzione di aiuti umanitari. Le vittime stavano aspettando gli aiuti quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco su di loro. Le informazioni provengono da fonti mediche riportate da Al Jazeera.

Corte Penale: mandato di arresto per un cittadino libico

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La Corte Penale Internazionale ha dichiarato di aver emesso un mandato di arresto per Saif Suleiman Sneidel, accusandolo di crimini di guerra. Sneidel è ritenuto un membro del Gruppo 50, sottogruppo della Brigata Al-Saiqa. La Brigata Al-Saiqa fa parte dell’Esercito Nazionale Libico del generale Haftar, capo del governo orientale di Bengasi, che si contrappone al governo centrale di Tripoli. Sneidel di preciso è accusato di essere responsabile dei crimini di guerra di omicidio, tortura e oltraggi alla dignità personale, che avrebbe commesso tra il 2016 e il 2017.

Occupazione di Gaza: la complicità USA e l’inerzia globale davanti al piano di occupazione

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Nonostante il via libera del gabinetto israeliano per occupare interamente la Striscia di Gaza, le reazioni del mondo davanti all’ennesimo atto criminale di Israele seguono ancora lo stesso copione: voci grosse di condanna e preoccupazione si sono levate da tutto il globo, ma a prendere azioni concrete sono sempre le solite mosche bianche. I più arditi annunciano contromisure di facciata, come nel caso della Germania, che fermerà il commercio di armi che «potrebbero venire utilizzate nella Striscia di Gaza». Russia e Cina chiamano il cessate il fuoco, il Regno Unito «esorta» Israele a riconsiderare le sue decisioni, il mondo arabo ne critica la condotta mentre firma con esso accordi plurimiliardari, l’Italia non proferisce parola. Nessuno, insomma, è deciso a muovere un dito per fermare Israele. Gli USA sono a loro modo gli unici a dire le cose come stanno realmente: occupazione o non occupazione, Israele potrà sempre fare quello che vuole senza temere ripercussioni.

Il piano di invasione di Gaza è stato approvato all’alba di oggi, 8 agosto, e prevede un’occupazione della Striscia da attuare e, una volta realizzata, portare avanti fino a data da destinarsi. Sin dall’annuncio del piano rilasciato dai quotidiani israeliani, la notizia ha scatenato quella ormai rituale reazione di condanna generale, piena di parole e priva di concretezza. Dal Vecchio Continente, il Regno Unito, la Germania, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen hanno chiesto a Israele di ritrattare; Francia e Italia non sembrano invece aver ancora rilasciato neanche una parola di condanna. Tra gli altri Paesi del G7, assenti anche le reazioni del Giappone e del Canada. Simili dichiarazioni sono arrivate invece da Norvegia, Belgio, Spagna, Turchia, Australia, Sudafrica e Brasile, così come dall’ONU. A stare sostanzialmente in silenzio, tuttavia, non è solo il blocco del G7: la Russia si limita a chiedere un cessate il fuoco, la Cina ha rilasciato un appello simile a quello dei Paesi europei, mentre il mondo arabo e islamico si divide tra chi, come gli Emirati, preferisce limitarsi a chiamare al rispetto della legge internazionale, e chi, come l’Egitto, usa parole forti di condanna, salvo poi stringere accordi con Israele.

Insomma, quasi tutto il mondo dice di essere contro l’occupazione di Gaza e denuncia i crimini israeliani in Palestina, ma nessuno, a eccezione di pochi Paesi con limitato potere contrattuale (come il Belize nell’America Centrale, la Bolivia, la Colombia e il Cile nell’America Meridionale o la Slovenia in Europa), è deciso a fare qualcosa per fermare Tel Aviv. Un motivo per cui il genocidio palestinese continua è proprio questo: da quando Trump è salito alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno aumentato ancora di più il proprio sostegno alle azioni dello Stato ebraico, mentre intanto i Paesi arabi e islamici e il resto delle potenze mondiali si limitano a rilasciare dichiarazioni o, nel migliore dei casi, prendono iniziative di facciata: il genocidio palestinese sta essendo trattato dalla maggior parte dei Paesi del mondo come una scomoda questione politica.

In questo, il caso dell’Egitto è esemplificativo: mentre condanna pubblicamente il «genocidio sistematico» del popolo palestinese, il presidente egiziano Al-Sisi ha infatti firmato un accordo dal valore di 35 miliardi di dollari per comprare gas da Israele, in un giacimento situato a 200 metri dalla costa di Gaza. Anche i vari annunci di riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dei Paesi europei viaggiano nella stessa direzione, essendo stati rilasciati sulla base delle promesse del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, che nella sostanza ha affermato di essere pronto a istituire uno Stato privo di sovranità; gli annunci europei, inoltre, non sono stati accompagnati da misure concrete volte a garantire che lo Stato di Palestina non si limiti a essere riconosciuto, ma che esista davvero. La lista di cose che gli Stati potrebbero fare per esercitare una reale pressione su Tel Aviv è interminabile: ratificare un embargo totale di armi, sospendere i trattati commerciali, sanzionare lo Stato e le entità che collaborano con il genocidio. Eppure, nessuno sembra intenzionato a farle.

Pakistan: uccisi 33 membri di milizie afghane

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Le forze di sicurezza pakistane hanno annunciato di aver ucciso 33 membri di milizie afghane che stavano cercando di attraversare il confine. Gli scontri sono avvenuti questa notte e sono stati annunciati oggi, venerdì 8 agosto. Le forze armate hanno annunciato di aver intercettato i movimenti dei miliziani, riuscendo a uccidere l’intero gruppo e a recuperare armi, munizioni ed esplosivi. L’esercito pakistano descrive i miliziani come forze «sponsorizzate dall’India». Dall’India non sembra sia arrivata una risposta alle accuse; in generale, Islamabad e Nuova Delhi si accusano spesso a vicenda di sostenere i gruppi armati attivi nei reciproci Paesi, smentendo l’una l’accusa dell’altra.

La “camorrizzazione” della mafia romana: come i clan si spartiscono gli affari

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A Roma la criminalità organizzata continua a esercitare un'enorme influenza, con clan di diversa origine e tipologia che si ripartiscono gli affari e grossi pezzi di territorio in nome di una “pax mafiosa” che vedrebbe come garante indiscusso il boss di Camorra Michele Senese. È quanto emerge dall'audizione tenuta da Lamberto Giannini, prefetto della Capitale, nell'aula della Commissione Parlamentare Antimafia a Palazzo San Macuto, lo scorso mercoledì 6 agosto, nonché da indagini e processi che stanno focalizzando l'attenzione sui movimenti criminali su Roma. Un territorio molto attrattivo per...

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Germania: annunciata sospensione dell’invio delle armi a Israele

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Il governo tedesco ha annunciato oggi, venerdì 8 agosto, la sospensione dell’invio di armi a Israele che potrebbero essere utilizzate a Gaza, incluse attrezzature militari, citando il piano del governo israeliano di occupare militarmente Gaza City. Questa decisione segue misure simili adottate da altri Paesi europei, come Spagna, Regno Unito e Slovenia. La Germania, seconda esportatrice di armi verso Israele dopo gli Stati Uniti, ha storicamente mantenuto un forte sostegno a Tel Aviv, che è però diminuito negli ultimi mesi. La sospensione rappresenta una svolta significativa nella politica estera tedesca verso Israele.

Il Mali piega le multinazionali dell’oro al suo nuovo codice minerario

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Alcuni grandi produttori di oro, tra cui la multinazionale quotata a Londra Endeavour Mining, hanno recentemente aderito al nuovo codice minerario del Mali, approvato dalla Nazione africana nel 2023 con lo scopo di sviluppare maggiormente l’economia del Paese. L’obiettivo del nuovo regolamento è convogliare maggiormente i guadagni provenienti dall’estrazione mineraria nelle casse dello Stato, riducendo allo stesso tempo le concessioni a favore delle grandi aziende straniere. Il Mali, tra i principali produttori di oro in Africa, ottiene così un risultato in netta contrapposizione con i dogmi liberisti e neocoloniali: imponendo alle multinazionali di unirsi allo Stato in società che ne controllino l’operato e a condividere effettivamente i profitti affinché le ricchezze del sottosuolo arricchiscano anche il Paese e non solo pochi azionisti. Una strada che si sta aprendo sempre più in Africa, a partire dalla regione più povera del Sahel, dove sempre più governi stanno tracciando nuove rotte per liberarsi dalle storiche catene imposte da poteri economici e politici di stampo coloniale

L’accordo con le società minerarie è stato annunciato alla televisione di Stato a fine luglio dal ministro delle Finanze Alousseni Sanou e dal ministro delle Miniere. Nello specifico, il memorandum d’intesa è stato siglato con Somika SA, di proprietà all’80% di Endeavour e al 20% dello Stato maliano, Faboula Gold e Bagama Mining, ma i termini dell’accordo non sono stati resti noti.

Le tre società rappresentano solo una parte della produzione aurifera del Mali. Faboula e Bagama hanno avviato la produzione nel 2021 con 500 chilogrammi ciascuna, ma tutte e tre sono rimaste per lo più inattive dopo l’entrata in vigore del codice minerario. Il direttore di Somika, Abdoul Aziz, ha reso noto che la costruzione di una nuova miniera della società «inizierà sei mesi dopo la firma dell’accordo e la produzione inizierà 18 mesi dopo», mentre il ministro delle Finanze maliano ha spiegato che «Somika ha un contratto di 10 anni e un fatturato annuo di 135 miliardi di franchi CFA (238,9 milioni di dollari). Bagama e Faboula hanno entrambe un contratto di cinque anni e un fatturato di 50 miliardi e 75 miliardi di franchi CFA», aggiungendo che ciascuna azienda creerà 2000 posti di lavoro.

Il nuovo regolamento sulla produzione, l’estrazione e la vendita di oro, opposto ai principi neoliberisti che limitano il ruolo dello Stato per favorire i privati, si inserisce in un contesto più ampio di decolonizzazione e sovranità che negli ultimi anni ha coinvolto la maggior parte degli Stati del Sahel. In questo quadro di rapidi cambiamenti, le società straniere iniziano a piegarsi alle nuove politiche socialiste e antimperialiste dei Paesi africani. Nello specifico, il nuovo codice adottato a partire da agosto 2023 consente al governo di acquisire una quota del 10% nei progetti minerari e di rilevare un ulteriore 20% entro i primi due anni di produzione commerciale. Inoltre, un’ulteriore quota del 5% potrebbe essere ceduta alla popolazione locale, portando la partecipazione statale e privata del Mali nei nuovi progetti al 35%, rispetto all’attuale 20%. Ma il regolamento ha anche abolito le tante esenzioni fiscali di cui godevano le compagnie minerarie straniere.

Secondo il ministro dell’Economia Alousseni Sanou e il ministro delle Miniere Amadou Keita, il nuovo regolamento garantirebbe ulteriori 500 miliardi di franchi CFA (803 milioni di dollari) all’anno per lo Stato e aumenterebbe il contributo del settore minerario all’economia fino al 20% del prodotto interno lordo, rispetto all’attuale 9%. Il governo maliano aveva annunciato la revisione del codice minerario dopo che un rapporto interno aveva mostrato come il Paese non ricevesse una giusta quota di profitti dall’attività mineraria. Ora, invece, il governo del Paese africano avrà la possibilità di sfruttare le competenze tecniche delle multinazionali per sviluppare il settore, trattenendo però buona parte dei profitti internamente e sviluppando così l’economia locale.

Il Mali, che è uno dei principali produttori d’oro dell’Africa, aveva cominciato a muoversi in questo senso già lo scorso gennaio, quando il governo aveva bloccato l’attività della canadese Barrick Gold, la seconda azienda mineraria più importante al mondo, nel sito di Loulo-Gounkoto, sostenendo che non rispettasse i termini di un contratto che prevedeva una redistribuzione più equa delle ricchezze estratte dalla cava per tutte le parti coinvolte. Tra i termini previsti, vi era proprio un aumento della quota statale dei benefici economici generati dal complesso minerario, secondo quanto previsto dal nuovo codice. Ma il Mali non è certo l’unico Stato del Sahel che si sta muovendo in questa direzione: recentemente, infatti, anche il Burkina Faso ha annunciato la nazionalizzazione delle miniere e ha avviato un processo più ampio di nazionalizzazione delle risorse naturali. Similmente, anche il Ghana ha cacciato le aziende straniere dal suo mercato dell’oro, ordinando di cessare la compravendita e l’esportazione del metallo prezioso e revocando le licenze di esportazione in vigore.

In generale, diversi Stati del Sahel sono accomunati dal medesimo sentimento antimperialista che negli ultimi anni ha portato all’attuazione di diversi colpi di stato nella regione per rovesciare i governi filoccidentali e sostituirli con giunte militari sovraniste e nazionaliste. In seguito ai golpe, in diversi Stati africani sono state cacciate le truppe europee, soprattutto quelle francesi, presenti sul territorio e si è dato avvio al processo di nazionalizzazione delle risorse naturali in una prospettiva chiaramente antiliberista. Protagoniste di questi sviluppi in direzione anticolonialista sono soprattutto Mali, Niger e Burkina Faso che hanno dato vita nel 2024 all’Alleanza degli Stati del Sahel, con l’intenzione di portare avanti un’agenda di decolonizzazione e di indipendenza rispetto alle influenze occidentali. Un obiettivo che queste nazioni stanno realmente perseguendo e di cui il nuovo codice minerario del Mali costituisce un esempio concreto.

USA, Ius soli: giudice federale blocca ordine esecutivo di Trump

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Una giudice federale del Maryland, Deborah Boardman, ha bloccato il decreto di Donald Trump che negava la cittadinanza ai bambini nati da genitori presenti illegalmente o temporaneamente negli USA. È la quarta decisione che annulla il tentativo di Trump di modificare lo Ius soli. L’ingiunzione preliminare di Boardman blocca l’ordine esecutivo a livello nazionale, ma la Corte Suprema ha annullato le sentenze inferiori, sottolineando che i tribunali federali non hanno l’autorità per emettere ingiunzioni a livello nazionale. La Corte non si è però espressa sul merito dello Ius soli, lasciando ai giudici distrettuali il compito di valutare i singoli casi.