martedì 9 Dicembre 2025
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Gaza: Meloni cede alla pressione internazionale e telefona a Netanyahu per fingersi indignata

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Mentre la pressione dal basso ha spinto gli altri Paesi a compiere i primi timidie tardivipassi per un riconoscimento politico della Palestina, Meloni ha deciso di alzare la cornetta e chiamare Netanyahu, per «insistere sulla necessità di porre immediatamente fine alle ostilità». Per la premier riconoscere la Palestina sarebbe infatti «controproducente» perché «i tempi non sono maturi»; meglio parlare al telefono con il proprio omologo, usando parole forti che non comportino alcuna concreta presa di posizione contro il genocidio a Gaza. Nel corso della telefonata, Meloni non ha fatto accenno a possibili contromisure da parte dell’Italia, né fornito alcuna dichiarazione di intenti; si è limitata, piuttosto, ad avanzare richieste da titolo di giornale, che non risulta chiaro come intenderebbe far sì che vengano rispettate.

La telefonata tra Meloni e Netanyahu si è svolta la sera di mercoledì 30 luglio e il contenuto della conversazione è stato reso noto da un comunicato governativo. Durante la telefonata, Meloni si è limitata a ripetere le solite parole dal tono duro e dai risvolti poco tangibili: la situazione a Gaza è «insostenibile ed ingiustificabile», l’entrata di aiuti per la popolazione civile costituisce una «urgenza indifferibile», i bombardamenti vanno fermati «immediatamente»; come, fuor di parole, Meloni intenda indurre Israele a interrompere i massacri e garantire che i cittadini palestinesi non muoiano di fame, non risulta chiaro. La telefonata di Meloni a Netanyahu arriva a margine della conferenza franco-saudita per la Palestina, boicottata direttamente dagli Stati Uniti. Al suo termine, i Paesi partecipanti – Italia compresa – hanno firmato un appello per promuovere un processo di pace a fasi che, così come le formule usate da Meloni, non presenta alcun elemento che suggerisca come i firmatari intendano far sì che Israele accetti le condizioni stabilite. Parallelamente, 15 Paesi hanno ratificato un’ulteriore carta in cui si impegnano a riconoscere lo Stato di Palestina, misura che Francia, Regno Unito e Canada hanno annunciato che prenderanno a settembre, in occasione dell’avvio del prossimo ciclo dell’Assemblea Generale dell’ONU.

Se gli Stati hanno deciso di riconoscere uno Stato palestinese, è solo grazie alla pressione proveniente dal basso. Tale iniziativa arriva in ritardo e rischia di risultare insufficiente se non accompagnata da misure concrete per fermare il genocidio a Gaza; rappresenta tuttavia un primo passo per aumentare la pressione internazionale su Tel Aviv, in un momento in cui ai governi non è più concesso ignorare ciò che succede a Gaza e in Cisgiordania. Nonostante ciò, l’Italia non ha firmato il documento perché, secondo Meloni, i tempi per il riconoscimento della Palestina «non sono ancora maturi». Di misure alternative alle sole parole, però, l’Italia ne avrebbe a disposizione diverse altre. Meloni potrebbe infatti muoversi per sospendere i trattati con Israele, sanzionare i ministri israeliani, i coloni o le entità che collaborano con lo Stato ebraico, oppure unirsi alla causa per genocidio intentata dal Sudafrica; azioni che non solo non ha mai fatto, ma che ha ostacolato in ogni sede. La maggioranza ha infatti boicottato i tentativi di interrompere i memorandum d’intesa con Israele, ha votato contro mozioni che chiedevano l’introduzione di sanzioni e, in generale, si è sempre limitata a vaghe formule di «sostegno alla “soluzione dei due Stati”», senza mai scendere nel concreto. Sin dall’escalation del 7 ottobre, l’Italia ha infatti appoggiato non troppo velatamente la linea statunitense di sostegno incondizionato allo Stato ebraico, senza mai alzare la voce se non quando costretta. La telefonata di ieri non fa che confermare questo approccio.

Nuova Papua Guinea, Carlo D’Attanasio assolto e liberato dopo 4 anni

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Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha reso noto che la Suprema Corte di Giustizia della Nuova Papua Guinea ha assolto Carlo D’Attanasio, velista pescarese arrestato oltre quattro anni fa nel Paese asiatico con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. In seguito alla pronuncia dei giudici, D’Attanasio è stato liberato e ora si trova in ospedale per un tumore al colon, che lo affligge da circa due anni. Il suo avvocato, Mario Antinucci, ha sottolineato la storicità della decisione, evidenziando le violazioni del giusto processo e la mancanza di prove contro il cittadino italiano.

Il presunto “assalto antisemita” all’autogrill e i deliri della stampa italiana

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Di quanto accaduto domenica all’autogrill di Lainate non sappiamo quasi nulla. C’è un video in cui si vedono molte persone apostrofare un cittadino francese con la kippah in testa (il tipico copricapo ebraico) dicendogli «Andate a casa vostra, assassini», «Free Palestine», «Questa non è Gaza, è l’Italia, Palestina Libera». Il video si interrompe senza che nessuno alzi le mani e l’unica minaccia fisica proviene dalla bocca dello stesso cittadino ebraico che, rivolgendosi a un uomo, dice: «Vieni fuori che ti spacco la faccia» e poi urla «Viva Israele». Sappiamo poi che un lavoratore dell’Autogrill ai cronisti ha affermato «non ho visto nessuno alzare le mani». E sappiamo che lo stesso cittadino ebraico, il presunto assalito, non ha sporto denuncia, né si è recato in un pronto soccorso a farsi refertare, salvo poi dire di essere stato brutalmente menato sui social. Eppure oggi, leggendo i principali quotidiani e ascoltando le dichiarazioni politiche tutti credono che vi sia stato «un brutale pestaggio», una «caccia all’ebreo» e che siamo piombati in una «Shining del fanatismo», come scrive il solito Michele Serra sulla Repubblica.

Sapere con precisione cosa sia accaduto non è nemmeno nelle nostre possibilità. Può essere che dopo l’interruzione del video, che ha registrato dal telefonino lo stesso cittadino ebraico che si trovava all’autogrill con il figlio, ci sia stata effettivamente un’aggressione fisica? Non possiamo escluderlo, è stata aperta un’indagine dalla Procura di Milano e magari nelle prossime settimane se ne saprà di più. Può essere, al contrario, che non ci sia stato niente più di qualche insulto e il presunto aggredito si sia inventato un pestaggio inesistente? Allo stesso modo è possibile e nessuno può escluderlo. La deontologia professionale in questi casi prevede un comportamento ovvio e lineare per i giornalisti: data l’impossibilità di verificare i fatti o non si scrive nulla, o – se proprio si ritiene che si tratti di una notizia – se ne scrive utilizzando la forma dubitativa e tutti i condizionali del caso.

Invece, alcuni dei principali quotidiani italiani hanno titolato come segue: Percosse e odio razziale (La Repubblica); Famiglia ebrea assalita (Il Corriere della Sera); Caccia all’ebreo (Libero); Ebrei picchiati in autogrill (Il Giornale); Antisemitismo, è allarme (Il Giorno). All’interno articoli in fotocopia, dove l’uso del condizionale quasi non esiste e – senza alcuna fonte a supporto, se non la denuncia via social del presunto aggredito – si dà per assodato che dentro l’autogrill in provincia di Milano numerose persone, accecate dall’odio per quanto Israele sta facendo a Gaza, hanno picchiato brutalmente un povero turista colpevole solo di essere di religione ebraica.

E poi, al solito, ci sono gli articoli di “approfondimento”. Dove spesso si ha l’unico obiettivo editoriale di fare allarmismo generalizzato. Come quello pubblicato su La Stampa a firma di Luca Monticelli, che si limita a fare da cassa di risonanza al rapporto falso sugli “877 casi di antisemitismo” registrati in Italia nel 2024. Un rapporto spazzatura (che su L’Indipendente abbiamo smascherato già quattro mesi fa) scritto dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, il cui consiglio di amministrazione è nominato direttamente dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ossia la principale organizzazione in difesa degli interessi israeliani in Italia.

E poi, purtroppo, ci sono anche gli editorialisti del pensiero dominante. Maestri della retorica da quattro soldi da usare sempre e solo a senso unico. Col loro stile liberale che, ci mancherebbe, «le critiche ad Israele sono legittime ma, signora mia, dove andremo a finire così se non facciamo qualcosa». Come Annalisa Cuzzocrea che nel consueto registro strappalacrime tira fuori Anna Frank, Primo Levi, il nazismo e il fascismo per spiegare che là fuori è pieno di antisemiti che odiano gli ebrei con la scusa della Palestina. Come il pluri-riciclato Daniele Capezzone (quello che, ancora oggi, afferma che Israele a Gaza si sta legittimamente difendendo dal terrorismo) che, su Libero, si chiede retoricamente «Cos’altro deve succedere perché sia convocata una grande manifestazione contro l’antisemitismo». Come, ovviamente, il “campionissimo” Michele Serra, che sulla propria rubrica fissa su Repubblica, amaramente considera che «pestare un francese ebreo incontrato in autogrill […] solo perché indossa una kippah e reagisce agli insulti; e pensare che pestarlo significhi essere “dalla parte di Gaza”, richiede una buona dose di stupidità».

E io intanto, altrettanto retoricamente, mi chiedo di cosa serva una buona dose per pontificare regolarmente, e sempre in direzione del vento, su cose di cui non si sa nulla.

Il governo italiano ha chiesto un prestito da 14 miliardi per comprare armi

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Il governo italiano ha avanzato una richiesta per accedere al fondo europeo SAFE per la difesa, al fine di ricevere finanziamenti nel settore bellico. La richiesta prevedrebbe l’accesso a 14 miliardi di euro in cinque anni, con rimborsi da spalmare in 45 anni. Il fondo SAFE è una delle iniziative previste dal piano di riarmo lanciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Esso prevede la raccolta di una somma fino a 150 miliardi di euro sui mercati, da erogare sotto forma di prestiti diretti agli Stati che ne fanno richiesta, e contempla l’avvio di procedure d’appalto comuni e semplificate. Hanno aderito al fondo altri 17 Paesi dell’UE, 12 dei quali hanno chiesto anche una deroga al Patto di Stabilità per aumentare i propri investimenti nell’industria delle armi al di fuori dei vincoli di debito da esso previsti.

La richiesta di adesione al fondo SAFE da parte dell’Italia sarebbe stata presentata nella notte di martedì 29 luglio, in seguito a un vertice tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini e, tra gli altri, il ministro della Difesa Guido Crosetto. L’arrivo della domanda è stato confermato dal Commissario Europeo alla Difesa, Andrius Kubilius, che ha annunciato il «forte interesse» dei Paesi UE verso il fondo. Da quanto comunica Kubilius, le richieste di adesione mobiliterebbero un totale di «almeno 127 miliardi di euro» in potenziali appalti di difesa. «La tempestiva manifestazione di interesse consentirà alla Commissione di valutare la domanda e di prepararsi alla raccolta di fondi sui mercati dei capitali», si legge nel comunicato della Commissione, che ricorda anche che il termine per la presentazione formale delle richieste di adesione a SAFE è fissato al 30 novembre 2025. I dettagli delle richieste dei singoli Paesi non sono ancora noti, ma secondo le anticipazioni della stampa l’Italia avrebbe avanzato domanda per accedere a 14 miliardi per finanziare programmi di difesa già pianificati nel quinquennio 2026-2030.

Il fondo SAFE è una delle misure principali del piano di riarmo della Commissione Europea. SAFE ha l’obiettivo di sostenere appalti congiunti tra gli Stati membri, incentivando la cooperazione industriale nel settore della difesa. I prestiti saranno erogati agli Stati che ne faranno richiesta sulla base di piani nazionali. Il piano si articola in due categorie principali di spese ammissibili: la prima riguarda munizioni, missili, sistemi di artiglieria e capacità di combattimento terrestre, inclusi droni e sistemi anti-drone; la seconda comprende difesa aerea e missilistica, capacità navali, trasporto aereo strategico, sistemi spaziali e tecnologie basate sull’intelligenza artificiale. Per richiedere i finanziamenti a un progetto, almeno il 65% del suo valore deve provenire da aziende del settore della difesa situate nell’UE, in Ucraina o in un Paese dello Spazio Economico Europeo o dell’Associazione Europea di Libero Scambio. La quota di componenti provenienti da Paesi terzi non potrà superare il 35%, a meno che non si tratti di subappalti inferiori al 15% del valore complessivo. In questo quadro, l’Unione ha aperto anche alla partecipazione di Paesi terzi selezionati, tra cui l’Ucraina e il Regno Unito.

Sono in tutto 18 i Paesi dell’UE che hanno chiesto l’accesso al fondo SAFE per la difesa; accanto all’Italia, figurano infatti anche Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Cipro, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Spagna e Ungheria. A questi si aggiungono i 16 Paesi che hanno chiesto una deroga al Patto di Stabilità per aumentare la spesa per la difesa nei prossimi anni. Tale misura, anch’essa centrale nel piano di riarmo, prevede che i Paesi aumentino la spesa per la difesa fino all’1,5% del proprio prodotto interno lordo annuo per quattro anni, ignorando i vincoli del Patto di Stabilità e ricorrendo a nuovo debito. Tale sospensione, sostiene von der Leyen, potrebbe generare fino a 650 miliardi di euro nel prossimo quadriennio che, uniti ai 150 messi a disposizione con SAFE, porterebbero il totale delle risorse mobilitate per il piano a 800 miliardi. A chiedere l’accesso a questa seconda misura sono stati, precisamente, Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.

USA: sanzioni al giudice brasiliano che ha incriminato l’ex presidente

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Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America ha annunciato che il Paese imporrà sanzioni ad Alexadre de Moraes, giudice della Corte Suprema brasiliana, per avere perseguito l’ex presidente Bolsonaro. Bolsonaro è sotto processo con l’accusa di aver pianificato un golpe per impedire all’attuale presidente Lula di insediarsi nel gennaio 2023; Moraes ha ordinato misure restrittive nei suoi confronti, accusandolo di aver favorito interferenze straniere da parte di Trump. La Casa Bianca ha inoltre annunciato l’imposizione di dazi aggiuntivi del 40% su tutti i prodotti brasiliani in entrata, sostenendo che il Paese rappresenti una «minaccia alla sicurezza nazionale, alla politica estera e all’economia» degli USA.

Il Colorado sta costruendo un grande ponte per garantire l’attraversamento agli animali

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attraversamento faunistico colorado

Il Colorado sta costruendo un'infrastruttura che potrebbe rivoluzionare la sicurezza stradale per gli animali selvatici: un cavalcavia faunistico che, secondo i funzionari dei trasporti statali, sarà il più grande al mondo. Situato sulla Interstate 25, il tratto che collega Denver e Colorado Springs, questo passaggio permette alla fauna locale di attraversare la strada in sicurezza, riducendo significativamente il rischio di collisioni con i veicoli. Il progetto, del costo di 15 milioni di dollari, è un passo concreto per proteggere tanto la fauna selvatica quanto i conducenti, su una delle ar...

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Antitrust: indagine su Meta per abuso di posizione dominante

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L’Autorità garante della concorrenza, meglio nota con il nome di Antitrust, ha avviato una indagine contro Meta. Di preciso, il colosso tecnologico è indagato per abuso di posizione dominante, per avere introdotto una propria piattaforma di intelligenza artificiale sull’applicazione di messaggistica Whatsapp. Con l’avvio dell’indagine, l’Antitrust intende verificare che Meta non abbia avuto vantaggi sulla concorrenza sfruttando la diffusione dell’applicazione. L’assistente basato su tecnologie IA, infatti, è stato introdotto senza previa comunicazione agli utenti, e, secondo l’Autorità, potrebbe rendere i suoi utilizzatori «funzionalmente dipendenti».

Nel 2025 in Italia sono già andati bruciati 30.988 ettari di territorio

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Nei primi sette mesi del 2025 sono andati in fumo 30.988 ettari di territorio italiano, con il Sud duramente colpito – in particolare, Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata, Campania e Sardegna guidano la classifica. Nel complesso, sono stati registrati 653 incendi, di cui 81 che hanno interessato superfici superiori ai 100 ettari. Le cause principali sono attività dolose e l’azione delle ecomafie, cui si sommano disattenzioni, condizioni di temperatura e siccità sempre più favorevoli allo sviluppo e alla diffusione dei roghi e l’abbandono delle aree rurali. Preoccupano inoltre i ritardi nei Piani Antincendio Boschivo: 5 parchi nazionali sono ancora senza l’aggiornamento di questo essenziale documento.

Sono questi i dati del nuovo rapporto di Legambiente Italia in fumo, secondo cui dal primo gennaio al 18 luglio 2025 è stata registrata una media di 3,3 incendi al giorno con una superficie media bruciata di 47,5 ettari. Dei 30.988 ettari di territorio bruciati nei primi sette mesi del 2025, 18.115 hanno riguardato aree boscate, 12.733 ettari hanno interessato aree agricole, 120 ettari aree artificiali e 7 ettari aree di altro tipo. Preoccupano anche gli incendi scoppiati in aree naturali: su 30.988 ettari di territorio bruciati, oltre 6.200 hanno riguardo aree Natura2000, siti naturali protetti a livello comunitario, in 198 eventi incendiari. Per quanto riguarda gli eventi maggiormente distruttivi, ovvero quelli che hanno coinvolto una superficie superiore ai 100 ettari, il Cigno Verde mette al primo posto ancora la Sicilia con 49 incendi su un totale nazionale di 81, seguita da Puglia con 10 incendi, Basilicata, Sardegna, Campania tutte con rispettivamente 5 roghi. Maglia nera alla Sicilia anche in termini di ettari assoluti andati in fumo, (16.938 ettari in 248 roghi), seguono Calabria (3.633 ettari in 178 eventi incendiari), Puglia (3.622 ettari in 69 eventi), Basilicata (2.121 ettari in soli 13 roghi), Campania (1.826 ettari in 77 eventi) e Sardegna (1.465 ettari in 19 roghi). Tra le regioni del Centro e Nord Italia, la situazione peggiore la registrano il Lazio, la Provincia di Bolzano e la Lombardia.

Tra i più gravi, il recente rogo che ha colpito Villasimius, in Sardegna, dove decine di bagnanti sono stati costretti a fuggire via mare poiché le fiamme avevano già bloccato ogni altra vie di fuga e distrutto diversi veicoli. Questo e altri incendi si inseriscono quindi in una serie di emergenze causate dalle intense ondate di calore estive che stanno colpendo le regioni dell’Italia meridionale, già segnate dalla siccità. In ogni caso, è però spesso la mano di persone disattente, che gettano mozziconi di sigarette a terra, o di veri e propri criminali a fare la differenza. Secondo l’ultimo Rapporto Ecomafia, nel 2024 sono stati 3.239 i reati di “incendi boschivi e di vegetazione, dolosi, colposi e generici in Italia” contestati dalle forze dell’ordine, Carabinieri forestali e Corpi forestali regionali. Un dato in calo del 12,2% rispetto al 2023, ma che evidenzia ancora una volta la portata di fenomeno probabilmente sottostimato. Delle 459 persone denunciate, solo 14 sono state effettivamente arrestate (+16,7% rispetto al 2023). Anche guardando alle notizie di reato, ossia l’ipotesi che un reato potrebbe essere stato commesso, si conferma la prevalenza degli incendi di natura dolosa, 1.197 su 2.612, dei quali per il 95% contro ignoti. Sempre di origine prevalentemente dolosa sono le notizie di reato relative a incendi di vegetazione non boschiva, 294 su 423, anche in questo caso quasi sempre contro ignoti.

Gli incendi boschivi che ogni anno attanagliano il nostro e altri paesi del Mediterraneo provocano gravi danni ambientali, economici e sanitari. La perdita di biodiversità e la distruzione degli habitat sono tra gli effetti più immediati: vaste aree forestali vengono devastate, causando la morte della fauna e l’alterazione delle comunità vegetali. Le foreste mediterranee, già fragili a causa dei cambiamenti climatici, rischiano di trasformarsi in ecosistemi meno complessi, compromettendo produttività e capacità di assorbire CO2. L’erosione del suolo e le alterazioni del ciclo idrologico aumentano poi la vulnerabilità del territorio a frane e inondazioni, soprattutto dopo piogge intense. Gli incendi rilasciano inoltre grandi quantità di gas serra che aggravano il cambiamento climatico e di inquinanti associati a malattie cardiovascolari, respiratorie, tumori e riduzione delle funzioni cognitive. Sul piano socio-economico, gli incendi colpiscono sempre più spesso le cosiddette “aree di interfaccia”, zone di confine tra ambienti naturali e aree urbanizzate o industriali, mettendo a rischio abitazioni, infrastrutture e attività produttive.

Legambiente, contestualmente, ha presentato un pacchetto di 12 proposte che puntano a migliorare la gestione e la prevenzione degli incendi boschivi. Tra le richieste principali c’è il rafforzamento del coordinamento istituzionale per una gestione integrata degli incendi, con il coinvolgimento delle istituzioni competenti nella gestione delle foreste. Viene sottolineata inoltre l’importanza di integrare le strategie di adattamento climatico con la pianificazione forestale e quella antincendio. L’associazione invita a garantire una gestione sostenibile delle zone rurali per ridurre il rischio di incendio, proponendo anche l’adozione del pascolo prescritto come misura preventiva. Particolare attenzione viene data al coinvolgimento dei cittadini e delle comunità locali attraverso iniziative come le Fire smart community e i Fire smart territory. Tra le altre proposte ci sono la necessità di disporre di dati e statistiche aggiornate, mantenendo costantemente aggiornato il catasto delle aree percorse dal fuoco, e di favorire il ripristino ecologico e funzionale di queste aree. Infine, Legambiente chiede di integrare la pianificazione urbanistica con la prevenzione degli incendi boschivi, di potenziare i presidi dello Stato impegnati nella lotta contro gli incendi, di estendere le pene previste per il reato di incendio boschivo a tutte le tipologie di incendio, nonché di migliorare l’applicazione delle norme vigenti e rafforzare i divieti stabiliti dalle leggi nazionali e regionali.

La città di Genova ha riconosciuto lo Stato di Palestina

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Il Consiglio Comunale di Genova ha approvato una mozione per riconoscere lo Stato di Palestina. Il documento è stato presentato dalla consigliera di AVS Francesca Ghio e sostenuto dalla maggioranza formata dai Gruppi Consiliari Alleanza Verdi Sinistra, Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Lista Civica Silvia Salis. Il testo impegna l’amministrazione a sostenere il «riconoscimento dello Stato di Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa», e a inoltrare richiesta al governo perché faccia lo stesso. In sede di consiglio è stato anche approvato un emendamento che impegnerebbe il Comune a sospendere immediatamente la vendita di armamenti a Israele e a promuovere l’adozione di sanzioni contro lo Stato ebraico.

La mozione del Comune di Genova è stata approvata ieri, martedì 29 luglio, con 21 voti favorevoli, 13 contrari e un astenuto. In sede di discussione la minoranza ha chiesto un rinvio del voto per raggiungere un testo unitario, che ha costretto una temporanea sospensione della seduta. Ripartita la discussione, il Consiglio ha approvato la mozione e gli emendamenti della maggioranza. Il documento approvato impegna il Comune «a sostenere, anche congiuntamente con altre istituzioni, il riconoscimento dello Stato di Palestina», in conformità alle risoluzioni delle Nazioni Unite e alle indicazioni del Parlamento Europeo, nel rispetto del diritto internazionale; Genova, inoltre, si impegna a chiedere al governo di fare lo stesso, e a sostenere «il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione», il suo diritto all’indipendenza e quello alla sovranità nazionale. Il Comune infine si impegna a chiedere che venga implementato un cessate il fuoco, che venga rispettato il diritto internazionale e che Israele faccia entrare aiuti nella Striscia di Gaza.

Da quanto comunicano i quotidiani locali, l’emendamento alla mozione sarebbe stato presentato la stessa mattina della discussione. Esso impegnerebbe il Comune a sollecitare il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’UE; a condannare il piano israeliano Carri di Gedeone come tentativo di annientamento sistematico del popolo palestinese; a sostenere il piano arabo per la ricostruzione di Gaza condannando il piano di deportazione proposto da Trump; a sospendere le autorizzazioni alla vendita di armi a Israele concesse prima dell’8 ottobre 2023 e a promuovere il blocco totale a livello europeo; a sospendere l’importazione di armamenti da Israele; a sostenere l’adozione di sanzioni UE contro il governo israeliano e i coloni; a richiedere la cessazione delle operazioni militari e dell’occupazione in Cisgiordania; a proporre la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Con l’approvazione della mozione di ieri, Genova si unisce alla lista di comuni che hanno chiesto al governo di riconoscere lo Stato di Palestina. Il primo a farlo, il 15 dicembre 2023, era stato il Comune di Polistena, nella città metropolitana di Reggio Calabria, come riportato dalla stessa pagina ufficiale del Comune sulla piattaforma social Facebook. A Polistena era seguito il comune di Turano Lodigiano, il primo ad aderire alla campagna dell’Associazione Schierarsi, che promuove una legge che impegna l’Italia a riconoscere “lo Stato di Palestina con capitale Gerusalemme est come Stato sovrano e indipendente, conformemente alle risoluzioni delle Nazioni Unite e al diritto internazionale”. Dopo il comune lombardo, sono arrivati a ruota diversi altri enti e altrettante amministrazioni, tra cui il Comune di Napoli, che ha anche interrotto i rapporti con Israele.

Trump annuncia dazi del 25% all’India

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Trump ha dichiarato che imporrà una tariffa del 25% sulle merci importate dall’India a partire dal 1° agosto. Trump ha anche annunciato una «penalità» senza tuttavia specificare di cosa si tratti; le ragioni delle tariffe risiedono nel fatto che l’India compra idrocarburi dalla Russia: «Ricordate, sebbene l’India sia nostra amica, nel corso degli anni abbiamo fatto relativamente pochi affari con loro perché i loro dazi sono troppo alti», scrive Trump. «Inoltre, hanno sempre acquistato la stragrande maggioranza del loro equipaggiamento militare dalla Russia e sono il maggiore acquirente di energia della Russia, insieme alla Cina, in un momento in cui tutti vorrebbero che la Russia fermasse le uccisioni in Ucraina».