Le grandi aziende operanti nel settore dell’intelligenza artificiale hanno spesso descritto i loro modelli come strumenti alimentati da valori assoluti e oggettivi. L’idea alla base è che, in assenza di filtri imposti, l’integrazione massiva di dati sia sufficiente a garantire un punto di vista universale e bilanciato, privo di pregiudizi e inclinazioni. A livello sia aneddotico che tecnico, sappiamo ormai che questo assunto è profondamente fallace. Per contribuire a diffondere questa consapevolezza, una recente ricerca ha cercato di qualificare politicamente le risposte delle IA più rilevanti, con l’obiettivo di valutarne le posizioni.
L’analista dei dati Maria Sukhareva ha avuto l’intuizione di mettere alla prova i principali modelli linguistici di grandi dimensioni, al fine di creare uno spettro qualitativo dei punti di vista che sono programmati a diffondere. La ricercatrice ha definito 200 quesiti riguardanti dieci differenti “tematiche controverse”, chiedendo successivamente alle IA di rispondere fornendo un riscontro binario: un sì o un no. L’esperimento è stato ripetuto cinque volte per verificare la consistenza delle risposte e, aspetto particolarmente interessante, replicato in 14 lingue differenti.
Le domande affrontano temi quali il cambiamento climatico, le politiche migratorie, i diritti LGBTQ+ e sono formulati per generare reazioni classificabili secondo i valori generali della destra e della sinistra politiche, nonché secondo i paradigmi conservatori e progressisti. Ciò che è emerso è che il modello senza censure di Qwen, prodotto dalla cinese Alibaba, si dimostra marcatamente di destra progressista; GPT-3.5 Turbo e LLaMA-3 si attestano su posizioni centriste; mentre GPT-4o viene caratterizzato da un orientamento progressista di sinistra. Contrariamente alle speranze del suo proprietario, Elon Musk, Grok-3 Mini ha evidenziato posizioni di centro-sinistra al momento in cui è stato effettuato il test. Un risvolto ironico, se si considera che a inizio luglio il chatbot è stato trasformato in un megafono per messaggi di matrice nazista.
Sukhareva ha condotto la sua indagine in modo indipendente, su una scala contenuta e partendo da un assunto valoriale che, per forza di cose, nasce da una dimensione soggettiva e contestabile. Nonostante ciò, la sua analisi articolata sottolinea quanto sia errato considerare i modelli di intelligenza artificiale come qualcosa di assoluto e oggettivo, o ipotizzare che la semplice scalabilità dell’addestramento possa neutralizzare le inclinazioni politiche associate a questi strumenti. L’utilizzo delle IA richiede dunque estrema attenzione, responsabilità e consapevolezza, soprattutto quando questa viene applicata a contesti delicati come la salute mentale, la selezione del personale e i processi di sicurezza. Tutti settori su cui stanno puntando con decisione molteplici realtà commerciali.
Andando alla radice del problema, i dataset utilizzati per il pre-addestramento sono già di per sé intrinsecamente soggetti a criticità legate alla rappresentanza degli equilibri di potere, con il risultato che le culture marginalizzate partono spesso sin da subito da una posizione svantaggiata. Affidandosi prevalentemente ai dati raccolti dalla rete, le IA mostrano una propensione a promuovere posizioni polarizzate, conservatrici e di destra — una tendenza successivamente modulata o attenuata tramite filtri e comandi imposti dalle aziende, le quali portano a loro volta specifici interessi aziendali e visioni politiche.
Ancora più interessante, gli esperimenti condotti da Sukhareva hanno evidenziato come uno stesso modello possa generare risposte significativamente differenti in base alla lingua utilizzata per formulare il quesito. In molti casi, ad esempio, le IA hanno mostrato una preferenza per prospettive di destra in risposta a prompt in lingua russa. L’analista ha dichiarato l’intenzione di approfondire il tema delle differenze linguistiche in un prossimo focus di ricerca; tuttavia, tutto lascia intendere che gli utenti che impiegano questi strumenti debbano sviluppare una forte alfabetizzazione digitale, puntuale e critica, soprattutto in previsione di un’integrazione delle IA in ambiti complessi.
Mentre nella Striscia di Gaza si continua a morire di fame e i palestinesi in fila per ricevere gli aiuti umanitari vengono barbaramente uccisi, c’è chi ha deciso di scrivere un libro di cucina da dentro una tenda da campo. Una scelta apparentemente paradossale che però cela una scelta di riaffermare il diritto all’esistenza del popolo palestinese attraverso la propria cultura, e celebrarne allo stesso tempo la vita specialmente in un momento in cui la fame è utilizzata come un’arma di guerra. Si tratta di Mona Zahed, ed è una cuoca di Gaza che dopo aver visto la sua casa e la sua attività di ristorazione essere distrutte dalle bombe, ha continuato ad alimentare la sua passione per il cibo creando Tabkha: Recipes from Under the Rubble, un volume di ricette tradizionali palestinesi. L’abbiamo raggiunta per un’intervista, utile a spiegare non solo la cultura gazawi, ma anche l’attualità attraverso la lente del cibo.
Oggi che la fame è utilizzata dal governo israeliano come arma di guerra, scrivere di cibo potrebbe sembrare irragionevole, ma, adottando un altro punto di vista, appare come un atto di resistenza. Esattamente come della terra, Israele si è appropriata anche della tradizione culinaria palestinese nel tentativo di creare delle proprie radici, un ladrocinio che ha fatto sì che i falafel, per esempio, siano diventati un piatto tipico della cucina kosher. Che si tratti di un vero e proprio saccheggio culturale lo si può sapere anche leggendo un libro pubblicato nel 1936 dalla Women’s International Zionist Organization dal titolo How to cook in Palestine. Nelle prime pagine del volume si legge: «Noi casalinghe dobbiamo lasciarci alle spalle le tradizioni culinarie europee che non si adattano al contesto palestinese. Dovremmo sposare a pieno la salutare cucina palestinese». Scrivere di cucina è dunque oggi un ulteriore modo per ribadire l’esistenza di un popolo e conoscere le ricette della tradizione culinaria palestinese è un tentativo di marginare la sottrazione che Israele opera ai danni della Palestina.
Come era la tua vita prima del 7 ottobre e com’è oggi dopo quasi due anni di guerra lanciata da Israele contro Gaza?
Prima dell’inizio del genocidio la mia vita era normale; io e mio marito avevamo un lavoro, una casa e i miei figli andavano a scuola e avevano una buona educazione. Avevamo tutto. Purtroppo, con la guerra, le nostre vite sono state sconvolte: io ho perso il mio lavoro, la farmacia di mio marito è stata completamente distrutta e non ci sono più scuole che possono frequentare i miei figli. Siamo stati sfollati per oltre un anno. In tutto, siamo già stati sfollati più di sei volte. Abbiamo vissuto per diversi mesi in una tenda: questi sono stati i giorni più duri. Purtroppo la sofferenza continua anche dopo il nostro ritorno a casa a causa della mancanza di numerosi servizi, della durezza del genocidio e a causa della fame.
Come è nata l’idea di scrivere un libro di ricette palestinesi?
L’idea è nata quando ho iniziato a realizzare una raccolta fondi per la mia famiglia su GoFundMe. Ho incontrato un’amica giapponese, anche lei chef, che si è offerta di aiutarmi a creare un libretto di ricette palestinesi, alcune delle quali vegetariane, da vendere come parte del sostegno alla nostra causa. Poi un’altra amica, un’artista fantastica finlandese che fa parte del team di Coffees for Gaza, mi ha aiutata a sviluppare ulteriormente l’idea facendo un libro con diverse ricette palestinesi e illustrazioni di vari artisti di tutto il mondo che volevano dare una mano alla mia famiglia e a molte altre famiglie di Gaza sostenute da Coffees for Gaza. Così ha preso vita il progetto che, grazie a Dio, è diventato realtà.
Le ricette presenti nel tuo libro risentono della scarsità di cibo dovuta all’occupazione israeliana?
Il libro include alcune varianti di ricette inventate a Gaza a causa delle difficili circostanze: sono fatte con ingredienti alternativi che si riescono ancora a trovare. Sono anche presenti metodi di cottura che i nostri antenati usavano in passato e diversi metodi di conservazione di cibo usati quando non c’erano i frigoriferi.
È possibile oggi a Gaza cucinare le tue ricette?
Ci sono alcune ricette che possono essere fatte ancora oggi nel pieno della carestia, come le lenticchie. Detto ciò, ci sono molti piatti che difficilmente possono essere cucinati a causa della chiusura dei valici e della mancanza di risorse. Viviamo nella fame da quattro mesi e non abbiamo accesso a molti cibi come la carne, la frutta, il formaggio, latticini, noci e dolci. Abbiamo dimenticato il sapore di queste cose.
Cosa rappresenta per te la cucina palestinese?
È la cucina di mio padre e di mio nonno ed è il patrimonio che ho ereditato. Amo cucinare: immagino di mischiare gli ingredienti e il loro sapore prima ancora di mettere le mani in pasta. La cucina palestinese è conosciuta per i suoi piatti deliziosi ed è parte della cucina levantina. Tutte le nostre ricette hanno un sapore particolare che compete con quello di molte altre tradizioni.
Che significato ha nella cultura palestinese l’arte della cucina?
Nel mio Paese cucinare è un’azione molto importante. In Palestina e in particolare a Gaza amiamo cucinare e mangiare: scoprirete che cuciniamo e mangiamo un sacco (a eccezione di questi tempi di carestia). Adoriamo offrire cibo agli ospiti in ogni occasione e abbiamo piatti speciali per particolari circostanze. Il cibo contraddistingue il nostro popolo. A Gaza preferiamo i piatti piccanti e quelli ricchi di spezie ed erbe. Per noi cucinare è davvero qualcosa di fondamentale.
Qual è il piatto più importante nella cucina palestinese?
Tutti i piatti sono importanti, ma credo che ci distinguiamo per i cibi sostanziosi e ricchi. Per esempio, durante i banchetti nuziali serviamo riso Qidra con carne come il pollo; durante l’henna party delle spose [festa organizzata per la sposa prima del matrimonio in cui le donne si decorano reciprocamente mani, braccia e piedi con una pasta di henné] o durante le celebrazioni del matrimonio serviamo la Sumaqqiya [piatto tipico a base di sommaco, cipolla, ceci, aglio, pasta di sesamo, pepe verde, peperoncino, sale, olio d’oliva, farina bianca e carne d’agnello]. Prima della genocidio il fine settimana era un momento di riposo per tutti e in quei giorni non si trovava una casa a Gaza che non profumasse di cibi deliziosi come la maqluba [piatto a base di riso, verdure, pollo e spezie], il maftool [un cous cous palestinese] o il fatteh [ricetta a base di ceci, yogurt e menta].
Condividi con noi una delle tue ricette?
Posso condividere una delle ricette per cui siamo famosi in Palestina: i falafel.
Ingredienti:
Mezzo chilo di ceci (mettere in ammollo per dieci ore);
Due grandi cipolle;
Quattro spicchi d’aglio;
Un mazzetto di prezzemolo;
Un peperone verde piccante;
Un mucchietto di aneto verde;
Scolare i ceci, aggiungere tutti gli ingredienti e mescolare;
Tritare il composto fino a ottenere una consistenza simile a quella della pasta;
Aggiungere le seguenti spezie: un cucchiaio di sale, mezzo cucchiaio di cumino, mezzo cucchiaio di coriandolo macinato, mezzo cucchiaio di bicarbonato, tre cucchiai di semi di sesamo;
Mescolare:
Fare delle palline con l’impasto e friggerle in olio vegetale finché non sono dorate e croccanti;
Servire con pane arabo o pane saj, patatine fritte, insalata e hummus a parte.
La Germania ha dichiarato che consegnerà due sistemi missilistici di difesa Patriot all’Ucraina. L’annuncio arriva in seguito a un accordo della Germania con gli Stati Uniti, che prevede la fornitura di piattaforme all’Ucraina in cambio dell’ottenimento di sistemi d’arma più avanzati da Washington. Da quanto si legge nel comunicato tedesco, in una prima fase, la Germania fornirà a Kiev lanciatori Patriot, che giungeranno a destinazione nei prossimi giorni; nel frattempo inizierà a preparare l’invio di ulteriori componenti del sistema, che verranno spediti «nei prossimi due o tre mesi».
Messo sotto pressione da un’ondata imponente di proteste popolari e dagli stessi vertici dell’Unione Europea, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha fatto marcia indietro sulla contestata legge che elimina l’indipendenza delle agenzie anticorruzione, firmata solo la scorsa settimana. Migliaia di manifestanti si sono radunati a Kiev e in altre città ucraine scandendo slogan come «vergogna!» e «il popolo è il potere», mentre alti funzionari europei hanno avvisato il capo ucraino che la legge metteva a repentaglio la possibilità del Paese di aderire all’Ue. Stretto tra il malcontento popolare e i moniti dell’UE, Zelensky ha rapidamente cambiato direzione, firmando ieri un nuovo disegno di legge che «garantisce l’assenza di qualsiasi tipo di influenza o interferenza esterna» sulle agenzie anticorruzione del Paese. Il tutto anche per disinnescare una crisi politica che ha compromesso la sua stessa credibilità. Il nuovo disegno di legge è stato approvato con 331 voti a favore e nessun contrario. Successivamente, il presidente ucraino si è affrettato a sottolineare su Telegram che «L’Ucraina è una democrazia. Non ci sono dubbi».
Il nuovo disegno di legge annulla gli emendamenti che conferivano al procuratore generale, scelto dal presidente stesso, la possibilità di interferire nelle indagini delle agenzie anticorruzione, ossia l’Ufficio Nazionale Anticorruzione e la Procura Speciale Anticorruzione (NABU e SAPO). Il provvedimento, infatti, avrebbe permesso a Zelensky di proteggere i suoi alleati dalle indagini e da eventuali azioni penali. Del resto, la NABU ha accusato di corruzione 71 persone tra parlamentari e ex parlamentari, 31 dei quali risiedono ancora nel parlamento ucraino. Inoltre, mentre Zelensky firmava il disegno di legge la scorsa settimana, sia la NABU che la SAPO stavano indagando sulle accuse di corruzione che coinvolgono alcuni dei suoi più stretti alleati di governo. Se da un lato, la maggior parte dei parlamentari che la scorsa settimana hanno votato a favore della legge contestata hanno ammesso di aver commesso un errore, dall’altro, alcuni esponenti di rilievo della politica ucraina, come Julia Tymoshenko, hanno difeso l’iniziativa legislativa che sopprime l’indipendenza delle agenzie anticorruzione. «Questo disegno di legge, presentato dal presidente sotto una pressione colossale, non riguarda NABU e SAPO, né la lotta alla corruzione. NABU e SAPO sono organi di pressione politica sul governo ucraino dall’esterno. Non siamo un Paese che può essere governato da potenze straniere come un cane al guinzaglio», ha affermato l’imprenditrice energetica e politica ucraina, tra le principali sostenitrici della rivoluzione arancione del 2004.
Lo stesso Zelensky, in un discorso tenuto il 23 luglio ha sostenuto che l’obiettivo del governo non era quello di smantellare l’apparato anticorruzione bensì di liberarlo dall’influenza russa: «L’infrastruttura anticorruzione funzionerà solo senza l’influenza russa: bisogna liberarsene», aveva detto. Tuttavia, come riporta anche il quotidiano Politico, né lui né il suo capo di gabinetto Andriy Yermak, che funge da co-presidente , hanno indicato esattamente in che modo Mosca potrebbe aver influenzato una delle due agenzie. In altre parole, Zelensky e il suo gruppo non hanno riportato prove di quanto da loro affermato. Da parte sua, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha descritto la legge di giovedì come «un passo positivo» e ha esortato l’Ucraina a proseguire nel suo percorso di riforme, mentre l’Alto rappresentante per la politica estera Kaja Kallas ha scritto che dimostra la «determinazione dell’Ucraina a tornare rapidamente sulla buona strada quando sono in gioco i valori democratici europei».
I due uffici anticorruzione erano stati creati nel 2015, in seguito alla Rivoluzione di Maidan, come parte delle riforme filo-Occidentali e la stessa UE aveva esercitato pressioni in tal senso. La NABU e la SAPO, in seguito, hanno intensificato il loro lavoro di controllo sulla corruzione dopo l’inizio della guerra con la Russia nel 2022, quando si è reso necessario gestire una grande quantità di fondi e di armi provenienti dai Paesi Occidentali come sostegno alla guerra ucraina contro la Russia. In questo contesto, hanno denunciato legislatori e alti funzionari governativi, tra cui un allora vice primo ministro accusato il mese scorso di aver incassato una tangente di 345.000 dollari, secondo la Reuters. Non stupisce, dunque, che Zelensky – come anche i suoi predecessori – abbia provato a mettere sotto il suo controllo l’apparato anticorruzione, anche se questo contraddice gli ideali democratici e liberali a cui la classe politica ucraina sostiene di aspirare. La marcia indietro di Zelensky sembra, infatti, più dettata da interessi e pressioni interne ed esterne, tra cui quella dell’Ue, che da un autentico sentimento democratico. Dopo gli emendamenti che modificano il precedente disegno di legge, i manifestanti hanno applaudito e gridato di gioia, mentre il rappresentante dell’opposizione Yaroslav Yurchyshyn ha ringraziato gli ucraini per aver impedito alle autorità di finire «a un passo dall’abisso» dell’autocrazia.
La Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito oggi, venerdì 1° agosto, che uno Stato membro non può designare un Paese di origine sicuro se non offre protezione sufficiente a tutta la sua popolazione. La decisione si applica fino all’introduzione del nuovo regolamento Ue sull’asilo, previsto per il 12 giugno 2026. La Corte ha precisato che la designazione può avvenire tramite atto legislativo, ma deve essere sottoposta a controllo giurisdizionale. Il governo italiano ha espresso sorpresa, criticando la giurisdizione della Corte e sostenendo che la decisione indebolisca le politiche di contrasto all’immigrazione illegale.
Palombo, verdesca o gattuccio: varietà di pesce il cui consumo è molto diffuso anche in Italia, al punto che tra il 2017 e il 2023 ne sono state commercializzate oltre 43 mila tonnellate. A sorprendere, tuttavia, è che secondo quanto rivelato da un sondaggio, pubblicato sulla rivista scientifica Marine Policy, due consumatori su tre non hanno alcuna idea che si tratti di tipi di squalo commercializzati spesso con scarsa tracciabilità ed etichette fuorvianti. Una questione che non è solo etica, ma di forte impatto sul predatore dei mari: oltre la metà delle 86 specie di squalo presenti nel mar Mediterraneo è infatti classificata a rischio di estinzione. E questo avviene nonostante la loro cattura all’interno dei mari europei sia formalmente vietata.
In occasione della Giornata mondiale degli squali, il WWF Italia ha evidenziato un fenomeno allarmante: come attestato da una ricerca pubblicata su Marine Policy, nel continente europeo Spagna, Portogallo e Italia sono non solo importatori ma veri e propri hub di redistribuzione di carne di squalo. Un paradosso a fronte di politiche europee di conservazione marina: l’Unione, infatti, si impegna nella tutela e promuove regolamenti come il fins naturally attached, che vieta la pesca delle pinne, ma i controlli restano insufficienti. Nel mondo sono circa 100 milioni gli squali che ogni anno vengono uccisi per carne, pinne, olio, cartilagine e pelle. Nell’ultimo mezzo secolo il 37% delle specie di squali e razze è minacciato di estinzione, con il Mar Mediterraneo che vede una situazione assai critica: tra le 86 specie note di elasmobranchi che vi abitano, oltre la metà è a rischio estinzione.
«Etichettatura e tracciabilità sono spesso carenti e le violazioni frequenti», ha avvertito il WWF. Da un sondaggio parallelo condotto su oltre 600 cittadini milanesi, pubblicato anch’esso su Marine Policy, è emerso che il 64% di essi non sapeva che la carne di squalo fosse legalmente venduta in Italia; il 93% ha dichiarato di non averla mai comprata, ma il 28% ha ammesso di aver consumato palombo, verdesca o gattuccio senza sapere che fossero squali. Solo il 30% era a conoscenza dei rischi per la salute, legati all’accumulo di metalli pesanti. «Tra le specie più vendute troviamo squali in pericolo come verdesca, palombo, spinarolo e smeriglio», spiegano gli esperti del WWF Italia. Il consumatore, in larga parte ignaro, spesso trova sul mercato prodotti con nomi locali fuorvianti e generici che non rivelano la natura predatoria e il rischio estinzione delle specie.
Per invertire la rotta, il WWF – partner del progetto cofinanziato dall’Unione Europea LIFE Prometeus, che punta a migliorare lo stato di conservazione di squali e razze nel Mediterraneo attraverso un approccio integrato – chiede ai consumatori maggiore attenzione alle etichette: leggere sempre denominazione commerciale e scientifica, zona di cattura e metodo di pesca, ed evitare prodotti senza tracciabilità. L’organizzazione «chiede ai cittadini dire no al consumo di squali e razze, almeno finché non vengano messe in atto misure di gestione efficaci per garantire una pesca più sostenibile delle specie commerciali e alle istituzioni di attivarsi quanto prima in questo senso, con un adeguato coinvolgimento dei pescatori e sulla base della ricerca scientifica – si legge all’interno di un comunicato -. In questo senso, sono essenziali formazioni a tappeto per pescatori e autorità deputate al controllo e commercianti per la corretta identificazione e commercializzazione delle specie di squali e razze». Un passo in avanti è rappresentato da tSharks, piattaforma digitale per il monitoraggio di squali e razze nel Mediterraneo, grazie a campagne di tagging e rilevazioni da parte di ricercatori, pescatori e cittadini. Dal 2023 in Italia sono identificate 16 “aree importanti” per la riproduzione e sopravvivenza degli elasmobranchi, ideali per interventi tutelari.
Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che rivede i dazi commerciali americani, imponendo nuove tariffe a vari Paesi, con l’implementazione prevista dal 7 agosto 2025. Le tariffe marittime resteranno congelate fino al 5 ottobre 2025. Per l’Unione Europea, nonostante le preoccupazioni, i dazi rimangono al 15%, come stabilito nell’accordo con Ursula von der Leyen. Le tariffe per Giappone e Gran Bretagna restano rispettivamente al 15% e 10%, mentre quelle per India e Corea del Sud rimangono invariate. Il Canada vede un aumento dei dazi dal 25% al 35%, in risposta alle sue politiche. Altri aumenti riguardano Svizzera e Siria. Il Brasile, pur mantenendo il 10%, vede una nuova misura del 40% su alcune merci.
Da quando è salito al potere, il governo Meloni ha approvato nuovi programmi militari per una spesa complessiva di 42 miliardi di euro e impegni finanziari pluriennali per 15 miliardi. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’osservatorio Milex, che fornisce una tabella riassuntiva contenente tutti i progetti approvati da inizio legislatura in ordine cronologico. I progetti risultano programmi di acquisizione di nuovi sistemi d’arma terrestri, aerei, marittimi e per le forze speciali. I principali fornitori italiani sono Leonardo, Fincantieri, MBDA Italia, Rwm, Iveco e Tekne; tra quelli stranieri, invece, risultano in crescita quelli israeliani, specialmente, Rafael (con oltre 360 milioni impegnati), Elta Systems (per altre centinaia di milioni), ed Elbit (44 milioni impegnati). In totale, l’impegno finanziario pluriennale assunto dall’Italia nei confronti di Israele è pari ad almeno mezzo miliardo.
I programmi coinvolgono diverse forze armate, tra cui l’Esercito, la Marina, l’Aeronautica, i Carabinieri e le forze interforze. Nello specifico, le acquisizioni riguardano una vasta gamma di sistemi, tra cui carri armati, obici semoventi, blindati, droni-bomba, navi da guerra, sottomarini, missili, aerei da combattimento e per la guerra elettronica, armi per le forze speciali e tecnologie avanzate come radar, satelliti e sistemi di comunicazione. Inoltre, si prevedono investimenti per la costruzione di infrastrutture militari, come caserme, poligoni e basi. I fornitori di questi programmi sono sia nazionali che internazionali. Le principali aziende italiane inserite nella lista – Leonardo, Fincantieri, Iveco e Rwm – si occupano rispettivamente di mezzi aerei, navali, terrestri e munizioni. A livello europeo, l’Eurofighter Typhoon è prodotto da un consorzio che include Leonardo e altre aziende internazionali, mentre Mbda Italia è coinvolta nella produzione di missili e bombe. I fornitori esteri includono anche giganti statunitensi come Lockheed Martin, Boeing e Raytheon, e compagnie tedesche e francesi, tra le altre.
Particolare attenzione è data alle aziende israeliane, con un incremento significativo delle forniture, come i missili anticarro Spike e i droni-bomba Spike Firefly, per un valore complessivo che si stima possa raggiungere tra i 600 e i 700 milioni di euro. Le forniture israeliane si allineano con l’aumento delle autorizzazioni all’importazione di materiale bellico in Italia, che ha visto un notevole incremento nell’ultimo anno. In aggiunta ai programmi di armamenti, il governo italiano ha dato il via a nuove fasi di programmi già in corso, come quello dei satelliti militari Sicral 3. Il programma Sicral, avviato nel 2020, è stato recentemente rivisto, con un aumento dei costi da 590 milioni a 767 milioni di euro, a causa della necessaria revisione dei requisiti di sicurezza e dei costi aggiuntivi per protezione cyber e lancio dei satelliti.
A ogni modo, si tratta solo di una piccola parte di quanto occorrerà al nostro Paese per raggiungere il 5% del PIL in Difesa (3,5% in armamenti) entro il 2035, obiettivo confermato dalla premier Meloni nel suo discorso al Parlamento dello scorso 23 giugno. In tale sede, Meloni ha rivendicato il raggiungimento da parte del suo governo del 2% del PIL in spese per la difesa richiesto dalla NATO nel 2014, assicurando un completo allineamento anche sui nuovi impegni: «Attualmente la proposta presentata prende atto della valutazione aggiornata che la NATO fa delle minacce e dei rischi per l’Europa, dei conseguenti piani di Difesa, della possibile riduzione del contributo in termini di forze e capacità da parte degli Stati Uniti», ha detto Meloni. La premier ha parlato di impegni «necessari», che «finché questo governo sarà in carica l’Italia rispetterà restando un membro di prim’ordine della NATO». Un balzo di spesa per difesa e sicurezza che, ovviamente, non potrà che impattare in maniera enorme sulla spesa sociale.
Nel frattempo, nella notte di martedì 29 luglio, il governo italiano ha avanzato una richiesta per accedere al fondo europeo SAFE per la difesa – una delle iniziative previste dal piano di riarmo lanciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen – con l’obiettivo di ricevere finanziamenti nel settore bellico. La richiesta contempla l’accesso a 14 miliardi di euro in cinque anni, con rimborsi da spalmare in 45 anni. Il fondo prevede la raccolta di una somma fino a 150 miliardi di euro sui mercati, da erogare sotto forma di prestiti diretti agli Stati che ne fanno richiesta, includendo l’avvio di procedure d’appalto comuni e semplificate. Hanno aderito al fondo altri 17 Paesi dell’UE, 12 dei quali hanno chiesto anche una deroga al Patto di Stabilità per aumentare i propri investimenti nell’industria delle armi al di fuori dei vincoli di debito da esso previsti.
La vicenda dimenticata di Dino Budroni ha compiuto 14 anni esatti ed è finita nel nulla: un delitto con un colpevole, ma senza castigo. Un omicidio senza pena. Bernardino, per tutti Dino, se lo portarono via due colpi di Beretta – uno mortale – sulle ultime curve di una notte romana di fine luglio del 2011. I processi hanno accertato che a ucciderlo fu un poliziotto di nome Michele Paone. Ma il paradosso è che l’agente non è mai passato dal carcere, non è mai stato sospeso dal servizio e nemmeno ha dovuto versare un euro di risarcimento ai parenti di Dino. Come è possibile? Per raccontarlo occorre riavvolgere una lunga sequenza di processi farsa, incongruenze e silenzi mediatici che hanno portato alla paradossale assoluzione perché l’agente avrebbe sparato per «tensione e stress psicologico accumulato». E questo nonostante la gestione dello stress sia uno di corsi base nelle scuole di polizia. E nonostante sia stato appurato che Dino Budroni venne ucciso a sangue freddo, mentre si trovava con le mani in alto.
Condannato senza pena: chi sbaglia (in divisa) non paga
Non ha pagato, soprattutto, l’unico imputato: l’agente scelto Michele Paone della Polizia di Stato, che pure è stato condannato per aver premuto il grilletto della sua Beretta di ordinanza, uccidendo il 40enne seduto nella propria macchina. La quale, una Ford Focus, era ferma sul Grande Raccordo Anulare in direzione nord, a due passi dall’uscita Nomentana. Era praticamente parcheggiata, alla fine di un inseguimento iniziato una ventina di chilometri prima, all’imbocco del Raccordo da Cinecittà. Il giudice di primo grado, quello che il 15 luglio 2014 ha assolto l’imputato dal reato di omicidio colposo perché «il fatto non costituisce reato» e riconoscendo un uso legittimo delle armi, ha argomentato la sua decisione dicendo, in buona sostanza, che Budroni – già colpito dal proiettile – ha fermato la macchina, spento il motore, inserito la prima marcia e tirato il freno a mano, colpito a morte da un colpo sparato dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra: una ricostruzione che definire fantasiosa è un complimento.
Omissioni, incongruenze e indizi trascurati
Le indagini dei Carabinieri sul luogo dell’omicidio di Dino Budroni
Ma i gradi di giudizio di questa storiaccia hanno scandito anche omissioni, incongruenze e mancanze nel percorso giudiziario. Meglio ricordare che tutto era iniziato sotto casa della donna che Budroni frequentava da cinque mesi, in via Quintilio Varo, a due passi dal Parco degli Acquedotti. Una diatriba a suon di porte prese a calci e urla, tanto che i giornali, nei giorni successivi, avevano titolato sulla «notte brava dello stalker». La donna, che aveva convissuto con Dino a Fonte Nuova, lo ha denunciato in commissariato dopo le sei del mattino, quando lui era già un cadavere in obitorio. Il processo per quella denuncia è stato celebrato solo dopo che era già stato sepolto, nel cimitero dove ignoti, per molto tempo, si sono particolarmente divertiti a violare e profanare la sua tomba.
Il silenzio mediatico e una tempesta perfetta
Se c’è un caso in cui l’informazione ha selezionato e pilotato cosa raccontare, è stato proprio quello dell’omicidio di Dino Budroni. Su nessuna testata, infatti, si è mai letto di tutti gli indizi, i particolari e le tracce che nessuno ha scavato né approfondito. Non lo ha fatto la Procura, nei suoi diversi assetti e titolarità. Non lo hanno fatto gli avvocati della famiglia, che pure si sono avvicendati, e che sembrano aver sempre accettato senza batter ciglio il fatto che nel dossier ci fosse poco o nulla, se non l’incriminazione di Paone, colui che ha premuto il grilletto.
Ora che la vicenda ha ricevuto una pronuncia definitiva dalla Cassazione, riavvolgendo il nastro di tre lustri di indagini non fatte e zone d’ombra mai illuminate, pare evidente che qualcuno si sia accontentato di un colpevole designato. Come chi sceglie di giocare in difesa e buttar via il pallone, che poi alla fine non è stato nemmeno colpevole, perché la prescrizione decennale per il reato di omicidio colposo, pur con aggravanti comuni (articolo 61 del Codice penale, capo terzo), gli ha tolto ogni rischio di varcare la soglia del carcere.
La giustizia non è riuscita a giudicare Paone prima che la mannaia dei termini calasse. Tutti questi elementi hanno composto una sorta di tempesta perfetta che ha inghiottito il caso Budroni, togliendo pena e conseguenze ai responsabili, e diluendo tutto in un interminabile percorso giudiziario.
Giudici diversi, sentenze diverse
Nei diversi gradi di giudizio, i giudici non sono sembrati d’accordo sulla colpevolezza dell’agente Michele Paone. Assolto in primo grado, condannato in appello a otto mesi, dopo che è stata messa in dubbio la volontarietà del suo gesto e la consapevolezza delle conseguenze, verso un’auto ferma dopo un inseguimento che i verbali descrivono come «condotto a folle velocità da Dino Budroni». Come a voler dipingere una situazione in cui la fine tragica era inevitabile.
Paone ha sempre dichiarato di aver mirato alle gomme della Focus in fuga. Il giudice di primo grado ha scritto che l’auto era in movimento al momento degli spari, nonostante uno dei carabinieri intervenuti (due volanti e una pattuglia dell’Arma, la Beta Como) abbia dichiarato in aula di aver sentito gli spari quando tutte le auto erano ferme.
La Corte d’Appello, anche per questo, ha ribaltato la sentenza di primo grado, ma la Cassazione ha annullato la condanna per vizio di motivazione, chiedendo un nuovo giudizio.
Sparare per colpa dello stress: le motivazioni dell’Appello bis
I fori dei due colpi di pistola esplosi dall’agente Michele Paone sulla Focus di Dino
La Suprema Corte ha rinviato il processo per un nuovo appello, che si è concluso lo scorso novembre, definendo colpevole l’agente Paone per aver sparato a Budroni da fermo – praticamente un’esecuzione – e in condizioni psicologiche “traballanti”.
Nella sentenza si legge: «Deve necessariamente concludersi che, al momento degli spari, la condotta di fuga di Budroni fosse ormai giunta al termine e che, pertanto, non vi fosse alcuna necessità di fare uso dell’arma per ”respingere la violenza” o ”vincere la resistenza” impeditive all’adempimento del dovere dei pubblici ufficiali». Il punto chiave: Paone ha sparato da fermo, quando Budroni aveva le mani alzate e la macchina era parcheggiata.
La lettura psicologica da parte dei giudici sorprende: «Paone non poteva non essersi reso conto di ciò già durante lo svolgimento dell’azione, per cui non è implausibile ritenere che il suo intervento sia stato essenzialmente frutto di tensione e stress psicologico accumulato, che lo hanno indotto a compiere un gesto non necessario e avventato». Ma proprio la gestione dello stress è il primo requisito insegnato nelle scuole di polizia.
Speronamenti senza tracce
La Focus di Budroni era inseguita da chilometri, dall’Anagnina, da due volanti e da una gazzella dei Carabinieri che Budroni avrebbe anche cercato di speronare. Ma sull’auto dell’Arma non ci sono tracce di urti. Gli agenti, durante l’operazione, alla radio dissero: «Lo abbiamo preso». Ma nessuno comunicò l’inseguimento alle centrali operative. L’azione avvenne, in pratica, all’insaputa degli altri colleghi.
Testimoni dimenticati
Ci sono testimoni oculari mai ascoltati. Uno di loro, Franco Casalino, titolare di un banco al mercato di Val Melaina, ha dichiarato di aver visto il corpo senza vita sul sedile passeggero alle 5 del mattino. Ma gli orari ufficiali non coincidono. L’agente Marco Stabile ha detto che alle 4:45 erano tornati in via Quintilio Varo per un controllo. L’alba civile dell’1 agosto 2011, però, è stata alle 4:30. O era già chiaro, o l’inseguimento era avvenuto prima.
Uno scontrino che cambia(va) tutto
Nelle tasche di Budroni è stato trovato uno scontrino per una birra, emesso da un bar sulla Nomentana, vicino a Fonte Nuova, dove viveva. Ma l’inseguimento sarebbe partito dal Tuscolano. La dinamica temporale non torna. Se era già a casa, perché tornare indietro? Inoltre, Budroni ricevette una telefonata alle 4 dal cognato a cui disse: «Sto tornando a casa».
C’erano altre persone con Dino quella notte?
Il sedile passeggero era reclinato, ma Budroni era solo. C’erano strane macchie mai repertate. Possibile che qualcuno fosse salito sull’auto e poi scappato? Nessuno ha indagato. È rimasta anche una pistola scacciacani, replica della Beretta 92, a bordo della Focus. Non era sua, non fu sottoposta a perizia e non è stata restituita alla famiglia.
Un fascicolo rimasto vuoto per 14 anni
Il fascicolo con cui Michele Paone è arrivato al primo grado di giudizio era sostanzialmente vuoto. Non si è riempito granché nemmeno dopo. La Cassazione, pronunciandosi nel novembre scorso, ha confermato la colpevolezza ma ha annullato le provvisionali a favore dei familiari. Paone non è mai stato sospeso, ha continuato a indossare la divisa e non dovrà nemmeno risarcire chi ha perso un figlio, un fratello, un uomo. Claudia, la sorella di Dino, ha speso anni a rincorrere la verità. Ma il caso di Dino Budroni è finito in un limbo mediatico, al contrario di altri nomi diventati simboli come Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e tanti altri. Evidentemente, non solo la legge, ma nemmeno i morti ammazzati sono sempre uguali per tutti.
Ieri sera, giovedì 31 luglio, il presidente forzista della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ha annunciato improvvisamente le sue dimissioni tramite un video sui social. Nelle scorse settimane era finito sotto inchiesta per corruzione. Ha precisato che, pur dimettendosi, intende ricandidarsi, invitando i calabresi a decidere il futuro della regione alle prossime elezioni. Occhiuto ha spiegato che la decisione è legata alle difficoltà amministrative interne, dove «nessuno si assume più la responsabilità di firmare niente». La formalizzazione delle dimissioni avverrà la prossima settimana e, dopo l’approvazione del Consiglio, sarà fissata la data delle elezioni.
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