sabato 12 Luglio 2025
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Gaza: le nazioni arabe cercano un piano alternativo al crimine elaborato da Trump

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Dopo la presentazione del piano di deportazione dei palestinesi da parte del presidente Trump, i Paesi arabi stanno accelerando le discussioni per elaborare una soluzione alternativa per il futuro di Gaza. A guidare i colloqui sono Arabia Saudita, Egitto, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Giordania, che dovrebbero incontrarsi giovedì 27 febbraio a Riyad. Per ora, la proposta più considerata sembra essere quella avanzata dall’Egitto, che prevede l’individuazione di una serie di «aree sicure» dove collocare le abitazioni temporanee per gli sfollati, mentre nel frattempo verrebbero portati avanti i lavori di smaltimento e ricostruzione. La grande incognita resta ancora quella della futura amministrazione: Israele chiede che Hamas e Autorità Nazionale Palestinese vengano tagliate fuori da ogni possibile ruolo di gestione della Striscia, richiesta che funzionari di Hamas hanno detto di essere pronti ad accettare a condizione di avere voce in capitolo sulla scelta della prossima guida. Israele, invece, sembra volere perseguire il suo obiettivo di eradicazione totale di Hamas, come dimostra l’uccisione di un alto comandante del gruppo arrivata proprio ieri.

Il piano egiziano per la ricostruzione di Gaza non è ancora stato presentato, ma il quotidiano statale Al-Ahram, l’agenzia di stampa Associated Press e l’agenzia di stampa Reuters hanno fornito alcuni dettagli preliminari. Da quanto comunicano le fonti, l’Egitto avrebbe pensato a un piano strutturato in tre fasi. L’idea egiziana è quella di designare tre «zone sicure» all’interno di Gaza dove ricollocare i palestinesi per un «periodo di recupero preliminare» di sei mesi. Tali aree sarebbero dotate di case mobili e rifugi, e verrebbero messe in piedi con afflussi di aiuti umanitari e con il sostegno di «24 multinazionali» e diverse società egiziane. Nel frattempo verrebbero portati avanti i lavori di ricostruzione. La manodopera di questi ultimi dovrebbe venire affidata almeno in parte alla stessa popolazione gazawi, visto che i funzionari egiziani hanno detto che la ricostruzione genererebbe «decine di migliaia di posti di lavoro». Durante questa fase, il piano di ricostruzione dell’Egitto per Gaza prevede la costruzione di unità abitative sicure entro 18 mesi e l’istituzione di altre zone abitative temporanee, per arrivare a un totale di venti aree. L’intera restaurazione, invece, dovrebbe durare 5 anni.

Ancora incerte le modalità di finanziamento dei lavori, per cui tuttavia il ruolo del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman si preannuncia fondamentale. Funzionari sauditi hanno detto che questo febbraio il fondo sovrano del Paese terrà una conferenza a Miami, alla quale dovrebbe partecipare lo stesso Trump, ma non sono arrivate conferme dai funzionari statunitensi; anche le fonti egiziane parlano di una possibile «conferenza internazionale per la ricostruzione di Gaza», senza tuttavia fare esplicito riferimento a Miami. Pare che per il pagamento dei lavori dovrebbe venire istituito un fondo ad hoc, che potrebbe coinvolgere il denaro internazionale e dei Paesi del Golfo. Gli stessi Paesi del Golfo, tuttavia, chiedono garanzie che Israele non distrugga di nuovo la Striscia: per tale motivo è emersa la possibilità di istituire una zona cuscinetto in cui costruire una barriera fisica per impedire la costruzione di tunnel attraverso il confine di Gaza con l’Egitto.

Ultima, ma non meno importante la questione della futura gestione della Striscia. Anche in questo caso, il ruolo del principe saudita sembra essere particolarmente rilevante. L’Arabia Saudita, infatti, ha dichiarato che il processo di normalizzazione con Israele passa da un necessario riconoscimento di uno Stato palestinese. Ieri, lunedì 17 febbraio, Mohammed bin Salman ha ricevuto il segretario di Stato USA Marco Rubio per parlare, oltre che di Ucraina, proprio di Gaza e della futura guida della Striscia. Il piano egiziano prevede l’istituzione di una sorta di governo di unità nazionale, da cui Hamas ha detto che sarebbe pronta a rimanere fuori a patto di potere nominare alcuni dei rappresentanti. Israele continua a mostrarsi chiusa verso una possibile amministrazione con a capo Hamas o l’ANP, e per quanto Hamas abbia affermato di essere disposta ad accettare tale condizione, non è detto che Israele sia pronta a fare lo stesso con le richieste dell’organizzazione palestinese. L’eradicazione di Hamas sembra infatti essere ancora una condizione di primaria importanza per Israele, come dimostrano le continue violazioni di cessate il fuoco a Gaza e in Libano, che ieri hanno portato all’uccisione del comandante di Hamas in Libano Mohammed Shahine, e di tre poliziotti di Hamas a Gaza. Netanyahu, inoltre, ha ribadito il suo pieno appoggio al piano di Trump, mostrando di non avere alcuna intenzione di riconoscere uno Stato palestinese.

[di Dario Lucisano]

Il Burkina Faso costruirà un memoriale per ricordare Thomas Sankara

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L’architetto Francis Kéré ha svelato il progetto per il mausoleo dedicato all’ex presidente Thomas Sankara a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Il mausoleo fa parte di un progetto più ampio: il Thomas Sankara Memorial, ideato dall’attuale presidente, Ibrahim Traoré. Il progetto intende mantenere il ricordo dell’ideale antimperialista e anticoloniale di Sankara, punto di riferimento per l’intero continente africano. Sankara, ucciso in un colpo di Stato il 15 ottobre 1987, invitava i popoli africani a spezzare le catene fisiche e mentali del colonialismo e a percorrere la propria via di sviluppo, secondo le proprie tradizioni e culture. La memoria di Sankara da ormai 40 anni è considerata un faro per i movimenti panafricani e, dopo lunghi decenni di oblio, il nuovo governo del Burkina – attivamente impegnato in una lotta per liberarsi dal dominio post coloniale – ha rimesso la memoria dell’ex leader al centro del proprio discorso pubblico.

Il mausoleo, ha spiegato l’ingegnere civile Nataniel Sawadogo, che si è occupato del progetto, è costruito interamente con laterite di terra, in modo che l’interno rimanga fresco senza l’utilizzo di aria condizionata. Si tratta di un materiale ampiamente usato in Burkina Faso anche dalla popolazione, ad esempio per raffreddare l’acqua. Francis Kéré, l’architetto, intende così dimostrare che l’utilizzo delle tecniche e delle conoscenze tradizionali può risolvere diversi problemi ecologici, oltre che sociali. Il mausoleo, dedicato alla memoria di Sankara e dei suoi 12 aiutanti, fa parte di un progetto più ampio, il Thomas Sankara Memorial, ideato dal presidente del Burkina Faso, Ibrahim Traoré. Il sito intende «riflettere la genesi della rivoluzione», intesa come «cambiamento di direzione e di status quo», ma anche «intrisa di ambiguità», allo stesso tempo «rinnovamento come necessità e implicazione di rottura, a volte pacifica, ma spesso brutale». Lo sviluppo degli edifici, dunque, punta a tenere insieme questa duplice natura integrando la struttura nel paesaggio esistente. Costruire il mausoleo è la prima fase del progetto. Il sito di 14 ettari è visto con un luogo di «vita e di raccolta», dove si possa studiare, si possano celebrare matrimoni e conoscere gli ideali della rivoluzione di Sankara.

Nel cuore del memoriale sarà conservato l’edificio dove ha avuto luogo l’attacco che ha ucciso Sankara, affinchè possa «appartenere alla gente». Affinchè questo venga identificato dai cittadini come luogo di riferimento, intorno ad esso verrà costruita una torre alta 87 metri, la cui posizione rispetto allo skyline di Ouagadougu servirà per «ricordare l’atteggiamento di rottura, la postura orgogliosa e la resilienza di Sankara». Proprio in questi giorni sono stati reperiti 571 documenti d’archivio, 159 foto digitali, 110 foto analogiche e cinque statuette relative a Sankara nell’agosto 1983. Questi oggetti sono stati raccolti dal National Archives Center e consegnati al Ministero della Cultura a beneficio dell’Unità di gestione del Thomas Sankara Memorial Infrastructure Construction Project. «Nessuno può svilupparsi senza conoscere la propria storia», ha sottolineato Samuel Kalkumdo, consigliere speciale del presidente.

Sankara è stato un leader carismatico per tutta l’Africa nella sua battaglia antimperialista e anticolonialista. Cambiò il nome di Alto Volta in Burkina Faso e governò per quattro anni fino al giorno della sua morte. Sankara si impegnò per eliminare la povertà attraverso il taglio degli sprechi statali e la soppressione dei privilegi delle classi agiate. Finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione in estrema povertà. Cercò di decolonizzare il suo Paese tanto nella realtà pratica quanto nel pensiero. Il suo rifiuto di pagare il debito estero di epoca coloniale, insieme al tentativo di rendere il Burkina Faso autosufficiente e libero da importazioni forzate, attirò l’ira degli Stati Uniti. Così, il 15 ottobre 1987, Sankara fu ucciso. Subito dopo, il suo vice Blaise Compaorè si autoproclamò presidente al suo posto, pienamente appoggiato dalle potenze occidentali, rimanendo in carica dal 1987 al 2014.

Il 6 aprile del 2022, un tribunale militare di Ouagadougou ha condannato Compaoré all’ergastolo per aver contribuito attivamente all’omicidio di Thomas Sankara. Insieme a Compaoré, condannato in contumacia, sono stati condannati all’ergastolo anche Hyacinthe Kafando, all’epoca a capo della sicurezza e Gilbert Diendéré, un ex comandante accusato di aver partecipato in prima persona all’uccisione di Sankara. Sono state condannate anche altre otto persone, con pene che oscillano tra i tre e i venti anni di carcere, mentre tre imputati sono stati completamente assolti.

[di Michele Manfrin]

Turchia, raid anti-curdi: 282 arresti

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La polizia turca ha arrestato 282 persone accusate di avere legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che il Paese considera terrorista. La notizia è stata data oggi, martedì 18 febbraio, dallo stesso esecutivo, che ha specificato che gli arresti sono stati condotti nell’arco degli ultimi 5 giorni e hanno interessato anche giornalisti, accademici e politici. I raid degli ultimi giorni si collocano nella scia di una stretta sempre maggiore nei confronti di persone vicine alla causa curda da parte delle autorità turche. Nell’ultimo anno sono stati destituiti 10 sindaci, sostituiti da funzionari statali.

Gaza, fonti sicurezza: Israele ha violato 266 volte il cessate il fuoco

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Fonti della sicurezza palestinese hanno riferito ad Al Jazeera di aver registrato 266 violazioni dell’accordo di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza da quando è entrato in vigore, lo scorso 19 gennaio. Tali violazioni avrebbero portato all’uccisione di almeno 132 palestinesi e al ferimento di oltre 900. La maggior parte delle violazioni si sarebbe verificata nella zona centrale di Gaza, con 110 incidenti, seguiti da 54 a Rafah, 49 a Gaza City, 19 a Khan Younis e 13 nell’area settentrionale della Striscia. Durante il cessate il fuoco, i leader israeliani hanno discusso la possibilità di una ripresa dei combattimenti, con i ministri di estrema destra del governo che premono per l’occupazione militare dell’enclave.

Negli allevamenti lombardi si continuano a uccidere gli animali positivi al Covid

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Gli allevamenti di visoni sono tornati sotto i riflettori per una gestione opaca e preoccupante in relazione alla diffusione del Covid tra gli esemplari. A Capergnanica, centro in provincia di Cremona, si è infatti registrato un nuovo focolaio di SARS-CoV-2, con la conseguente eliminazione di circa 900 esemplari. A rivelarlo è stata la Lega Antivivisezione (LAV), che ha ottenuto i risultati dei tamponi processati dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna (IZLER) tra settembre 2024 e gennaio 2025. Ciò che più allarma è che il focolaio sarebbe stato identificato già nell’ottobre 2024, ma le autorità sanitarie hanno preferito agire abbattendo gli animali senza rendere pubblica la notizia.

La LAV ha evidenziato come, invece di fornire un’informazione tempestiva e trasparente, si sia optato per l’uccisione degli animali in silenzio. L’associazione ha denunciato che ciò che resta oggi in quell’area sono «cumuli di escrementi accessibili agli uccelli selvatici, dannosi per la salute pubblica e da trattare come rifiuti pericolosi». Simone Pavesi, responsabile LAV Area moda Animal Free, ha dichiarato che «tutti questi animali avrebbero potuto avere una nuova vita, liberi dalle gabbie e da ogni forma di sfruttamento, se solo i Ministri dell’Agricoltura, prima Stefano Patuanelli e poi Francesco Lollobrigida, avessero permesso il trasferimento dei visoni dagli allevamenti ai centri di recupero gestiti dalle associazioni». Al contrario, ha aggiunto Pavesi, «stiamo assistendo ad una lenta e prolungata agonia che questi animali devono patire ogni giorno, senza considerare anche il rischio per la salute pubblica». Si è infatti scelta la strada dell’eliminazione sistematica, lasciando che la situazione sanitaria degli allevamenti rimanesse avvolta nell’ombra. Questo episodio, però, non è un caso isolato. Dal 2020, in Italia, si sono registrati ben cinque focolai di SARS-CoV-2 negli allevamenti di visoni, nonostante l’introduzione di misure di biosicurezza. I primi episodi risalgono al 2020 e al 2021 negli allevamenti di Capralba (Cremona) e Villa del Conte (Padova). Successivamente, altri casi sono stati individuati nel 2022 a Galeata (Forlì-Cesena) e nel 2023 in Lombardia, a Calvagese della Riviera. Tutto ciò nonostante l’entrata in vigore, a gennaio 2022, del divieto di allevamento di visoni e altri animali “da pelliccia”. Di fronte all’ennesimo caso, la LAV è tornata a chiedere con urgenza la chiusura definitiva di tutti gli allevamenti ancora esistenti e la liberazione degli ultimi 400 visoni ancora prigionieri in strutture intensive.

Nel suo dossier “Fashion Spillover”, pubblicato dalla LAV nel 2022, l’associazione già denunciava l’inefficacia delle misure di biosicurezza per prevenire il contagio all’interno degli allevamenti intensivi. Il documento ha evidenziato come gli allevamenti di visoni abbiano rappresentato un pericoloso serbatoio del virus, facilitando la trasmissione uomo-visone-uomo. Già dal 2020 si sono registrati numerosi focolai in Europa e Nord America, con misure di contenimento spesso inefficaci o tardive. In paesi come Olanda, Danimarca e Spagna, le autorità hanno abbattuto milioni di animali per fermare la diffusione del virus. In Italia la risposta è stata insufficiente e tardiva: il governo ha inizialmente evitato test diagnostici obbligatori e, solo dopo le pressioni della LAV, ha disposto la chiusura temporanea degli allevamenti. Secondo la LAV, l’industria della moda ha una grande responsabilità nella diffusione del virus. Il settore delle pellicce, pur essendo ormai in declino, continua a incentivare la presenza di allevamenti intensivi che, oltre alla sofferenza animale, rappresentano un pericolo sanitario e ambientale.

[di Stefano Baudino]

Hacker filorussi, ancora attacchi: colpiti siti istituzionali italiani

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Dopo le azioni di ieri contro i portali web di scali aeroportuali e banche, prosegue anche oggi l’ondata di attacchi hacker a siti italiani da parte del gruppo filorusso NoName057(16), che li ha rivendicati parlando di «punizione per l’Italia». Questa volta sono stati colpiti i portali di vari ministeri, della Guardia di Finanza e dei Carabinieri. I tecnici dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale e della Polizia postale hanno immediatamente effettuato azioni di mitigazione. Gli attacchi seguono l’accusa del governo russo al presidente della Repubblica Mattarella, che a inizio febbraio aveva paragonato «l’odierna aggressione russa all’Ucraina» al «progetto del Terzo Reich».

 

Cortina ’26: per il 60% delle opere non c’è stata nessuna valutazione di impatto ambientale

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A meno di un anno dall’apertura delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026, soltanto il 10% delle opere da completare entro l’inizio di febbraio del prossimo anno è stato effettivamente terminato. Per il 50%, i lavori non sono nemmeno iniziati e per il 60% non è stata effettuata alcuna valutazione di impatto ambientale. A delineare il quadro della situazione è Open Olympics 2026, un gruppo composto da una ventina di associazioni – tra cui Libera, Legambiente e WWF – che da mesi porta avanti una campagna di monitoraggio civico sulle controverse Olimpiadi. Per quanto riguarda l’impatto ambientale, Open Olympics ha sottolineato che «la maggior parte delle opere non è stata sottoposta alle valutazioni, in contrasto con quanto previsto dal dossier iniziale, di fatto largamente bypassate grazie ai commissariamenti straordinari».

Il dossier analizza 94 delle 100 opere previste dal Piano delle Opere per i Giochi, per un valore complessivo di circa 3,4 miliardi di euro. La maggior parte degli interventi riguarda infrastrutture stradali e ferroviarie, con investimenti che superano di 5,6 volte quelli destinati alle opere strettamente legate all’evento sportivo. Nello specifico, i costi delle opere legate all’evento olimpico ammontano a circa 440 milioni di euro, mentre quelli per le infrastrutture inquadrate come “legacy” – ovvero come “eredità” lasciata ai territori in seguito alla conclusione delle gare – sono pari a circa 2,45 miliardi. Il report rivela che oltre la metà dei progetti è ancora in fase di progettazione o gara d’appalto, mentre solo il 10% delle opere previste per il completamento entro il 2026 è stato portato a termine. Lombardia e Veneto risultano le regioni con il maggiore volume di spesa, mentre il Trentino è il territorio con il maggior numero di interventi.

Uno degli aspetti più critici evidenziati dal report riguarda le procedure di valutazione ambientale. Per il 60% delle opere, infatti, non è stata prevista alcuna VIA, ritenuta non necessaria o non applicabile secondo le normative vigenti. Solo nel 16% dei casi è stata effettuata una qualche forma di verifica ambientale, mentre il restante 23% delle opere è ancora in attesa di valutazione preliminare. Si tratta di un dato che contrasta con quanto previsto dal dossier iniziale di candidatura, che prometteva un evento rispettoso dell’ambiente e attento alla sostenibilità. L’assenza di VIA per la maggior parte delle opere è stata resa possibile grazie ai commissariamenti straordinari, che hanno di fatto bypassato procedure che avrebbero garantito un maggiore controllo sugli impatti ecologici degli interventi.

Chiedendo piena trasparenza a Fondazione Milano Cortina 2026 – ente che sovrintende i lavori per le Olimpiadi – circa le spese per la realizzazione dei Giochi, le associazioni autrici del rapporto evidenziano con preoccupazione come l’ultimo documento economico cronologicamente disponibile sul sito della Fondazione, il Financial Statement, riporti come, all’ultimo giorno del 2023, la Fondazione abbia registrato un deficit patrimoniale pari circa 108 milioni di euro. Un aspetto su cui, nel luglio scorso, si era concentrata anche la Corte dei Conti della Regione Veneto, secondo cui il bilancio di Fondazione Milano-Cortina 2026 ha un deficit patrimoniale cumulato «in costante peggioramento», senza che vi sia certezza di miglioramento del business plan dei successivi due anni. Allarmante è anche il fattore tempo: con il 50% delle opere ancora in fase di progettazione o gara, il rischio è che la necessità di accelerare i lavori porti a una riduzione dei controlli su ambiente, sicurezza e condizioni di lavoro.

Le Olimpiadi invernali del 2026 sono al centro di scandali e contestazioni sin dal loro lancio. Dalla inchiesta per corruzione che ha coinvolto la Fondazione verso la fine dello scorso maggio, alle evidenti problematiche ambientali che deriverebbero da alcuni dei progetti in cantiere, primo fra tutti quello relativo alla pista da bob, che sembrerebbe fare acqua da tutte le parti. Nonostante il ministro Salvini abbia dichiarato che la pista sia praticamente pronta, negli scorsi giorni un gruppo di scialpinisti, guidato dall’attivista Alberto Peruffo, ha cercato di smentirlo con verifiche sul campo. L’ispezione da loro condotta ha infatti rivelato cantieri in ritardo, alberi abbattuti oltre il conteggio ufficiale e problematiche di sicurezza. Secondo gli ambientalisti, l’area è diventata una discarica di materiali e simbolo di speculazione. Temendo che la pista sia incompleta e insicura, hanno annunciando esposti alla giustizia sportiva.

[di Stefano Baudino]

L’Europa litiga sulla strategia per Kiev, ma concorda sulle spese militari

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Ieri, lunedì 17 febbraio, mentre il segretario di Stato statunitense Marco Rubio veniva ricevuto a Riyad dal principe ereditario dell’Arabia Saudita, Moḥammad bin Salmān, a Parigi si è svolto l’incontro informale lanciato da Macron per parlare della questione ucraina. Il vertice è stato convocato in risposta all’esclusione dell’Unione Europea dai negoziati di pace, e vi hanno partecipato i presidenti e primi ministri di Danimarca, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito e Spagna, affiancati dalle autorità europee e dal segretario generale della NATO, Mark Rutte. Del contenuto effettivo delle discussioni si sa poco, ma dalle informazioni a disposizione, ciò che è emerso è stata l’incapacità di parlare con una voce unica, senza che si accavallino dichiarazioni contraddittorie. Dall’Italia sembra essere trapelata la linea più aperta nei confronti degli Stati Uniti, oltre a un evidente criticismo verso la scelta di convocare un vertice informale all’Eliseo tra pochi eletti, piuttosto che un Consiglio straordinario presso le dovute sedi istituzionali. Gli alleati sembrano ancora divisi sull’ipotesi di dispiegamento delle truppe nell’eventuale dopoguerra, mentre le possibili adesioni dell’Ucraina all’Unione Europea e alla NATO paiono ancora incerte.

Tutto fumo e niente arrosto. Si potrebbe sintetizzare così l’incontro informale tenutosi ieri all’Eliseo, mentre in Arabia Saudita veniva imbastita la tavola per svolgere i colloqui veramente importanti. Il vertice era stato convocato d’urgenza dal presidente francese Macron per parlare dell’approccio europeo sul conflitto ucraino e per capire come l’UE potesse ricavare uno spazio nei negoziati, malgrado l’esclusione da questa prima tornata di discussioni da parte degli Stati Uniti, da cui per ora è stata tagliata fuori anche la stessa Ucraina. I primi attriti tra i presenti sembrano essersi registrati sin dalla convocazione dell’incontro. La presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, ha dichiarato senza giri di parole di non condividere le modalità con cui Macron aveva pensato la riunione: «Una risposta agli americani sarebbe stata più corretta da parte di Bruxelles con un Consiglio europeo straordinario anziché dare ancora una volta la sensazione che siamo un continente con diversi centri di potere, il che equivale a nessun centro reale di potere», ha detto la premier. In generale, la posizione di Meloni sembra essere stata quella più conciliante nei confronti degli Stati Uniti, e la presidente del Consiglio è ritenuta da molti una delle figure più adatte a mediare grazie al rapporto di maggior vicinanza con il Presidente Trump.

Se Meloni ha mostrato scetticismo nei confronti degli incontri, gli altri presenti non sono riusciti a non contraddirsi l’un l’altro, pur senza rivelare praticamente nulla dei contenuti effettivi della conversazione. Poco prima dei colloqui, il primo ministro britannico Keir Starmer ha scritto sul Daily Telegraph che, nel dopoguerra, il Regno Unito sarebbe pronto a inviare le proprie truppe in Ucraina, venendo spalleggiato dalla Svezia. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il primo a lasciare gli incontri, ha invece dichiarato che i tempi non risultano ancora maturi per parlare di truppe, posizione che condivide con il governo spagnolo e quello polacco, anche se quest’ultimo sembra essersi opposto in maniera ancora più serrata all’ipotesi.

Proprio sulla questione delle cosiddette “garanzie” da dare all’Ucraina per il mantenimento della pace, l’UE sembra più divisa che mai. Domenica 16 febbraio, in seguito alla conferenza di Monaco, la Finlandia, facendo eco alle parole di Zelensky, ha appoggiato l’adesione dell’Ucraina alla NATO, andando contro le più recenti dichiarazioni del segretario Rutte, che nella stessa conferenza sulla sicurezza ha sostanzialmente detto che la questione è ancora negoziabile. L’incontro all’Eliseo, insomma, sembra essersi concluso con un nulla di fatto, e i leader europei non sembrano essere riusciti a trovare una quadra su nessuno dei temi discussi, tranne, forse, su un solo punto: va aumentata la spesa per la difesa, come già sottolineato dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che ha annunciato che l’esecutivo UE introdurrà deroghe al Patto di Stabilità per consentire maggiori investimenti in ambito bellico.

In seguito agli incontri Macron ha tenuto una conversazione telefonica con Zelensky, rassicurandolo sulle loro presunte posizioni comuni. Il presidente ucraino, contrariamente a quanto trapelato dalle prime indiscrezioni, non è presente oggi al vertice di Riyad, e ha ribadito che, dalla prospettiva ucraina, non può esserci pace senza un coinvolgimento diretto di Kiev. Gli incontri nella capitale saudita saranno «esclusivamente bilaterali», ha assicurato il consigliere del Cremlino Yury Ushakov. Ushakov è atterrato oggi a Riyad assieme al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov per parlare con la squadra negoziale statunitense in cui sono presenti, oltre a Rubio, il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Waltz e l’inviato speciale per il Medio Oriente Steven Witkoff. Questi primi colloqui sembrano voler in prima istanza inaugurare un percorso di normalizzazione dei rapporti tra USA e Russia e mettere sul piatto le prime condizioni per la pace. L’incontro è iniziato stamattina poco prima delle 9.

[di Dario Lucisano]

Cina-Isole Cook: accordo sull’esplorazione dei fondali marini

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Cina e Isole Cook hanno firmato un accordo di partenariato strategico per la concessione di aree destinate all’estrazione mineraria in acque profonde. L’accordo, siglato lunedì 17 febbraio e pubblicato oggi, prevede un pagamento una tantum di 4 milioni di dollari da parte della Cina e un rafforzamento delle collaborazioni in ambito educativo. Le Isole Cook hanno annunciato l’avvio di programmi di ricerca sui minerali presenti sui fondali marini. Il deep-sea mining è una pratica di estrazione di minerali rari dai fondali oceanici, nota per causare gravi danni all’ecosistema marino.

Brasile, la lotta all’estrazione illegale di oro sta salvando le tribù Yanomami

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A due anni dall’avvio dell’operazione governativa volta a contrastare l’estrazione illegale di oro nel territorio degli Yanomami, l’amministrazione Lula ha reso pubblici i primi dati ufficiali. Le statistiche evidenziano un netto miglioramento delle condizioni di vita della comunità indigena e una drastica riduzione delle attività minerarie illegali nella più grande riserva incontaminata del Brasile. Per decenni, gli Yanomami hanno vissuto sotto la minaccia costante dei garimpeiros, i minatori d’oro illegali, che hanno portato con sé malattie, inquinamento e un drastico peggioramento della qua...

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