lunedì 20 Ottobre 2025
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In dieci anni oltre 6.400 attacchi hanno colpito gli attivisti ambientali

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Oltre 6.400 attacchi contro difensori dei diritti umani sono stati registrati tra il 2015 e il 2024, il 75% dei quali rivolti a chi difende l’ambiente, le comunità locali e i territori indigeni. Lo attesta un nuovo rapporto pubblicato dal Business & Human Rights Resource Centre (BHRRC), che spiega come il settore minerario risulti il più pericoloso (1.681 attacchi), seguito da agricoltura industriale, combustibili fossili, energie rinnovabili e disboscamento. Le regioni più colpite sono America Latina, Caraibi, Asia e Pacifico. Un attacco su cinque ha colpito popolazioni indigene, che rappresentano il 31% delle vittime uccise. Oltre 3.300 casi sono cause legali pretestuose. La maggior parte degli episodi resta impunita, alimentando un clima di violenza sistemica.

America Latina, Caraibi e Asia-Pacifico rappresentano le aree più pericolose: qui si concentra, come evidenziato dal rapporto, il 71% degli attacchi documentati. L’Africa segue con 583 casi, un terzo dei quali solo in Uganda. In America Latina, sei paesi (Brasile, Messico, Honduras, Colombia, Perù e Guatemala) concentrano da soli il 35% degli attacchi globali. Il solo Honduras, con appena lo 0,1% della popolazione mondiale, rappresenta il 6,5% degli attacchi. In Asia spiccano le Filippine (411 casi), India (385), Cambogia (279) e Indonesia (216). Nelle Filippine e in America Latina si registrano anche la maggior parte degli omicidi di difensori dei diritti umani indigeni, che rappresentano il 31% delle vittime totali. Il bilancio delle vittime è drammatico: quasi 1.100 omicidi in dieci anni, 52 solo nel 2024. A questi si aggiungono almeno 116 casi di rapimenti e sparizioni forzate, concentrati soprattutto in Messico e nelle Filippine. Secondo quanto attestato dalla ricerca, qui la maggior parte degli attacchi rimane impunita, alimentando una cultura della violenza sistemica. L’impatto delle aggressioni è devastante: intimidazioni, danni fisici, isolamento sociale, conseguenze economiche e psicologiche.

Un segnale inquietante arriva anche da contesti considerati democratici. Nel Regno Unito, gli attacchi sono aumentati da 7 nel 2022 a 21 nel 2023 (anno dell’introduzione del controverso Public Order Act), fino a 34 nel 2024. Il 91% riguarda molestie giudiziarie, spesso rivolte a chi critica il settore dei combustibili fossili. In tutto il mondo, oltre metà degli attacchi (3.311) si concretizza in procedimenti giudiziari, arresti arbitrari e SLAPP (azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica). Oltre 530 i casi di SLAPP documentati dal 2015, di cui il 69% con accuse penali che prevedono pesanti pene detentive. Il settore minerario è il più coinvolto (31% dei casi). Con l’aggravarsi della crisi climatica, molti attivisti – soprattutto giovani e popoli indigeni – hanno praticato forme di disobbedienza civile per denunciare l’inerzia dei governi e fermare i progetti estrattivi. In risposta, numerosi Stati hanno varato leggi repressive, intensificato la sorveglianza, limitato il diritto di protesta e classificato gli attivisti come “terroristi” o “anti-sviluppo”. Un esempio emblematico è Panama, dove la protesta contro un contratto minerario con la canadese First Quantum Minerals ha provocato una durissima repressione: almeno 30 arresti, 21 accuse di terrorismo, diversi feriti e tre omicidi. Le imprese coinvolte hanno ignorato le richieste di risposte da parte del Resource Centre.

Il report sottolinea come molti Stati non solo manchino al loro dovere di protezione, ma siano parte attiva degli attacchi, anche attraverso la magistratura, le forze armate o la polizia. Spesso agiscono in collusione con imprese private o gruppi non statali, dando priorità al profitto piuttosto che ai diritti umani. Secondo i Principi Guida delle Nazioni Unite, le imprese hanno l’obbligo di prevenire e rimediare a ogni violazione legata alle proprie attività. Tuttavia, anche nei casi in cui il legame diretto con l’attacco non sia evidente, esse dovrebbero usare la propria influenza per tutelare chi difende i diritti umani.

Nel documento vengono enucleati dati circostanziati, ma largamente incompleti, dal momento che le gravi restrizioni allo spazio civico e i timori per la sicurezza personale impediscono spesso la denuncia di molte violazioni. In numerosi Paesi, l’assenza di monitoraggio da parte dei governi contribuisce a mantenere nell’ombra un fenomeno sistemico. Come evidenzia la stessa ricerca, ciò che emerge è solo “la punta dell’iceberg”. Il report si chiude con un appello chiaro: una giusta transizione climatica e una società equa non sono possibili senza la protezione dei difensori dell’ambiente. Oggi, infatti, difendere il pianeta può spesso significare rischiare la vita.

Gaza Humanitarian Foundation: cosa c’è dietro l’iniziativa “umanitaria” voluta da USA e Israele

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Dopo quasi tre mesi di blocco totale degli aiuti umanitari a Gaza da parte di Israele, che ha portato la popolazione dell'enclave a morire letteralmente di fame, la scorsa settimana la distribuzione di una «quantità base» di cibo è ripresa, grazie al meccanismo concordato da Tel Aviv e Washington e messo in pratica tramite l'ONG statunitense Gaza Humanitarian Foundation (GHF). Tuttavia, lungi dal rappresentare una speranza di salvezza, questa si è trasformata presto nell'ennesima occasione per massacrare i civili affamati. Sono almeno 102, secondo l'ufficio stampa del governo di Gaza, le perso...

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Gaza, Israele spara ancora su folla in attesa di cibo: almeno 27 morti

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Almeno 27 persone sono state uccise e 90 ferite nel sud di Gaza stamane mentre attendevano aiuti, secondo il ministero della Salute di Hamas. Alcuni dei feriti versano in condizioni critiche. L’esercito israeliano ha dichiarato di aver sparato dopo aver individuato «sospetti» a circa 500 metri da un punto di distribuzione di aiuti vicino a Rafah, inizialmente con colpi di avvertimento. Le Forze di Difesa Israeliane affermano di essere a conoscenza delle vittime e stanno verificando l’accaduto. Intanto, almeno dieci palestinesi, tra cui due bambini, sono morti in raid israeliani a Khan Yunis.

L’Italia è retrocessa nell’indice globale sui diritti dei lavoratori

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L’Italia è stata retrocessa dal livello 1 al 2 nell’Indice dei diritti globali della Confederazione sindacale internazionale a causa di «violazioni ricorrenti» dei diritti sindacali. Il nuovo report della CSI segnala dunque un deterioramento dei diritti nel nostro Paese, che allo stesso livello vede altri 22 Stati. Tra questi, una serie di economie avanzate come Spagna, Francia, Portogallo, Giappone e Olanda, ma anche Barbados, Malawi e Ghana. Tra le misure più controverse il rapporto indica, come segnalato dalla CGIL, quelle contenute all’interno del Decreto Sicurezza, nonché «l’attacco ai sindacati», con una «criminalizzazione crescente delle mobilitazioni» e una «retorica delegittimante verso le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative».

L’edizione 2025 del Global Rights Index della Confederazione Sindacale Internazionale, che sarà presentata il 10 giugno a Ginevra nel corso della Conferenza internazionale del lavoro dell’OIL, vede dunque scivolare l’Italia nel gruppo dei Paesi con violazioni ricorrenti dei diritti fondamentali dei lavoratori. Tra gli indicatori che hanno portato alla retrocessione dell’Italia vi sono la criminalizzazione delle mobilitazioni sindacali, l’uso sempre più frequente della precettazione contro il diritto di sciopero – in particolare nei settori chiave come trasporti, sanità e scuola – e appunto il Decreto Sicurezza, approvato senza confronto parlamentare, che limita gravemente il diritto a manifestare pacificamente. Tutti elementi che, secondo la Cgil, denotano «un caso emblematico di deriva autoritaria», esito delle «politiche neoliberiste e autoritarie» intraprese dal governo Giorgia Meloni. Il giudizio della Confederazione Sindacale Internazionale arriva in un momento particolarmente delicato. Il governo, accusato da più parti di svuotare la democrazia parlamentare tramite un uso sistematico della decretazione, viene indicato come responsabile di un approccio che riduce la politica alla sola funzione di controllo e ordine pubblico e di una retorica delegittimante nei confronti delle organizzazioni sindacali.

In questo scenario, l’Italia – un tempo modello di democrazia industriale – finisce per essere accomunata a Paesi attraversati da gravi crisi democratiche. Illustrando i risultati del rapporto, la Cgil, impegnata nella campagna referendaria in vista del voto dell’8 e 9 giugno, ha lanciato un appello alla mobilitazione democratica: «Di fronte a uno scenario così preoccupante, proprio oggi, giorno in cui festeggiamo la Repubblica, è fondamentale difendere i valori della nostra Costituzione, a partire dallo stato di diritto. Il miglior modo per farlo – ha messo nero su bianco la Cgil – è partecipare al massimo strumento democratico, ovvero il voto. Per questo invitiamo a votare per il referendum l’8 e il 9 giugno. La difesa della democrazia, in Italia e nel mondo, dipende da noi».

Guardando oltre ai confini del nostro Paese, il rapporto descrive un contesto globale nel suo complesso drammaticamente peggiorato per le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori. Il deterioramento coinvolge tre regioni su cinque. L’unico miglioramento parziale si registra nella regione Asia-Pacifico, mentre il Medio Oriente e Nord Africa rimane l’area peggiore con una valutazione media di 4,68 su 5. In oltre l’87% dei Paesi il diritto di sciopero è stato violato; nel 72% dei casi, i lavoratori non hanno accesso o lo hanno fortemente limitato alla giustizia; in 80% dei Paesi, è stato ostacolato il diritto alla contrattazione collettiva. Nei Paesi considerati più autoritati – come Birmania, Bangladesh, Egitto, Tunisia, Nigeria e Turchia – si riscontrano sistematiche repressioni, arresti, violenze fisiche, persino omicidi di sindacalisti. La Confederazione sindacale internazionale denuncia un vero e proprio «colpo di Stato contro la democrazia», orchestrato da governi autoritari e interessi economici concentrati, e invita a una mobilitazione globale in difesa dei diritti dei lavoratori.

Secondo quanto dichiarato da Luc Triangle, segretario generale della CSI, la crisi dei diritti del lavoro in Europa – dove si registra il peggior punteggio dal 2014 – è il prodotto di una scelta politica deliberata, in cui «governi autoritari e interessi economici ultra-concentrati stanno smantellando le conquiste del dopoguerra in materia di giustizia sociale e sindacale».

Gli scienziati avrebbero scoperto un nuovo pianeta nel Sistema Solare

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Cercavano prove riguardanti il famoso “Pianeta Nove”, ma sono finiti per trovarne un altro comunque tanto particolare quanto misterioso: è quanto accaduto a un gruppo di ricercatori guidati da scienziati dell’Università di Princeton, i quali hanno scoperto nelle profondità più oscure del sistema solare quello che provvisoriamente si chiama 2017 OF201. Impiega circa 24.000 anni per completare un’orbita – che lo porta fino a 151 miliardi di miglia di distanza – ed è abbastanza grande da essere classificato come pianeta nano, ovvero la stessa categoria a cui appartiene Plutone. Il tutto accompagnato da una serie di dettagli descritti in un nuovo studio, non ancora sottoposto a revisione paritaria, ma che sta velocemente attirando l’attenzione di agenzie di stampa e testate internazionali, che hanno già intervistato alcuni autori a riguardo. «Il movimento di questi oggetti nel cielo segue uno schema particolare», ha commentato il coautore Sihao Cheng, aggiungendo che tale caratteristica ha ispirato l’algoritmo da lui usato per effettuare la scoperta.

L’interesse per le regioni più lontane del Sistema Solare, spiega Cheng, è nato dopo aver assistito a una conferenza dell’astronomo Mike Brown, famoso per aver scoperto nel 2005 il pianeta nano Eris e per aver innescato la retrocessione di Plutone a “pianeta minore”. Brown è anche uno dei principali sostenitori dell’esistenza del cosiddetto Pianeta Nove, un corpo più grande della Terra che, secondo alcuni calcoli, dovrebbe trovarsi in una zona remota del Sistema Solare e influenzare l’orbita di molti oggetti lontani. Per cercarlo, Cheng ha ideato un algoritmo capace di identificare oggetti in movimento all’interno di vecchie immagini astronomiche e, dopo mesi di analisi, i calcoli hanno portato alla scoperta di 2017 OF201 in alcune immagini d’archivio scattate dal telescopio Blanco in Cile, a cui si sono aggiunte altre osservazioni del telescopio Canada-France-Hawaii. «Abbiamo scoperto un oggetto transnettuniano molto grande in un’orbita molto esotica», ha commentato, aggiungendo che il corpo celeste non avrebbe però raggiunto la soglia per essere definito un vero e proprio pianeta, visto che non è abbastanza grande da aver “ripulito il suo vicinato” da altri oggetti vicini alla sua orbita.

In ogni caso, in attesa che calcoli futuri confermino i dettagli scoperti o ne aggiungano di nuovi, rimangono caratteristiche tutt’altro che comuni: il nuovo oggetto ha un diametro stimato di circa 430 miglia e si trova così lontano da impiegare un’eternità per compiere un giro intorno al Sole, visto che non sarà nuovamente visibile nei pressi della Terra prima dell’anno 26186. La sua orbita, calcolata con grande precisione, sembrava in un primo momento allinearsi con le previsioni sul Pianeta Nove, ma un errore corretto dagli autori ha cambiato completamente la prospettiva. Le successive simulazioni numeriche, poi, hanno mostrato una tesi opposta rispetto alle speranze iniziali dei ricercatori: hanno mostrato che, se davvero il Pianeta Nove esistesse, l’influenza gravitazionale di quest’ultimo avrebbe già espulso 2017 OF201 dal Sistema Solare. Il fatto che l’oggetto sia ancora lì, dunque, potrebbe suggerire che il Pianeta Nove non esista affatto. «Quando ho tracciato l’orbita ho pensato: ok, questo uccide il Pianeta Nove», ha commentato il coautore Jiaxuan Li, anche se il suo collega Cheng, non è convinto: «Penso ancora che il Pianeta Nove sia possibile». A gettare ulteriore benzina sul fuoco c’è anche un altro studio però, questa volta della Rice University e pubblicato su Nature Astronomy, secondo cui pianeti simili al Pianeta Nove potrebbero trovarsi su orbite stabili anche molto distanti grazie all’influenza gravitazionale di una stella di passaggio nei primi anni di vita del sistema. «La stella che passa essenzialmente salva il pianeta», aveva spiegato l’autore dello studio André Izidoro. Se davvero 2017 OF201 non dovrebbe trovarsi lì, ma c’è, allora ogni risposta solleva una nuova domanda. E il mistero, ancora una volta, si infittisce.

Olanda, salta il governo per dissidi su politiche migratorie

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Geert Wilders, leader del Partito della Libertà (Pvv), ha annunciato il ritiro del suo sostegno alla coalizione di governo olandese, provocandone la caduta. La decisione, comunicata dopo una consultazione con gli altri leader della coalizione, arriva a seguito di forti tensioni sulla politica migratoria. Wilders si è detto frustrato per la lentezza nell’attuazione di misure restrittive sull’immigrazione, promesse dopo la sua vittoria elettorale del novembre 2023. La crisi politica apre un periodo di incertezza nei Paesi Bassi, a poche settimane dal vertice NATO in programma a l’Aja.

La Russia ha comunicato le proprie condizioni per la pace in Ucraina

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Dopo tre anni di conflitto, le posizioni di Russia e Ucraina continuano a essere distanti. Il memorandum presentato da Mosca durante il secondo round di negoziati con Kiev si articola in una serie di clausole e ingerenze volte al raggiungimento di una pace duratura e di un cessate il fuoco. Per la prima intesa, come rivelato dall’agenzia di stampa russa TASS, il Cremlino chiede innanzitutto il riconoscimento internazionale delle conquiste in terra ucraina nonché dei territori ancora teatro di combattimenti. Tra le altre condizioni si annoverano la neutralità di Kiev, la sua smobilitazione militare e lo svolgimento di nuove elezioni, senza che a queste corrisponda alcuna concessione da parte russa. Alla tregua di almeno 30 giorni chiesta dalla delegazione ucraina, la Russia ha risposto subordinandola al ritiro delle truppe di Kiev dal fronte. L’unico punto che ha messo d’accordo le delegazioni riunite a Istanbul è stato un nuovo accordo sul rilascio reciproco dei prigionieri gravemente feriti, malati o comunque di età inferiore ai 25 anni.

La Russia di Vladimir Putin ha messo nero su bianco le proprie condizioni per la fine del conflitto in Ucraina, facendo ordine tra le richieste avanzate negli ultimi tre anni. La bozza dell’intesa è contenuta nel memorandum presentato in Turchia, che si rivolge principalmente alle autorità ucraine ma lancia in apertura un messaggio alla comunità internazionale, chiedendo il riconoscimento della Crimea, del Donbass, di Zaporozhya e Kherson come territori russi. Si tratta dunque non solo di congelare la linea del fronte ma di allargarla a favore di Mosca. Il ritiro da queste regioni viene poi considerato dal Cremlino come una condizione necessaria per il raggiungimento di una tregua di almeno 30 giorni – evento a cui le autorità ucraine aspirano invece in modo incondizionato, tant’è che il presidente Volodymyr Zelensky ha chiesto all’omologo americano Donald Trump di adottare «sanzioni nei confronti della Russia per spingerla a porre fine alla guerra, o almeno a passare alla prima fase, ovvero il cessate il fuoco».

Nel memorandum rilanciato dalla TASS appare anche una seconda opzione per il raggiungimento di una tregua, che passa per dieci punti-clausole alla sovranità ucraina, tra cui la fine delle forniture di armi occidentali e dei dati di intelligence, la cancellazione della legge marziale e la smobilitazione dell’esercito. Quest’ultima ingerenza risulta centrale anche nella bozza dell’accordo di pace, che implica tra l’altro la neutralità dell’Ucraina, impossibilitata ad unirsi ad alleanze e coalizioni militari (leggasi NATO) e ad ospitare sul proprio territorio attività militari straniere, dal dispiegamento di forze al mantenimento di basi e infrastrutture. In poche parole, l’Ucraina dovrebbe ridimensionare la propria portata militare, tanto sul piano dei rapporti con l’esterno quanto sul piano interno delle forze armate. La neutralità di Kiev e il riconoscimento dei territori occupati durante il conflitto sono punti ricorrenti della posizione di Mosca che — forte del parziale disimpegno statunitense, della tenuta alle sanzioni occidentali (nonostante la retorica dei suoi governi) e della capacità di proseguire la guerra — li ha rilanciati ieri sul tavolo delle trattative. Tra le altre condizioni avanzate dal Cremlino figurano: la concessione al russo dello status di lingua ufficiale, la rimozione delle restrizioni imposte dal governo di Kiev sulla Chiesa ortodossa ucraina, la revoca di tutte le sanzioni e il graduale ripristino delle relazioni diplomatiche ed economiche, compreso il transito del gas.

Il memorandum russo si concentra anche sul momento dell’approvazione del trattato, da subordinare allo svolgimento di elezioni in Ucraina, dalle quali le nuove autorità avranno mandato di firmare l’accordo che nel disegno del Cremlino andrebbe approvato da una risoluzione giuridicamente vincolante del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. In tutto l’impianto di clausole presentato da Mosca non figurano concessioni o compromessi con la controparte, mettendo in salita il corso delle trattative che alla fine di giugno dovrebbero arricchirsi di un terzo round negoziale, probabilmente con la controproposta della delegazione ucraina. In caso di progressi significativi, potrebbe prendere quota l’incontro a tre fra Putin, Zelensky e Trump – ad oggi all’orizzonte.

Turchia, terremoto di magnitudo 5.8: un morto e 69 feriti

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Un terremoto di magnitudo 5.8 ha colpito nella notte la zona di Marmaris, nella provincia di Mugla, nel sudovest della Turchia. Lo ha reso noto l’Istituto geofisico statunitense Usgs, affermando che l’epicentro del sisma è stato registrato a 5 km a sud di Icmeler e l’ipocentro ad una profondità di 74 km. Una ragazza di 14 anni è deceduta a causa di un attacco di panico, mentre 69 persone sono rimaste ferite. Secondo il resoconto ufficiale, per paura hanno cercato di mettersi in salvo lanciandosi dalle finestre delle loro abitazioni. 46 di loro sono ancora in ospedale.

Puglia ed Emilia-Romagna hanno interrotto la cooperazione con Israele

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Con una presa di posizione netta, la Puglia e l'Emilia-Romagna hanno deciso di impegnarsi a interrompere ogni forma di cooperazione con lo Stato di Israele, a causa dei crimini perpetrati nella Striscia di Gaza e del genocidio della popolazione palestinese. Una serie di mozioni, approvate dai Consigli Regionali e Comunali, oltre alle nette prese di posizione dei presidenti delle due Regioni, sottolineano la volontà di prendere le distanze dalla linea di governo, fermamente improntata alla cooperazione con Tel Aviv, dando così un forte segnale alla politica italiana e internazionale.
La mozione...

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La riforma senza precedenti del Messico: 2.600 giudici saranno eletti dal popolo

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Questa domenica i cittadini messicani si sono recati alle urne per eleggere circa 2.600 giudici e magistrati federali e statali. Il voto è una conseguenza della Riforma Giudiziaria voluta dall’ex presidente López Obrador e approvata ad appena tre settimane dalla fine del suo mandato, nel settembre 2024. Le elezioni si svolgeranno in due fasi: durante la prima, svoltasi nella giornata di domenica 1 giugno, è stata scelta la prima metà dei candidati, mentre la seconda metà verrà eletta con una seconda tornata elettorale, prevista per il 2027. Nonostante il governo l’abbia presentata come un’operazione democratica volta a favorire la partecipazione popolare, molte sono le critiche rivolte alla Riforma, in primis quella che denuncia la fine dell’indipendenza degli organi giudiziari.

L’intenzione (dichiarata) della Riforma di Obrador è quella di coinvolgere la popolazione nell’elezione dei rappresentanti del potere giudiziario: i magistrati e i giudici, compresi quelli della Corte Suprema, verranno ora selezionati con elezioni popolari. Dopo che il Senato ha pubblicato la convocatoria, i Poteri dell’Unione (legislativo, esecutivo e giudiziario) scelgono i candidati e li sottopongono all’esame del Comitato di Valutazione, che selezionerà i migliori – sulla base di criteri quali «onestà, buona reputazione e competenza». Le liste di candidati selezionati vengono quindi inviate all’Istituto Nazionale Elettorale, che organizza il processo elettorale. I candidati non possono ricevere finanziamenti pubblici o privati, ma possono rilasciare interviste sui mezzi di informazione.

Una delle principali problematiche evidenziate dai critici della Riforma riguarda il fatto che, se un partito detiene la maggioranza in uno o più tra i poteri dello Stato, allora questo potrà scegliere la maggior parte dei candidati alle elezioni, assicurandosi un potere non indifferente in quanto il potere giudiziario potrebbe essere politicamente allineato con la classe politica al governo. Ed è proprio questo il caso di Morena, il partito di Obrador del quale fa parte anche la presidente Sheinbaum (potere esecutivo) e che detiene la maggioranza alla Camera e al Senato (potere legislativo). Non stupisce che Obrador abbia fortemente voluto questa riforma: durante gli anni del suo mandato, infatti, la Corte Suprema ha bocciato molte delle leggi che erano state approvate da Morena e dal Congresso – portando Obrador a dichiarare che, all’interno della Corte, vi fossero «nemici ideologici» del governo. Con la Riforma messa in atto, i giudici in carica sono stati cacciati e rimpiazzati con altri.

Tra le altre novità, la riforma allunga il periodo in cui magistrati e giudici potranno rimanere in carica, estendendolo da 6 a 9 anni e concedendo la possibilità di essere rieletti. Viene inoltre creato un nuovo organo, il Tribunale di Disciplina Giudiziaria, composto da cinque persone elette con voto popolare, che andrà a sostituire il Consiglio della Magistratura federale. Il nuovo Tribunale «sarà incaricato di supervisionare e punire la condotta dei giudici e dei magistrati». Si può facilmente dedurre che, a seconda di quale sarà il gruppo politico prevalente al suo interno, questo potrà esercitare una notevole pressione sul potere giudiziario.

La presidente Claudia Sheinbaum ha definito le elezioni svoltesi ieri un «successo totale», con «circa 13 milioni di messicani» che si sono recati alle urne. In realtà, considerato che il totale degli aventi diritto al voto si aggira intorno ai 100 milioni, l’affluenza non ha superato il 12-13%, non esattamente un buon risultato. «Non dobbiamo dimenticare – ha continuato Sheinbaum nel suo messaggio alla Nazione – che l’attuale potere giudiziario detenuto da alcuni è stato responsabile di favorire membri della delinquenza organizzata» ed è giunto a ricoprire la propria carica «per nepotismo». Ora, invece, «abbiamo optato per la migliore alternativa: che a scegliere sia il popolo».

Alcuni dei candidati selezionati per concorrere nel ruolo di giudici hanno inoltre suscitato perplessità non tanto per la loro appartenenza politica, ma per il fatto di essere dei pregiudicati con alle spalle pesanti condanne: è il caso, per esempio, di Leopoldo Chavez, che ha scontato 6 anni per traffico di droga. Chavez ha concorso per diventare giudice nello Stato di Durango, uno dei tre che formano il “Triangolo d’Oro” messicano, dove i cartelli sono molto attivi.

I risultati delle elezioni dovranno essere resi pubblici entro il 28 di agosto 2025. Dopo di che, si procederà a un secondo round di elezioni, previste per il 2027, per eleggere l’altra metà dei giudici e dei magistrati federali. Nel frattempo, la popolazione civile è scesa a più riprese in piazza sin da quanto Obrador ha annunciato l’intenzione di realizzare la Riforma. Le proteste sono continuate per tutta la giornata di ieri in molti Stati del Paese. I manifestanti hanno protestato contro quella che hanno definito «la fine della divisione dei poteri» nel Paese e la «finzione democratica» dell’elezione del popolo, che vorrebbe mascherare la sottomissione del potere giudiziario a quello legislativo ed esecutivo. E la bassissima affluenza registrata alle elezioni è un dato certo dello scontento della popolazione.