venerdì 19 Dicembre 2025
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L’Italia è in testa alla classifica europea sull’aspettativa di vita in buona salute

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Non è qualcosa che capita di frequente, ma è stata pubblicata una classifica europea in cui l'Italia primeggia addirittura sui Paesi scandinavi. E non è una classifica di poco conto, bensì quella, stilata da Eurostat, che misura l’aspettativa di vita in buona salute. I cittadini del nostro Paese possono infatti contare, in media, su 69,1 anni di vita senza gravi limitazioni fisiche: un dato che pone l'Italia al secondo posto, subito dopo Malta, staccando la media europea di ben 6 anni. L'Italia – che registra un'aspettativa di vita alla nascita di 83 anni e mezzo – spicca dunque per una condiz...

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Media Freedom Act: entra in vigore la legge europea che tutela (e controlla) il giornalismo

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L’8 agosto 2025 è scoccata l’ora X: in tutti gli Stati membri dell’UE è entrato in vigore il nuovo regolamento sulla libertà dei media (European Media Freedom Act, EMFA), approvato dal Parlamento europeo nell’aprile 2024, con cui Bruxelles intende «garantire il pluralismo e l’indipendenza dell’informazione» e «limitare le interferenze e le pressioni politiche ed economiche». Sulla carta, si tratta di un manifesto di princìpi condivisibili; nella realtà, ci troviamo dinanzi a un regolamento a tratti fumoso, dove diversi articoli della norma aprono le porte a possibili nuovi strumenti di centralizzazione normativa e controllo politico, aprendo la strada a nuove forme di censura e omologazione dell’informazione e riducendo, paradossalmente, proprio quelle libertà che l’EMFA promette di difendere. 

Mentre i media mainstream mirano a esaltare i punti di forza del regolamento, i passaggi controversi che emergono dalla lettura della norma sono diversi, a partire dall’applicazione centralizzata del concetto di “libertà di stampa” e l’imposizione di “norme comuni” (art. 1), che potrebbero tradursi in un’omologazione delle prassi editoriali. La definizione di cosa siano i “servizi di media” e di chi rientra nella categoria di “fornitore” (art. 2 e 3) è ampia e potenzialmente estendibile anche soggetti che non si percepiscono come “media” in senso tradizionale, rischiando di far ricadere nel perimetro dell’EMFA anche siti indipendenti o blogger professionali.

Uno dei pilastri del regolamento è l’obbligo per tutte le testate di pubblicare in registri pubblici (art. 27-29) i dati sulla proprietà, sui finanziamenti e sulle entrate pubblicitarie, comprese quelle provenienti da governi stranieri. Da una parte, si tratta di tutelare il cittadino, permettendogli di “sapere chi c’è dietro” a un giornale o a un’emittente. Tuttavia la norma si preoccupa di tracciare eventuali finanziatori pubblici ma non di monitorare quelli privati, non aiutando a fare luce sugli interessi privati che possono orientare i media e danneggiare il pluralismo.

Uno dei punti più dibattuti in questi giorni, riguarda l’articolo 5 che prevede criteri uniformi per la nomina e la revoca dei vertici dei media di servizio pubblico, oltre a vincolare i finanziamenti alla stabilità e alla prevedibilità pluriennale. In teoria, un passo avanti per sottrarli all’influenza dei governi. In pratica, il nuovo quadro potrebbe diventare un cavallo di Troia: la Commissione europea e l’European Board for Media Services (art. 36-41) avranno il potere di monitorare e giudicare l’indipendenza delle governance nazionali. Chi stabilirà, però, che cosa sia un’informazione “equilibrata”? Chi non sposa le linee narrative dominanti, potrà essere accusato di “mancato pluralismo”? In questo modo, si rischia di trasformare un principio di autonomia in un meccanismo di condizionamento politico sovranazionale, in modo da contestare governi democraticamente eletti se la loro linea editoriale non coincide con quella considerata “pluralista” da Bruxelles. 

Cuore pulsante dell’EMFA sarà, infatti, l’European Board for Media Services, organo comunitario incaricato di vigilare sull’applicazione della legge. Composto da rappresentanti delle autorità nazionali di regolamentazione, agirà in stretto raccordo con la Commissione europea. Il problema è la concentrazione del potere decisionale in un organismo sovranazionale: un unico centro avrà la possibilità di influire sulle linee editoriali e sulla sopravvivenza economica delle testate, fornendo “pareri non vincolanti” che, però, influenzeranno direttamente l’accesso ai fondi e le procedure sanzionatorie.

L’articolo 26, sotto la veste di uno strumento di tutela e trasparenza, concentra in un organo sovranazionale la capacità di “certificare” lo stato della libertà di stampa nei singoli Paesi, istituendo un meccanismo di monitoraggio permanente sulle condizioni della libertà e del pluralismo dei media. Senza garanzie di indipendenza reale e pluralità metodologica, il sistema rischia di trasformarsi da strumento di protezione in leva di condizionamento politico-mediatico, capace di colpire selettivamente governi e media non allineati alla narrativa dominante. 

Il regolamento (art. 17-21) vieta arresti, perquisizioni, spyware e sorveglianza per costringere un giornalista a rivelare le proprie fonti. Tuttavia, introduce eccezioni per “motivi imperativi di interesse generale” e “sicurezza nazionale”. Questa clausola elastica, già vista in altre normative UE, minaccia di svuotare la protezione stessa: basterà invocare la “sicurezza nazionale” per autorizzare intercettazioni, monitoraggi mirati e l’uso di software intrusivi come Pegasus (art. 22-23). È proprio questa clausola, volutamente vaga, ad aver sollevato le critiche di decine di organizzazioni internazionali

In Italia, l’entrata in vigore dell’EMFA riaccende il dibattito sulla governance della RAI, ancora lottizzata, esposta a procedure di infrazione per il mancato adeguamento alle regole di nomina trasparenti richieste dal regolamento europeo. Il governo Meloni è alle prese con due nodi sensibili da sciogliere: la riforma della RAI e il caso Paragon sul presunto uso di spyware nei confronti dei giornalisti. . 

Il testo introduce anche un meccanismo per impedire che le piattaforme online “molto grandi” rimuovano arbitrariamente contenuti provenienti da media indipendenti (art. 16 e 30). Le piattaforme dovranno avvisare e dare 24 ore di tempo per rispondere prima della rimozione. Tuttavia, lo stesso regolamento stabilisce che le piattaforme distinguano tra “fonti indipendenti” e “non indipendenti”. Chi decide i criteri? Se l’autorità di riferimento è europea, il pericolo è che media critici verso le politiche UE vengano classificati come “non indipendenti” e penalizzati. In più, le decisioni algoritmiche restano in gran parte opache. Un sistema simile, se non gestito con estrema trasparenza, potrebbe legittimare una censura preventiva mascherata da protezione.

Il Media Freedom Act è strutturato in modo da presentare garanzie condivisibili e si presenta come una carta dei diritti per il giornalismo europeo, ma tra le pieghe di articoli e disposizioni si annidano strumenti che potrebbero essere usati per il fine opposto: centralizzare la gestione del pluralismo, definire dall’alto cosa sia una “informazione affidabile” e marginalizzare le voci critiche. Il rischio più concreto non è una censura diretta e brutale, ma un lento processo di condizionamento economico e normativo, che ridurrebbe il “vero” pluralismo al pluralismo “approvato” da Bruxelles. La sfida sarà evitare che una legge nata per proteggere la libertà di stampa diventi l’ennesima architettura di sorveglianza e di conformismo mediatico.

Trump passa il controllo della polizia di Washington alle forze federali

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per dichiarare lo stato di emergenza nella capitale Washington DC, e ha annunciato che dispiegherà 800 soldati della Guardia Nazionale per «contribuire a ristabilire la legge» nella capitale. La polizia locale, ha specificato Trump in conferenza stampa, sarà sotto il controllo delle forze federali. L’ordine si basa su una legge che permette al presidente degli USA di assegnare il comando della polizia locale alle forze federali per non oltre 30 giorni. Per motivare la sua scelta, Trump ha mostrato un grafico contenente dati sulla criminalità della città, sostenendo che sia più pericolosa delle altre capitali del mondo.

Uno studio prova il legame tra inquinamento atmosferico e aumento dei casi di demenza

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Esiste un legame significativo tra l’aumento del rischio di demenza e l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico, in particolare a quello dovuto a tre specifici inquinanti: è quanto rivela un nuovo studio guidato dai ricercatori dell’Unità di Epidemiologia del Medical Research Council (MRC) dell’Università di Cambridge, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato su The Lancet Planetary Health. Secondo l’analisi, che ha riunito i dati di oltre 29 milioni di persone provenienti da decine di studi condotti in diversi continenti, l’incidenza di demenza risulta significativamente correlata a biossido di azoto (NO2), fuliggine e PM2.5, il quale da solo comporterebbe un aumento del 17% del rischio di sviluppare la malattia per ogni incremento di 10 microgrammi per metro cubo di tale sostanza. «Il nostro lavoro fornisce ulteriori prove a supporto dell’osservazione che l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico esterno è un fattore di rischio per l’insorgenza di demenza», commenta la coautrice Haneen Khreis, aggiungendo che interventi politici urgenti sarebbero necessari per ridurre l’inquinamento e proteggere la salute pubblica.

La demenza, inclusa la malattia di Alzheimer, colpisce oggi oltre 57 milioni di persone nel mondo e, secondo le proiezioni, sarebbe in un aumento fino a 152 milioni di casi entro il 2050. Questo incremento, spiegano gli esperti, rappresenta una sfida sanitaria e sociale di proporzioni enormi, con ripercussioni dirette su pazienti, famiglie e sistemi sanitari già sotto pressione. Sebbene alcuni studi recenti suggeriscano un calo della prevalenza nei Paesi occidentali, resta alta l’urgenza di individuare le principali cause, al fine di suggerire interventi politici mirati. In questo contesto, l’inquinamento atmosferico è emerso negli ultimi anni come possibile elemento chiave. Tuttavia, fino a oggi, le prove disponibili erano frammentarie, spesso discordanti, e non sufficienti per stabilire con certezza un nesso causale. Per questo motivo la nuova ricerca, attraverso una revisione sistematica e una meta-analisi della letteratura, si è prefissata l’obiettivo di superare questi limiti, fornendo un quadro più solido dell’associazione tra inquinamento e demenza.

In particolare, il team ha incluso 51 studi complessivi, 34 dei quali nella meta-analisi vera e propria, utilizzando dati provenienti in larga parte da Paesi ad alto reddito, con 15 studi dal Nord America, 10 dall’Europa, sette dall’Asia e due dall’Australia. L’analisi ha individuato un’associazione significativa tra la demenza e l’esposizione a tre inquinanti: il particolato fine PM2.5, il biossido di azoto (NO₂) e la fuliggine. Queste sostanze, prodotte da traffico veicolare, combustione di legna, attività industriali e centrali elettriche, sono note per penetrare in profondità nei polmoni e nel sistema circolatorio. Per il PM2.5, spiegano gli autori, ogni aumento di 10 μg/m³ è associato a un +17% di rischio relativo. Per il NO₂, il rischio sale del 3% ogni 10 μg/m³, mentre per la fuliggine, infine, il rischio cresce del 13% per ogni 1 μg per metro cubo. Affrontare l’inquinamento «può ridurre l’enorme carico di lavoro per pazienti, famiglie e operatori sanitari, alleggerendo al contempo la pressione sui sistemi sanitari sovraccarichi», secondo Khreis, la quale aggiunge che l’inquinamento può inoltre contribuire alla demenza innescando infiammazione cerebrale e stress ossidativo, meccanismi già noti anche nelle patologie cardiovascolari e polmonari. «Prevenire la demenza non è solo responsabilità dell’assistenza sanitaria», ma richiede anche azioni decise nella pianificazione urbana, nei trasporti e nella regolamentazione ambientale, sottolinea il coautore Christiaan Bredell, aggiungendo che le future ricerche dovrebbero garantire una maggiore equità e rappresentatività. «È probabile che siano necessari limiti più severi per diversi inquinanti», conclude Clare Rogowski, coautrice dello studio, «mirati ai principali responsabili, come i settori dei trasporti e dell’industria».

Palazzi al posto del bosco spontaneo: a Bologna è sotto attacco un altro polmone verde

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Per il Comune è «uno spazio verde che promuove la mobilità dolce e sostenibile». Per molti cittadini è invece l’ennesimo polmone verde regalato alla speculazione edilizia. Nella zona nord-ovest di Bologna, tra la ferrovia e l’aeroporto, si estende un’area verde inaspettata: un bosco spontaneo cresciuto su una vecchia cava, chiusa e bonificata anni fa. Un ecosistema ormai maturo, popolato anche da specie autoctone quali pioppi e querce. Un polmone verde che assorbe l’acqua, filtra l’aria, favorisce la biodiversità e mitiga l’effetto “isola di calore” in una zona dominata da asfalto e cemento: quella conosciuta come Bertalia-Lazzaretto. Ora il Comune ha deciso di abbattere una parte consistente di quel bosco per costruire una nuova zona residenziale: 159.000 metri quadrati complessivi, di cui 94.000 destinati all’edilizia privata.

Il progetto originale risale al 2007, è stato aggiornato nel 2017 — paradossalmente in parallelo con il piano urbanistico regionale sul “consumo di suolo zero”, e oggi è pronto a entrare nella sua fase operativa. «Ce ne siamo accorti poche settimane fa – racconta a L’Indipendente Licia Podda, biologa e membro del Comitato Bertalia-Lazzaretto – Organizzo spesso passeggiate nel bosco per esplorare il luogo e mappare la biodiversità. L’ultima volta, il 10 maggio, abbiamo trovato il passaggio che usiamo di solito per entrare chiuso con un cancello e un lucchetto».

Il comitato ha quindi scritto una lettera aperta al Comune: «Assistiamo attoniti, tra imbarazzo e stupore, all’ennesimo tentativo di greenwashing da parte della giunta, che cerca di vendersi come ecologica mentre una vasta zona di bosco urbano, con alberi ad alto fusto, è destinata a essere rasa al suolo per lasciare spazio a un progetto di lottizzazione che prevede edilizia privata, pubblica e cementificazione indiscriminata».

Il bosco spontaneo cresciuto nella zona Bertalia-Lazzaretto di Bologna

Quando si parla di greenwashing, ossia al tentativo di comunicare una grande attenzione all’ambiente mentre in realtà si agisce in tutt’altro senso, è inevitabile il riferimento agli ormai famigerati alberelli in vaso posizionati in centro città per contrastare le ondate di calore, portando — almeno in teoria — ombra e refrigerio. Piazzati lì come figurine verdi per le foto dei turisti, mentre nelle periferie meno visibili il Comune abbatte alberi per far posto a strade ed edifici. Il comitato, nato circa un anno fa, si è attivato per approfondire il progetto: «Nel gruppo ci sono anche geometri e ingegneri urbanisti – continua Podda – Abbiamo analizzato gli atti pubblici relativi all’intervento e costruito un plastico per visualizzare come cambierebbe l’area». Il colpo d’occhio fa pensare subito al ragazzo della via Gluck di Adriano Celentano: «Là dove c’era l’erba ora c’è una città».

Il sindaco Matteo Lepore, informato dell’iniziativa, ha contestato l’accuratezza del plastico, affermando che «non riflette i dati reali del progetto» e ha invitato il comitato a un incontro chiarificatore previsto per settembre. Alla base delle preoccupazioni del comitato c’è l’impatto ambientale che la nuova colata di cemento potrebbe avere su tutta l’area: «Il progetto si fonda su dati raccolti nel 2007 – osserva Podda – ma da allora Bologna è cambiata profondamente: il clima si è fatto più instabile, l’urbanizzazione è aumentata e la consapevolezza ambientale è cresciuta. Negli ultimi anni abbiamo visto la città andare sott’acqua a causa delle piogge torrenziali. E sappiamo bene che la risposta non può essere coprire di cemento ogni spazio libero, ma piuttosto lasciare il suolo permeabile, in grado di assorbire l’acqua. Non si può affrontare il presente con strumenti del passato, come se fossimo ancora in un’altra epoca».

L’area interessata dal progetto per come appare ora

Il Comune, nel frattempo, difende il progetto e parla di «una nuova comunità residenziale ecosostenibile», come si legge nella sezione Piano per l’Abitare pubblicato sul portale istituzionale. A dicembre 2023 è stato bandito un concorso di progettazione per realizzare circa 236 alloggi, di cui 119 destinati a un nuovo studentato pubblico. L’intervento, una volta concluso, dovrebbe ospitare circa 700 persone, tra cui 180 studenti e studentesse. Il costo complessivo stimato è di 55 milioni di euro, interamente coperti da risorse comunali.

Come diventerebbe l’area dopo la realizzazione del progetto urbanistico, secondo il plastico realizzato dal Comitato Bertalia-Lazzaretto

Anche la vicesindaca Emily Clancy ha difeso il progetto: «La superficie complessiva del piano è di 73 ettari – ha spiegato in Consiglio comunale – e di questi resteranno a verde oltre 30 ettari, vale a dire più del 40%. Inoltre, il Piano per l’Abitare porterà alla costruzione di alloggi a canone agevolato e residenze per studenti. Questa visione – ha aggiunto, facendo ricorso alle classiche parole chiave della retorica istituzionale – si traduce in un progetto paesaggistico che amplia e qualifica le superfici verdi, rafforza la continuità ecologica fra i comparti, contribuisce alla costruzione di una rete verde interconnessa e integra in modo virtuoso il verde pubblico con gli spazi abitativi, favorendo un equilibrio tra natura e insediamento urbano». Resta da definire, al di là della retorica da costruttori-green di cui abbonda la progettistica comunale bolognese, in che senso eliminare quasi il 60% del verde in uno dei pochi polmoni della città possa essere definito «un progetto paesaggistico che amplia e qualifica le superfici verdi».

«Noi non siamo contrari al progetto a prescindere – ha spiegato Licia Podda – ma vogliamo che venga fatta chiarezza su cosa si intenda per verde e su come si valuta il valore ecologico di un ecosistema esistente. Un bosco rinaturalizzato, cresciuto spontaneamente nel tempo, non può essere considerato equivalente a un prato piantumato o a una fila di alberelli decorativi. Serve trasparenza, aggiornamento dei dati ambientali e soprattutto un confronto reale con chi quel territorio lo vive ogni giorno». «Ci auguriamo che l’amministrazione sia capace di mediare tra queste istanze – ha commentato in aula il consigliere comunale Matteo Di Benedetto – ma, al netto di tutto quello che ci possiamo dire, il tema è chiaro: si parla sempre di contrastare le isole di calore e l’innalzamento delle temperature, ma poi si pongono in essere opere che vanno in senso diametralmente opposto».

Colombia, morto il senatore Uribe: gli avevano sparato a giugno

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È morto dopo nove settimane in terapia intensiva il senatore colombiano Miguel Uribe Turbay, 39 anni, che lo scorso 7 giugno era stato raggiunto da colpi di pistola durante un evento elettorale nella capitale Bogotà. Membro del partito conservatore Centro Democratico, Uribe aveva annunciato la sua candidatura alle presidenziali del 2026. La polizia ha arrestato quattro persone coinvolte nell’omicidio, tra cui un minorenne di 14 anni che ha confessato di essere stato pagato per sparare. Le autorità ritengono che il mandante sia Elder José Arteaga Hernandez, noto nella criminalità colombiana come “El Costeño”, il quale è stato arrestato a inizio luglio.

Per tonare a vendere i chip in Cina, le aziende dovranno pagare il 15% agli USA

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Nell’epoca del liberismo statunitense incarnato dalla presidenza di Donald Trump, il confine tra regolamentazione commerciale e imposizione fiscale si fa sempre più sottile. Questo è quanto emerge da un accordo raggiunto tra il Governo degli Stati Uniti e due colossi dell’industria dei semiconduttori, Nvidia e AMD: le due aziende potranno tornare a esportare in Cina microchip ad alte prestazioni destinati allo sviluppo di strumenti di intelligenza artificiale, ma a condizione di versare nelle casse federali il 15% di tutti i ricavi generati da tali vendite. Una trattenuta che, di fatto, opera come un’imposta diretta sulle esportazioni, pratica esplicitamente vietata dalla Costituzione USA.

La notizia è trapelata grazie al Washington Post, il quale ha attinto a fonti interne all’Amministrazione per ricostruire questo patto fiscalmente atipico che non ha mancato di sollevare controversie. La Costituzione degli Stati Uniti proibisce infatti di imporre tasse sulle esportazioni, una norma che garantisce – almeno formalmente – che il controllo governativo sulle licenze venga utilizzato esclusivamente come meccanismo di tutela della sicurezza nazionale, non come strumento di manipolazione del commercio internazionale. 

Le restrizioni statunitensi sull’export di microchip verso la Cina affondano le radici nel 2022, quando l’amministrazione Biden decise di bloccare la vendita di determinate categorie di semiconduttori e tecnologie di produzione, temendo che potessero essere utilizzati per sviluppare sistemi di intelligenza artificiale militare o civile in grado di competere con le capacità statunitensi. Questa linea restrittiva è stata pienamente condivisa anche dall’attuale presidente Donald Trump, che ha mantenuto e in alcuni casi irrigidito queste limitazioni, con l’obiettivo dichiarato è impedire che le aziende americane forniscano al principale rivale geopolitico componenti chiave per lo sviluppo di AI avanzate.

Per aggirare i vincoli e continuare a operare sul mercato cinese, Nvidia aveva sviluppato un nuovo modello di chip, denominato H20, progettato per restare entro i limiti tecnici imposti dalle normative, mantenendo comunque un livello di prestazioni che fosse appetibile per i clienti asiatici. Nell’aprile 2025, Trump ha in ogni caso bloccato l’esportazione del prodotto, motivando la decisione con ragioni di sicurezza nazionale. Il CEO Jensen Huang ha parlato di un “danno enorme”: «abbiamo cancellato 5,5 miliardi di dollari di inventario […], abbiamo abbandonato 15 miliardi di vendite e circa 3 miliardi di dollari in tasse».

A inizio luglio, con l’avvicinarsi di un nuovo ciclo di negoziati commerciali tra Washington e Pechino e dopo colloqui diretti con i vertici delle aziende coinvolte, il clima è cambiato. Nvidia ha ricevuto un via libera preliminare a riprendere le vendite, seppur in attesa di definire condizioni precise. Questa apertura ha sollevato immediatamente le contestazioni di alcuni politici, democratici, ma anche repubblicani, che hanno accusato l’amministrazione di barattare la sicurezza nazionale in favore di interessi economici.

I dettagli tecnici su come procedere sono stati definiti lo scorso mercoledì, durante una visita di Jensen Huang alla Casa Bianca. In quell’occasione, il presidente Trump ha contattato direttamente il segretario al Commercio, Howard Lutnick, per autorizzare la concessione delle licenze di esportazione per i chip H20. Secondo il Washington Post, proprio in quel frangente è stata stabilita la condizione della trattenuta del 15% sui ricavi generati dalle vendite in Cina, formalizzata come parte integrante dell’accordo.

Fiamme sul Vesuvio, rogo avanza nella notte: 80 vigili del fuoco in azione

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Sono in corso da oltre 48 ore le operazioni di spegnimento di un vasto incendio che ha colpito il Parco nazionale del Vesuvio, con un ampio dispositivo di soccorso. Attualmente, sono 80 i vigili del fuoco coinvolti, supportati da rinforzi arrivati da Emilia Romagna, Toscana, Marche, Salerno e Caserta. Nella notte, le fiamme hanno ripreso vigore , rischiando di arrivare fino alle abitazioni nella zona di Trecase e Torre del Greco. Quattro velivoli Canadair CL-415 stanno operando dall’alba. Inoltre, il Friuli Venezia Giulia ha inviato una colonna mobile di volontari e funzionari per supportare l’emergenza, con un impegno economico di 100mila euro.

L’Alto Adige ucciderà due lupi scelti a caso: sono “colpevoli” di nutrirsi di pecore

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È ancora battaglia tra la Provincia autonoma di Bolzano e i movimenti ambientalisti circa i piani di abbattimento di esemplari appartenenti a specie protette. Lo scorso 30 luglio, il presidente della provincia, Arno Kompatscher, ha infatti autorizzato l’uccisione di due lupi nella malga Furgles, nel comune di Malles, in Alta Val Venosta. Quello che sembra un intervento eccezionale, però, nasconde una pratica che è stata descritta come inaccettabile da molte associazioni, consentendo infatti di selezionare e abbattere due lupi in maniera casuale, con l’uso di armi a lunga distanza e senza alcuna limitazione di orario. La scelta è stata motivata dalla necessità di fermare una serie di attacchi al bestiame che hanno causato numerose perdite tra maggio e agosto 2025. Anche il TAR ha dato il via libera, tra le proteste degli animalisti.

Nello specifico, il provvedimento prevede l’uccisione di due lupi in maniera casuale, senza alcuna selezione specifica: «i prelievi tramite abbattimento avvengano senza limitazione alcuna di orari, l’utilizzo di armi lunghe a canna rigata e con modalità tali da perseguire anche il condizionamento negativo nei confronti di altri eventuali lupi». Il motivo della decisione risiede nel fatto che, nell’ultimo periodo, le pecore e una capra lasciate al pascolo sono state predati da lupi. Come messo nero su bianco dalle autorità provinciali, «nelle ultime settimane sono stati rilevati complessivamente 7 eventi per un totale di 28 predazioni accertate e confermate dal Corpo forestale provinciale come predazioni di lupo. Le predazioni hanno riguardato 16 proprietari». Il presidente Kompatscher ha giustificato il ricorso all’abbattimento, sottolineando che «un confinamento negli stabulari a valle non rappresenta un’opzione praticabile», poiché tale soluzione «comporterebbe l’abbandono di questa forma di allevamento», con gravi difficoltà legate al benessere degli animali e ai costi operativi.

L’autorizzazione all’abbattimento è stata emessa sulla base della legge provinciale 10/2023 e delle direttive europee in materia di conservazione della fauna selvatica. Secondo queste normative, la Provincia ha il diritto di intervenire quando si verificano danni gravi e ripetuti all’allevamento. Tuttavia, la logica che giustifica l’abbattimento di due lupi sembra essere puramente reattiva, senza che venga proposto un approccio a lungo termine per risolvere il conflitto tra allevatori e grandi predatori. Le critiche, infatti, non si sono fatte attendere, con le organizzazioni animaliste, tra cui LAV, ENPA e LNDC, che hanno immediatamente presentato ricorsi contro la decisione, chiedendo l’annullamento dell’autorizzazione. Questi gruppi hanno definito l’abbattimento una misura violenta e ingiustificabile, sostenendo che la protezione del bestiame non dovrebbe passare attraverso la morte degli animali predatori, ma con misure preventive più efficaci. Lo scorso 8 agosto, il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa (Trga) di Bolzano ha però respinto la richiesta di sospensione immediata avanzata dalle associazioni contro l’autorizzazione al prelievo tramite abbattimento di due lupi nella malga Furgles, ritenendo l’uccisione dei due lupi l’«unica azione efficace per scongiurare ulteriori danni».

Lo scorso maggio, il Parlamento europeo aveva sostenuto la rivisitazione della direttiva Habitat sulle specie minacciate proposta della Commissione UE, approvando la modifica dello status di protezione dei lupi da “strettamente protetti” a “protetti” con 371 voti a favore, 162 contrari e 37 astensioni. Un mese dopo, il Consiglio europeo aveva messo il timbro su tale decisione. Declassando lo status di protezione del lupo, si permette così agli Stati membri di decidere se ridurre il numero degli esemplari, in risposta all’aumento degli attacchi al bestiame e all’interesse pubblico crescente. Questa modifica è stata criticata dalla comunità scientifica, che denuncia la mancanza di evidenze scientifiche a supporto della decisione. La direttiva Habitat, adottata nel 1992, mirava a proteggere le specie minacciate, imponendo agli Stati membri di monitorare le specie e creare aree protette. «Il declassamento dello status di protezione è un passo importante per poter adottare misure mirate come i prelievi regolamentati e avere un minore impatto sull’agricoltura e sull’economia alpina – aveva dichiarato a inizio luglio l’assessore alle Foreste della Provincia di Bolzano Luis Walcher, attestando dunque l’impatto pratico della modifica europea -. Con la riduzione dello status di protezione del lupo ci siamo avvicinati al nostro obiettivo di preservare e proteggere l’agricoltura, in particolare quella di montagna, attraverso il prelievo dei lupi considerati problematici».

Il misterioso boom degli acquisti immobiliari da parte di cittadini israeliani a Cipro

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Cipro, isola divisa e da sempre crocevia strategico del Mediterraneo orientale, sta vivendo un fenomeno che, pur non essendo del tutto nuovo, ha assunto dimensioni inedite e preoccupanti dopo il 7 ottobre 2023: un numero crescente di cittadini israeliani si sta trasferendo sull’isola e sta acquistando in massa case e terreni. Ciò che in passato appariva come una normale tendenza d’investimento si sta trasformando, agli occhi di parte della popolazione cipriota, in una colonizzazione silenziosa che alimenta paure profonde, al punto che il secondo partito del Paese, l’AKEL (Partito Progressista dei Lavoratori), è arrivato ad affermare che «Israele sta occupando Cipro». L’isola è già segnata dalla storica divisione tra la parte cipriota e quella turca, e questo nuovo fenomeno rischia di acuire le tensioni, anche per via del crescente scontro tra Israele e Turchia in Siria. A ciò si sommano le dispute sull’estrazione di gas e idrocarburi nel Mediterraneo orientale, che coinvolgono Cipro, Grecia, Israele, Egitto, Turchia, Libia, Italia e Unione Europea. In questo contesto, l’espansione israeliana sull’isola diventa un ulteriore tassello di una partita geopolitica già complessa e carica di tensioni.

Come riportato da Great Reporter, dal 2021 a oggi gli investitori israeliani hanno acquistato oltre 4.000 proprietà sull’isola, facendo crescere rapidamente il numero di residenti israeliani a Cipro: dai 6.500 del 2018 si è passati a più di 15.000 nel 2025. Le preoccupazioni non riguardano tanto i numeri quanto le modalità di insediamento. Interi quartieri e nuovi villaggi vengono costruiti e riservati esclusivamente a cittadini israeliani, diventando comunità chiuse che replicano un modello di colonizzazione che molti ciprioti considerano inquietante e già visto a poca distanza dalle proprie coste, in Palestina. La denuncia più forte arriva dal partito di opposizione AKEL (Partito Progressista dei Lavoratori), secondo partito del Paese. «Israele ci sta occupando» e «a un certo punto scopriremo che la nostra terra non ci appartiene», ha dichiarato a giugno Stefanos Stefanou, segretario del partito. Secondo AKEL, il modello è chiaro: nascono rapidamente enclavi dotate di sinagoghe, supermercati kosher e scuole private, lo stesso schema coloniale applicato in Cisgiordania che ora sembra mettere radici in località come Pyla, Larnaca e Limassol.

La preoccupazione è che Cipro, per la sua posizione geografica strategica, possa trasformarsi in una pedina di un gioco geopolitico ben più ampio. In ballo ci sarebbero la sicurezza nazionale, la giustizia sociale e la stessa sovranità del Paese. AKEL denuncia il rischio della nascita di “enclavi-satellite” sotto influenza israeliana, centri di potere economico e potenziali basi di intelligence, anche a ridosso della Green Line – come a Pyla e Larnaca – la linea di cessate il fuoco che separa la zona greco-cipriota da quella turco-cipriota. In quest’area si trovano anche le basi britanniche della RAF, tra cui Akrotiri, utilizzata per missioni di ricognizione su Gaza. Un articolo pubblicato sul quotidiano israeliano Haaretz nel 2023 confermava inoltre la presenza del Mossad, che sfrutterebbe Cipro per “operazioni di rifugio” e di sosta.

Cipro occupa una posizione estremamente strategica all’interno del Mediterraneo orientale, tra Europa e Medio Oriente

La crescente influenza israeliana sull’isola è vista come un fattore di ulteriore destabilizzazione in un contesto regionale già fragile. L’alleanza strategica tra Israele e la parte greco-cipriota, rafforzata anche per contrastare la Turchia nello sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio sottomarini, espone Cipro a rischi rilevanti, soprattutto ora che lo scontro tra Israele e Turchia si intensifica in Siria. La storia dell’isola rende la situazione ancora più complessa: Cipro è divisa in due entità, la Repubblica di Cipro e la Repubblica Turca di Cipro del Nord. Questa spaccatura risale all’occupazione turca del 1974, giustificata da Ankara come intervento per proteggere la popolazione cipriota di origine turca dalle manovre di annessione alla Grecia portate avanti dalla dittatura dei colonnelli, intenzionata a porre fine all’indipendenza ottenuta dall’isola nel 1960. Con il crescere dell’influenza israeliana, è evidente che un ulteriore deterioramento dei rapporti tra Israele e Turchia rischierebbe di aggravare profondamente la frattura tra le due parti dell’isola.

Nel già complesso quadro geopolitico in cui si colloca Cipro, un ruolo centrale lo gioca anche lo sfruttamento dei giacimenti di gas e idrocarburi del Mediterraneo orientale, che attira l’interesse di Cipro, Israele, Turchia, Egitto, Grecia e Libia. L’Italia è coinvolta sia per la presenza di ENI nell’area sia per il progetto EastMed, il gasdotto che dovrebbe collegare Israele, Grecia e Cipro per fornire le risorse energetiche del Mediterraneo orientale all’UE. Il progetto, tuttavia, si è arenato dopo la fine del sostegno statunitense nel 2022. L’area rimane quindi un nodo cruciale di questioni geostrategiche, che spaziano dalla politica all’energia, e il fenomeno migratorio a carattere coloniale rischia di alterare ulteriormente equilibri già estremamente fragili.