sabato 22 Novembre 2025
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Trump ha annunciato dazi al 30% contro l’UE e il Messico

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In una lettera indirizzata alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’imposizione di dazi al 30% contro l’UE a partire dal 1° agosto prossimo. «Abbiamo avuto anni per discutere le nostre relazioni commerciali con l’Unione Europea e siamo giunti alla conclusione che dobbiamo allontanarci dai deficit commerciali persistenti e di lunga data, causati dai vostri dazi, dalle vostre politiche e dalle vostre barriere commerciali. A partire dal 1° agosto 2025, addebiteremo all’Unione Europea dazi solamente del 30% sui prodotti UE importati negli Stati Uniti, separati da tutti i dazi settoriali» si legge nella lettera che Trump ha inviato a von der Leyen. Una misura analoga è stata annunciata anche nei confronti del Messico.

La comunicazione arriva al termine di mesi di negoziati fallimentari tra le due sponde dell’Atlantico, durante i quali non si è riusciti a giungere a un accordo tra le parti. I dazi al 30% sono «molto inferiori a quanto sarebbe necessario per eliminare la disparità del deficit commerciale esistente con l’UE» ha comunicato Trump, che meno di due mesi fa raccomandava l’imposizione di dazi al 50% per l’UE a partire dal 1° giugno. Dall’Europa Trump si aspetta che consenta «un accesso completo e aperto al mercato degli Stati Uniti, senza l’imposizione di tariffe, nel tentativo di ridurre l’ampio deficit commerciale». A conclusione della lettera, il presidente USA ha minacciato l’imposizione di ulteriori misure in caso l’UE decidesse di imporre dazi di risposta: «qualsiasi sia l’entità dei dazi che deciderete di imporre, verrà aggiunta al 30% che addebitiamo».

La presidente della Commissione Europea ha commentato in una nota di aver «preso atto» della decisione, aggiungendo che «l’imposizione di tariffe del 30% sulle esportazioni dell’UE interromperebbe le essenziali catene di approvvigionamento transatlantiche, a scapito delle imprese, dei consumatori e dei pazienti su entrambe le sponde dell’Atlantico». Von der Leyen ha poi aggiunto che la Commissione è al lavoro per cercare di giungere a un compromesso entro il 1° agosto, ma che nel frattempo «adotteremo tutte le misure necessarie per salvaguardare gli interessi dell’UE, compresa l’adozione di contromisure proporzionate, se necessario».

Nei giorni scorsi, Trump aveva annunciato misure analoghe anche contro vari altri Paesi tra i quali Giappone, Corea del Sud, Tunisia, Malesia e Kazakistan (con dazi al 25%), Sudafrica e Bosnia-Erzegovina (30%), Indonesia (32%), Serbia e Bangladesh (35%), Cambogia e Thailandia (36%) e Laos e Birmania (40%). Il 10 luglio, sempre tramite una lettera postata sul proprio social media Truth, Trump aveva annunciato dazi al 35% per il Canada, accusandola di favorire l’ingresso di droghe nel Paese (il riferimento è al fentanyl) e all’ipertassazione («fino al 400%»), da parte del Canada, dei prodotti caseari americani. Per quanto riguarda il Messico, Trump ha dichiarato che i dazi sono la conseguenza del ruolo del governo nell’ingresso di migranti illegali negli USA e nel traffico di droga nel Paese.

In una nota, Palazzo Chigi ha fatto sapere che «il governo italiano continua a seguire con grande attenzione lo sviluppo dei negoziati in corso tra Unione europea e Stati Uniti, sostenendo pienamente gli sforzi della Commissione europea che verranno intensificati ulteriormente nei prossimi giorni», ma raccomandando di non polarizzare lo scontro, affinchè si possa raggiungere più facilmente un’intesa.

Londra, libro di Galileo Galilei venduto a oltre un milione di sterline

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Un piccolo libro in dialetto padovano venduto ad un prezzo che sembra destinato a rimanere scritto nella la storia delle aste: il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene, pubblicato anonimamente nel 1605 e oggi attribuito a Galileo Galilei, è stato ufficialmente venduto per 1,1 milioni di sterline dalla casa d’aste Christie’s a Londra. L’opera, scritta con l’allievo Girolamo Spinelli, ironizza sulle teorie aristoteliche e prende spunto dalla comparsa della supernova del 1604. È quella che si ritiene la prima pubblicazione a stampa riconosciuta di Galileo, e la sua rarità è assoluta: esistono solo sette copie conosciute, tutte in biblioteche pubbliche. «Un’opportunità straordinaria», ha dichiarato Christie’s, sottolineando la crescita di interesse per le opere del padre della scienza moderna.

La sinistra cilena prova a ripartire dalla comunista Jeannette Jara

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A due settimane dalle elezioni primarie che in Cile hanno portato alla vittoria della candidata comunista Jeannette Jara, i leader dei partiti si sono pronunciati in merito: il presidente Boric sostiene la futura rappresentante della coalizione di sinistra, mentre la destra condanna apertamente l’eredità comunista della candidata.

Lo scorso 29 giugno si sono infatti celebrate le elezioni primarie per scegliere chi rappresenterà la coalizione ufficiale della sinistra cilena alle elezioni generali del prossimo novembre 2025. Tra le persone deputate a raccogliere il testimone dell’attuale presidente Gabriel Boric si è fatta largo la candidata proveniente dal Partito Comunista Cileno (PCC) Jeannette Jara, che ha ottenuto il 60,16% delle preferenze.

L’elezione, che ha visto un calo alle urne di circa 300.000 voti rispetto alle primarie del 2021, ha segnato una vittoria storica di un partito che non presentava una candidatura alle elezioni presidenziali dai tempi di Salvador Allende. Jeannette Jara ha sbaragliato la concorrenza politica, lasciando la candidata del Partido por la Democracia, ministra dell’interno ed ex sindaca di Santiago Carolina Tohá al 26% e il successore di Boric e rappresentante del Frente Amplio Gonzalo Winter al 9% delle preferenze.

In un contesto politico radicalmente differente rispetto alle elezioni del 2021, ancora scosse dal terremoto sociale delle proteste del 2019 contro l’ex presidente Sebastián Piñera, ci si chiede quali siano reali possibilità della candidata comunista di vincere nel mandato elettorale del prossimo autunno. In primo luogo, la prossima candidata di sinistra rappresenta al momento i successi di un governo che ha deluso apparentemente le aspettative dell’elettorato progressista cileno, come testimoniato dal calo alle urne nelle ultime primarie. Difatti Jara nel corso dell’attuale legislatura ha ricoperto il ruolo di ministra del lavoro e della previdenza sociale del Cile e ha potuto vantare l’approvazione di due leggi essenziali del programma elettorale del Frente Amplio: la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento del salario minimo interprofessionale. 

Attraverso la Ley 40 horas (legge 40 ore) il governo ha approvato una riduzione graduale in quattro anni della giornata lavorativa da quarantacinque a quaranta ore settimanali, in un lasso temporale che va dal 2024 al 2028. Simultaneamente, il salario minimo ha subito un incremento del 43% (un 20% reale scontando l’inflazione) rispetto all’inizio della legislatura, con un ulteriore innalzamento del 3,6% entro il 2026. 

A rafforzare la figura di Jeannette Jara sembrerebbe essere risultato particolarmente efficace il processo di distanziamento che la candidata ha messo in atto nei confronti del suo partito d’appartenenza. Secondo alcuni analisti, il PCC appare, agli occhi dell’elettorato progressista cileno, ancora troppo radicale, specialmente nell’ambito della politica internazionale. Difatti, Jara è riuscita abilmente a smarcarsi dall’ossessione conservatrice riguardo le relazioni con il governo cubano e il governo venezuelano, sottolineando l’importanza della salvaguardia delle istituzioni democratiche. Un ulteriore punto a favore è rappresentato dalle origini della candidata di sinistra: proveniente da un quartiere popolare nella periferia di Santiago del Cile, Jara è nata e cresciuta in un contesto familiare proletario, che potrebbe così avvicinarla alle classi umili dell’elettorato cileno, differentemente dai candidati avversari, discendenti di ex politici e militari.

Se da un lato si è potuto osservare il riconoscimento della vittoria e la promessa di collaborazione espressa dai candidati sconfitti in questa tornata elettorale, oltre che l’appoggio dello stesso presidente Boric, dall’altro la destra cilena ha rapidamente colto l’occasione per attaccare Jara e criticare la vittoria di una candidata «comunista». Il candidato libertario Johannes Kaiser ha sottolineato il «rischio per il futuro democratico del paese», per poi proporre, durante un’intervista rilasciata nel programma De Frente, di «proscrivere il Partito Comunista Cileno». Nella stessa occasione ha dichiarato che il colpo di stato di Augusto Pinochet fosse una «dichiarazione militare», normalizzando la violazione dei diritti umani come semplice conseguenza della guerra civile. L’altra rappresentante della destra Evelyn Matthei si è invece soffermata sulla bassa affluenza delle primarie, come diretta conseguenza dei risultati del governo Boric.

In un contesto di forte polarizzazione, nel quale la destra cilena oscilla tra il revisionista Johannes Kaiser e Antonio Kast, antiabortista e figlio di un ex ufficiale nazista della Wermacht, la sinistra raccoglie l’eredità sfiancata del governo Boric che non sembra essere riuscito a mantenere la fiducia del suo elettorato. Le elezioni di novembre decreteranno se il popolo cileno sceglierà di tornare alle politiche pre-Boric o se si fideranno di una candidata di eredità comunista.

Colombia, arrestato a Bogotà il boss della ‘ndrangheta Giuseppe Palermo

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Il boss della ‘ndrangheta Giuseppe Palermo, detto “Peppe”, è stato arrestato a Bogotà nelle ultime ore, in un’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e in collaborazione con l’Europol e la polizia colombiana, che ha confermato la notizia alla stampa. «Palermo gestiva gli acquisti di cocaina da Colombia, Perù ed Ecuador e controllava le rotte verso l’Europa», ha commentato il direttore della polizia colombiana Carlos Triana. L’operazione, inoltre, ha portato alla cattura di altri 20 ricercati in Italia.

ONU: Israele ha ucciso almeno 800 persone durante la distribuzione degli aiuti umanitari

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Dall’apertura dei centri di distribuzione degli aiuti umanitari della Gaza Humanitarian Foundation, Israele ha ucciso almeno 798 persone in cerca di sussidi. A dirlo è Ravina Shamdasani, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR), che ha specificato che la maggior parte delle vittime, precisamente 615, si trovava nelle vicinanze dei siti GHF, mentre le altre 183 erano «presumibilmente sulle rotte dei convogli di aiuti». Mentre continua a sparare ai civili in fila per gli aiuti, Israele non intende fermare l’avanzata nella Striscia, e continua a rilasciare ordini di evacuazione per spingere la popolazione in aree sempre più ristrette, allontanandole da campi dotati di ospedali e uffici umanitari. Nel frattempo continuano i bombardamenti. Dall’alba di oggi, Israele ha ucciso almeno 60 persone.

L’OHCHR fonda i suoi dati su fonti quali informazioni provenienti da ospedali di Gaza, cimiteri, famiglie, autorità sanitarie palestinesi, ONG e partner che operano sul campo. La maggior parte dei feriti palestinesi nelle vicinanze dei centri di distribuzione degli aiuti registrati dall’OHCHR dall’apertura dei centri lo scorso 27 maggio, ha affermato Shamdasani, sono stati colpiti da proiettili di arma da fuoco. Gli attacchi alle persone in cerca di aiuto sarebbero continuati anche oggi, tanto che Israele avrebbe ucciso almeno 30 persone intente a ricevere i sussidi. La violenza è continuata in generale in tutta la Striscia. Il ministro della Difesa Israel Katz ha pubblicato sul social X (ex Twitter) una immagine di Beit Hanun, città situata nel Governatorato di Nord Gaza, completamente distrutta, celebrando l’attività delle IDF: «Dopo Rafah, Beit Hanun: non c’è più rifugio per il terrorismo». A Gaza City l’esercito israeliano ha ucciso 8 palestinesi di cui 4 nel quartiere di Tuffah e 4 nel quartiere di Zeitoun; le IDF hanno confermato di avere condotto attacchi a Zeitoun. Poco più a sud, nel Governatorato di Deir al Balah, Israele ha attaccato un campo per sfollati uccidendo tre palestinesi nelle tende; sempre a Deir al Balah, l’esercito israeliano ha bombardato una stazione di servizio, uccidendo altri 4 palestinesi. Bombardato anche il campo profughi di Al Mawasi, nel governatorato di Khan Younis, dove l’esercito ha ucciso almeno 11 persone.

A Rafah, invece, sembra che continuino le operazioni per l’istituzione di un maxi-campo profughi dove spostare la popolazione della Striscia per poi deportarla. Dalle ultime rivelazioni dei giornali israeliani, il campo dovrebbe venire istituito a prescindere dal raggiungimento di un eventuale cessate il fuoco; secondo il piano, una volta costruito il campo, ogni abitante di Gaza sarebbe sottoposto a ispezione per garantire che non porti armi e non sia affiliato ad Hamas. Tutti coloro che dovessero scegliere di rimanere al di fuori della zona sarebbero così identificati come membri di Hamas, e dunque considerati legittimi bersagli; «de facto, un enorme campo di concentramento», ha detto il direttore dell’UNRWA Philippe Lazzarini. Secondo quanto comunica l’emittente qatariota Al Jazeera, Israele avrebbe inoltre presentato un piano per un cessate il fuoco di 60 giorni in cui avrebbe proposto l’istituzione di un’area cuscinetto attorno alla Striscia che comprenderebbe ampie porzioni di Beit Lahia, Om al-Nasr e Beit Hanun nel Governatorato di Nord Gaza, i quartieri di Tuffah, Shujaiya e Zeitoun di Gaza City, aree di Deir al-Balah e la città di Khuza’a nel Governatorato di Khan Younis. Il piano prevedrebbe che Israele occupi il 40% della Striscia per concentrare a Rafah la maggior parte dei palestinesi, che a partire da lì verrebbero deportati in Egitto.

Intanto la situazione umanitaria continua ad aggravarsi. Il numero di bambini uccisi a causa della malnutrizione ha raggiunto finora quota 67, mentre più di 650.000 bambini di età inferiore ai cinque anni rischiano di andare incontro a problemi di grave malnutrizione. Attualmente, il 96% della popolazione della Striscia soffre di gravi livelli di insicurezza alimentare. La situazione degli ospedali non è delle migliori: mercoledì 9 luglio sono entrati i primi rifornimenti di carburante – circa 75.000 litri – in 130 giorni; «Si tratta di uno sviluppo positivo, ma rappresenta solo una piccola frazione di quanto è necessario ogni giorno per far funzionare la vita quotidiana e le operazioni di soccorso essenziali», si legge in un comunicato congiunto di sette uffici umanitari dell’ONU, che chiedono l’entrata di più carburante. Gli ospedali risultano infatti pieni, con livelli di sovraffollamento del 200%, e gli attacchi israeliani sulle strutture non si arrestano; oggi Israele ha rilasciato due distinti ordini di evacuazione da altrettante aree dotate di ospedali da campo di Gaza City.

Dall’escalation del 7 ottobre, Israele ha distrutto o danneggiato il 92% delle case (l’ultimo aggiornamento è di luglio 2025), l’83% delle terre coltivabili (i dati più recenti sono di aprile 2025), l’88,5% delle scuole (dato del 4 aprile 2025) e, in generale, il 70% di tutte le strutture della Striscia (4 aprile 2025). L’86,1% del territorio della Striscia risulta sotto ordine di evacuazione o interdetto ai civili. In totale, l’esercito israeliano ha inoltre ucciso direttamente almeno 57.762 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia.

ONU: da ottobre quasi 5.000 morti ad Haiti

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Secondo un rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, da ottobre del 2024 ad Haiti sarebbero 4.864 le persone uccise ad Haiti, e altre centinaia di migliaia avrebbero lasciato il Paese. Il rapporto arriva in un momento di crisi per il Paese, ormai da anni in mezzo a una profonda crisi tra violenze delle bande armate e instabilità politica. La capitale Port-au-Prince e le aree circostanti risultano le più critiche, tanto che negli ultimi nove mesi hanno registrato oltre 1.000 morti.

Nell’Amazzonia brasiliana le comunità autorganizzate stanno fermando i reati ambientali

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In Brasile, il pattugliamento volontario messo in atto dalle comunità autorganizzate ha comportato una riduzione dell’80% dei crimini ambientali. Il risultato è emerso nel report Strengthening Amazon conservation through community‐based voluntary patrolling, pubblicato sulla rivista accademica Conservation Biology. Lo studio è stato condotto nel decennio intercorso tra il 2003 e il 2013 e si è focalizzato su dodici unità territoriali facenti parte delle riserve di sviluppo sostenibile di Mamirauá e Amanã, nello stato di Amazonas. L’obiettivo del progetto era quello di constatare se le operazioni di pattugliamento volontario riducessero le attività criminali in ambito medio ambientale, contro le sole operazioni di routine attuate dal governo brasiliano.

La Voluntary Environmental Agents (VEA) ha effettuato quasi ventimila pattugliamenti in dieci anni, con un conteggio di centocinquantamila ore di lavoro, con un impatto sui crimini ambientali, si spiega nel report, dell’80% in undici delle dodici aree prese in esame. Delle varie violazioni, il 78,24% era legato a pesca illegale, in special misura l’utilizzo di attrezzature vietate o lo svolgimento dell’attività in aree proibite, come le zone di riproduzione ittica. Il 19% invece riguardava la caccia, spesso ai danni di specie protette o in vari casi senza licenza; mentre in misura meno frequente (3%) le attività di pattugliamento hanno impedito operazioni di disboscamento, nelle quali si includeva il prelievo di legname pregiato, il taglio in aree protette o la deforestazione finalizzata a creare spazio per altre attività, spesso condotte da agenti esterni alle comunità locali. 

Il report ha inoltre rivelato che le attività della VEA si sono rivelate particolarmente efficaci in caso di intervento in contesti segnalati dalle comunità locali, pratica che ha creato un equilibrio tra le agenzie statali, i comitati scientifici e le organizzazioni non governative impegnate sul posto.

L’approccio messo in atto dagli agenti volontari consisteva nella confisca dei mezzi considerati illegali e dei materiali estratti, la registrazione delle attività sgominate e la segnalazione delle infrazioni alle autorità ambientali competenti. Inoltre, la creazione di un registro dei dati ha permesso un monitoraggio capillare, finalizzato alla segnalazione delle aree con maggiore incidenza e alla conseguente strategia di pattugliamento. La rilevazione ha segnalato, inoltre, che il numero dei crimini scovati aumentava in maniera direttamente proporzionale all’aumento dei volontari coinvolti nelle operazioni di pattugliamento, mettendo in evidenza la possibilità di aumentare il coinvolgimento delle comunità per ottenere risultati ulteriormente efficaci.

D’altra parte, lo studio ha analizzato in forma comparativa le operazioni condotte esclusivamente dagli agenti ufficiali del governo, in un lasso di tempo decennale (dal 2002 al 2012) in varie riserve dello stato di Amazonas, fatta eccezione per le due aree pattugliate dalle VEA. In questo caso i risultati non sono stati ugualmente positivi: attraverso sessantanove operazioni, dalla durata media di 159 ore ciascuna, che hanno coinvolto almeno sei agenti per missione, sono stati scovati in media tredici crimini ambientali per operazione, senza però mostrare alcuna tendenza significativa nella diminuzione degli stessi. Secondo lo studio questo metterebbe in evidenza l’inefficienza dell’impianto di controllo governativo nella dissuasione dei crimini ambientali, a causa della scarsa legittimità percepita dalle popolazioni locali o per fenomeni di corruzione sistemica nella relazione tra agenti e attività criminale.

I risultati incredibili ottenuti dai pattugliamenti volontari dimostrano come questo modello porti non solo benefici alla salvaguardia delle riserve sostenibili, ma sia capace di alimentare un circolo virtuoso all’interno delle comunità stesse. Difatti lo studio denota una maggiore consapevolezza all’interno del contesto sociale interessato, oltre che uno sviluppo nella coesione e nell’educazione ambientale. Nonostante i benefici, il report sottolinea anche eventuali criticità: in primis i pattugliamenti possono mettere in pericolo i volontari; inoltre, si sottolinea anche la sottorappresentazione della comunità volontaria femminile (26%) e di quella indigena (12%). A questo si aggiunge la dipendenza gestionale che le VEA hanno nei confronti di ONG e Stato, specialmente da un punto di vista logistico-economico e il rischio che il lavoro dei volontari possa disincentivare ulteriormente l’impegno governativo nel controllo e nella lotta contro la criminalità organizzata in contesto ambientale.La collaborazione volontaria ha messo in evidenza la forza autogestita delle comunità amazzoniche nella salvaguardia degli equilibri ambientali dell’area. Il report pubblicato su Conservation Biology afferma, inoltre, che i risultati straordinari ottenuti, rendono questo modello perfettamente replicabile in altri territori tropicali, divenendo così un punto di partenza nella gestione delle aree protette in tutto il mondo.

La Russia avrebbe lanciato un massiccio attacco contro l’Ucraina

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Le forze russe avrebbero lanciato un massiccio attacco con droni e missili sull’Ucraina. La notizia arriva dalle forze armate ucraine, che riportano che gli armamenti russi si sarebbero abbattuti sulla regione di Kiev, e su quelle di Kherson, Mykolaiv, Cernihiv, Cerkasy e Vinnytsia. I droni si sarebbero concentrati anche nell’est di Zytomyr, nell’ovest di Sumy e nel nord di Odessa, e il sindaco di Leopoli ha segnalato un incendio. Dopo l’annuncio ucraino, la Polonia ha dispiegato i propri aerei da combattimento per monitorare la situazione.

Un comune del Salento ha vietato le manifestazioni per non disturbare i turisti

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«Il centro storico è interdetto a qualsiasi genere di comizi e/o manifestazioni politiche, esposizioni al pubblico sia esterne sia interne di bacheche volantini e quant’altro sia idoneo a divulgare verso l’esterno attività politica». Così recita l’ordinanza firmata dalla sindaca di Specchia, Anna Laura Remigi che impedisce ogni tipo di manifestazione o semplice esternazione politica tra le vie del centro del comune salentino. 

Se di per sé quest’ordinanza mette in allarme e fa discutere per le modalità repressive che impone sulla cittadinanza, sono le motivazioni a rendere questo provvedimento incredibile e ai limiti della distopia: nel centro di Specchia non si può manifestare per non disturbare i turisti.

Secondo quanto si può leggere dall’ordinanza, in vigore dal 29 giugno al 30 settembre, il comune di Specchia farebbe parte della lista stilata dall’associazione privata denominata «I borghi più belli d’Italia». In aggiunta, durante i mesi estivi il centro storico sarebbe impegnato nell’iniziativa culturale “Estate Specchiese 2025”. Definite quindi queste peculiarità del comune salentino, la sindaca sottolinea tra le motivazioni della misura la «consistente presenza di turisti interessati alle bellezze del Centro Storico e alle attività di puro svago»; tutte queste ragioni rendono quindi «necessario» interdire il centro cittadino da ogni tipo di espressione politica per «motivi di sicurezza» e per preservare «l’ordine pubblico e la pace sociale».

Nel corso della storia più volte sono state proibite manifestazioni per imporre un controllo sociale ed evitare la deflagrazione di movimenti “scomodi” pronti a destabilizzare il potere costituito; questo caso invece, unico nel suo genere, segna una novità assoluta e mette in evidenza il totale assoggettamento della popolazione verso l’economia turistica. Difatti con questa ordinanza non si vorrebbe, quantomeno ufficialmente, evitare attacchi al potere comunale, bensì «garantire ai turisti e cittadini tutti quella serenità di incontrarsi ed intrattenersi serenamente senza essere investiti da argomenti che nulla hanno di intrattenimento o svago». 

Quest’ordinanza però, non si tratta di una novità assoluta nel comune di Specchia, difatti, già nell’estate del 2023, la sindaca Remigi interdì con la stessa misura ogni attività politica dal centro con le medesime motivazioni.

Si assiste così alla frantumazione del contesto comunitario cittadino, con l’obiettivo di far spazio alla mera logica del profitto turistico, da difendere ad ogni costo. Mentre si osserva la diffusione a macchia d’olio di proteste contro la massificazione turistica in varie città spagnole e del Sud Europa, durante le quali si mettono in evidenza le criticità di un modello che aliena la sfera pubblica, rende inaccessibile il mercato immobiliare e inasprisce il conflitto interno alla cittadinanza, a Specchia la situazione viene capovolta. Nel comune salentino non solo si applicano politiche atte a intensificare l’afflusso turistico, ma si impone una misura preventiva onde evitare ogni tipo di attitudine che possa «arrecare danno all’attività di fruizione turistica e all’immagine del paese». 

Come segnala l’Osservatorio Repressione, questa misura si scontra apertamente con l’Articolo 21 della Costituzione, tanto da vietare manifestazioni e volantinaggio su tematiche come la pace e la difesa dei diritti umani. La sindaca annuncia «che su tutto il restante territorio comunale, su tutte le altre piazze e luoghi del comune si possono tenere comizi e fare manifestazioni politiche o fare volantinaggio od apporre bacheche», ma in questo caso la pezza è anche peggio del buco: specificando che questa “eccezione” garantisce «la libera espressione del pensiero e l’attività politica, spesso indirizzata ai residenti», quello che si può osservare è un maldestro tentativo di giustificare una ghettizzazione delle cause politiche e soprattutto un’ammissione di colpa. La garanzia della libertà d’espressione è presente, ma solo fuori dal centro cittadino.

Facendo un’analisi dell’ordinanza stessa, già dal primo punto è possibile intuire la giustificazione di tale attitudine politica. Per entrare a far parte della lista dei «Borghi più belli d’Italia», ogni paese deve vantare determinati requisiti che ne attestino la «qualità urbanistica e architettonica», ma soprattutto deve comprovare l’impegno nell’accoglienza turistica, che deve fornire da servizi di alloggio, alla presenza di «artigiani d’arte», oltre che un’offerta culturale e festiva peculiare. In nessuna di queste caratteristiche si esplicita la necessità di investire in servizi destinati alla cittadinanza, alimentando così pratiche atte alla costruzione di un luogo «bello», ma spesso vuoto per chi lo abita. A questo si aggiunge l’ineluttabile processo di turistificazione del Salento, terra da un lato attanagliata da un grave processo di spopolamento, ma dall’altro preda della speculazione immobiliare e della gentrificazione finalizzata all’accoglienza turistica. Solo l’anno scorso la celebrazione del G7 nel resort di lusso di Borgo Egnazia, nel brindisino, fortemente voluta dalla premier Giorgia Meloni, mise in evidenza il processo che sta costruendo un’identità parallela del Salento, fatta di tradizione, eccellenza gastronomica e slow life, rin contrasto con il lavoro stagionale sottopagato, e quindi dall’incertezza e dall’arretratezza infrastrutturale.

La pace sociale diviene così parola d’ordine, con il fine di non rovinare il sogno di chi raggiunge il Salento per trovare un locus amoenus. Chi vive in Salento sa bene che l’estate è spesso l’unico momento in cui è possibile racimolare uno stipendio e mettere così da parte il pensiero di una precarietà che aleggia costantemente sulla testa di una terra martoriata dall’ingordigia di chi vuole trasformare il territorio in un parco a tema.

«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» recita l’Articolo 21 della Costituzione. Evidentemente, per preservare la patina di un luogo alla visita dei turisti, si può sorvolare su un diritto costituzionale.