mercoledì 10 Dicembre 2025
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Dino Budroni: ucciso da un poliziotto che non farà un giorno di carcere

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La vicenda dimenticata di Dino Budroni ha compiuto 14 anni esatti ed è finita nel nulla: un delitto con un colpevole, ma senza castigo. Un omicidio senza pena. Bernardino, per tutti Dino, se lo portarono via due colpi di Beretta – uno mortale – sulle ultime curve di una notte romana di fine luglio del 2011. I processi hanno accertato che a ucciderlo fu un poliziotto di nome Michele Paone. Ma il paradosso è che l’agente non è mai passato dal carcere, non è mai stato sospeso dal servizio e nemmeno ha dovuto versare un euro di risarcimento ai parenti di Dino. Come è possibile? Per raccontarlo occorre riavvolgere una lunga sequenza di processi farsa, incongruenze e silenzi mediatici che hanno portato alla paradossale assoluzione perché l’agente avrebbe sparato per «tensione e stress psicologico accumulato». E questo nonostante la gestione dello stress sia uno di corsi base nelle scuole di polizia. E nonostante sia stato appurato che Dino Budroni venne ucciso a sangue freddo, mentre si trovava con le mani in alto. 

Condannato senza pena: chi sbaglia (in divisa) non paga

Non ha pagato, soprattutto, l’unico imputato: l’agente scelto Michele Paone della Polizia di Stato, che pure è stato condannato per aver premuto il grilletto della sua Beretta di ordinanza, uccidendo il 40enne seduto nella propria macchina. La quale, una Ford Focus, era ferma sul Grande Raccordo Anulare in direzione nord, a due passi dall’uscita Nomentana. Era praticamente parcheggiata, alla fine di un inseguimento iniziato una ventina di chilometri prima, all’imbocco del Raccordo da Cinecittà. Il giudice di primo grado, quello che il 15 luglio 2014 ha assolto l’imputato dal reato di omicidio colposo perché «il fatto non costituisce reato» e riconoscendo un uso legittimo delle armi, ha argomentato la sua decisione dicendo, in buona sostanza, che Budroni – già colpito dal proiettile – ha fermato la macchina, spento il motore, inserito la prima marcia e tirato il freno a mano, colpito a morte da un colpo sparato dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra: una ricostruzione che definire fantasiosa è un complimento.

Omissioni, incongruenze e indizi trascurati

Le indagini dei Carabinieri sul luogo dell’omicidio di Dino Budroni

Ma i gradi di giudizio di questa storiaccia hanno scandito anche omissioni, incongruenze e mancanze nel percorso giudiziario. Meglio ricordare che tutto era iniziato sotto casa della donna che Budroni frequentava da cinque mesi, in via Quintilio Varo, a due passi dal Parco degli Acquedotti. Una diatriba a suon di porte prese a calci e urla, tanto che i giornali, nei giorni successivi, avevano titolato sulla «notte brava dello stalker». La donna, che aveva convissuto con Dino a Fonte Nuova, lo ha denunciato in commissariato dopo le sei del mattino, quando lui era già un cadavere in obitorio. Il processo per quella denuncia è stato celebrato solo dopo che era già stato sepolto, nel cimitero dove ignoti, per molto tempo, si sono particolarmente divertiti a violare e profanare la sua tomba. 

Il silenzio mediatico e una tempesta perfetta

Se c’è un caso in cui l’informazione ha selezionato e pilotato cosa raccontare, è stato proprio quello dell’omicidio di Dino Budroni. Su nessuna testata, infatti, si è mai letto di tutti gli indizi, i particolari e le tracce che nessuno ha scavato né approfondito. Non lo ha fatto la Procura, nei suoi diversi assetti e titolarità. Non lo hanno fatto gli avvocati della famiglia, che pure si sono avvicendati, e che sembrano aver sempre accettato senza batter ciglio il fatto che nel dossier ci fosse poco o nulla, se non l’incriminazione di Paone, colui che ha premuto il grilletto.

Ora che la vicenda ha ricevuto una pronuncia definitiva dalla Cassazione, riavvolgendo il nastro di tre lustri di indagini non fatte e zone d’ombra mai illuminate, pare evidente che qualcuno si sia accontentato di un colpevole designato. Come chi sceglie di giocare in difesa e buttar via il pallone, che poi alla fine non è stato nemmeno colpevole, perché la prescrizione decennale per il reato di omicidio colposo, pur con aggravanti comuni (articolo 61 del Codice penale, capo terzo), gli ha tolto ogni rischio di varcare la soglia del carcere.

La giustizia non è riuscita a giudicare Paone prima che la mannaia dei termini calasse. Tutti questi elementi hanno composto una sorta di tempesta perfetta che ha inghiottito il caso Budroni, togliendo pena e conseguenze ai responsabili, e diluendo tutto in un interminabile percorso giudiziario.

Giudici diversi, sentenze diverse

Nei diversi gradi di giudizio, i giudici non sono sembrati d’accordo sulla colpevolezza dell’agente Michele Paone. Assolto in primo grado, condannato in appello a otto mesi, dopo che è stata messa in dubbio la volontarietà del suo gesto e la consapevolezza delle conseguenze, verso un’auto ferma dopo un inseguimento che i verbali descrivono come «condotto a folle velocità da Dino Budroni». Come a voler dipingere una situazione in cui la fine tragica era inevitabile.

Paone ha sempre dichiarato di aver mirato alle gomme della Focus in fuga. Il giudice di primo grado ha scritto che l’auto era in movimento al momento degli spari, nonostante uno dei carabinieri intervenuti (due volanti e una pattuglia dell’Arma, la Beta Como) abbia dichiarato in aula di aver sentito gli spari quando tutte le auto erano ferme.

La Corte d’Appello, anche per questo, ha ribaltato la sentenza di primo grado, ma la Cassazione ha annullato la condanna per vizio di motivazione, chiedendo un nuovo giudizio.

Sparare per colpa dello stress: le motivazioni dell’Appello bis

I fori dei due colpi di pistola esplosi dall’agente Michele Paone sulla Focus di Dino

La Suprema Corte ha rinviato il processo per un nuovo appello, che si è concluso lo scorso novembre, definendo colpevole l’agente Paone per aver sparato a Budroni da fermo – praticamente un’esecuzione – e in condizioni psicologiche “traballanti”.

Nella sentenza si legge: «Deve necessariamente concludersi che, al momento degli spari, la condotta di fuga di Budroni fosse ormai giunta al termine e che, pertanto, non vi fosse alcuna necessità di fare uso dell’arma per ”respingere la violenza” o ”vincere la resistenza” impeditive all’adempimento del dovere dei pubblici ufficiali». Il punto chiave: Paone ha sparato da fermo, quando Budroni aveva le mani alzate e la macchina era parcheggiata.

La lettura psicologica da parte dei giudici sorprende: «Paone non poteva non essersi reso conto di ciò già durante lo svolgimento dell’azione, per cui non è implausibile ritenere che il suo intervento sia stato essenzialmente frutto di tensione e stress psicologico accumulato, che lo hanno indotto a compiere un gesto non necessario e avventato». Ma proprio la gestione dello stress è il primo requisito insegnato nelle scuole di polizia.

Speronamenti senza tracce

La Focus di Budroni era inseguita da chilometri, dall’Anagnina, da due volanti e da una gazzella dei Carabinieri che Budroni avrebbe anche cercato di speronare. Ma sull’auto dell’Arma non ci sono tracce di urti. Gli agenti, durante l’operazione, alla radio dissero: «Lo abbiamo preso». Ma nessuno comunicò l’inseguimento alle centrali operative. L’azione avvenne, in pratica, all’insaputa degli altri colleghi.

Testimoni dimenticati

Ci sono testimoni oculari mai ascoltati. Uno di loro, Franco Casalino, titolare di un banco al mercato di Val Melaina, ha dichiarato di aver visto il corpo senza vita sul sedile passeggero alle 5 del mattino. Ma gli orari ufficiali non coincidono. L’agente Marco Stabile ha detto che alle 4:45 erano tornati in via Quintilio Varo per un controllo. L’alba civile dell’1 agosto 2011, però, è stata alle 4:30. O era già chiaro, o l’inseguimento era avvenuto prima.

Uno scontrino che cambia(va) tutto

Nelle tasche di Budroni è stato trovato uno scontrino per una birra, emesso da un bar sulla Nomentana, vicino a Fonte Nuova, dove viveva. Ma l’inseguimento sarebbe partito dal Tuscolano. La dinamica temporale non torna. Se era già a casa, perché tornare indietro? Inoltre, Budroni ricevette una telefonata alle 4 dal cognato a cui disse: «Sto tornando a casa».

C’erano altre persone con Dino quella notte?

Il sedile passeggero era reclinato, ma Budroni era solo. C’erano strane macchie mai repertate. Possibile che qualcuno fosse salito sull’auto e poi scappato? Nessuno ha indagato. È rimasta anche una pistola scacciacani, replica della Beretta 92, a bordo della Focus. Non era sua, non fu sottoposta a perizia e non è stata restituita alla famiglia.

Un fascicolo rimasto vuoto per 14 anni

Il fascicolo con cui Michele Paone è arrivato al primo grado di giudizio era sostanzialmente vuoto. Non si è riempito granché nemmeno dopo. La Cassazione, pronunciandosi nel novembre scorso, ha confermato la colpevolezza ma ha annullato le provvisionali a favore dei familiari. Paone non è mai stato sospeso, ha continuato a indossare la divisa e non dovrà nemmeno risarcire chi ha perso un figlio, un fratello, un uomo. Claudia, la sorella di Dino, ha speso anni a rincorrere la verità. Ma il caso di Dino Budroni è finito in un limbo mediatico, al contrario di altri nomi diventati simboli come Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e tanti altri. Evidentemente, non solo la legge, ma nemmeno i morti ammazzati sono sempre uguali per tutti.

Calabria, si dimette il presidente Occhiuto: “Ma mi ricandido”

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Ieri sera, giovedì 31 luglio, il presidente forzista della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, ha annunciato improvvisamente le sue dimissioni tramite un video sui social. Nelle scorse settimane era finito sotto inchiesta per corruzione. Ha precisato che, pur dimettendosi, intende ricandidarsi, invitando i calabresi a decidere il futuro della regione alle prossime elezioni. Occhiuto ha spiegato che la decisione è legata alle difficoltà amministrative interne, dove «nessuno si assume più la responsabilità di firmare niente». La formalizzazione delle dimissioni avverrà la prossima settimana e, dopo l’approvazione del Consiglio, sarà fissata la data delle elezioni.

Genova, lo sciopero dei portuali impedisce lo sbarco di armi dirette a Israele

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La Liguria si conferma fulcro della disobbedienza civile a sostegno del popolo palestinese e in opposizione sia ai crimini israeliani sia alla corsa internazionale al riarmo. La mobilitazione dei portuali del collettivo CALP e dell'Unione Sindacale di Base (USB) ha infatti impedito a tre container contenenti materiale bellico diretto a Israele di sbarcare a Genova e La Spezia. Saputo del carico trasportato dalla portacontainer COSCO Pisces, i portuali di Genova avevano proclamato per il 5 agosto una giornata di sciopero al grido di: "Non lavoreremo per la guerra". Lo sciopero è stato annullato...

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Milano, inchiesta sull’urbanistica: 6 arresti

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Il gip del Tribunale di Milano ha disposto cinque arresti domiciliari e uno in carcere nell’ambito dell’inchiesta sull’urbanistica che ha investito la città meneghina. Tra gli arrestati domiciliari figurano l’ex assessore Giancarlo Tancredi, l’imprenditore Manfredi Catella, e altri due ex membri della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni e Alessandro Scandurra, oltre al manager Federico Pella. L’unica misura in carcere riguarda l’imprenditore Andrea Bezziccheri. L’indagine della Procura di Milano riguarda presunti illeciti nella gestione di pratiche urbanistiche e progetti immobiliari, con accuse di corruzione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio e falso.

L’ultimo scontro in Commissione Antimafia: Caselli sbugiarda i ROS sulla morte di Borsellino

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Arriva una decisiva risposta alle audizioni in Commissione Antimafia degli ex ufficiali del ROS Mario Mori e Giuseppe De Donno, seguite dalla puntata di Report in cui sono emerse le presunte pressioni esercitate da Mario Mori per vedere nominati uomini di sua fiducia come consulenti dell’organismo presieduto da Chiara Colosimo. Oggi Palazzo San Macuto è stato infatti teatro dell’audizione dell’ex Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli. Il quale, in poco più di un’ora, ha completamente ribaltato la narrazione dei ROS su diversi punti cruciali in merito alle indagini sulle causali delle stragi del 1992. Documenti alla mano, Caselli ha confutato le tesi di Mori e De Donno, su cui sin da subito si sono chiaramente allineati Colosimo e Fabio Trizzino – legale dei figli di Borsellino -, che vedono il presunto interesse del giudice palermitano al dossier “mafia-appalti” dei ROS come elemento scatenante dell’accelerazione del progetto omicidiario nei suoi confronti. Un duro colpo per la linea della maggioranza in Commissione Antimafia, messa a dura prova dalle intuizioni e dai collegamenti operati da Caselli.

Il rapporto mafia-appalti

Uno dei punti più discussi e su cui Mori e De Donno hanno costruito parte delle loro argomentazioni riguarda il rapporto mafia-appalti, prodotto dai ROS alla Procura di Palermo nel febbraio ’92, al centro dello scontro tra carabinieri e magistrati. Nel suo intervento, Caselli ha sottolineato che «Mori, De Donno e Trizzino sostengono due tesi: la prima è che mafia-appalti è causa della morte di Borsellino; la secondo è che mafia-appalti muore a sua volta (sabotata), per l’archiviazione indebita e compiacente, richiesta da pm “felloni” in piena estate ’92, quando tutti pensano solo a riposo, svago e divertimento. Ma le due tesi in contemporanea sono come un cane che si morde la coda-innescano un corto circuito. Neanche il sanguinario Riina farebbe uccidere qualcuno perché non si occupi di una cosa che sta già scomparendo da sola». Pur di denigrare la procura di Palermo, si prospettano due tesi contradditorie che si annullano vicendevolmente: conta solo accusare la Procura di qualcosa…».

[L’ex Procuratore Gian Carlo Caselli in audizione in Commissione Antimafia]
Sull’inconsistenza della tesi mafia-appalti intervengono altri elementi: in primis il fatto che Paolo Borsellino sia stato ucciso poco prima del definitivo accantonamento del decreto sul 41-bis, approvato dal governo subito dopo la morte di Falcone e destinato a essere cestinato dal Parlamento (venne ovviamente convertito subito dopo l’omicidio Borsellino a causa dell’ondata di indignazione dell’opinione pubblica). «Se Borsellino lo si è voluto uccidere prima, facendo sul piano del 41 bis ”un pessimo affare”, è comunque molto difficile trovare, senza un salto logico, un qualche collegamento razionale con la questione mafia-appalti. Se non altro perché, non anticipando l’attentato, a Borsellino sarebbe stata concessa una manciata di giorni: troppo poco, anche per uno bravo come lui, per combinare qualcosa».

Le vere cause

Afferma Caselli che Borsellino è sicuramente stato ucciso dalla mafia per «vendetta postuma» e per «soffocarne il metodo», forse anche «per impedirgli di comunicare alla Procura di Caltanissetta il vasto e prezioso materiale raccolto di cui non faceva mistero», senza dimenticare «l’intervista rilasciata da Borsellino due giorni prima di Capaci a una TV francese, a lungo tenuta nascosta dalla nostra Tv di Stato perché riguardava fatti imbarazzanti riferibili à personaggi eccellenti», ovvero Berlusconi, Dell’Utri e lo “stalliere” di Arcore (in realtà mafioso del clan di Porta Nuova) Vittorio Mangano. «Ma nulla, proprio nulla, che possa consentire di concentrarsi esclusivamente sulla pista mafia-appalti, che è invece la scelta operata, con una sorta di presunzione dogmatica, da Mori, De Donno e Trizzino». Tra le altre piste evidenziate da Caselli in vista di accertamenti legati a possibili connessioni con via D’Amelio, ci sono anche «la paura che alla lunga in Procura avrebbe comandato più Borsellino che Giammanco», la “pista nera” indicata tra gli altri dal pentito Lo Cicero poco prima della morte di Borsellino in relazione alla bomba di Capaci (se n’è recentemente occupata la trasmissione Report), le «piste segnalate alla Commissione da Roberto Scarpinato», che vedono il loro fulcro nella commistione di interessi tra mafia, eversione nera, politica e servizi deviati. Nonché, citando quanto riportato dal pentito Cancemi, la creazione di «nuovi legami politici» di Cosa Nostra nell’era post-Tangentopoli. Tradotto: tutte le piste fortemente invise a Colosimo, Mori, De Donno e Trizzino.

Gli effetti della strage di via D’Amelio, consumata il 19 luglio 1992

Il caso Ciancimino

Altro aspetto fondamentale trattato dall’ex Procuratore è la gestione delle dichiarazioni rilasciate in interrogatorio da Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, sentito dai magistrati Caselli e Ingroia alla presenza dei ROS dal gennaio 1993. «Soltanto una trentina di anni dopo, Mori e De Donno decidono all’improvviso di accusare Caselli e Ingroia, inventandosi una tesi» all’interno del loro libro “L’altra verità” (Piemme, 2024), ovvero che «non avremmo adeguatamente “sfruttato” per le indagini Ciancimino, col rammarico – dicono i due Ufficiali – che… “il treno passa una sola volta nella vita”. Una ricostruzione su cui punta veementemente il dito l’ex Procuratore, che, dopo aver citato gli insulti e gli improperi messi nero su bianco da Ciancimino nei confronti di Falcone e Borsellino, nonché le «chiacchiere senza apprezzabile fondamento o significato, prive di prospettive concrete processualmente utili» fatte da Ciancimino in interrogatorio, lo inquadra come un personaggio dal comportamento «in totale distonia rispetto ai requisiti occorrenti per riconoscere un potenziale pentito affidabile». Continua Caselli: «Si fa fatica a capire come possano Mori e De Donno (che sostengono di aver avuto un unico scopo: vendicare Falcone e Borsellino) “sponsorizzare” don Vito dandogli un credito postumo quasi incondizionato e scorgendovi una straordinaria opportunità di lotta alla mafia, invece della inaffidabilità e ambiguità che sono i tratti caratteristici del ”corleonese nelle mani dei corleonesi». Nondimeno, ricorda l’ex magistrato, i due ufficiali «se ne escono nel libro con una teoria stupefacente: premesso che forse sarebbe stato impossibile andare a dibattimento, loro “stavano per sbaragliare ciò che non poteva essere sbaragliato”, perché Ciancimino “avrebbe potuto portare le indagini a livelli mai toccati prima”: beninteso, dibattimento escluso, perciò girando a vuoto senza sbocchi di una qualche utilità, avendo gli stessi Mori e De Donno ammesso poco prima che tale livello era di fatto inarrivabile».

Quell’incontro in caserma

Le contraddizioni di Mori e De Donno concernono poi la riunione intrattenuta con Paolo Borsellino alla Caserma Carini il 25 giugno 1992. Secondo i ROS, l’incontro (segreto) avrebbe avuto come obiettivo il rafforzamento delle indagini sul dossier “mafia-appalti”. Secondo quanto trapela da un verbale datato dicembre 2012 di Carmelo Canale, uno dei principali collaboratori di Borsellino, la riunione, dice Caselli, avvenne invece «su richiesta, ad esso Canale, di Borsellino, che voleva conoscere De Donno, in quanto sospettato da colleghi magistrati di essere autore dell’anonimo Corvo2» (alias che indicava una fonte anonima che avrebbe avuto accesso a informazioni riservate sulla Procura di Palermo). «Ragioniamo come se ancora la versione da cui siamo partiti (riunione a tre preso caserma Carini) non fosse in discussione», dice Caselli: «Emerge un interesse di Borsellino verso mafia-appalti. […] È però necessario e imprescindibile, per poter dare un senso logico al collegamento di mafia-appalti con l’eliminazione di Borsellino, che Cosa nostra conosca tale interesse. Ora, l’assoluta segretezza con cui è stato organizzato e si è svolto l’incontro del 25 giugno è scarsamente se non del tutto incompatibile con la conoscenza che abbiamo detto essere necessaria».

[Gli ex ufficiali del ROS Mario Mori e Giuseppe De Donno]
All’inizio dell’audizione, partita alle 14.20, Colosimo aveva annunciato che, per appuntamenti legati a votazioni parlamentari, la seduta si sarebbe conclusa alle 16, consentendo poi a Caselli di ripresentarsi in altra data per concludere la sua audizione. Alle 15.30, Caselli si è detto pronto a trattare un altro argomento molto “caldo”, quello dello “scippo” del pentito Li Pera da parte della Procura di Catania a quella di Palermo, in cui De Donno avrebbe avuto un ruolo da protagonista, nell’ambito delle indagini sul mafia-appalti. «Mi sembra sia un po’ troppa carne al fuoco per trattarla in mezz’ora», gli ha risposto Colosimo, decidendo di chiudere la seduta in anticipo.

Scuola italiana: cambiare si può, insieme

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La scuola italiana attraversa da tempo una crisi silenziosa, ma profonda. È una crisi fatta di strutture inadeguate, risorse insufficienti, insegnanti stanchi e studenti in difficoltà. Eppure, in mezzo a queste ombre, qualcosa si muove. C’è chi non si arrende, chi continua a credere che l’istruzione possa e debba essere il motore del cambiamento. E lo dimostra ogni giorno. 

Le risorse pubbliche destinate all’istruzione in Italia restano tra le più basse d’Europa. A farne le spese sono innanzitutto gli edifici scolastici: sei scuole su dieci risultano prive del certificato di agibilità, e ogni tre giorni si verifica un crollo di calcinacci all’interno di aule, laboratori o palestre. Intanto, migliaia di studenti si ritrovano in classi sovraffollate, dove diventa difficile apprendere e ancora più difficile insegnare. 

Ma il disagio non si misura solo in termini strutturali. Anche per chi nella scuola lavora, il clima è sempre più pesante. Insegnanti e dirigenti affrontano sfide complesse, spesso in solitudine, come la burocrazia, la mancanza di riconoscimento, la carenza di strumenti aggiornati e di una formazione continua efficace. Basti pensare che quasi un professore su due soffre di burnout e il 35% dei docenti ha seriamente considerato l’idea di licenziarsi. Tutto questo logora, toglie motivazione, mette a rischio il senso stesso della professione educativa. A soffrire più di tutti e a pagare le conseguenze più alte, però, sono gli studenti. Si stima che un quindicenne su quattro fatichi a comprendere testi di complessità elementare, limitando profondamente le sue possibilità di crescere come cittadino consapevole. Gli adolescenti italiani soffrono inoltre molto di sintomi legati all’ansia, spesso in correlazione con la pressione scolastica e l’assenza di spazi di ascolto. La scuola, che dovrebbe essere un luogo sicuro, di esplorazione e fiducia, rischia di diventare per molti una fonte di disagio e malessere.

In questo contesto, la dispersione scolastica resta una delle ferite più gravi. Oggi in Italia circa uno studente su dieci abbandona la scuola prima del diploma, con picchi ancora più alti in alcune regioni del Sud. Un fenomeno che non riguarda solo chi lascia, ma anche chi resta senza sentirsi davvero incluso, accompagnato, motivato. Dietro ogni abbandono c’è una storia di solitudine educativa, di ingiustizia sociale, di opportunità negate. 

Eppure, nonostante tutto, c’è chi resiste e costruisce. In molte scuole italiane, spesso lontano dai riflettori, insegnanti e presidi si stanno già mobilitando per cambiare le cose nel loro piccolo. Innovano la didattica, ripensano gli spazi, creano legami autentici con gli studenti, coinvolgono il territorio. Lo fanno con passione, determinazione e consapevolezza. 

È per loro – e grazie a loro – che come Still I Rise da alcuni anni promuoviamo il Progetto Insieme: un programma educativo gratuito rivolto a ragazze e ragazzi dagli 8 ai 18 anni, pensato per le scuole, le istituzioni educative e le associazioni. 

Attraverso attività formative, racconti e laboratori guidati dagli insegnanti, condividiamo il metodo educativo innovativo che con successo portiamo avanti nelle nostre scuole tra Kenya, RDC, Siria, Yemen e Colombia, e sensibilizziamo gli studenti italiani su temi cruciali come la migrazione, l’accoglienza, il lavoro minorile e il diritto all’istruzione. Il progetto aiuta anche gli educatori a promuovere consapevolezza, senso critico e responsabilità sociale tra i giovani, con risorse pratiche, spazi di confronto e strumenti didattici per una scuola più inclusiva, viva, capace di non lasciare indietro nessuno. 

Cambiare si può, e c’è già chi lo sta facendo. Ma per trasformare davvero il sistema educativo serve uno sforzo collettivo e istituzionale. Sono le istituzioni, in primis, a dover assumere un ruolo centrale e attivo, garantendo risorse adeguate, politiche lungimiranti e un piano strutturale di lungo termine. Non bastano iniziative frammentate o interventi emergenziali: serve un’alleanza solida tra chi fa scuola ogni giorno e chi ha la responsabilità di orientare le scelte pubbliche. 

Mettersi in ascolto, valorizzare le buone pratiche, dare spazio e dignità alla scuola significa prendersi cura del presente e costruire le fondamenta del futuro. Perché non c’è futuro possibile senza un’istruzione che sappia accogliere, accompagnare, ispirare. Insieme.

Gazawood: la fabbrica di bufale israeliane da cui attingono molti media italiani

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«È tutta una finzione. Hossam ha inscenato la propria morte». È il 26 marzo 2025 quando l’account X Gazawood, che conta oltre 80.000 follower, accusa di messinscena la morte di Hossam Shabat, reporter di Al Jazeera ucciso nel nord di Gaza da un drone dello Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, e dall’esercito, secondo cui si sarebbe trattato di un «terrorista di Hamas». Nonostante le conferme, i video e le testimonianze, Gazawood ha ipotizzato che Shabat non fosse effettivamente morto, ma che si fosse trattato di una “finzione”.

A Gaza si muore davvero, ma c’è chi trasforma i cadaveri e il sangue in una teoria del complotto travestita da “fact-checking”. Dietro gli schermi si consuma una guerra parallela a quella vissuta tra le macerie, dove le bombe non cadono dal cielo, ma si insinuano nei feed dei social, tra video virali, meme e accuse di montatura e simulazione. Una ragnatela di dubbi volta a disumanizzare le vittime palestinesi e a negare il genocidio in corso.

Le origini di Gazawood

Gazawood è una costola di Pallywood, un neologismo coniato nei primi anni Duemila da ambienti filoisraeliani, che fonde “Palestina” e “Hollywood” per descrivere quella che, secondo loro, sarebbe una strategia sistematica da parte dei palestinesi di inscenare o manipolare episodi di violenza, morti tra i civili e distruzioni, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale. Secondo questa teoria del complotto — da cui è poi derivata Gazawood — esisterebbe una sorta di Hollywood palestinese che produrrebbe contenuti di propaganda per conto di Hamas. Ogni immagine proveniente da Gaza o dalla Cisgiordania sarebbe in realtà il frutto di un copione recitato a favore di telecamera da “crisis actors”, orchestrato in uno studio televisivo.

Il termine nasce nel 2005 con il documentario dello storico statunitense Richard Allen Landes, docente all’Università di Boston, Pallywood: According to Palestinian Sources (Pallywood: secondo le fonti palestinesi). L’obiettivo dichiarato è dimostrare una manipolazione mediatica da parte palestinese fin dalla Seconda Intifada.

Questa teoria del complotto compare per la prima volta con il celebre caso della morte di Mohammad al-Durrah, un ragazzino di 12 anni colpito a morte al checkpoint di Netzarim. La tragedia venne ripresa da un cameraman palestinese, e il filmato di 59 secondi fu trasmesso dal canale francese France 2 il 30 settembre 2000, con il commento del veterano franco-israeliano Charles Enderlin. Nel video si vedono Mohammad e suo padre Jamal rannicchiati dietro a un cilindro di cemento, mentre intorno a loro si odono spari. Pochi secondi dopo, le immagini mostrano il corpo del bambino steso a terra, insanguinato. Le immagini crude furono trasmesse in tutto il mondo, e il bambino divenne un simbolo delle rivolte palestinesi della Seconda Intifada, cominciate soltanto da un paio di giorni.

A causa di alcuni tagli, però, il video venne considerato da alcuni blogger e dal governo israeliano come falso, divenendo così terreno di scontro. Nel 2013 il premier israeliano Benjamin Netanyahu presentò un report interno secondo cui non era stata l’IDF a sparare al giovane palestinese. Nel suo documentario, Landes pone in dubbio persino l’autenticità del filmato e ipotizza che al-Durrah non sia stato affatto ucciso.

La vicenda ha dato vita a teorie complottiste, alimentate soprattutto dalla destra israeliana. Da quel momento in poi, ogni rappresentazione dello strazio civile palestinese è stata contaminata da sospetti di recitazione. E con la guerra in corso, sono tornate a proliferare sui social network le teorie del complotto di Pallywood. Secondo un’analisi del gruppo d’inchiesta della BBC, dal 7 ottobre su X la parola “Pallywood” ha registrato il picco più alto nel numero di citazioni degli ultimi dieci anni.

Nel frattempo, su TikTok, influencer israeliani hanno sfruttato i trend più popolari per dileggiare le sofferenze palestinesi. Una delle vicende accusate di essere una farsa risale al 13 ottobre 2023, quando il Jerusalem Post, su X, ha incolpato Hamas di aver inscenato la morte di un bambino di quattro anni a Gaza usando una bambola. Il post è stato immediatamente rilanciato da diversi esponenti politici e diplomatici dello Stato ebraico, ma era tutto falso: il quotidiano ha dovuto rimuovere l’articolo e chiedere pubblicamente scusa.

La giornalista palestinese Bayan Abu Sultan

È stato poi il turno dell’attacco aereo avvenuto nel cortile dell’ospedale al-Aqsa il 14 ottobre 2024, dove era allestita una tendopoli di sfollati. Il raid, verificato da diversi media e con filmati circolati online, è stato accusato di essere un falso, e che le immagini diffuse da giornalisti e civili fossero state create ad hoc. Tra le centinaia di post pubblicati da Gazawood e Pallywood, troviamo anche il caso della giornalista palestinese Bayan Abu Sultan, che in una notizia ripresa da Libero era stata accusata di aver inscenato il fatto di essere stata vittima di un attacco israeliano a Gaza.

Obiettivo: negare la realtà dei fatti

La strategia non è nuova: negare, delegittimare, isolare emotivamente, dubitare di tutto fino a non credere più a nulla. Nel caso di Gaza, si tratta di un processo su scala industriale con l’obiettivo di dimostrare che non è avvenuto nulla, mentre ogni vittima si trasforma in una persona sospetta. E non è un dettaglio: il mondo che guarda, se non vede, finisce per non empatizzare. Acconsente. Giustifica. Ogni immagine di bambini, ogni frame di ospedali distrutti, diventa elemento di propaganda bellica antipalestinese. Il risultato è una vittoria morale per chi orchestrava l’attacco: se non esiste empatia, non esiste colpa.

Sul profilo social di Hossam Shabat, il 208º giornalista ucciso da Israele a Gaza citato in apertura di questo articolo, è comparso un messaggio dopo il suo omicidio: «Se state leggendo questo, significa che sono stato ucciso – molto probabilmente preso di mira – dalle forze di occupazione israeliane. […] Non smettete di parlare di Gaza. Non lasciate che il mondo distolga lo sguardo».

Il 208° giornalista ucciso da Israele a Gaza, Hossam Shabat

Chi si volta dall’altra parte, o addirittura nega la realtà, costruisce un muro tra le vittime e l’opinione pubblica. In quella somma di pixel e commenti che trasudano odio, viene cancellato il nome dell’uomo sotto le macerie, della madre con un bambino in braccio, del giornalista assassinato.

L’indifferenza ai morti è un’altra forma di morte. Chi nega il genocidio – negando bombardamenti, bambini uccisi, intere famiglie sbriciolate – commette un crimine che non ha bisogno di bombe, e che si nutre di superficialità e ignavia: basta una tastiera, un account social, una foto fuori contesto e milioni di spettatori.

Pfizergate, la Commissione non fa ricorso: definitiva la sentenza sugli sms di von der Leyen

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La Commissione europea ha lasciato scadere il termine di due mesi e 10 giorni per presentare ricorso contro la storica sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul caso ormai noto come Pfizergate. Un dettaglio tutt’altro che tecnico, che apre scenari dirompenti sul piano politico, legale e morale. La sentenza, infatti, censura duramente l’opacità con cui la Commissione – e in particolare la presidente Ursula von der Leyen – ha gestito lo scambio dei famigerati SMS con Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer, durante il periodo più critico della pandemia. Uno scambio che precedette l’accordo colossale da 35 miliardi di euro per l’acquisto di 1,8 miliardi di dosi di vaccino.

A riportare la notizia è stato Politico, confermando che Bruxelles non ha impugnato la decisione entro i termini previsti, rendendola così definitiva. Il caso esplose nel 2021, quando Matina Stevis-Gridneff, una giornalista del New York Times, rese noto che von der Leyen e Bourla avevano avuto un contatto diretto, via messaggi di testo, nel pieno delle trattative. Da lì, la richiesta – apparentemente banale – di poter visionare quei messaggi. La risposta della Commissione fu sconcertante: i messaggi non esistono o, meglio, non sono stati conservati perché considerati «non documenti ufficiali». Una giustificazione che ha spinto la Corte di Giustizia a intervenire, bocciando senza appello la condotta della Commissione e ribadendo un principio fondamentale: se un messaggio contiene informazioni rilevanti per un processo decisionale pubblico, deve essere trattato come documento ufficiale, a prescindere dal mezzo utilizzato. La Corte ha accusato la Commissione di non aver fornito spiegazioni credibili sull’assenza dei documenti, di non averli cercati seriamente e, anzi, di aver fornito giustificazioni «contraddittorie» e «non plausibili». Una condotta che rivela, secondo i giudici, una negligenza istituzionale grave e potenzialmente dolosa.

All’inizio di luglio, von der Leyen si è trovata ad affrontare un voto di sfiducia al Parlamento europeo sul caso, promosso dall’eurodeputato rumeno Gheorghe Piperea. La mozione di censura si era trasformata in un’enorme resa dei conti tra i banchi dell’Eurocamera, ma di fatto è servita solo a misurare il grado di anestesia democratica e il cinismo che affligge l’UE. Ora, il fatto che la Commissione non abbia presentato ricorso rappresenta una resa silenziosa ma significativa, che conferma il peso politico della condanna e che suona come una ammissione implicita di colpa. 

Cala così il sipario sullo scandalo Pfizergate, simbolo di una deriva tecnocratica che minaccia i fondamenti stessi della democrazia europea. Il mancato ricorso della Commissione non chiude il caso, lascia però, senza risposta le domande fondamentali: dove sono finiti quei messaggi e perché non sono stati conservati? 

Il premier lituano si è dimesso

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Il primo ministro lituano, Gintautas Paluckas, ha annunciato le proprie dimissioni tanto da premier quanto da presidente del Partito Socialdemocratico. L’annuncio arriva a fronte di una campagna di pressione politica, scattata dopo l’avvio di indagini per corruzione. Il leader dell’Unione dei Democratici “Per la Lituania”, Saulius Skvernelis, aveva infatti annunciato che il suo partito si sarebbe ritirato dal governo se Paluckas non si fosse dimesso. Paluckas è accusato di corruzione nell’ambito di una indagine su una serie di affari che avrebbe fatto con un’azienda di proprietà della cognata. Di preciso, l’azienda della cognata avrebbe usato fondi europei per acquistare batterie da Garnis, di cui Paluckas è comproprietario.

Iveco, lo storico marchio italiano dei veicoli commerciali, è diventato indiano

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La notizia era nell’aria da giorni: Iveco Group della famiglia Agnelli diventa indiana. Lo storico marchio dei veicoli industriali e speciali, nato dallo scorporo di CNH Industrial è stato ceduto dal colosso Exor agli indiani di Tata Motors e rappresenta l’ultimo capitolo di una lunga storia di smantellamento industriale e di svendita del patrimonio nazionale. 

L’operazione ha un valore complessivo stimato di 5,5 miliardi di euro. Di questi, circa 3,8 miliardi sono destinati all’acquisto della divisione civile di Iveco, mentre 1,7 miliardi vanno a Leonardo per l’acquisizione del comparto Difesa (IDV e Astra), separato come condizione preliminare all’acquisizione. In termini tecnici, si tratta di una dismissione per comparti: prima si scinde il segmento militare, poi si vende tutto il resto. L’acquisizione da parte degli indiani è prevista entro la metà del prossimo anno: Iveco manterrà la sede principale in Italia, a Torino, ma lascerà la Borsa di Milano.

La divisione dei veicoli commerciali – autobus, camion, furgoni – va dunque a Tata. L’unione tra le due aziende produrrà un gruppo con ricavi annui da 22 miliardi di euro e vendite superiori alle 540.000 unità all’anno, ben posizionato tra Europa, India, Americhe, Asia e Africa. La divisione strategica per la Difesa terrestre (veicoli blindati, tattici, da combattimento), invece, viene ceduta all’ex Finmeccanica, oggi Leonardo S.p.A., in una sorta di “rientro controllato” nell’alveo della difesa nazionale, sebbene anche Leonardo abbia assett azionari molto frammentati. 

A livello finanziario, il vero vincitore della partita è Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann, che non solo monetizza la vendita, ma incassa un dividendo straordinario stimato tra 5,5 e 6 euro per azione.

È una di quelle notizie che si presentano con toni trionfalistici nei comunicati stampa (la nota congiunta di Iveco e Tata parla di «sinergie», «visione globale», «occupazione garantita»), ma che in controluce raccontano un altro tipo di storia: quella di una nazione che non ha più una strategia industriale, né la volontà di difendere i suoi asset strategici. Le rassicurazioni non mancano: nessuna chiusura di stabilimenti, nessun esubero, quartier generale a Torino “preservato”. La narrazione è sempre la stessa: «nulla cambierà», «gli stabilimenti resteranno in Italia», «nessun licenziamento». Parole fotocopia che abbiamo già sentito con Pirelli, Magneti Marelli, Parmalat, Indesit, Italcementi e decine di altri marchi. Poi arriva la realtà: know-how che prende il volo, decisioni spostate all’estero, delocalizzazioni graduali ma inesorabili dove il costo del lavoro è più basso. 

Più del valore economico, pesa il significato simbolico. Iveco non è solo un marchio, è un pezzo di storia industriale italiana, un pilastro di Torino, una colonna portante della mobilità pesante europea. Eppure, tutto è avvenuto senza confronto con i sindacati, che ora lanciano l’allarme per i quasi 13.000 addetti (di cui seimila lavoratori diretti e i duemila dell’indotto nel torinese). 

La notizia della vendita di Iveco incontra il favore del governo che parla di «un’importante operazione industriale che apre nuove prospettive di crescita per il gruppo Iveco» e sottolinea che l’India è partner strategico dell’Italia. Il governo italiano precisa che si limita a osservare e a «vigilare». Una vigilanza che finora non ha impedito a nessuna delle grandi eccellenze italiane di passare oltre confine. Sempre più aziende italiane, infatti, vengono comprate, svuotate, delocalizzate. A volte il marchio resiste, altre volte no. Si parla di «occupazione garantita», ma il copione è noto: oggi si firma il patto, domani si tagliano i rami secchi, dopodomani si delocalizza in nome della competitività. Il governo si dice pronto a «collaborare», come in tutte le altre cessioni, salvo poi farsi trovare impreparato di fronte ai licenziamenti.

La svendita delle imprese italiane

Come denuncia il rapporto Outlet Italia dell’Eurispes, lo scenario è da brividi: stiamo trasformando la nostra industria in museo. Abbiamo oltre 600 musei e archivi d’impresa – da Ferrari a Ducati, da Perugina ad Alessi – ma pochi impianti che producano ancora valore in Italia. Il problema? La miopia delle élite industriali italiane: abbiamo smesso di investire nel lungo periodo, abdicato alla visione strategica, sostituito il progetto industriale con il dividendo immediato. Le difficoltà esistono soprattutto per le piccole e medie imprese, a cominciare dalla pressione fiscale e dalla burocrazia. 

I numeri parlano chiaro: gli stranieri comprano il doppio delle aziende italiane di quante ne compriamo noi, e spendono meno della metà. Siamo un outlet del Made in Italy, una terra di conquista, con rare eccezioni, come il caso Carrefour che cede la sua rete italiana di 1.188 punti vendita all’azienda italiana NewPrinces Group, il riassetto di TIM, con Poste Italiane che ha acquisito il 15 per cento delle azioni da Vivendi o la Nestlé che sta pensando di rivendere Sanpellegrino e l’Acqua Panna (che così potrebbero tornare italiane).

Dal 2008 al 2012, 437 aziende italiane sono passate nelle mani di acquirenti esteri. Tra il 2014 e il 2023, ci sono state 2.948 acquisizioni estere di aziende italiane (contro le 1.673 acquisizioni italiane all’estero) per un valore di 203 miliardi di euro. Marchi storici come nel campo del lusso (Gucci, Valentino, Bottega Veneta, Brioni, Loro Piana, Bulgari, Pomellato, Buccellati, Versace), dell’alimentare (Parmalat, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Eridania, Bertolli, Motta, Sperlari, Saila, Peroni, Star), dell’industria (Pirelli, Magneti Marelli, Indesit, Italcementi, Fiat Ferroviaria, AnsaldoBreda), dei trasporti e della difesa (Piaggio Aerospace, Ducati, Lamborghini), sono ormai solo brand italiani in mano a holding francesi, americane, tedesche, cinesi o giapponesi.

Il consumatore medio non se ne accorge: compra un prodotto con nome italiano, ignaro che dietro quel nome ci sia una multinazionale straniera che reinveste gli utili altrove. A farne le spese sono l’occupazione, la filiera locale, l’autonomia strategica e, soprattutto, la sovranità industriale, termine ormai tabù in un Paese che ha smesso da tempo di difendere se stesso, se non a parole. La vendita di Iveco non è un “nuovo inizio”, è il proseguimento di una lunga eutanasia industriale. Non stiamo costruendo nulla: stiamo smontando, smantellando, vendendo e archiviando la nostra storia industriale.