giovedì 20 Novembre 2025
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Grecia: stop all’accoglimento di migranti per tre mesi

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La Grecia interromperà l’elaborazione delle domande di asilo provenienti dal Nord Africa per fare fronte all’impennata di arrivi dalla Libia. L’annuncio è arrivato il giorno dopo il respingimento del ministro dell’interno greco da parte del governo di Bengasi della Libia orientale, parallelo al governo centrale di Tripoli. Il premier Kyriakos Mitsotakis ha spiegato che l’esame delle domande d’asilo sarà inizialmente sospeso per tre mesi, e che in generale le leggi contro le persone migranti saranno rese più severe, con la costruzione di un centro di detenzione per migranti a Creta.

“Truccata da Hamas”: la bufala sulla giornalista di Gaza sopravvissuta al massacro 

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Di fronte a una tragedia, la propaganda non si limita a distorcere la realtà: spesso la inventa. Questa volta con la regia dichiarata di un apparato organizzato e ideologico che ha come unico obiettivo il sabotaggio della verità. È il caso dell’ennesima bufala confezionata dal canale Gazawood e ripresa con entusiasmo dalla testata italiana Libero («Ferita dai colpi israeliani» Ma era Hamas a truccarla – sabato 5 luglio 2025), secondo cui l’attivista palestinese Bayan Abu Sultan sarebbe stata “truccata” in un finto backstage per fingere di essere una vittima dei bombardamenti israeliani a Gaza. Peccato che quella che viene spacciata come “prova” – un reel pubblicato il 30 giugno 2025 dall’account Instagram di Mohammed Abusalama – non solo non dimostri nulla, ma sia facilmente smentibile grazie a dati visivi, geolocalizzazioni, video da altre angolazioni e un minimo di logica, che però manca a chi ha interesse a falsificare la realtà.

Il contesto: un massacro vero, una bufala costruita

Il 30 giugno 2025, l’esercito israeliano ha colpito un Internet café di Gaza City, l’Al-Baqa, uccidendo oltre 39 persone, tra cui civili e giornalisti. Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno giustificato la strage sostenendo di aver preso di mira diversi agenti di Hamas. L’Internet café bombardato era noto non per essere un “covo di terroristi”, ma per essere frequentato da molti giornalisti palestinesi. Tra le vittime, anche Ismail Abu Hatab, famoso fotoreporter palestinese. I suoi reportage da Gaza erano stati esposti in una mostra a Los Angeles lo scorso aprile. Le immagini dal luogo della strage hanno circolato rapidamente: tra queste, quelle dell’attivista e femminista palestinese Bayan Abu Sultan, con il volto e i vestiti insanguinati. Consultando l’archivio di Getty Images, attraverso la parola chiave “Al-Baqa”, è possibile trovare due foto che la ritraggono.

Gazawood, la macchina della disinformazione filo-israeliana

Pochi giorni dopo la strage, parte il contrattacco mediatico. Il 1° luglio 2025, tra i primi a mettere in dubbio la vicenda, troviamo l’account X Gazawood, che di fatto rilancia la teoria del complotto nota come Pallywood (secondo cui tutto ciò che proviene da Gaza sarebbe una messa in scena, e i palestinesi inscenerebbero tragedie per sensibilizzare l’opinione pubblica). A ruota segue Libero, che riprende la bufala sostenendo si tratti di una messinscena (lo screenshot dell’articolo è stato condiviso dallo stesso Gazawood). La “prova regina”? Un video girato in un ambiente chiuso – non nel café – dove si vedrebbe Bayan “prepararsi”, ossia farsi truccare come su un set cinematografico, facendosi cospargere di sangue finto. In realtà, il video è stato pubblicato dopo l’attacco e mostra la donna con cerotti al braccio assenti nelle foto precedenti (quindi successivi all’attacco), e la differenza nella tonalità del sangue sui vestiti è compatibile con l’ossidazione naturale del sangue esposto all’aria. Nulla che non si possa verificare con un minimo di buon senso (e persino Open ha dedicato un ampio approfondimento di debunking per smentire questa assurda teoria del complotto).

Il cuore pulsante di questa narrazione non è il video, ma il progetto Gazawood. Nato a fine 2023, l’account X (ex Twitter) si propone esplicitamente di dimostrare che tutto ciò che proviene da Gaza è una messa in scena. La sigla è un gioco di parole su Pallywood (Palestina + Hollywood), vecchio cavallo di battaglia della propaganda israeliana. Dietro Gazawood troviamo un ex autore di romanzi fantasy, Idan Knochen, affiancato da noti nomi della galassia della disinformazione: il professor Richard Landes della Boston University, teorico di Pallywood, e l’ex generale israeliano Yossi Kuperwasser, già direttore generale del Ministero degli Affari Strategici. Il gruppo agisce con un metodo rozzo ma efficace: analizza video da Gaza, li decontestualizza, isola dettagli irrilevanti e grida alla messinscena.

Secondo l’organizzazione investigativa Fake Reporter, su oltre 730 post pubblicati da Gazawood tra dicembre 2023 e agosto 2024, solo il 5,75% è stato ritenuto fondato. Il resto è ciarpame propagandistico, condito da ironie di dubbio gusto su morti, feriti e bambini straziati.

La costruzione del falso: errori, omissioni e distorsioni

Le menzogne di Gazawood e Libero sul caso Bayan Abu Sultan non solo non reggono a una verifica approfondita, ma sono facilmente smontabili con un’analisi accurata:

  • Geolocalizzazione: le foto della donna sono state scattate all’interno del café Al-Baqa colpito dai raid israeliani. Lo confermano fonti visive incrociate tra Google Maps, Getty Images e NurPhoto.
  • Tempistica: il video in cui l’attivista palestinese è accusata di “truccarsi” è stato pubblicato su Instagram da Fadi Turban (@fadi_turban) dopo l’attacco. Lo dimostrano i cerotti visibili nel video, assenti nelle foto precedenti. Un altro video, pubblicato dall’account Instagram di Majd Abo Alouf (@moamen_abualouf), riprende la scena da un’altra angolazione, mostrando Bayan con i vestiti sporchi di sangue. Un’ulteriore clip, pubblicata su Instagram da Hassan Salem (@hassan.salem.gaza), mostra la donna che, davanti a uno specchio, tenta di rimuovere il sangue dal volto. Questa scena precede quella usata per accusarla di prepararsi alla messinscena.
  • Video paralleli: due clip da angolazioni diverse mostrano Bayan con gli stessi vestiti sporchi. In una, la bassa risoluzione riduce la visibilità delle macchie, ma non le cancella.
  • Sangue: la differenza di tonalità è compatibile con il naturale processo di ossidazione del sangue (non con presunto sangue finto). Il sangue fresco appare rosso acceso, quello secco tende al marrone.
  • Contesto: a confermare la presenza della donna sul posto, con i vestiti insanguinati, è un video pubblicato su Telegram dal canale @hamza20300. Chi avrebbe mai potuto prevedere un attacco a un café e organizzare in pochi minuti una messinscena con truccatori e costumisti in una città sotto assedio?

Le accuse rivolte all’attivista palestinese Bayan Abu Sultan sono totalmente prive di fondamento. Il video utilizzato per sostenere la teoria del complotto non è la ripresa di un “backstage”, e le immagini registrate poco dopo l’attacco israeliano confermano la presenza della donna sul luogo della strage, le ferite sul braccio e le macchie di sangue sugli abiti.Nel vortice dell’informazione bellica, la realtà viene spesso inghiottita da costruzioni mediatiche tossiche. Come ricordava Hannah Arendt, mentire continuamente non ha lo scopo di far credere alle persone una bugia, ma di garantire che nessuno creda più in nulla. E, in questo caso specifico, che si dubiti persino delle atrocità compiute dall’esercito israeliano a Gaza.

Leonardo e Ferrovie nell’accordo UE per la mobilità militare

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Leonardo S.p.A. e Rete Ferroviaria Italiana sono entrate a far parte di Military Mobility, progetto volto a sviluppare le «capacità infrastrutturali e digitali esistenti, per assicurare la movimentazione di risorse militari, all’interno e all’esterno dell’Europa». La notizia è stata diffusa da PeaceLink, associazione pacifista, che sottolinea come i due gruppi hanno il ruolo di «identificare l’architettura e le funzionalità della piattaforma digitale integrata di gestione della circolazione» militare, che dovrebbe favorire la mobilità attraverso infrastrutture a doppio uso civile e militare. Leonardo metterà a disposizione le proprie tecnologie di intelligenza artificiale per censire e monitorare tali infrastrutture e per sviluppare modelli di ottimizzazione.

Gaza: dietro gli aiuti di Israele e USA ci sarebbe un piano per sfollare i palestinesi

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Il ruolo della Gaza Humanitarian Foundation nella Striscia di Gaza sembra sempre più legato al piano di deportazione dei palestinesi proposto da Trump. Secondo rivelazioni di media e testate internazionali, GHF avrebbe ideato un piano per creare delle “Aree di Transito Umanitario” fuori e dentro la Striscia, in cui trasferire in massa i palestinesi; in questi luoghi, la popolazione verrebbe incentivata tramite sussidi a «spostarsi volontariamente» al di fuori di Gaza, in un’operazione che potrebbe coinvolgere circa un quarto della popolazione. Con la popolazione confinata, il resto della Striscia si trasformerebbe in un cantiere aperto per la costruzione della “Riviera del Medio Oriente”. Tale piano sembra coerente con una recente operazione lanciata da Israele, volta a creare una maxi-area umanitaria a Rafah dove spingere circa 600mila palestinesi; esso, inoltre, rispecchia i dettagli rilasciati dalla stampa israeliana sull’operazione militare “Carri di Gedeone”, iniziata circa due mesi fa.

Il presunto coinvolgimento di GHF nel piano di deportazione di Trump è suggerito da diverse rivelazioni e inchieste giornalistiche uscite su media e testate internazionali nelle ultime settimane. Una delle più rilevanti è un’inchiesta del Financial Times che indaga sul presunto ruolo del Boston Consulting Group, una società di consulenza statunitense, nella costituzione di GHF. Ad aprile, i sostenitori israeliani dell’iniziativa GHF avrebbero chiesto al gruppo di consulenza di elaborare un modello finanziario che valutasse gli eventuali costi di uno scenario in cui ampie fasce della popolazione palestinese fossero trasferite fuori da Gaza. Secondo lo scenario modellato, per il «trasferimento volontario», ai cittadini di Gaza verrebbe offerto un pacchetto comprensivo di 5.000 dollari, un affitto agevolato per quattro anni e un anno di cibo sussidiato, in cambio dell’abbandono della Striscia. Per ogni palestinese che uscirebbe dalla Striscia, verrebbero risparmiati circa 23.000 dollari. BCG ha negato il proprio coinvolgimento, sostenendo che tale progetto sarebbe stato portato avanti da due collaboratori a sua insaputa.

Il modello richiesto a BCG per comprendere i costi della deportazione dei palestinesi procederebbe in parallelo a un altro dei presunti progetti di GHF. Secondo una rivelazione dell’agenzia di stampa Reuters, lo scorso febbraio GHF e la società di sicurezza che la affianca avrebbero proposto un piano dal valore di 2 miliardi di dollari per costruire otto campi su larga scala chiamati “Aree di Transito Umanitario”, all’interno e all’esterno di Gaza. In queste aree, la popolazione potrebbe «risiedere temporaneamente, deradicalizzarsi, reintegrarsi e prepararsi al trasferimento, se lo desidera»; esse servirebbero a «guadagnare la fiducia della popolazione locale» e a spianare la strada alla «visione per Gaza» di Trump, mentre intanto la Striscia verrebbe «smilitarizzata» e «ricostruita». La GHF «supervisionerebbe e regolerebbe tutte le attività civili necessarie per la costruzione, la deradicalizzazione e il trasferimento volontario temporaneo», si leggerebbe nella proposta. Il documento mostrerebbe inoltre delle frecce indicanti l’Egitto e Cipro come possibili mete dei palestinesi o sedi delle Aree di Transito.

Tanto il piano di deportazione, quanto la costruzione di maxi-aree umanitarie sono due dei perni centrali su cui ruota l’operazione Carri di Gedeone, inaugurata da Israele lo scorso maggio. Come anticipato da L’Indipendente qualche giorno prima del suo lancio, il piano vedeva nella centralizzazione degli aiuti umanitari nelle mani di Israele uno dei suoi aspetti fondamentali. Esso prevedeva inoltre una fase iniziale di invasione della Striscia che sarebbe andata via via intensificandosi, fino a spingere a sud l’intera popolazione gazawi. Proprio a sud, Israele vuole creare la maxi-area umanitaria di Rafah. In un primo momento, questa ospiterebbe 600mila palestinesi, che corrispondono proprio a poco meno di un quarto della popolazione al 7 ottobre: lo stesso numero di persone che, secondo le stime per GHF, «lascerebbero volontariamente» la Striscia. L’operazione è stata annunciata dal ministro della Difesa israeliano Israel Katz ai media del Paese e prevedrebbe di spingere gradualmente l’intera popolazione gazawi a Rafah. Katz ha anche sottolineato la sua ambizione di incoraggiare i palestinesi a «emigrare volontariamente» dalla Striscia di Gaza verso altri Paesi, affermando che tale aspirazione «dovrebbe venire realizzata». Come sottolineano i media israeliani, dopotutto, l’area di Rafah suona simile alle Aree di Transito Umanitario di cui parla Reuters.

Questo quadro non è coerente solo con Carri di Gedeone, ma con la stessa proposta di Trump di trasformare Gaza nella nuova Riviera del Medio Oriente. Tanto il documento visionato da Reuters, quanto il presunto piano finanziario di BCG parlerebbero infatti della fase di ricostruzione di Gaza, che verrebbe portata avanti in parallelo alla deportazione. Sulla base del piano di BCG, infatti, un gruppo di imprenditori israeliani avrebbe elaborato un progetto, con il sostegno del Tony Blair Institute, di cui fa parte anche Matteo Renzi, per trasformare Gaza in un polo commerciale. Il progetto prevedrebbe la costruzione di isole artificiali al largo della costa, simili a quelle di Dubai, un porto in acque profonde per collegare Gaza al corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, e l’istituzione di zone economiche speciali a bassa tassazione. Tra i maxi-progetti, la costruzione di autostrade, della “Riviera Trump” e della “Elon Musk Smart Manufacturing Zone”, dove costruire auto elettriche statunitensi destinate all’esportazione in Europa.

Rapporto UE: in Italia pochi progressi su lobbismo, limiti alla stampa e tutela dei diritti

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Rispetto ai problemi rilevati l’anno passato, l’Italia ha fatto passi «limitati, ridotti o nulli» in materia di diritto. A dirlo è il sesto rapporto sullo stato di diritto della Commissione UE, che sottolinea come, nonostante le raccomandazioni rilasciate nel 2024, l’Italia continui ad avere problemi con le norme relative alle attività di lobbying e al conflitto di interessi. Procede male anche la tutela dei giornalisti, su cui, secondo la Commissione, il governo ha posto limiti eccessivi nell’ambito del «progetto di riforma in materia di diffamazione e tutela del segreto professionale». Con l’approvazione del decreto Sicurezza, inoltre, tanto la società civile quanto organismi europei e l’ONU stessa hanno espresso preoccupazioni in merito al rischio di lesione dei diritti fondamentali, ma il governo ha fatto cadere ogni critica nel vuoto.

Nel rapporto si indica come, a fronte di «alcuni progressi» compiuti nell’ambito legislativo in materia di conflitti di interessi, quelli sull’adozione di «norme complessive sul lobbying per l’istituzione di un registro operativo delle attività dei rappresentanti di interessi» sono stati limitati. Nonostante le audizioni sui disegni di legge esistenti, avvenute nel 2024, l’iter legislativo non risulta ad oggi avanzato, mentre sono state «sollevate preoccupazioni circa le misure in materia di lobbying applicabili ai funzionari di alto livello». Al contempo, non è stato compiuto alcun progresso in materia di finanziamento dei partiti politici e campagne elettorali attraverso associazioni e fondazioni politiche («ostacolo per la responsabilità pubblica», oltre che a rischio di «comportare l’esercizio di un’influenza sproporzionata sul programma politico da parte dei donatori privati»), in quanto i disegni di leggi sono ancora fermi in Parlamento e non sono ancora stati discussi.

Nonostante, secondo la Commissione, «alcuni progressi» siano stati compiuti in materia di adeguato finanziamento dei media del servizio pubblico, al fine di «garantirne l’indipendenza», l’Italia non ha fatto passi avanti nell’ambito delle riforme volte a proteggere i giornalisti e il libero esercizio della professione, in particolare per quanto riguarda «il progetto di riforma sulla diffamazione e sulla protezione del segreto professionale e delle fonti giornalistiche». Nel mirino del rapporto vi sono due provvedimenti in particolare, «l’emendamento Costa» (che vieta ai giornalisti di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare fino al termine dell’udienza preliminare) e la cosiddetta «riforma Nordio» (che limita di molto la pubblicazione delle intercettazioni). In aggiunta, la Commissione segnala come, a seguito della «riforma Cartabia» (che autorizzava solamente le Procure a fornire alla stampa informazioni sui procedimenti penali), in alcuni casi le Procure non abbiano avvisato gli organi di stampa di fatti «di potenziale interesse pubblico». Nonostante, inoltre, esistano norme volte a tutelare i giornalisti, il rapporto segnala come i casi di minacce e intimidazione continuino comunque a destare preoccupazione tra chi esercita il mestiere – anche alla luce di quanto accaduto recentemente nell’ambito del caso Paragon.

La Commissione segnala anche come l’Italia non abbia fatto alcun progresso nell’istituzione di un organo di controllo del rispetto dei diritti umani, secondo quanto previsto dalle Nazioni Unite. I progetti di legge esistenti in merito (ben cinque) sono fermi in Parlamento. Anche il decreto Sicurezza attira l’attenzione dell’UE, in quanto più fonti hanno segnalato come questo potrebbe avere ripercussioni «sullo spazio civico e sull’esercizio delle libertà fondamentali». Il rapporto sottolinea come a esprimere preoccupazioni siano stati anche il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa e sei relatori ONU, oltre a innumerevoli organizzazioni e associazioni della società civile. Il governo, sottolinea la Commissione, non sembra tuttavia intenzionato ad ascoltare alcuna critica in merito.

“Stop Killing Games”: la battaglia per il diritto alla proprietà digitale

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Con la diffusione del digitale, il concetto di possesso del software è diventato sempre più sfumato. Senza grandi fanfare, si è passati dal comprare un prodotto all’acquistare una semplice licenza d’uso, la quale consente spesso al distributore di ritirare il servizio a propria discrezione. Anche il settore videoludico è ovviamente soggetto a questa dinamica, una prospettiva che ha scontentato molti giocatori, spingendoli a lanciare la petizione Stop Killing Games, “smettetela di uccidere i videogiochi”. La raccolta firme ha superato la soglia minima per essere riconosciuta come Iniziativa dei Cittadini Europei (ECI), obbligando di fatto l’Unione Europea a prendere in considerazione l’adozione di leggi a tutela degli acquisti digitali dei propri cittadini.

La petizione è stata lanciata dal creatore di contenuti Ross Scott in risposta al fatto che sempre più videogiochi richiedono una connessione online anche quando non strettamente necessario, con la certezza che, prima o poi, i server che li supportano verranno spenti, rendendo inaccessibili e inutilizzabili i titoli originali. Nonostante questi giochi vengano venduti a prezzo pieno, le aziende che li distribuiscono non hanno alcun obbligo di mantenerne l’operatività. Neppure quando i giochi vengono distribuiti sotto forma di copie fisiche. Un disimpegno digitale che costringe i consumatori ad accettare licenze sempre più restrittive e policy poco trasparenti, nonché a tollerare l’obbligo di essere costantemente connessi alla Rete per poter usufruire del prodotto.

Questo modello commerciale unisce gli svantaggi della vendita tradizionale — il costo — a quelli dei servizi in streaming — la subordinazione dell’utente a un’infrastruttura online — incarnando un paradigma economico che si allontana sempre più dall’idea di titolarità del consumatore, in favore di un ecosistema fatto di abbonamenti e servizi on-demand. Un universo in cui tutto è in affitto: dai programmi per computer alle automobili in leasing. In questo senso, Scott identifica i videogiochi come terreno di sperimentazione occulta, dove le aziende testano i limiti di tolleranza di legislatori e associazioni dei consumatori, sviluppando modelli che rischiano poi di estendersi ad altri settori.

Per chiedere un cambiamento, il movimento Stop Killing Games ha fatto ricorso al meccanismo legale dell’ECI, che consente ai cittadini dell’UE di proporre nuove leggi ai rappresentanti a Bruxelles. Leggi che, in questo caso, sono state formulate nella prospettiva di trovare un compromesso tutt’altro che estremista: l’obiettivo di Scott non è imporre agli editori di mantenere per sempre attive le infrastrutture online, bensì obbligarli a fornire soluzioni che rendano “ragionevolmente giocabili” quei titoli nati per funzionare online, anche in forma ridotta.

La petizione ha già raggiunto il numero minimo di firme necessario per essere considerata valida, tuttavia il suo promotore invita i sostenitori a continuare a firmare, in modo che un numero più ampio di adesioni possa compensare eventuali firme invalide raccolte nel frattempo. Trattandosi di un’iniziativa formale, infatti, l’autenticità dei firmatari sarà verificata dalle istituzioni, al pari di un qualsiasi referendum. Nel frattempo, la lobby europea del videogioco, Video Games Europe, ha già fatto sapere in una lettera aperta di non essere affatto favorevole all’iniziativa.

Secondo le aziende coinvolte, l’introduzione di queste nuove tutele per i consumatori avrebbe “un effetto raggelante sullo sviluppo dei videogame”, “aumentando i costi di produzione” al punto da rappresentare “un disincentivo a rendere disponibili i giochi in Europa”. È una minaccia già sentita: le lobby e le grandi aziende tecnologiche l’hanno spesso impiegata quando le normative europee hanno messo in discussione i loro modelli di business. Tuttavia, finora, si è rivelata per lo più vuota e poco credibile. Quando si è trovata a contrastare le pressioni delle Big Tech, l’Unione Europea è riuscita occasionalmente a raggiungere traguardi che hanno avuto ricadute positive su scala globale: dal consolidamento degli standard dei cavi di ricarica al diritto alla riparazione, alcune normative UE sono riuscite a fissare limiti chiari a pratiche commerciali discutibili. Stop Killing Games potrebbe raccogliere questa eredità, tracciando un percorso verso un mercato digitale che, sotto molti aspetti, naviga ancora a vista.

Trump dà del bugiardo a Putin e annuncia l’invio di missili Patriot all’Ucraina

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si è reso protagonista dell’ennesimo cambio di rotta sulla questione ucraina. In una riunione di gabinetto aperta ai giornalisti, Trump ha mostrato la propria frustrazione nei confronti di Putin e delle sue dichiarazioni: «Se volete sapere la verità, Putin ci lancia addosso un sacco di scemenze. È sempre molto gentile, ma alla fine quello che dice è privo di significato». I toni di Trump nei confronti di Putin sono tornati a essere più critici a partire dalla loro ultima telefonata, che sembra abbia lasciato Trump insoddisfatto. Da quel momento, il presidente si è avvicinato sempre più a Kiev, che ha annunciato di volere supportare inviando più armi, andando contro una sua stessa decisione presa qualche giorno fa. L’annuncio è stato accolto con piacere dall’Ucraina, che tuttavia ha detto di non aver ricevuto notifica del cambio di posizione di Trump.

La riunione di gabinetto degli Stati Uniti si è tenuta ieri, martedì 8 luglio. Trump ha criticato Putin, sostenendo che con le sue decisioni il presidente russo «sta uccidendo un sacco di persone». L’ennesimo cambio di opinione sulla questione ucraina era stato in qualche modo preannunciato venerdì 5 luglio, quando Trump e Putin si erano sentiti al telefono in una conversazione che si era risolta in un nulla di fatto. Il presidente russo aveva infatti detto che la Russia non avrebbe abbandonato i propri obiettivi, mentre Trump aveva mostrato la propria insoddisfazione nei confronti della chiamata e negato di avere sospeso l’invio di armi a Kiev, informazione trapelata all’inizio della scorsa settimana. Lunedì il cambio di toni più netto: in occasione di un incontro con il premier israeliano Netanyahu, in visita a Washington, Trump ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero inviato altri missili all’Ucraina per permetterle di difendersi. Tale decisione è stata rimarcata anche ieri, dopo un attacco russo che avrebbe colpito l’Ucraina, interessando anche la capitale Kiev. Trump, inoltre, ha detto di stare considerando l’imposizione di ulteriori sanzioni contro la Russia.

Nel rilasciare le proprie dichiarazioni, Trump non ha specificato quanti missili spedirà all’Ucraina, né quando questi dovrebbero arrivare. Il ministero della Difesa ucraino ha accolto favorevolmente le parole di Trump, ma ha affermato di non aver ricevuto notifica ufficiale del cambio di politica del presidente statunitese. Secondo il sito di informazione Axios, Trump avrebbe deciso di inviare immediatamente dieci missili Patriot all’Ucraina; Trump avrebbe anche affermato di voler contribuire nella ricerca di ulteriori canali di rifornimento. I dieci missili Patriot che Trump avrebbe deciso di spedire a Kiev farebbero parte della spedizione della scorsa settimana che era stata bloccata al confine tra Polonia e Ucraina. Tale carico, comprendente un totale di trenta missili Patriot, sarebbe stato bloccato a causa del timore statunitense di aver esaurito le proprie scorte balistiche. A oggi, si ritiene che l’Ucraina disponga di otto batterie Patriot, dal valore di oltre 1 miliardo di dollari ciascuna, dalle quali sparare i missili intercettori.

Taiwan: via a una maxi-esercitazione militare

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Taiwan ha lanciato l’esercitazione militare annuale Han Kuang, per verificare come l’esercito possa decentralizzare il comando in caso di un attacco alle comunicazioni. L’esercitazione durerà 10 giorni e coinvolgerà circa 22.000 riservisti, il maggior numero di sempre. Nell’addestramento verranno impiegati per la prima volta i nuovi sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità HIMARS, prodotti da Lockheed Martin, e verranno condotti attacchi simulati ai sistemi di combattimento e alle infrastrutture dell’isola.

Negli ultimi 25 anni si è quasi dimezzato il lavoro minorile nel mondo

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Negli ultimi 25 anni, la lotta contro il lavoro minorile ha fatto importanti passi avanti. Grazie a sforzi internazionali e a politiche mirate, oggi nel mondo ci sono circa 100 milioni di bambini in meno obbligati a lavorare rispetto al 2000, nonostante l'aumento della popolazione infantile. Se nel 2000 erano circa 246 milioni i bambini impegnati nel lavoro minorile, oggi la cifra è scesa a 138 milioni. Tra i fattori che hanno contribuito al miglioramento ci sono politiche per l'istruzione gratuita e di qualità, l'espansione dei sistemi educativi, l'introduzione di misure di protezione sociale...

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Stellantis ha perso un terzo della produzione di auto in Italia in sei mesi

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Nei primi sei mesi del 2025, Stellantis ha prodotto un totale di 123.905 vetture, pari al 33,6% in meno rispetto allo stesso periodo del 2024. Se si contano anche i furgoni usciti dal polo di Atessa, il calo della produzione risulta invece pari al 26,9%. A dare l’allarme è il sindacato Fim-Cisl, in una analisi in cui stima che entro fine anno l’azienda dovrebbe produrre circa 440.000 vetture; una cifra ben lontana dal record di due milioni segnato nel 1989, ma anche dalla capacità produttiva degli stabilimenti che sarebbero capaci di produrre circa 1,5 milioni di automobili l’anno. Il colosso delle automobili Stellantis è in crisi da tempo; l’anno scorso, l’azienda minacciava il licenziamento di centinaia di operatori, in un tentativo fatto saltare dalle lotte dei lavoratori. Quest’anno, invece, ha già annunciato un taglio di 610 lavoratori nello stabilimento di Mirafiori.

Secondo quando si legge nel rapporto Fim-Cisl, nel primo semestre del 2025, tutti gli stabilimenti Stellantis sono in negativo in termini di produzione. Il sindacato sostiene di non vedere nulla che suggerisca una ripresa entro fine anno, e che, «anzi, il calo dei volumi e l’uso degli ammortizzatori sociali potrebbero aumentare», finendo per coinvolgere circa la metà della forza lavoro del gruppo. Lo stabilimento che risulta più in crisi è quello di Modena, dove nel primo semestre del 2025 sono state prodotte «solo 45 unità, con una flessione del 71,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente». I giorni effettivi di produzione sono stati circa 11. Segue lo stabilimento di Melfi, che ha registrato un crollo produttivo del 59,4% con 19.070 unità prodotte. In calo anche lo stabilimento di Pomigliano, il più produttivo in assoluto e l’unico che l’anno scorso si era salvato dalla produttività negativa; in questi primi sei mesi di 2025, Pomigliano ha visto un calo del 24% nella produzione. L’auto maggiormente prodotta è la Fiat Panda, che da sola rappresenta il 54% della produzione di auto in Italia, ma, nel primo semestre del 2025, anch’essa ha subito una flessione, pari al 15%.

Davanti a questo scenario, l’azienda mantiene validi i propri obblighi presi in sede istituzionale, ma il sindacato riporta che «dovranno essere verificati puntualmente con i nuovi vertici»; gli impegni prevedrebbero 2 miliardi di investimenti negli stabilimenti italiani e 6 miliardi di acquisti da fornitori nazionali, per raggiungere la soglia di produzione di 1 milione di vetture entro il 2030. Dopo l’uscita di Taveres di fine 2024, l’azienda ha avanzato un nuovo piano di investimenti, che prevede la costruzione di nuove gamme di automobili e veicoli commerciali in diversi stabilimenti. Nonostante ciò, riporta il sindacato, «continuano a mancare ancora risposte importanti su Termoli dopo lo stop alla Gigafactory e sul rilancio di Maserati». In generale, Fim-Cisl sostiene che davanti alla crisi perpetua in cui versa il settore, aggravata dall’introduzione di dazi specifici da parte dell’amministrazione statunitense, il governo italiano e l’UE dovrebbero muoversi in suo aiuto elaborando piani appositi e istituendo fondi comuni.

Il crollo della produzione italiana e l’assenza di un piano industriale in grado di rilanciarla pesano sulle spalle degli operai Stellantis, ma non su azionisti e dirigenti, che in tempo di crisi non rinunciano agli utili, sottraendoli ad esempio alla Ricerca e Sviluppo. A giugno, il gruppo ha infatti avviato una nuova procedura di licenziamento collettivo, con l’obiettivo di allontanare 610 operai tramite incentivo all’esodo; nel frattempo, a maggio, ha approvato la distribuzione dei dividendi fissandolo a 0,68 euro per azione ordinaria, corrispondente a un rendimento del 5%.