mercoledì 2 Aprile 2025
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Israele revoca l’accordo con l’ONU che dal 1967 protegge i rifugiati palestinesi

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Nella serata di domenica 3 novembre il ministero degli Esteri israeliano ha notificato alle Nazioni Unite la cancellazione unilaterale dell’accordo tra Israele e l’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Palestinesi), firmato nel 1967. L’accordo tra le parti è stato uno degli elementi principali che ha permesso le attività dell’UNRWA in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza negli ultimi 57 anni. La scorsa settimana, la Knesset ( il Parlamento israeliano) ha approvato una legge che sospende tutti i legami del Paese con l’Agenzia.

«A seguito della legislazione sull’UNRWA, lo Stato di Israele ha notificato ufficialmente al Presidente dell’Assemblea Generale la cessazione della cooperazione con l’Agenzia. Nonostante le prove schiaccianti che abbiamo presentato all’ONU che confermano l’infiltrazione di Hamas nell’UNRWA, l’ONU non ha fatto nulla per rettificare la situazione. Lo Stato di Israele continuerà a cooperare con le organizzazioni umanitarie, ma non con le organizzazioni che promuovono il terrorismo contro di noi» ha dichiarato Danny Danon, ambasciatore di Israele all’ONU. La scorsa settimana, la Knesset aveva approvato una legge che sospende tutte le attività dell’UNRWA nel Paese. Il provvedimento, approvato in seconda e terza lettura, ha vietato all’Agenzia di svolgere missioni o qualunque altro tipo di attività, «dirette o indirette», all’interno del territorio di Israele. Il Commissario Generale dell’UNRWA, Philippe Lazzarini, aveva definito il provvedimento «l’ultimo episodio della campagna in corso per screditare l’UNRWA e delegittimare il suo ruolo». Israele, già da diversi mesi, aveva infatti lanciato pesanti accuse nei confronti dell’Agenzia (rivelatesi prive di qualsiasi fondamento), quali l’aver arruolato tra le sue fila «terroristi» direttamente implicati negli attacchi del 7 ottobre e di favorire le operazioni di Hamas.

Il direttore generale del ministero degli Esteri, Jacob Blitshtein, ha inviato una lettera al Presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il camerunense Philemon Yang, informandolo che «Israele continuerà a lavorare con i partner internazionali, comprese altre agenzie delle Nazioni Unite, per garantire la facilitazione degli aiuti umanitari ai civili di Gaza in maniera tale che ciò non comprometta la sicurezza del Paese. Israele si aspetta che le Nazioni Unite contribuiscano e cooperino in questo sforzo». Mentre Tel Aviv ha lavorato incessantemente per limitare il ruolo dell’UNRWA nella fornitura di quei pochi aiuti umanitari che ha lasciato entrare nel territorio di guerra, favorendo il Programma Alimentare Mondiale, l’UNICEF e altre agenzie ONU, l’UNRWA è ancora fortemente coinvolta nelle operazioni umanitarie della Striscia, gestendo rifugi, cliniche e magazzini. Nonostante le promesse e le assicurazioni del primo ministro Benjamin Netanyahu e del ministero degli Esteri israeliano sul fatto che il flusso di aiuti non verrà interrotto, gli stessi rappresentanti dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e dell’UNICEF hanno dichiarato che non sarebbero in grado di colmare il vuoto lasciato dall’UNRWA. L’Agenzia fornisce a quasi 2 milioni di palestinesi servizi umanitari e di sviluppo umano, che comprendono l’istruzione primaria e professionale, l’assistenza sanitaria di base, i servizi sociali e di soccorso, il miglioramento delle infrastrutture e dei campi, la microfinanza e la risposta alle emergenze, anche in situazioni di conflitto armato.

Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Occupati Palestinesi, nel presentare il suo nuovo rapporto sul genocidio israeliano a Gaza ha dichiarato che «È arrivato il momento di fare un passo esemplare», invitando l’ONU a prendere in considerazione la sospensione di Israele dall’Organizzazione, in quanto Stato membro che «viola persistentemente» le prescrizioni dell’organismo internazionale.

[di Michele Manfrin]

Diciottenne morta dopo il vaccino Covid: la Procura chiede il processo per 5 medici

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La Procura di Genova ha ufficialmente chiesto il rinvio a giudizio per cinque medici in relazione al decesso di Camilla Canepa, la ragazza diciottenne che, nel giugno 2021, morì a causa di una trombosi in seguito alla somministrazione del vaccino AstraZeneca. Quattro di loro risultano imputati per omicidio colposo in ambito sanitario e falso, mentre il quinto solo di falso. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, i medici avrebbero infatti agito con negligenza e imprudenza, omettendo esami essenziali per diagnosticare la patologia che ha causato il decesso della studentessa. L’episodio ha suscitato un ampio dibattito sulla gestione della campagna vaccinale, nonché numerose domande sul monitoraggio degli effetti avversi da vaccino e sui criteri di selezione dei pazienti per vaccini a vettore virale.

La giovane Camila Canepa è deceduta il 10 giugno 2021, alcuni giorni dopo aver ricevuto una dose di vaccino anti-Covid AstraZeneca nell’ambito di un open day vaccinale. Secondo i pm Stefano Puppo e Francesca Rombolà, i medici ora imputati – all’epoca in servizio al pronto soccorso di Lavagna – avrebbero omesso di effettuare accertamenti ritenuti fondamentali per salvare la vita alla giovane. Pur in presenza di sintomi riconducibili alla trombocitopenia trombotica indotta da vaccino (VITT), come un persistente mal di testa e la recente somministrazione di AstraZeneca, non sono stati infatti eseguiti esami specifici, quali il D-Dimero e i test per gli anticorpi anti-eparina. Oltre all’omicidio colposo, ai camici bianchi è contestato il falso in atto pubblico per non aver attestato, all’interno della cartella clinica, che la ragazza era stata inoculata. Nelle 74 pagine di relazione consegnate alla Procura di Genova alcuni mesi dopo la morte di Camilla Canepa, i periti avevano scritto che il decesso era «ragionevolmente da riferirsi a effetti avversi della vaccinazione», accertando che la ragazza non aveva patologie pregresse e non aveva assunto farmaci che potessero interferire con il vaccino. I medici imputati potranno ora presentare ricordi difensivi, richiedendo ulteriori accertamenti entro il termine previsto. L’udienza preliminare di fronte alla giudice Carla Pastorini è stata fissata per il prossimo 16 gennaio.

Nel frattempo, lo scorso maggio, l’azienda anglo-svedese AstraZeneca ha ufficialmente ritirato dal mercato il suo vaccino anti-Covid in tutto il mondo, dopo averlo ritirato dal mercato europeo già a marzo. La decisione è arrivata dopo che il colosso farmaceutico ha ammesso per la prima volta in documenti giudiziari, nella cornice di una causa collettiva andata in scena nel Regno Unito, che il farmaco può causare effetti collaterali rari e pericolosi, fatto che la stessa azienda aveva negato fino a poco tempo prima. In particolare, l’azienda ha ammesso che «il vaccino in casi molto rari può causare Tts», ossia sindrome da trombosi con trombocitopenia, caratterizzata da coaguli di sangue e bassi livelli ematici di piastrine. Tuttavia, il motivo ufficiale con cui la società ha giustificato il ritiro del farmaco dal mercato è che esso non sarebbe più aggiornato: «Nel frattempo sono stati sviluppati altri vaccini contro le nuove varianti e dunque c’è un surplus di prodotti. Ciò ha provocato un declino della richiesta per Vaxzevria, che in questo momento non è più prodotto o distribuito. Dunque, AstraZeneca ha deciso di ritirarlo, a iniziare dal mercato europeo», ha dichiarato l’azienda.

[di Stefano Baudino]

Los Angeles, è morto lo storico produttore e musicista Quincy Jones

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È morto, all’età di 91 anni, il grande produttore discografico e musicista statunitense Quincy Jones. Lo ha comunicato la sua famiglia, rendendo noto che il gigante della musica si è spento ieri notte a Los Angeles. Noto per aver lavorato ai dischi più famosi di Michael Jackson, per aver arrangiato numerose colonne sonore di successo e per le collaborazioni con Frank Sinatra e Count Basie, Quincy Jones ha diretto le storiche sessioni di registrazione per il brano di beneficenza del 1985 “We are the World”, il singolo di maggior successo di tutti i tempi. È stato candidato ai Grammy 80 volte, ottenendo 28 vittorie.

Medio Oriente: l’Iran promette vendetta contro Israele, gli USA mandano i rinforzi

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A poco più di una settimana dall’attacco israeliano contro l’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha rotto gli indugi e annunciato che arriverà una «risposta sconvolgente» contro i propri nemici, incarnati dallo stesso Stato ebraico e dagli USA. «Si tratta di affrontare la crudeltà internazionale», ha detto Khamenei; «per la nazione iraniana, ispirata agli insegnamenti dell’Islam, affrontare la crudeltà è un dovere religioso». Dopo giorni di reciproche provocazioni, quella che sembrava essere la solita schermaglia verbale ha così ripreso fuoco, con un annuncio che pare volere lasciare poco spazio all’interpretazione. Ieri si è accodato alle dichiarazioni di Khamenei anche il neo-eletto Premier Pezeshkian, lanciando un ultimatum allo Stato ebraico: o si arriva a un cessate il fuoco, o arriverà una risposta. La palla torna dunque nelle mani iraniane, mentre intanto gli Stati Uniti non sembrano intenzionati a mollare la presa: in occasione del rientro in patria della portaerei Lincoln, Washington ha organizzato in tempi record l’invio di ulteriori truppe e aerei da combattimento nella regione, per aumentare la propria potenza di fuoco.

La situazione in Medio Oriente sembra essere sempre più appesa a un filo. In seguito agli attacchi israeliani di sabato 26 ottobre, l’Iran pareva intenzionato a lasciare correre e a tornare al punto di partenza: tanta tensione, ciclici battibecchi, e nebbiose minacce di ritorsione. Le ultime dichiarazioni di Khamenei paiono però volere suggerire allo Stato ebraico di tenersi pronto. Gli annunci sono arrivati sabato 2 novembre, durante una visita ricevuta da un gruppo di studenti di Teheran in occasione dell’avvicinarsi dell’anniversario della presa dell’ambasciata statunitense nel 1979. Questa giornata ha un valore storico e fortemente simbolico in Iran, tanto da essere stata designata come “Giornata nazionale contro l’arroganza globale”. Ormai quasi 45 anni fa, gli studenti iraniani sono entrati all’interno dell’edificio dell’ambasciata di Washington nel Paese perché sospettata di essere un centro di spionaggio contro la neonata rivoluzione islamica filo-khomeinista, e ne hanno preso il controllo. Il tredicesimo giorno del mese di Aban del calendario della Repubblica Islamica (il nostro 4 novembre) si tengono marce in tutto l’Iran per commemorare l’evento.

Le dure parole di Khamenei arrivano dunque in una giornata dal forte valore simbolico per il Paese, ed è difficile stabilire se costituiscano una reale minaccia. Esse, tuttavia, sono in linea con quanto affermato da Pezeshkian, che ha detto che la natura e l’intensità di un eventuale attacco iraniano potrebbero cambiare solo se Israele fermerà la sua aggressione nella regione e accetterà un cessate il fuoco. Questa escalation verbale segue le precedenti dichiarazioni della Repubblica Islamica, rilasciate in occasione dell’attacco lanciato su Israele martedì 1 ottobre. Le Guardie della Rivoluzione Iraniana lo avevano definito una risposta all’uccisione del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, aggiungendo che se Israele avesse mai reagito ci sarebbe stata un’ulteriore risposta «ancora più schiacciante e rovinosa».

Di fronte alle continue minacce di ritorsione, gli Stati Uniti non sembrano volere lasciare nulla al caso: giusto qualche giorno fa, Washington ha infatti annunciato un riassetto delle proprie forze in Medio Oriente, coincidente con il rientro in patria della portaerei Lincoln. Al suo posto saranno dispiegati aerei da guerra B-52, jet da combattimento, aerei da rifornimento, e cacciatorpedinieri. Sebbene il Maggior Generale Patrick “Pat” Ryder, il segretario stampa del Pentagono, avesse annunciato che le nuove forze sarebbero «iniziate ad arrivare nei prossimi mesi», i cacciabombardieri B-52, i principali responsabili del sempre più prossimo aumento della potenza di fuoco statunitense nella regione, sono arrivati poco prima la mezzanotte di ieri, domenica 4 ottobre. Gli USA sembrano così lanciare il loro solito monito all’Iran, lasciando intendere che, se dovesse succedere qualcosa, si farebbero trovare pronti.

L’annuncio di Khamenei è caratterizzato da quella consueta dose di estrema vaghezza nel fornire specifiche riguardo ai possibili attacchi. Malgrado nell’ultima settimana la situazione sembrasse tranquilla, non si sono fermate le speculazioni sulla possibile risposta iraniana agli attacchi di fine ottobre. Secondo quanto riporta il sito di informazione Axios, l’intelligence israeliana sospetterebbe che l’Iran stia preparando una offensiva da lanciare contro Israele a partire da una delle sue “proxy” in territorio iracheno. Mercoledì 30 ottobre, CNN scriveva che entro il 5 novembre sarebbe potuto arrivare un attacco iraniano sullo Stato ebraico; la data limite fissata dalle fonti indiscrete di CNN non è casuale, poiché coincide con le elezioni statunitensi. Molti analisti ritengono infatti che, dal punto di vista iraniano, il momento propizio per attaccare Israele sia proprio quello precedente alle elezioni presidenziali degli USA, anche perché il risultato potrebbe cambiare notevolmente le carte in tavola. Dall’altro lato della barricata, infatti, c’è chi reputa che a preparare un attacco sia più lo Stato ebraico, che la Repubblica islamica. Su un articolo uscito sulla rivista Fair Observer firmato dall’ex agente della CIA Glenn Carle, si legge che Israele starebbe pianificando un attacco alle basi petrolifere e nucleari iraniane, da tanto tempo sotto i riflettori.

Effettivamente, nei giorni che hanno preceduto l’ultima offensiva israeliana, proprio i siti di idrocarburi e nucleari iraniani sono stati al centro di accese discussioni tra l’amministrazione Biden e il governo Netanyahu. Il caso è scoppiato dopo lo scandalo mediatico che ha visto la diffusione di una serie di documenti riservati riguardanti la presunta pianificazione di un attacco israeliano sulle strutture sensibili di Teheran, in seguito a cui il Presidente statunitense ha subito negato il proprio beneplacito a Tel Aviv nel caso prendesse simili iniziative. La discussione sul tema risale agli inizi di ottobre, periodo in cui Biden aveva scelto di mantenere la sua solita linea di vaghezza pubblica nel dichiarare l’appoggio statunitense su questioni riguardanti il tema dell’equilibrio regionale. Trump, al contrario, ha colto l’occasione per sostenere apertamente che Israele avrebbe dovuto prendere di mira i bersagli sensibili della Repubblica Islamica. All’interno di questo sfaccettato quadro, le elezioni del 5 novembre appaiono particolarmente delicate e possono segnare una svolta in questa lunga partita che non sembra voler terminare. Nel mentre, tra dichiarazioni, annunci, e nuovi dispiegamenti di forze, i tre principali contendenti continuano a prepararsi, e a posizionare i pezzi sulla scacchiera.

[di Dario Lucisano]

Alluvioni in Spagna: dichiarato lo stato di allerta anche a Barcellona

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Le istituzioni spagnole hanno diramato un nuovo allarme per le piogge intense che si rovesceranno nelle prossime tre ore nella zona di Garraf e del litorale barcellonese. Le autorità invitano la popolazione a evitare gli spostamenti non necessari e a stare lontani dai corsi d’acqua e dai dirupi, dal momento che potrebbero prodursi straripamenti, frane e smottamenti. Al momento, nella zona di Barcellona si registrano temporali intensi, con forti piogge e lampi.

Cava de’ Tirreni: ultras multati per aver ricordato Stefano Cucchi allo stadio

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In occasione del match casalingo con il Potenza, gli ultrà della Cavese hanno lanciato dagli spalti un forte messaggio sociale, ricordando l’omicidio di Stefano Cucchi e sottolineando la necessità dei codici identificativi per le forze dell’ordine: «Numeri identificativi nel dimenticatoio… per chi come Stefano Cucchi ha subito la vostra repressione l’unica via è la ribellione!». L’azione non è piaciuta al giudice sportivo, che ha multato la Cavese con una sanzione da 200 euro per oltraggio nei confronti delle istituzioni. La multa non intaccherà l’impegno sociale dei tifosi; a metà ottobre il mondo ultrà ha registrato un nuovo punto di rottura con la sovrastruttura calcistica italiana. Il 13 ottobre in un incidente stradale hanno perso la vita tre giovani tifosi del Foggia, di ritorno da una trasferta. I gruppi organizzati di tutta Italia hanno messo da parte le rivalità e mostrato vicinanza alla Foggia calcistica. Duro l’attacco unitario mosso nei confronti della FIGC e delle varie Leghe che hanno deciso di non dare voce alla vicenda attraverso un minuto di silenzio prima delle partite. «13-10-2024: la morte non è uguale per tutti!», hanno scritto i tifosi della Cavese in uno striscione che ha accompagnato quello in ricordo di Stefano Cucchi.

A mostrare solidarietà ai supporter biancoblu è stata la senatrice Ilaria Cucchi: «Voglio ringraziare i tifosi della Cavese ed esprimere la mia vicinanza a loro e alla società. Multata per uno striscione che ricorda non solo mio fratello, Stefano, ma quanta strada abbiamo ancora da fare per dirci un Paese davvero civile. Non so cosa sia stato considerato “oltraggioso nei confronti delle istituzioni dello Stato” di queste parole. Però so perfettamente che un oltraggio enorme è quello che fa la maggioranza rimandando continuamente l’introduzione dei codici identificativi». Della necessità della misura si è iniziato a parlare con insistenza a seguito del macello alla messicana messo in atto dalle forze dell’ordine contro i manifestanti del G8 di Genova, nel 2001. Negli anni gli appelli, interni e internazionali, si sono sprecati. Anche l’Unione europea e le Nazioni Unite si sono espresse a favore dei codici identificativi per gli agenti. Nel 2022 Amnesty International ha consegnato al Capo della Polizia circa 150mila firme frutto della campagna “Codici identificativi subito”. A mancare, dunque, nel nostro Paese è la volontà politica, complice la levata sugli scudi dei sindacati di polizia.

Nel contestato disegno di legge 1660, caratterizzato per un forte impianto repressivo, la maggioranza ha provato a dare un contentino alla società civile, prevedendo che le forze dell’ordine “possano usare le bodycam in situazioni di ordine pubblico e nei luoghi di trattenimento”. Possano, non debbano. La misura sarà quindi facoltativa e le telecamere potranno essere riposte o spente quando gli agenti lo riterranno opportuno. Oltre a bluffare sulle bodycam, la coalizione guidata da Fratelli d’Italia ha glissato sui codici identificativi, lasciando l’Italia tra gli ultimi Paesi europei a esserne priva.

«Lo sport è fondamentale anche per trasmettere un messaggio di civiltà. Spero che siano tanti e tante, sempre di più, a condividerlo. E la politica a quel punto non lo potrà più ignorare», ha concluso Ilaria Cucchi, sottolineando la dimensione sociale che il calcio continua a veicolare, nonostante le continue strette repressive mosse da più fronti.

[di Salvatore Toscano]

ONU: un nuovo rapporto dettaglia il genocidio e chiede l’espulsione di Israele

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Parla di genocidio Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Occupati Palestinesi. Nelle 32 pagine che compongono il rapporto Genocide as Colonial Erasure, il secondo presentato davanti alla commissione delle Nazioni Unite dal 7 ottobre 2023, Albanese denuncia il massacro organizzato e volontario che Israele sta portando avanti contro il popolo palestinese. Elencando fatti, nomi e responsabili di quello che è un vero e proprio genocidio, studiato per cancellare un popolo dal territorio e colonizzarlo, Albanese consiglia che le Nazioni Unite sospendano Israele come Stato membro dell’ONU. I ripetuti massacri di civili inermi, il blocco degli aiuti per affamare volontariamente la popolazione, le malattie auspicate per indebolirla, così come la distruzione studiata di tutte le infrastrutture e le torture ripetute contro i detenuti fanno parte delle tattiche dello stato sionista per «provocare la distruzione fisica» dei palestinesi. Il termine «genocidio» è delicato e non va usato a sproposito, ha ricordato l’esperta. Ma, in questo caso, è quello «più corretto».

L’esperta ricorda come siano ormai quasi 44mila morti di Gaza e come il 90% della popolazione sia stata costretta ad abbandonare la propria casa, mentre numerosi responsabili israeliani invitano il proprio popolo a «ritornare a Gaza» e a «ricostruire le colonie (israeliane) smantellate nel 2005». Inoltre, Albanese denuncia l’estendersi del conflitto e il rischio di genocidio anche nel resto dei territori palestinesi. «La violenza si è diffusa anche oltre Gaza», si legge nel report, «poiché le forze israeliane e i coloni violenti hanno intensificato i modelli di pulizia etnica e di apartheid in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est». Le violenze dell’esercito e dei coloni nei Territori Occupati Palestinesi è infatti aumentato enormemente dal 7 ottobre scorso, causando centinaia di morti e migliaia di arresti, tra gli altri abusi.

Il report denuncia nero su bianco quella che è la vera volontà dello Stato ebraico, malcelata dietro ragioni di autodifesa e lotta al terrorismo: la pulizia etnica della popolazione, volta a portare a termine la colonizzazione della Palestina e costruire il «grande Stato di Israele». Nel suo discorso di fronte alla Commissione ONU, Albanese denuncia anche le complicità degli Stati occidentali, che stanno permettendo a Israele di continuare impunito con le sue azioni. «L’impunità garantita a Israele gli ha permesso di diventare un violatore seriale del diritto internazionale» ha detto. L’allargarsi del conflitto in Libano e l’escalation della violenza nella regione contro le stesse Nazioni Unite è «un terribile precedente». La messa al bando dell’agenzia per i profughi palestinesi UNRWA, così come gli attacchi alle forze di pace UNIFIL, «se lasciati impuniti» potrebbero spingere a reazioni simili verso l’ONU anche altri Paesi. «È arrivato il momento di fare un passo esemplare», invitando così a prendere in considerazione la sospensione di Israele dall’ONU, in quanto Stato membro che «viola persistentemente» le prescrizioni dell’organismo internazionale.

Le risposte non si sono fatte attendere. Ad andare all’attacco tra le prime è l’ambasciatrice statunitense presso l’ONU, Linda Thomas-Greenfield, che ha accusato Albanese di non essere adatta all’incarico, aggiungendo che «le Nazioni Unite non dovrebbero tollerare l’antisemitismo da parte di un funzionario affiliato alle Nazioni Unite assunto per promuovere i diritti umani». A confondere – volontariamente – antisionismo con antisemitismo è anche la lobby filo-israeliana UN Watch, che ha promosso una petizione per cacciare l’esperta dal suo ruolo di relatrice speciale. Nel testo, Albanese viene accusata di aver abusato del suo mandato ONU per «diffondere antisemitismo e la propaganda di Hamas», oltre che il «terrorismo jihadista». Si tratta di accuse senza fondamenta, eppure la petizione è stata inoltrata a numerosi capi di Stato e di governo e sta avendo una notevole risonanza mediatica. In Italia è l’associazione Setteottobre, nata per «difendere Israele» e «opporsi al boicottaggio», a chiedere al governo italiano di schierarsi contro la relatrice italiana e sostenere l’allontanamento da qualunque funzione delle Nazioni Unite.

Ancora una volta, invece di analizzare i contenuti dei report portati dalla relatrice speciale dell’ONU e ragionare sulla richiesta di estromissione di Israele dalle Nazioni Unite, agendo per fermare la guerra e il genocidio, il tentativo è screditare – e licenziare – la persona che porta sul tavolo della comunità internazionale queste tematiche, accusandola di antisemitesmo e sostegno al terrorismo per eliminare ogni forma di discussione e opposizione. «Non solo vediamo il passato riprodurre se stesso, ora nei Territori Occupati palestinesi vediamo la stessa indifferenza, la stessa abilità di guardare da un’altra parte di molti Stati membri della comunità internazionale. Vediamo il collasso totale dell’ordine internazionale, che era premessa a quel “mai più” che era stato promesso dopo la Seconda Guerra Mondiale, in particolare dopo l’olocausto e il genocidio del popolo ebraico» dichiara Albanese, concludendo la conferenza stampa. Un «mai più» che questo genocidio ha seppellito per sempre.

[di Moira Amargi]

Russia, iniziano le esercitazioni navali congiunte con l’Indonesia

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Oggi, un distaccamento di navi da guerra della flotta russa del Pacifico è entrato nel porto indonesiano di Surabaya per iniziare le esercitazioni navali congiunte “Orruda-2024”, che si terranno nel Mare di Giava. Le esercitazioni tra Russia e Indonesia arrivano pochi giorni dopo l’elezione del nuovo presidente indonesiano, Prabowo Subianto, che ha promesso di rafforzare i legami con la Russia nel settore della difesa. In precedenza, un gruppo di navi da guerra russe aveva partecipato a esercitazioni congiunte con il Myanmar, denominate “Marumex-2024”, nelle acque del Mare delle Andamane.

Moldavia, Maia Sandu vince le presidenziali

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L’europeista Maia Sandu si è aggiudicata il secondo mandato come presidente della Moldavia, dopo aver ottenuto il 55,4% delle preferenze, mentre il suo rivale, Alexandru Stoianoglo, si è fermato al 44,6%. L’affluenza alle urne è stata di poco superiore al 54%. Il primo turno delle presidenziali si è svolto due settimane fa, in concomitanza con il voto per il referendum per l’adesione all’UE, dove il “sì” ha vinto per un soffio.

Alle Azzorre sarà creata la più grande rete di aree marine protette del Nord Atlantico

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L'arcipelago autonomo portoghese delle Azzorre ha approvato una legge per creare la più grande rete di aree marine protette dell'Oceano Atlantico settentrionale. Estesa su 287.000 chilometri quadrati, la nuova rete ecologica coprirà il 30% dell'oceano che circonda l'arcipelago. In circa la metà dell'area protetta totale saranno consentite solo attività a basso impatto ambientale, come la pesca con lenze e canne. Nella restante metà della rete saranno invece consentite, ma regolamentate, attività come le immersioni, il nuoto e il turismo. O, per dirla con gli stessi termini dei conservazionisti...

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