sabato 23 Novembre 2024
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Gaza, almeno 38 morti in nuovi attacchi israeliani a Rafah

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Almeno 38 palestinesi sarebbero morti e decine sarebbero rimasti feriti in una serie di attacchi condotti oggi dall’esercito israeliano (IDF) in varie zone di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Secondo quanto riferito da Reuters, gli attacchi sarebbero stati portati a termine con aerei, carri armati e navi al largo della costa. Nel pomeriggio, almeno 18 palestinesi sarebbero stati uccisi in un nuovo bombardamento della zona di al Mawasi, dove si trovano le tende che ospitano le famiglie di profughi e già presa di mira dall’IDF nelle scorse settimane.

Il tonno in scatola è pieno di Bisfenolo A: un composto che danneggia il sistema immunitario

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All’interno del tonno in scatola sono presenti preoccupanti livelli di bisfenolo A, composto chimico – usato prevalentemente insieme ad altre sostanze per produrre alcune plastiche e resine – noto per i suoi potenziali effetti deleteri sulla salute umana e, in particolare, sul sistema immunitario. È quanto ha attestato un’approfondita ricerca effettuata dalla rivista dei consumatori svizzeri Saldo, che ha evidenziato valori di contaminazione da sostanze chimiche come il bisfenolo A, ma anche il glicidolo, che superano – sovente in maniera molto ampia – i limiti considerati sicuri per il consumo dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).

L’indagine è stata svolta su campioni di tonno in scatola e in vasetto di differenti varietà, conservati sia in olio di oliva che in olio di girasole. In tutte le lattine esaminate è stata registrata una contaminazione da bisfenolo A, considerato dall’EFSA potenzialmente nocivo per la tenuta del sistema immunitario e la fertilità (i rischi sono legati in particolare alla possibile insorgenza di malattie autoimmuni e polmoniti allergiche). Si sono salvate solamente le varianti conservate in vetro. I risultati della ricerca hanno indicato che la contaminazione proviene direttamente dai rivestimenti delle lattine. Alcuni dei prodotti esaminati rientrano nel circuito del solo mercato svizzero: tra questi, il “Tonno bianco in olio d’oliva” di Albo, su cui sono state rinvenute quantità di bisfenolo A 50 volte superiori rispetto al limite proposto dall’Ue. I prodotti di Rio Mare e M-Classic presentavano invece livelli 20 volte superiori alla soglia massima. Se è vero che sui prodotti confezionati in vetro “Tonno bianco in olio d’oliva” di Qualité & Prix e “Filetti di Tonno Albacore in olio d’oliva” di Migros Sélection non è stato trovato bisfenolo A, su di essi – così come su 8 lattine – è stato rinvenuto in quantità preoccupanti il glicidolo, considerato dall’International Agency for Cancer Research (IACR) un “probabile cancerogeno 2A” (vedendo limitate evidenze di cancerogenicità negli esseri umani, ma sufficienti evidenze negli animali), con un’azione genotossica.

Di contro le analisi hanno mostrato che il bisfenolo A non è contenuto nel tonno confezionato in barattoli di vetro, il cui consumo rimane quindi sicuro e preferibile.

Recentemente, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare aveva rivisto al ribasso i limiti giornalieri ammissibili di esposizione al bisfenolo A. La nuova soglia massima, abbassata proprio con l’obiettivo di proteggere in maniera più efficace dai potenziali rischi del composto per la salute umana, è stata individuata in 0,2 nanogrammi (0,2ng o 0,2 miliardesimi di grammo) per chilogrammo di peso corporeo al giorno (kg/pc/die), in sostituzione della precedente soglia temporanea di 4 microgrammi (4μg o 4 milionesimi di grammo) per chilogrammo di peso corporeo al giorno.

[di Stefano Baudino]

Il governo Meloni ha dato il via libera all’estrazione di “materie prime critiche”

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La caccia alle cosiddette “materie prime critiche”, cioè gli elementi necessari per assemblare batterie e più in generale quasi ogni tipo di dispositivo tecnologico, sta iniziando anche sul suolo europeo. Ieri il Consiglio dei ministri italiano ha approvato un decreto legge per unirsi alla corsa. Cobalto, rame, litio, magnesio, grafite, nichel, silicio, tungsteno, titanio ed altre ancora: sono 34 le «materie critiche» definite come fondamentali per il futuro europeo ed italiano, di cui 17 sono considerate «strategiche». Materiali che il governo ritiene necessari per «promuovere la transizione digitale e verde» dell’industria nazionale, e che ora vuole ricercare proprio nel sottosuolo italiano. Secondo il ministro delle imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso – propulsore del dl insieme al ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin – in Italia di materie critiche ne abbiamo almeno 15. Alcune ricerche sono già iniziate, e sono vari i permessi di ricerca rilasciati negli ultimi anni ad aziende per esplorare il sottosuolo italiano, ma con il nuovo decreto legge si avrà una notevole accelerata su tutto l’iter processuale.

Uno dei punti fondamentali è proprio la semplificazione delle procedure autorizzative: i permessi infatti verranno rilasciati entro un tempo massimo di diciotto mesi per le attività estrattive e di dieci mesi per quelle volte alla lavorazione e al riciclaggio. Vengono accelerati anche i giudizi in materia di progetti strategici in relazione a controversie di riconoscimento o rilascio di titoli abilitativi, sul modello dei giudizi amministrativi in materia di PNRR.
Via alla mappatura dei siti dismessi, semplificazione e velocizzazione di norme, controlli e autorizzazioni. Si ricerca soprattutto cobalto e litio, che in Italia si concentrano in Piemonte e nel Lazio settentrionale (cobalto) e tra Toscana, Lazio – soprattutto nell’area a nord di Roma – e Campania (litio). Ma il sud della Sardegna contiene altre terre rare, il rame è in Veneto, Toscana e Lombardia, il manganese in Abruzzo, Sicilia e Calabria. E si potrebbe continuare. Insomma: poche regioni rischiano di essere escluse dalla riapertura delle ricerche minerarie. Dei giacimenti sono già stati individuati, ma «si tratterà di vedere le condizioni di estraibilità, che saranno da valutare caso per caso» afferma il ministro Pichetto Fratin.

Nasce infatti un Programma di esplorazione nazionale delle materie prime critiche, attualmente con una dotazione di 3,5 milioni di euro, che dovrà essere promosso dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) entro il 24 maggio 2025 e sottoposto a riesame quinquennale come previsto dal Critical Raw Materials Act, il documento europeo che delinea i progetti estrattivi nel continente. Le nuove norme introducono poi un nuovo sistema di royalties, che superano la vecchia legislazione – con la relativa tariffa di 16 euro l’ettaro l’anno – e assicurano «dal 5 al 7% ripartito tra Stato e Regioni» per le concessioni minerarie di progetti strategici. In sostanza, come già avviene per il petrolio e il gas estratti in Italia, le licenze verranno affidate ai privati e allo Stato rimarrà solo una piccola percentuale dei proventi.

Nel decreto viene inoltre «rafforzato e indirizzato il fondo nazionale del Made in Italy che ha una dotazione iniziale di un miliardo – annuncia Urso – «per sviluppare la filiera strategica di estrazione delle materie prime così anche per far nascere un grande attore nazionale, che oggi non abbiamo». Il decreto prevede inoltre l’istituzione, presso il Ministero delle imprese e del made in Italy, del Comitato tecnico permanente per le materie prime critiche e strategiche, al quale è affidato il monitoraggio delle catene di approvvigionamento, oltre alla predisposizione di un Piano Nazionale delle materie prime critiche.

Il Critical Raw Materials Act e il ritorno delle miniere

La nuova legge avrebbe il compito di adeguare la normativa nazionale sul settore minerario agli standard europei previsti dal regolamento del Critical Raw materials Act. La rottura dei commerci globali durante la pandemia e poi, soprattutto, le sanzioni imposta alla Russia e la guerra commerciale in atto con la Cina hanno spinto l’Europa a cercare metodi di ritorno a una qualche forma di sovranità energetica; è in questa cornice che ha visto la luce il Critical Raw Materials Act, pacchetto di misure europeo approvato dal Parlamento e dal Consiglio Europeo l’11 aprile, di fatto per cercare di ridurre la dipendenza dalla Cina, che detiene un sostanziale monopolio nella raffinazione ed estrazione di alcuni minerali fondamentali.

Più miniere, aumentare la capacità di lavorazione sul territorio europeo e diversificare i partner commerciali: questi gli obbiettivi europei principali, che mirano ad arrivare almeno al 10% di estrazioni delle materie prime critiche consumante nell’Unione in miniere europee entro il 2030. Il 40% inoltre dei materiali consumati dovrà essere lavorato sul suolo europeo.

Alla nuova ondata estrattiva europea si sta cercando di dare un volto verde, e se si parla molto di green economy, transizione energetica e riciclo, spesso si dimentica nel discorso pubblico uno dei motivi fondamentali della ricercata autonomia mineraria: la guerra. Molti di questi materiali strategici infatti sono necessari per la costruzione di armi e strumenti di difesa – e attacco – militari. I venti di guerra che stanno iniziando a soffiare in Europa, spinti dalla stessa classe dirigente made in UE, possono far intuire che quel 10% dei materiali critici utilizzati che verranno estratti nel sottosuolo dell’Unione, quando sarà «necessario» saranno in primis utilizzati per il settore militare.

[di Monica Cillerai]

‘Ndrangheta, maxi blitz a Vibo Valentia: 14 arresti

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I carabinieri del ROS e del comando provinciale di Vibo Valentia hanno dato esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale di Catanzaro, su richiesta della DDA di Catanzaro, nei confronti di 14 indagati accusati a vario titolo di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, omicidio plurimo e altri gravi reati. 13 persone sono state portate in carcere, mentre una è stata ristretta ai domiciliari. Contestualmente, sono stati svolti anche perquisizioni e sequestri. In tutto, l’inchiesta della DDA conta 26 indagati.

Bruxelles mette l’Italia nel mirino: dopo l’avviso sui conti torna all’attacco sul MES

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Il fuoco di fila da parte delle istituzioni europee all’indirizzo del governo italiano si fa sempre più serrato. In seguito all’ufficializzazione dell’apertura di una procedura d’infrazione per eccessivo deficit da parte della Commissione Europea e la bocciatura da parte di Bruxelles della riforma fiscale e dell’autonomia differenziata promosse dal governo Meloni, sono infatti improvvisamente tornati gli attacchi sulla mancata ratifica italiana del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). L’impressione è che Bruxelles stia attuando una manovra a tenaglia attraverso una strategia che si gioca su molteplici piani, tra cui sembra avere un peso significativo la decisiva partita per le nomine dei ruoli apicali nelle istituzioni europee. La premier Meloni sta infatti cercando di piazzare almeno un esponente italiano nella rosa, ma – almeno per ora e a queste condizioni – il nostro Paese sembra destinato a non spuntarla.

Che l’offensiva europea sul MES e la trattativa per le nomine europee possano effettivamente essere collegate ce lo racconta la cronaca politica degli ultimi giorni. Sei mesi dopo la bocciatura del “Fondo salvastati” da parte del Parlamento italiano, nella cornice del Consiglio dei governatori del MES a Lussemburgo, i ministri dei Paesi dell’Eurozona sono tornati alla carica, chiedendo al ministro dell’Economia italiano Giorgetti come l’Italia (unico Stato a non avere ancora provveduto) intenda muoversi rispetto alla ratifica del Fondo. Il presidente dell’Eurogruppo, Paschal Donohoe, ha affermato che la mancata ratifica da parte dell’Italia della riforma «priva» gli altri Paesi dell’area euro di «strumenti» e «reti di sicurezza» cui potrebbero voler accedere. Lo stesso giorno, il direttore del MES, Pierre Gramegna, ha dichiarato: «Sta al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti dire quali sono le sue intenzioni […] Speriamo che il rapporto su come rendere il MES adeguato alle esigenze dei tempi incoraggi l’Italia ad avere un atteggiamento positivo». Rispondendo ai cronisti, che gli hanno chiesto se potesse confermare che, in occasione dell’incontro, Giorgetti avesse lamentato la marginalizzazione del Presidente del Consiglio italiano nell’ambito delle trattative sulle alte cariche europee, Gramegna ha risposto: «Senza virgolettare precisamente quello che il ministro Giorgetti ha detto o non detto, tutte le cose che lei ha citato non sono state menzionate». A stretto giro è però arrivata una dichiarazione ufficiale dal Ministero dell’Economia italiano che ha sconfessato il direttore del MES: «Il ministro Giorgetti, pur rammaricato per l’evidente equivoco, conferma di aver fatto riferimento, nel corso dell’assemblea del MES, al trattamento riservato all’Italia a Bruxelles sottolineando che questo non agevola sereni confronti politici». Eppure, lo stesso Giorgetti ha dato l’idea che in ballo ci siano margini di trattativa, affermando che la riunione è sia stata «molto positiva» e dicendo di avere apprezzato il rapporto di Gramegna sui possibili nuovi obiettivi per cui il MES potrebbe essere utilizzato. Al contempo, ha confermato di aver protestato per il trattamento riservato all’Italia sulla scelta delle cariche apicali UE, facendo notare che ciò che accade a Bruxelles ha delle «ripercussioni».

L’avvio della procedura di infrazione per disavanzo eccessivo basato sul deficit che ha colpito l’Italia insieme ad altri sei Paesi è stata comunicata due giorni fa. Poco dopo l’annuncio, il Commissario Gentiloni ha dichiarato che l’avvio di una procedura di infrazione non implica un ritorno all’austerità, perché questo stesso procedimento va inserito all’interno del quadro del nuovo patto di stabilità, recentemente modificato. Gentiloni preferisce piuttosto parlare di una mossa volta a «indurre i Paesi a spese prudenti», o, per usare le parole del comunicato della Commissione, a “garantire la coerenza con il percorso di aggiustamento delineato nei piani a medio termine”. La Commissione Europea è poi tornata ad attaccare la linea dell’esecutivo italiano sulle politiche fiscali e istituzionali. Lo ha fatto con raccomandazioni specifiche in cui ha messo nel mirino la riforma fiscale del governo per il rischio che amplifichi in rischio evasione, nonché l’estensione della Flat Tax e il mancato aggiornamento del catasto. Poi, all’interno del Rapporto annuale sulle economie nazionali, la Commissione si è scagliata contro la legge sull’autonomia differenziata appena approvata, dedicando al testo un intero paragrafo e sancendo che comporterà “rischi per la coesione e le finanze pubbliche”.

Solo nelle prossime settimane capiremo realmente l’entità delle trattative che il governo italiano sta tenendo con le autorità di Bruxelles anche attraverso queste prove di forza. Al momento, non si può certo escludere che da parte italiana vi sia l’obiettivo primario di essere protagonista delle scelte sui vertici UE, mentre sul versante europeo si stia effettuando un pressing perché il governo Meloni appoggi nuovamente la nomina a presidente della Commissione Europea di Ursula Von der Leyen, che punta al suo secondo mandato.

[di Stefano Baudino]

Betlemme, la città dei pellegrini cristiani che Israele occupa da 57 anni

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Alle due di pomeriggio il sole che batte su Betlemme è asfissiante. Le strade sono vuote, poche macchine arrivano dal famoso checkpoint 300 e quasi nessuna va nel senso opposto. I rari passanti trovano un minimo di sollievo nell’ombra creata dall’enorme muro di cemento che segna la divisione arbitraria tra Israele e le terre palestinesi. Ma la desolazione che si percepisce non è risultato solo dei 35 gradi centigradi che picchiano sull’asfalto. Sulla strada che dal centro di Betlemme porta al checkpoint di uscita dalla città i negozi sono vuoti e Ahmed, che fa il panettiere, con sguardo sconsolato racconta che «non ci sono turisti da 9 mesi, gli alberghi sono tutti vuoti e moltissime persone non stanno lavorando». Betlemme è una città che si trova in Cisgiordania (West Bank), nei territori che secondo le risoluzioni internazionali dovrebbero appartenere allo Stato di Palestina, ma sono sotto occupazione israeliana dal lontano 1967. E Betlemme è anche una famosa meta turistica per i pellegrini cristiani che, almeno fino al 7 ottobre scorso, la invadevano quotidianamente per visitare la Chiesa della Natività, costruita dove secondo la tradizione cristiana Gesù sarebbe nato. Oggi i turisti non ci sono più, spaventati dalle immagini che mostrano il massacro che sta avvenendo a Gaza, e con loro è sparita anche la principale fonte di sostentamento per molti dei circa trentamila abitanti della città, circa il 20% dei quali è di religione cristiana. «Gli israeliani dicono che i Palestinesi sono terroristi e che creano problemi quindi se prima comunque ci rendevano i movimenti difficili, dopo il 7 ottobre non possiamo proprio più muoverci», dice Ahmed.

In foto: Una strada deserta, con un muro che presenta dei murales dipinti (Immagine di Filippo Zingone)

Come se non bastasse l’Autorità Nazionale Palestinese (cioè l’autogoverno guidato dal vecchio Abu Mazen e sostenuto dagli USA) è più di un anno che paga la metà degli stipendi agli impiegati pubblici: insegnati, dottori e funzionari. Prima dell’inizio del massacro, la popolazione palestinese era comunque costretta a stare alle regole dell’autorità israeliana, sia per andare in Israele sia per muoversi nella Cisgiordania. La West Bank è, dopo gli accordi di Oslo, un territorio diviso in 3 aree: area A, B e C. L’area C è sotto il completo controllo, militare e civile, di Israele e copre più del 60% del territorio; l’area B è a controllo condiviso, militare israeliano e civile palestinese; l’area A è sotto il completo controllo palestinese, ma comprende praticamente solo le città della West Bank. Questa divisione del territorio comporta che i movimenti dei cittadini palestinesi sono sempre assoggettati alle decisioni delle autorità israeliane che possono decidere di chiudere le strade, o le entrate alle città o mettere checkpoint provvisori, rendendo il movimento dei palestinesi incerto e complicato. Se nella teoria la Cisgiordania doveva essere la base di partenza del futuro Stato palestinese, oggi nella pratica è un territorio sotto occupazione militare dove è palese e netta la divisione tra cittadini israeliani e palestinesi, «quando le persone andavano a lavorare a Gerusalemme partivano alle 5 del mattino perché per noi palestinesi ci vogliono tra le 3 e le 5 ore per passare il checkpoint» racconta Ahemd.

In foto: Una delle strade del turismo di Betlemme, senza turisti (Immagine di Filippo Zingone)

Spostandosi all’ombra del mostro di cemento alto 20 metri e reso più “accettabile” dai disegni che lo ricoprono, si arriva a uno dei tre campi profughi di Betlemme, Aida camp. Nel 1948 ci fu quella che i palestinesi chiamano Nakba (catastrofe), ovvero la cacciata forzata e violenta della popolazione palestinese dalle loro case nei villaggi intorno a Gerusalemme e Hebron. Immediatamente ci fu l’intervento dell’ONU che fondò un’agenzia apposita l’UNRWA, che doveva essere il garante del diritto al ritorno della popolazione palestinese nelle loro terre. La prima cosa che la neonata agenzia delle Nazioni unite fa è costruire dei campi profughi, alla periferia delle città palestinesi in Cisgiordania. Oggi quelli che erano accampamenti di tende e che si pensava sarebbero stati temporanei, sono dei veri e propri quartieri con case, negozi e bar. A Betlemme oltre ad Aida camp, ci sono il campo di Dheisheh e quello di Azza. Quando si arriva al campo di Aida l’entrata è segnata da una grande porta sovrastata da una chiave, simbolo del diritto al ritorno della popolazione palestinese. Ad Aida oggi vivono più di 5.500 persone in un’area di meno di 0,071 Kmq. La zona è parzialmente circondata dal muro di separazione israeliano, da sette torri di guardia e si trova vicino a Har Homa e Gilo, due grandi insediamenti israeliani, considerati illegali dal diritto internazionale. Tra gli stretti vicoli ombreggiati di Aida incontriamo Ali, un uomo di 35 anni che per vivere fa la guida turistica. 

In foto: entrata Aida Camp con la chiave simbolo del ritorno del popolo palestinese nelle loro terre del 1948 (immagine di Filippo Zingone)

Anche Ali dice che «dal 7 ottobre ho perso il lavoro e devo mantenere la mia famiglia, non so come fare». Dopo le presentazioni e qualche battuta riguardo al poco di italiano che Ali ha imparato dai turisti, propone di fare un giro con lui e andare a prendere un caffè a casa sua. Camminando per le strette stradine del campo si vedono decine di foto e murales che rappresentano quelli che vengono chiamati i martiri. Sono le persone uccise durante i raid che l’esercito israeliano compie regolarmente nei campi, anche 2, 3 volte alla settimana, «non ci sono dei motivi precisi e può succedere senza nessun preavviso che l’IDF entri nei campi» dice Ali. Ci fermiamo davanti alla foto di un giovane e Ali racconta che il ragazzo è stato ucciso a novembre da un colpo sparato da un cecchino, aveva 16 anni e la sua unica colpa è stata provare a vedere da dove venisse la colonna di mezzi dell’IDF (Israelian defence force). Di tutti i martiri di cui si vedono le foto la maggior parte sono ragazzi con meno di 18 anni, in molti casi anche più piccoli di 12 anni. Mentre andiamo verso casa per il caffè Ali racconta che «spesso i soldati israeliani vengono nei campi profughi per fare allenamento di conflitto. I giovani soldati, sotto la guida dei superiori, vengono qua per imparare a uccidere». 

In foto: Angolo dei vicoli di Aida Camp con foto del ragazzo ucciso (immagine di Filippo Zingone)

Entrati a casa Ali mi presenta sua moglie e i due figli, che non mancano di sorridere e scherzare. Dopo aver bevuto il caffè Ali racconta che ha deciso di staccare il televisore per evitare che i figli vedano tutto il giorno quello che succede a Gaza, «nemmeno io riesco più a guardare la televisione, mi fa troppo male» dice. «Anche prima del 7 ottobre la vita per i palestinesi che, come me, vivono nei campi profughi era molto difficile. Ma dopo quella data la situazione è precipitata ed è diventato tutto molto più pericoloso» racconta Ali. I numeri dimostrano l’aumentata pericolosità segnando un record di morti palestinesi per mano di militari o coloni israeliani in West Bank. Dal 7 ottobre sono più di 530 le morti palestinesi, secondo l’OCHA, in Cisgiordania, che rappresentano più del doppio delle uccisioni nello stesso periodo dell’anno 2022/23. Prima di congedarmi per tornare alla devastante calura, Ali, con un grande sorriso, ci tiene a dire che «i musulmani, i cristiani e gli ebrei hanno tutti lo stesso dio, vogliamo solo vivere in pace e sicurezza. Ma io non vedo un futuro di pace, ci rimane solo la speranza».  

Betlemme è una città particolare anche per la convivenza delle comunità di palestinesi musulmani e cristiani. La piazza centrale dove si trova la chiesa della Natività lascia particolarmente sorpresi, soprattutto noi occidentali imbevuti della retorica della guerra di religione. Da un capo la chiesa e al capo opposto, a una distanza di un centinaio di metri, il minareto. I due templi che da sempre ci raccontano essere uno in contrasto con l’altro, qui convivono e dividono lo stesso spazio. «Prima di tutto io sono palestinese, non mi definisco cristiana palestinese, ma palestinese cristiana» dice Sabrina, fotografa palestinese di 35 anni. Lo scontro di culture che ci viene propinato da sempre è una «costruzione di Israele e del mondo occidentale» continua Sabrina, che conclude: «L’essere cristiana non influisce sulla mia identità palestinese e visione politica, la battaglia dei palestinesi musulmani e dei palestinesi cristiani è la stessa e il nemico è l’occupazione, non gli ebrei, ma i sionisti». 

In foto: Minareto di fronte alla chiesa della Natività nella piazza centrale di Betlemme (Immagine di Filippo Zingone)

Proprio davanti alla chiesa della Natività incontro Abodallah, un giovane palestinese di 28 anni. Mi viene incontro e, dopo qualche chiacchiera di circostanza, mi chiede se volessi prendere un caffè, gli rispondo di sì e ci avviamo verso una terrazza vicina alla piazza. «Quello che succede a Gaza è terribile ma anche noi viviamo in una grande prigione, anche qua a Betlemme. Non riesco più a dormire e mangiare da giorni», mi racconta Abodallah indicandomi le colonie che si vedono dietro di lui. A Betlemme ogni volta che si arriva in un punto panoramico l’orizzonte è sempre interrotto dalle grandi colonie israeliane che circondano la città. Se ne contano 14, molte delle quali sono state costruite dopo gli accordi di Oslo. Colonie che le stesse Nazioni unite in diverse risoluzioni hanno dichiarato illegali. Ma nonostante tutto l’avanzata della colonizzazione non si è mai fermata e dopo il 7 ottobre si è rafforzata. Domenica scorsa il gabinetto di guerra ha discusso il rafforzamento delle colonie in tutta la West Bank, una mossa che arriva, a detta del portavoce del governo di Tel Aviv, in risposta ai paesi che hanno riconosciuto lo stato di Palestina. 

In foto: Visione di una colonia israeliana da un punto panoramico (Immagine di Filippo Zingone)

«Non possiamo muoverci senza permesso, siamo spaventati di andare da qualunque parte perché ci sparano» continua Abodallah, che alla domanda su come siano cambiate le cose dopo il 7 ottobre risponde: «Abbiamo perso il lavoro e abbiamo più paura di prima, ma come giovane palestinese è cambiata la mia speranza, vedo che stiamo andando verso l’inferno non verso la pace». Il senso di abbandono che si percepisce dalle parole di Abodallah è totale: «tutto il mondo rimane immobile a guardarci morire, non fanno niente per noi, non importa se cristiani, musulmani o ebrei, per noi nessuno fa nulla» e ci tiene a precisare che «non sono un ragazzo arabo, io sono palestinese perché anche i paesi arabi non fanno nulla per fermare questa guerra. Guardano e basta». 

Prima che riesca a convincerlo a venire a mangiare con me, una volta seduti non mangerà nulla, con occhi gonfi mi dice: «Noi palestinesi non valiamo niente, siamo niente: è tremendamente facile perdere la vita qui. Troppo facile», ma con una forza d’animo incredibile riesce ad abbozzare un sorriso e guardandomi dritto negli occhi conclude dicendo che «abbiamo bisogno di pace, abbiamo bisogno di poter dormire, di poter lavorare. Vogliamo una vita come quella di chiunque altro nel mondo, non ci serve nulla di più. Non ne possiamo più, non mi interessa la terra santa mi interessa vivere in pace». Quando cala la sera il clima si fa più mite e una leggera brezza inizia a rinfrescare l’aria, la vita procede come se niente fosse, come se tutto fosse normale, ma come mi ha detto Ahmed con un grande sorriso: «Noi speriamo che ci sarà pace anche per noi, cosa altro possiamo fare, sorridiamo e speriamo». 

[di Filippo Zingone]

Il Kansas ha fatto causa a Pfizer per aver travisato i dati sull’efficacia dei vaccini Covid

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Nuova causa in tribunale mossa contro il colosso farmaceutico Pfizer, accusato di aver illegalmente travisato l’efficacia del proprio vaccino anti-COVID-19, violando la legge a tutela dei consumatori del Kansas. L’esposto è stato presentato dal Procuratore Generale del medesimo Stato federale degli Stati Uniti Kris Kobach, il quale lunedì 17 giugno ha compilato un documento di 179 pagine per delineare l’impianto di imputazione. Nello specifico, l’accusa principale lanciata a Pfizer è che il colosso farmaceutico avrebbe “ingannato i cittadini” descrivendo il proprio vaccino come “sicuro ed efficace”, nonostante la stessa azienda fosse a conoscenza della connessione del medicinale con “effetti collaterali seri e avversi, come miocardite, pericardite, interruzione della gravidanza, e morte”.

Secondo l’accusa, Pfizer, conscio della riduzione dell’efficacia del vaccino nel tempo e della sua mancanza di protezione sulle varianti, avrebbe nascosto la reale portata di copertura del farmaco, ingannando i cittadini. Oltre a ciò, l’azienda farmaceutica avrebbe millantato la capacità di prevenire la trasmissione del vaccino senza avere mai condotto i dovuti test sulla questione. Per farlo, Pfizer avrebbe creato una vera e propria campagna di censura sui social media, e sarebbe finita per guadagnare 75 miliardi di dollari dalle vendite. Secondo il procuratore, tutte queste azioni violerebbero vecchi giudizi delle corti del Kansas, nonché leggi dello stesso Stato, motivo per cui “Pfizer deve essere ritenuta responsabile di avere rappresentato mendacemente i benefici del suo vaccino contro il COVID-19, nascondendo e sopprimendo al tempo stesso la verità sui rischi per la sicurezza, sul calo di efficacia e sull’incapacità di prevenire la trasmissione del suo vaccino”.

Il Kansas non è il primo Stato federale degli USA ad avere portato Pfizer in tribunale. Già a dicembre il Texas aveva mosso una causa contro il colosso farmaceutico, portando avanti analoghe accuse.

Bologna, la polizia manganella ancora i cittadini che difendono gli alberi in città

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A Bologna non si placa il movimento nato tra i cittadini per difendere gli alberi del parco Don Bosco, divenuto simbolo di una lotta più generale contro la cementificazione imperante che attanaglia il capoluogo felsineo come e più di molte altre città italiane. Ma a non placarsi è anche la violenza delle forze dell’ordine che intervengono per sgomberare il parco dal presidio permanente di protesta e “proteggere” gli operai che devono segare gli alberi. Ieri è andato in scena un nuovo, violento, capitolo, dove gli agenti in tenuta antisommossa hanno effettuato cariche sui manifestanti che tentavano di impedire agli operai di procedere al taglio. Durante l’azione molti dimostranti sono finiti a terra e diversi rimasti feriti, inclusa una ragazza che sarebbe stata colpita da una manganellata alla testa. Dopo gli scontri non è mancata la rituale presa di posizione del ministro dell’Interno, Vincenzo Piantedosi, che ha espresso «vicinanza e solidarietà» ai poliziotti, seppur le immagini mostrino chiaramente come la carica di polizia sia partita contro cittadini disarmati e pacifici.

Secondo le testimonianze dei dimostranti, confermate dai video, gli operai – circondati dalle forze dell’ordine – hanno iniziato a lavorare al taglio degli alberi a pochi metri di distanza dei manifestanti. Non solo, in una procedura evidentemente illegale e priva di ogni basilare norma di sicurezza, alcuni video mostrano chiaramente come il taglio di alcuni alberi sia stato effettuato mentre dei manifestanti si trovavano ancora arrampicati sui rami. Il personale della Digos ha inoltre identificato diversi manifestanti, quattro dei quali sono stati fermati. Gli attivisti hanno riferito di avere fatto denuncia all’ispettorato del lavoro. Questa volta, i membri dei collettivi non sono riusciti a impedire alle motoseghe di agire. La polizia ha infatti confermato che, fino a ora, sono stati abbattuti otto alberi. Come detto, il Ministro dell’Interno, Vincenzo Piantedosi, ha espresso «vicinanza e solidarietà» ai poliziotti feriti (sono otto quelli che si sono fatti refertare). Mentre sordo alle proteste si mostra anche il sindaco di bologna, il Democratico Matteo Lepore: «Il nostro interesse è che il cantiere vada avanti. Penso che chi decide di bloccare un’opera pubblica si deve assumere la responsabilità di ciò che fa».

Lo scorso 3 aprile, il Parco Don Bosco era stato teatro di un altro blitz delle forze dell’ordine, intervenute per “liberare” dal presidio degli attivisti una porzione del Parco, in cui gli operai avevano iniziato a tagliare gli alberi. I manifestanti avevano però rotto le recinzioni e impedito la prosecuzione dei lavori. Anche in quel caso gli agenti avevano tirato fuori i manganelli, colpendo ripetutamente i manifestanti, che avevano cercato di utilizzare come scudo le transenne del cantiere. In particolare, nel corso degli scontri, erano rimasti feriti un ragazzo e una ragazza, nonché un uomo di 70 anni, trasportato in ambulanza all’ospedale. La resistenza degli attivisti aveva però costretto gli operai a rinunciare alle operazioni – giudicate troppo pericolose per la massiccia presenza dei membri dei collettivi – e a lasciare il luogo, seguiti dalle forze dell’ordine. L’8 aprile i membri del Comitato in lotta contro l’abbattimento degli alberi si erano incontrati con il sindaco Matteo Lepore, il quale aveva deciso di sospendere temporaneamente i lavori del cantiere. Il primo cittadino del capoluogo emiliano aveva garantito che sarebbe stata perseguita la via del «dialogo». Ma i fatti hanno preso tutt’altra piega.

[di Stefano Baudino]

Bolzano, esplosione in fabbrica: 8 operai feriti

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È di otto operai feriti il bilancio di un’esplosione verificatasi dopo mezzanotte all’interno dello stabilimento Aluminium di Bolzano, in zona industriale. La deflagrazione ha interessato un capannone della fabbrica. Cinque lavoratori si trovano in gravi condizioni. Gli elicotteri di soccorso li hanno prelevati e trasportati nei centri di grandi ustionati: due operai sono stati ricoverati a Verona, uno a Padova, uno a Milano e uno a Murnau (in Baviera), mentre quelli che hanno riportato ferite meno gravi si troverebbero in ospedale a Bolzano. Sono in corso le indagini per chiarire la causa e le dinamiche dell’incidente.

Dal telefono dell’ex soldato che spiava Assange per la CIA è “scomparsa” gran parte dei file

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In Spagna si torna a parlare di Julian Assange e WikiLeaks, in relazione al caso di spionaggio ai suoi danni mentre si trovava rifugiato all’interno dell’ambasciata ecuadoregna, a Londra. Nel corso del processo a David Morales (ex soldato spagnolo e proprietario di UC Global, la società di sicurezza incaricata di proteggere l’ambasciata ecuadoregna a Londra nel periodo in cui Assange vi era rifugiato), arrestato nel 2019 per reati legati alla violazione della privacy di Julian Assange e per la trasmissione di informazioni ai servizi di intelligence degli Stati Uniti, sarebbero infatti sparite prove importanti. I giudici e gli inquirenti spagnoli hanno denunciato come gran parte dei file presenti nel telefono di Morales siano stati omessi o cancellati e hanno sottolineato come non sia la prima volta in cui si tenta di insabbiare l’attività di spionaggio ai danni di Assange mentre questi si trovava chiuso nell’ambasciata dell’Ecuador, a Londra.

Una delle principali prove contro David Morales è scomparsa. La polizia spagnola non ha infatti consegnato al giudice Santiago Pedraz il file completo del telefono Samsung S7 utilizzato da Morales per comunicare con gli agenti della CIA, con il quale avrebbe fornito la strategia difensiva dei fondatori di WikiLeaks, secondo i documenti dell’inchiesta giudiziaria a cui El País ha avuto accesso. Dopo ripetute richieste giudiziarie, gli agenti hanno riferito di non conoscere l’ubicazione del fascicolo completo. Il giudice Pedraz ne ha ordinato l’immediato recupero, mentre il procuratore Carlos Bautista ha definito quel fascicolo «essenziale» per il caso. Per Bautista, è importante che venga trovato, in quanto «contiene più dati di quelli messi a disposizione delle parti». L’ufficio del pubblico ministero ha dichiarato: «È estremamente sorprendente che l’unità di polizia abbia consegnato i file UFDR (Universal Forensic Data Report) e UFDX (Universal Forensic Data Exchange) dagli altri dispositivi e non lo abbia fatto proprio da questo». In precedenza, la Procura aveva anche lamentato una «certa paralisi» causata dalla «lentezza esasperante delle forze dell’ordine impegnate nell’analisi di tutti gli elementi sequestrati». Il giudice Pedraz ha ora convocato in tribunale gli agenti della Cybercrime Unit per fare una copia in sua presenza dei file del cellulare di Morales, nel tentativo di recuperare le informazioni omesse e scoprire chi è responsabile della sua scomparsa.

Nel settembre 2019, durante la perquisizione dell’abitazione e degli uffici di Morales avvenuta nella città spagnola di Jerez de la Frontera, l’obiettivo primario degli inquirenti era proprio sequestrare il telefono Samsung S7 G930F che i testimoni protetti, lavoratori della stessa UC Global, avevano configurato per Morales in modo che potesse comunicare con la CIA. Eppure, la polizia ha consegnato i file completi di tutti i telefoni, computer e dispositivi elettronici sequestrati dalla casa e dagli uffici di Morales, ad eccezione dei file del telefono Samsung, facendo così in modo che i dati riguardanti le conversazioni di Morales su WhatsApp, Signal, Telegram, Proton Mail e Skype non siano arrivati nell’aula di tribunale. Il file caricato dall’unità di polizia sul cloud, dove le prove vengono scaricate e consultate dalle parti coinvolte nel caso, non è il file UFDX originale e completo, ma solo il file UFDR, che è derivato dal precedente ma non rappresenta la copia completa del dispositivo. Nel file UFDR fornito dagli agenti manca la cartella Userdata, in cui sono memorizzati i dati delle applicazioni di messaggistica. Inoltre, il team di difesa di Assange sottolinea che il file UFDR caricato sul cloud non proviene dalla macchina di scarico UFED Touch, come nel caso di tutti gli altri telefoni oggetto dell’indagine, ma da un personal computer che è stato sequestrato. Questo sta a significare che quei dati hanno fatto un passaggio che non dovuto fare e che, con tutta probabilità, è servito proprio a cancellare e omettere i dati della messaggistica, i quali avrebbero potuto rivelare l’inequivocabile coinvolgimento di Morales con le operazioni di spionaggio condotte per conto della CIA.

Questa è la seconda volta che si scopre un insabbiamento di dati nel caso di spionaggio ai danni di Assange. L’anno scorso, il team di Assange è stato autorizzato a fare una seconda copia del materiale sequestrato dagli agenti, rivelando più di 213 gigabyte, 551.616 file e 973 file di posta elettronica che erano stati omessi dalla polizia. Tra i nuovi file, emerse una cartella intitolata Operations & Projects, organizzata per specifiche aree geografiche. Nell’area corrispondente al Nord America, all’interno della categoria “USA” c’era un file chiamato CIA ove erano memorizzate le immagini delle registrazioni ottenute tramite le telecamere e i microfoni nascosti che UC Global ha installato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per sorvegliare gli incontri del fondatore di WikiLeaks.

[di Michele Manfrin]