sabato 23 Novembre 2024
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Perché quello israeliano è un genocidio: intervista alla Relatrice ONU Francesca Albanese

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Nei giorni scorsi, la Relatrice Speciale dell’ONU per i Territori Occupati Palestinesi, Francesca Albanese, ha presentato il proprio rapporto ufficiale nel quale si dettaglia come quello israeliano a Gaza sia da considerare, alla luce del diritto internazionale, un genocidio. Lo stesso report, che si intitola senza giri di parole Il genocidio come cancellazione coloniale, accusa i governi occidentali di aver garantito a Israele un’impunità che gli ha permesso di «diventare un violatore seriale del diritto internazionale». La relatrice italiana, ma che da molti anni vive all’estero, è stata attaccata con inaudita violenza: l’ambasciatrice statunitense all’ONU l’ha accusata di antisemitismo, mentre la lobby filo-israeliana UN Watch ha lanciato una campagna per cacciarla dalle Nazioni Unite con l’accusa di diffondere «antisemitismo e propaganda di Hamas». Accuse surreali alle quali risponde anche in questa intervista rilasciata in esclusiva a L’Indipendente. Lo fa senza arretrare di un millimetro, anzi dettagliando perché quella che Israele sta scrivendo a Gaza sia da considerare una delle pagine «più nere e luride della storia contemporanea» e denunciando il clima di intimidazione che colpisce sistematicamente chi, all’interno delle istituzioni internazionali, cerca di agire concretamente per inchiodare il governo israeliano alle proprie azioni.

Poche settimane fa è stato ucciso il capo di Hamas Yahya Sinwar. I governi e i media occidentali hanno celebrato l’evento, affermando che la sua eliminazione abbia reso il mondo più sicuro e avvicinato la pace in Medio Oriente. Cosa ne pensa?

Da giurista, mi sentirei più sicura in un mondo che permette alla giustizia internazionale di funzionare. Vorrei vedere proseguire il procedimento avviato dal Procuratore della Corte Penale Internazionale, Karim Khan, che aveva chiesto un mandato di arresto internazionale non solo per Sinwar e altri capi di Hamas, ma anche per il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e per il ministro della Difesa Yoav Gallant. Il modo in cui Sinwar è caduto, combattendo fino all’ultimo respiro in battaglia, lo ha trasformato in un mito di resistenza per molti, in particolare per gli oppressi del mondo. Quindi credo che le analisi occidentali lascino il tempo che trovano, dimostrandosi chiacchiere da intellettuali da salotto.

Quali sono attualmente le condizioni a Gaza? 

Per capire cosa sta avvenendo a Gaza, è importante innanzitutto definire i fatti. Quello a cui assistiamo non è una guerra, che presuppone lo scontro tra due eserciti, ma la violenza di uno stato occupante contro un popolo occupato. Non ci sono parole per descrivere le condizioni di vita a Gaza oggi; la situazione è catastrofica da mesi. Le testimonianze che raccogliamo sono tremende: centinaia di massacri, esseri umani bruciati vivi sotto le tende, uccisioni di civili stipati negli ospedali. Sappiamo di soldati israeliani che hanno deliberatamente ucciso bambini sparando loro alla testa; abbiamo video e fotografie che lo dimostrano. Tutto questo è incluso nel rapporto Genocide as Colonial Erasure che ho preparato per le Nazioni Unite. È il momento di riaffermare il diritto internazionale, sacrificato dall’idea degli Stati Uniti e di Israele che ogni linea rossa sia superabile di fronte all’idea, peraltro irrealistica, di sconfiggere un movimento politico usando la forza militare. Quella in corso a Gaza non è solo una crisi umanitaria, ma una crisi di umanità.

È d’accordo con chi sostiene che quello in corso a Gaza sia un genocidio?

Non ho dubbi su questo, e l’ho scritto nero su bianco nel mio secondo rapporto in qualità di Relatrice Speciale delle Nazioni Unite, dettagliando le analogie tra quanto avviene in Palestina e ciò che è accaduto in casi già classificati come genocidio in base alla legislazione vigente, come nel caso del Ruanda. Israele sta commettendo un genocidio, e questo è dimostrato non solo dalle azioni e dai massacri, ma forse soprattutto dagli intenti dichiarati e dall’incitamento di molti leader politici israeliani. Il governo israeliano sta scrivendo una delle pagine più nere e luride della storia contemporanea: sta utilizzando il genocidio del popolo palestinese come mezzo per raggiungere un fine politico dichiarato, quello della creazione di una Grande Israele come Stato ebraico senza palestinesi al suo interno, siano essi arabi o cristiani. Tutto questo sta avvenendo in diretta sui cellulari dei cittadini di tutto il mondo, mentre i leader occidentali continuano a giustificarlo parlando di diritto all’autodifesa.

Sono tante le dichiarazioni impressionanti che abbiamo letto in questi mesi da parte di leader israeliani, dalla definizione dei palestinesi come “animali umani”, alla rivendicazione del diritto di lasciarli morire di fame, fino alla loro definizione come “Amalek”, il nemico biblico contro il quale l’Antico Testamento incita all’uccisione. Quindi, sono anche queste dichiarazioni, oltre alle azioni militari, se ho capito bene cosa intende, che dimostrano la volontà genocida del governo israeliano?

Sì, è così. Nel diritto internazionale, l’articolo 2 della “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio” è chiarissimo nel definire questo crimine. Costituisce genocidio la volontà di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, nazionale, religioso o razziale “in quanto tale”. Nel caso israeliano, un’ampia mole di dichiarazioni dei leader mostra chiaramente questa volontà. E poi ci sono le azioni, naturalmente. Secondo la Convenzione, siamo di fronte a un genocidio quando anche uno solo di questi tre atti viene messo in pratica: l’uccisione e l’inflizione di sofferenze fisiche e mentali ai membri del gruppo etnico allo scopo di creare le condizioni per la distruzione del gruppo stesso; l’uccisione e la sottrazione dei minori; la prevenzione delle nascite attraverso, ad esempio, la distruzione di ospedali e cliniche per la fertilità. Israele, a Gaza, sta portando avanti tutte e tre queste azioni in modo sistematico, per questo non c’è dubbio.

All’epoca dell’invasione russa in Ucraina, la Corte Penale Internazionale ha prontamente emesso un mandato di cattura internazionale contro Putin, mentre la richiesta di fare lo stesso contro il premier israeliano Netanyahu giace da mesi in attesa di una decisione. Non crede ci sia un pericoloso doppio standard da parte della giustizia internazionale?

Credo che i giudici della Corte siano sottoposti a una grande pressione. Attraverso il lavoro di coraggiosi giornalisti israeliani, sappiamo che già in passato i servizi segreti israeliani esercitarono fortissime pressioni e minacce contro l’ex procuratrice Fatou Bensouda per dissuaderla dal perseguire i crimini israeliani, e addirittura Donald Trump, quando era presidente degli Stati Uniti, le vietò di entrare negli USA. Inoltre, ho potuto leggere personalmente la lettera che alcuni senatori statunitensi ebbero l’ardire di inviare al procuratore Karim Khan, un messaggio di stampo mafioso con avvertimenti del tipo: «Sappiamo dove ti trovi e dove abita la tua famiglia». La lobby pro-Israele è fortissima e ramificata.

Anche lei è stata dichiarata “persona non grata” dal governo israeliano. Ha subito altri tipi di pressione per il suo lavoro di Relatrice Speciale?

Non posso dire che le pressioni non ci siano state e non ci siano tuttora. Ma chi decide di servire la giustizia, dedicando la propria vita a questo, è al servizio di un imperativo categorico più alto e deve mettere da parte le ragioni personali e la paura. Devo dire una cosa, mi fa male dirla, ma devo: ognuno di noi possiede almeno una cosa preziosa nella vita, nel mio caso sono i miei figli, ma il mio imperativo è non credere che essi valgano più dei figli dei palestinesi o di chiunque altro sia in difficoltà, perché anche loro hanno diritto alla vita e alla pace come tutti i bambini del mondo. Per questo vado avanti.

Cambiamo decisamente discorso, passando alle provinciali vicende della stampa italiana: non mi è capitato spesso di vederla intervistata dai giornali mainstream né nei dibattiti televisivi. È una sua scelta o non la invitano?

Io rilascio interviste e, anche se con spirito di sacrificio e senza entusiasmo, partecipo ai dibattiti televisivi perché penso che anche tre minuti a disposizione possano essere importanti. Sono spesso presente sui media di molti Paesi, ma in Italia non mi invitano. Sono stata invitata un paio di volte a dei talk show e ne conservo un’impressione pessima. Sa, io non vivo più in Italia da 22 anni e riscontro che nel panorama mediatico italiano c’è pochissimo approfondimento. Non in tutti i Paesi è così. Un amico mi aveva avvisato prima di partecipare a un programma TV in Italia: «Attenta, i talk show italiani sono dei pollai». Io non capivo cosa intendesse, poi l’ho imparato sulla mia pelle.

Nonostante il quadro dell’informazione delineato, anche in Italia assistiamo a una grande presa di coscienza sulla questione palestinese…

Sì, è così. C’è una grande presa di coscienza, specie tra i giovani, e finalmente c’è la capacità di leggere la storia palestinese con le lenti corrette, che non sono quelle del conflitto o della guerra di religione, ma quelle di una vicenda coloniale. L’intera storia del dominio israeliano in Palestina è una vicenda di abuso coloniale, lucidamente descritta dagli stessi leader che Israele considera propri padri fondatori. Solo analizzando la situazione attraverso questa giusta prospettiva si può comprendere l’azione dei due attori in campo per quello che è realmente: la violenza di un oppressore coloniale, da una parte, e la resistenza di un popolo che lotta per l’indipendenza, che dovrebbe essergli garantita dal diritto internazionale, dall’altra.

Tra l’altro, il diritto internazionale stabilisce anche che i popoli che lottano per l’indipendenza e l’autodeterminazione sono legittimati a combattere l’occupazione straniera “con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”. Io l’ho scritto in un editoriale ed è scoppiato un mezzo putiferio, ma è la verità, la Risoluzione ONU 37/43 del 1982 dice esattamente questo…

Sono cose che non si possono dire nella maniera più assoluta, ma è così. Dovremmo averlo chiaro, specialmente in Italia, ma purtroppo quella del 25 aprile è divenuta una ricorrenza stantia, mentre dovrebbe essere un momento per ricordare come un popolo, attraverso la Resistenza, si è liberato dall’oppressione straniera.

Specie tra gli studenti sono nate centinaia di iniziative, cortei e proteste per la Palestina. Crede che la mobilitazione dal basso possa svolgere un ruolo per fermare il genocidio?

La mobilitazione popolare è la chiave di tutto, anche per far funzionare il diritto internazionale. Spesso sento dire che il problema è la necessità di una riforma dell’ONU, certo che c’è un problema in questo, ma la chiave non sono le riforme dall’alto, bensì le mobilitazioni dal basso, che hanno la possibilità di obbligare i governi a cambiare rotta. Si può agire non solo con le proteste, ma anche con azioni giudiziarie. Abbiamo ancora un sistema della giustizia che funziona: usiamolo per citare in giudizio le aziende che forniscono assistenza e supporto al sistema militare israeliano. L’importante è che la mobilitazione sia strategica, altrimenti la gente non vede un obiettivo e si stanca. Serve organizzazione e coordinamento, a livello locale e nazionale. Siamo molto vicini a un cambiamento politico epocale, a cominciare dall’emergere di un sistema multipolare. Ci siamo così dentro da non riuscire a vederlo, ma dobbiamo continuare a lottare e a spingere affinché questo sistema crolli.

Crede che l’emergere di un sistema multipolare al posto dell’egemonia americana possa migliorare la situazione anche per quanto riguarda l’applicazione del diritto internazionale?

Credo fortemente che un nuovo ordine mondiale, improntato al multipolarismo, sia un’opportunità per proteggere meglio tutti. Sulla carta, le leggi dovrebbero essere universali e uguali per tutti, ma vediamo che non è così. Un mondo multipolare rappresenta un’opportunità per rendere finalmente universale il diritto e le istituzioni che hanno il compito di applicarlo.

Considera giuste le iniziative di boicottaggio dei prodotti israeliani e quelle contro la cooperazione a livello universitario promosse dagli studenti?

Sono certamente legittime, giuste e potenzialmente molto efficaci. La campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndr) lanciata contro Israele è legittima perché si muove nella legalità più assoluta e non chiede altro che l’applicazione del diritto internazionale. Il sistema di apartheid e genocidio portato avanti da Israele si nutre di radici economiche e finanziarie profondissime e capillari. Colpire queste radici è una delle chiavi per porre fine all’ingiustizia che subiscono i palestinesi.

La ringrazio per la disponibilità e, ancor di più, per il coraggio dimostrato nel rispondere in maniera netta alle domande. Prima di lasciarla andare, però, c’è un’ultima domanda che sento di doverle fare. Può apparire la più banale, ma di fatto è quella a cui nessuno ha una risposta: che futuro vede per il popolo palestinese? Riuscirà ad ottenere il proprio diritto ad avere una patria?

Questa è una delle poche certezze che ho. I palestinesi, come qualsiasi popolo indigeno, sono attaccati in modo viscerale alla propria terra. Vengono attaccati, uccisi, sradicati, ma non se ne vanno. I palestinesi hanno già fatto la storia, non il 7 ottobre, ma ogni giorno, dal 1948 a oggi, tenendo viva la propria causa di liberazione nazionale, che è una battaglia per la giustizia e i diritti di tutte e tutti. Tutto il mondo, di nuovo, si interessa a quanto accade in Medio Oriente, vede e riconosce la tragedia palestinese. Questo è successo per merito dei palestinesi stessi e, in Occidente, abbiamo la possibilità di prenderne pienamente coscienza anche grazie ai movimenti giovanili e studenteschi, che hanno avuto la capacità e la lucidità di decifrare la questione palestinese in un’ottica anticoloniale e di legarla ad altri aspetti della giustizia, come quella ambientale e sociale. È una questione centrale: solo se sapremo occuparci insieme di tutti questi aspetti, vedendo le connessioni tra gli elementi, potremo conquistare un futuro di diritti e giustizia per tutti.

[di Andrea Legni – direttore de L’Indipendente]

Gaza, raid israeliani a Gaza City e Khan Yunis: 14 morti

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Almeno 14 civili palestinesi hanno perso la vita, mentre molti altri sono rimasti feriti, a causa di una serie di attacchi sferrati dall’esercito israeliano sui centri di Gaza City e Khan Younis. Lo hanno riferito fonti palestinesi, spiegando che uno dei raid israeliani è stato condotto «contro una scuola», mentre l’altro ha colpito un campo gremito di «tende per sfollati». L’esercito israeliano, da parte sua, ha riferito di avere colpito 50 obiettivi nella Striscia di Gaza e in Libano, «tra cui strutture militari e depositi di armi», provocando l’eliminazione di «decine di terroristi».

Depistaggi nel processo Borsellino: chiesto il rinvio a giudizio per quattro poliziotti

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Gli effetti della strage di via D'Amelio, consumata il 19 luglio 1992

Non finiscono mai i processi sul più grande depistaggio della storia repubblicana, quello sulle indagini in merito alla strage di via d’Amelio. La Procura di Caltanissetta ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per quattro poliziotti, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco e Maurizio Zerilli, accusati di aver reso false dichiarazioni in occasione delle loro deposizioni come testimoni al processo che ha visto alla sbarra altri tre poliziotti – a loro volta accusati di calunnia aggravata e scampati alle condanne per l’intervento della prescrizione in appello – per il depistaggio delle inchieste sull’omicidio Borsellino. Tutti e sette facevano parte della squadra “Falcone-Borsellino”, capitanata dal questore Arnaldo La Barbera, considerato dalla sentenza definitiva al processo Borsellino-Quater come il perno del depistaggio. Lo sviamento delle indagini è stato segnato dal furto dell’Agenda Rossa del giudice Borsellino da mani istituzionali nelle ore successive al massacro, nonché dall’“indottrinamento” del finto pentito Vincenzo Scarantino, il quale si autoaccusò falsamente di essere l’autore materiale dell’eccidio, ma che quattordici anni dopo venne smentito dal vero responsabile, il mafioso Gaspare Spatuzza.

«Questo è un processo su false dichiarazioni e reticenze», ha affermato al termine dell’udienza preliminare il pm Bonaccorso chiedendo il rinvio a giudizio dei quattro poliziotti della Squadra mobile di Palermo, le quali, «mascherate da “non ricordo”, si riferiscono a momenti scuri dell’attività investigativa del Gruppo “Falcone-Borsellino” che, secondo la tesi accusatoria, rappresentano dei momenti fondamentali nell’attività di inquinamento probatorio». Vi sarebbe, infatti, «una proporzionalità diretta tra i non ricordo», ha aggiunto Bonaccorso, secondo cui è andato in scena nel tempo un «atteggiamento di malafede dei testimoni al Borsellino quater e al processo depistaggio». «Questo perché – ha aggiunto il pm – c’è la percezione di muoversi in un campo minato dove una risposta sbagliata può avere conseguenze devastanti». Lo spartiacque della vicenda è stato inquadrato dalla Procura proprio nell’inizio della collaborazione con la giustizia del mafioso Gaspare Spatuzza, il quale, dal 2008, sconfessò la versione offerta da Scarantino e di chi lo aveva imbeccato. «Noi abbiamo un prima e dopo, un avanti Spatuzza e dopo Spatuzza. Come un avanti Cristo e dopo Cristo – ha detto Bonaccorso – Abbiamo un processo Borsellino uno, bis e ter prima di Spatuzza e dopo Spatuzza abbiamo il processo Borsellino quater e il depistaggio. Se andiamo ad esaminare le dichiarazioni dei poliziotti nei primi tre tronconi, quando ancora non si era il smantellato il castello di menzogne, abbiamo dei testimoni tranquilli e sereni che rendono dichiarazioni che dopo scopriremo essere totalmente false». Lo scorso giugno, nel processo parallelo che vede alla sbarra gli altri tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo per il depistaggio, la Corte d’Appello di Caltanissetta aveva dichiarato prescritto il reato di calunnia, essendo caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra.

A ogni modo, questa volta in sede processuale sono stati tirati in ballo direttamente i vertici dello Stato. Infatti, accogliendo le richieste degli avvocati di varie parti civili, a inizio ottobre il giudice dell’udienza preliminare David Salvucci ha citato la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno quali responsabili civili. In sostanza, dunque, sono state messe alla sbarra anche le istituzioni, che avrebbero coperto gli autori del depistaggio (o comunque non avrebbero vigilato adeguatamente sulle loro condotte). Ove i poliziotti a processo incorreranno in condanne, a rispondere saranno quindi anche il ministero dell’Interno, da cui dipende la Polizia, e la presidenza del Consiglio dei ministri, da cui dipendono invece i servizi segreti. Sulle decisioni del Gip non mancano, però, alcuni punti di non ritorno. Infatti, a differenza dei figli di Paolo Borsellino, il fratello Salvatore – fondatore del Movimento delle Agende Rosse – e i familiari degli agenti di scorta rimasti uccisi in Via D’Amelio, non sono stati ammessi come parte civile. Ufficialmente, come scritto nell’ordinanza, per «difetto dei requisiti». Non è un mistero che, in merito alla lettura dei retroscena della strage, siano emerse negli ultimi anni incolmabili divergenze tra la parte della famiglia Borsellino rappresentata dai figli del giudice e quella rappresentata dal fratello.

[di Stefano Baudino]

Pakistan, bomba in stazione: almeno 22 morti

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Almeno 22 persone sono morte e più di 40 sono rimaste ferite a causa dell’esplosione di una bomba in una stazione ferroviaria a Quetta, in Pakistan. Secondo la polizia, l’esplosione è avvenuta vicino alla biglietteria poco prima della partenza di un treno, il Jaffar Ex press per Rawalpindi, in Punjab, dove erano presenti circa un centinaio di persone. Morti e feriti sono stati trasportati all’ospedale civile di Quetta. Balochistan Liberation Army (BLA), un gruppo separatista etnico baloch, ha rivendicato la responsabilità della presunta esplosione suicida «contro un’unità dell’esercito pakistano».

Conflitti d’interesse e corruzione: la COP29 in Azerbaigian è una farsa prima di cominciare

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Tra l’11 e il 22 novembre si terrà a Baku, in Azerbaijan la COP 29, la ventinovesima conferenza annuale delle Nazioni Unite sulla lotta al cambiamento climatico. Per la prima volta, l’evento si svolgerà in una ex repubblica sovietica e vedrà tra i 40 e i 50 mila partecipanti, tra delegati, funzionari, leader politici e del mondo economico e finanziario e membri delle ONG – un numero estremamente elevato, seppur inferiore agli 84 mila partecipanti alla COP28 di Dubai dell’anno scorso. Al centro dell’evento di quest’anno vi sarà la discussione in merito ai finanziamenti, per i quali i Paesi sarebbero pronti a negoziare un nuovo obiettivo globale di finanza per il clima, il New Collective Quantified Goal (NCQG). Così come per gli Emirati Arabi Uniti lo scorso anno, l’Azerbaijan appare poco credibile come Paese ospitante dell’iniziativa sul clima. La sua economia dipende infatti in gran parte dall’estrazione di combustibile fossile, mentre la cultura politica, autoritaria e resistente all’esame critico, risulta in contrasto con i principi di trasparenza e inclusione su cui si fonda il sistema delle Nazioni Unite. Dunque, anche questa edizione della COP sembra essere avvolta dall’ipocrisia, oltre che costituire una questione di famiglia per il Presidente azero, Ilham Aliyev, in quanto buona parte delle aziende e degli sponsor collegati all’evento sono in mano a membri della sua famiglia.

COP Co-Opted, il rapporto pubblicato alla fine di ottobre da Transparency International e Anti-Corruption Data Collective, ha sollevato preoccupazioni sul fatto che la convenzione quadro «mancasse di protezioni contro l’influenza delle aziende e dei combustibili fossili nell’organizzazione della COP del Paese ospitante». Brice Böhmer, che ha guidato il lavoro di Transparency International sul cambiamento climatico e la governance, ha affermato che «senza linee guida su chi può essere un partner della COP e su come dovrebbe essere gestito il conflitto di interessi, è molto facile per i regimi corrotti assicurarsi che la loro famiglia e i loro amici possano usare la COP per ripulire i loro precedenti e beneficiare direttamente della COP».

Circa 5 mila tra i partecipanti alla Conferenza soggiorneranno in camere ultra-lussuose del Sea Breeze Resort, sul Mar Caspio, con accesso diretto a una spiaggia lunga sette chilometri, 50 bar e ristoranti e oltre 60 piscine. Il complesso turistico, che si estende su 500 ettari, appartiene a Emin Agalarov, ex genero del presidente Ilham Aliyev. Se già questo può ricoprire di un velo di ipocrisia l’evento, va inoltre aggiunto che buona parte delle aziende collegate all’evento e degli sponsor sono in mano a famigliari stretti del presidente.

Tra i partner ufficiali della COP29 figurano infatti il produttore alimentare Azersun e PASHA Holding, un conglomerato che abbraccia interessi nel settore bancario, assicurativo e delle costruzioni. La PASHA Holding appartiene a Leyla e Arzu Aliyeva, le due figlie adulte del presidente Aliyev. Hassan Gozal, nipote di Abdolbari Gozal, presidente di Azersun, è stato direttore di tre società costituite nelle Isole Vergini britanniche a nome delle sorelle Aliyeva, secondo un’indagine dell’International Consortium for Investigative Journalists.

Altri due sponsor della conferenza sul clima sono Silk Way West Airlines e un’azienda tessile chiamata GILTEX. La compagnia aerea è in ultima analisi di proprietà di un ex funzionario statale, Zaur Akhundov, mentre Arzu Aliyeva, figlia del presidente azero, era una dei tre proprietari di Silk Way Bank, l’ex braccio finanziario di Silk Way Group, di cui fa parte il vettore aereo. GILTEX, che controlla fino al 70% del mercato tessile locale, faceva parte di un conglomerato chiamato Gilan Holding. Un’indagine dell’OCCRP del 2018 ha rivelato che le figlie del Presidente Aliyev, attraverso una società registrata negli Emirati Arabi Uniti, avevano una partecipazione di maggioranza in Gilan Holding insieme ai figli di Kamaladdin Heydarov, ministro delle Situazioni di emergenza dell’Azerbaigian, nonché membro del comitato organizzatore della COP29.

Bank ABB, precedentemente nota come Banca Internazionale dell’Azerbaigian, è il Principal Banking Partner della COP e ha dichiarato di voler utilizzare «le intuizioni e le partnership forgiate alla COP29» per «promuovere soluzioni finanziarie che sostengano la stabilità ambientale, sociale ed economica». La banca fece notizia per il ruolo che ricoprì nello scandalo conosciuto con il nome di «lavanderia a gettoni azera», riguardante il riciclaggio di 2,9 miliardi di dollari. SOCAR Green, Energy Transition Partner dell’evento, è una filiale per l’energia pulita della compagnia petrolifera statale dell’Azerbaigian. Anche in questo caso, i due sponsor sono emblema di corruzione, poca trasparenza e ipocrisia nello svolgere della conferenza sul clima delle Nazioni Unite.

Amnesty International ha inoltre denunciato come l’Azerbaijan abbia una lunga storia di limitazione alla libertà di espressione, associazione e riunione. Le proteste pacifiche, comprese quelle tenute da gruppi ambientalisti, sono sempre state duramente represse e più di 300 persone sono attualmente incarcerate con accuse politicamente motivate. Il lavoro dei giornalisti è gravemente ostacolato da leggi draconiane e dalla costante minaccia di ritorsioni. La maggior parte dei media indipendenti sono stati eliminati, così come vaste fasce della società civile dell’Azerbaigian. La tortura e altri maltrattamenti durante la detenzione sono diffusi in Azerbaigian e l’impunità è radicata.

Insomma, questi sono gli ingredienti della COP29 delle Nazioni Unite che si terrà a breve in Azerbaijan. Non proprio adatti alla credibilità e alla riuscita della conferenza sul clima.

[di Michele Manfrin]

California, 10 mila sfollati a causa degli incendi

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Oltre 10 mila persone sono state costrette ad abbandonare la propria casa in California, a causa di un incendio scoppiato mercoledì 6 novembre, che le autorità non sono ancora riuscite a domare. A complicare la situazione sono la siccità e gli arbusti secchi, che prendono velocemente fuoco, oltre ai venti fino a 130 km/h. Nella zona dove si è propagato l’incendio, estesa per 8 mila ettari, vivono circa 30 mila persone.

Negli USA industria della carne e Fbi collaborano per controllare gli animalisti

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Secondo i documenti ottenuti dall’organizzazione no-profit Animal Partisan grazie al Freedom of Information Act, FBI e industria della carne hanno creato un sodalizio con l’intento di reprimere l’attivismo ecologista e antispecista, designandolo come terrorismo. Dai documenti si evince infatti che l’Agenzia Federale vorrebbe incriminare gli attivisti che irrompono negli allevamenti intensivi in base alle norme previste dallo statuto che vieta l’utilizzo delle armi biologiche, coinvolgendo anche il proprio ufficio interno dedicato alle armi di distruzione di massa. Il tentativo potrebbe essere quello di incolpare gli attivisti del dilagare dei virus all’interno degli allevamenti intensivi, con ipotesi di reato per le quali è previsto anche l’ergastolo. Avvocati e i difensori degli animali hanno fortemente criticato il tentativo di legittimare l’azione penale federale contro gli attivisti, sottolineando come la diffusione delle malattie all’interno degli stabilimenti intensivi sia una problematica che dipende dal loro stesso funzionamento.

Tutto nasce nel 2019, dopo un’azione diretta di membri di Meat the Victims, un movimento globale e decentralizzato che intende abolire lo sfruttamento degli animali. Gli attivisti erano entrati in un allevamento intensivo in Texas, fotografando le condizioni di un capannone in cui erano stipati quasi 30.000 pulcini. Foto raccapriccianti sulle condizioni esistenziali ed igieniche di questi esseri viventi, decine dei quali già morti e in vari stati di decomposizione, erano poi state pubblicate su internet. Almeno da allora, l’FBI ha iniziato a collaborare a stretto contatto con i produttori di carne, chiedendo loro di inviare le segnalazioni delle intrusioni dei gruppi animalisti e ambientalisti così da poter indagare e perseguire gli attivisti. Agenti del FBI hanno anche iniziato a partecipare a iniziative organizzate e promosse dall’industria zootecnica.

Due documenti del FBI rivelano una fiorente relazione tra l’industria della carne e l’ufficio del Bureau sulle armi di distruzione di massa, incaricato di contrastare le più gravi minacce biologiche, chimiche, radiologiche e nucleari. Ciascuno dei 56 uffici sul campo del FBI ha un agente designato incaricato di indagare sui sospetti usi di armi di distruzione di massa. Uno dei due documenti designa l’attivismo ecologista e antispecista come terrorismo interno, definendolo “agroterrorismo”. Un altro documento interno del FBI, del Sacramento Field Office, prende di mira Direct Action Everywhere (DxE), un gruppo per i diritti degli animali con sede a Berkeley, definendolo una minaccia di bio-terrorismo. Il documento del FBI afferma che il DxE, con l’intrusione dei suoi attivisti negli allevamenti intensivi, aveva incautamente aumentato il rischio di diffusione di agenti patogeni virali.

«L’inquadramento stesso della disobbedienza civile contro gli allevamenti intensivi come terrorismo è una forma di repressione governativa», ha detto Justin Marceau, professore di diritto che gestisce una clinica legale per attivisti animalisti presso l’Università di Denver. Marceau ha spiegato anche che questa attenzione all’agroterrorismo può non solo servire per una severa repressione degli attivisti ma anche come un tentativo di incolparli per le dilaganti epidemie negli allevamenti intensivi e quindi di deresponsabilizzare un sistema che, inevitabilmente, crea le condizioni per il diffondersi di virus e malattie.

[di Michele Manfrin]

Amsterdam, 67 arresti dopo gli scontri tra tifosi olandesi e israeliani

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Sarebbero 67 le persone arrestate dopo gli scontri tra tifosi israeliani e olandesi, avvenuti al termine della partita di calcio Ajax-Maccabi Tel Aviv disputata nella serata di giovedì 7 novembre. Secondo alcuni media, prima della partita i tifosi israeliani avrebbero inscenato una manifestazione nella quale avrebbero distrutto una bandiera palestinese e intonato cori anti-arabi. Dopo la partita sono quindi stati aggrediti dai tifosi olandesi e in 5 sono finiti all’ospedale. L’incidente ha causato una crisi diplomatica: il premier olandese ha dichiarato di essere «inorridito dagli attacchi antisemiti», mentre l’ufficio del primo ministro israeliano Netanyahu ha annunciato l’invio di aerei nei Paesi Bassi per riportare a casa i tifosi.

Genocidio di Gaza: 30 gruppi ebraici sostengono la relatrice ONU Francesca Albanese

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Dopo la pubblicazione del suo ultimo rapporto Genocide as Colonial Erasure, (Il Genocidio come Cancellazione Coloniale), unito alla proposta di considerare la sospensione di Israele dall’ONU, si sono susseguiti gli attacchi contro la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Occupati Palestinesi Francesca Albanese. L’ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon, l’ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield, così come numerose organizzazioni pro-israeliane hanno gridato all’antisemitismo, chiedendo che le venisse revocato il mandato. Israele e numerosi Stati occidentali non voglio infatti che si parli di genocidio, tacciando di antisemitismo ogni critica alla politica coloniale israeliana e alle sue conseguenze. Il 5 novembre trenta organizzazioni e gruppi ebraici hanno sottoscritto una dichiarazione condivisa in cui prendono una posizione netta a difesa dell’esperta, parlando di strumentalizzazione del termine di antisemitismo e denunciando la complicità militare dei governi occidentali nell’annientamento di Gaza. Riportiamo di seguito il testo della dichiarazione:

Come organizzazioni e gruppi ebraici, esprimiamo il nostro sostegno a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967.

La signora Albanese è stata oggetto di attacchi incessanti da parte di organizzazioni politicamente motivate come UN Watch, che hanno condotto campagne diffamatorie tossiche per metterla a tacere e danneggiare il suo mandato sui diritti umani. Queste organizzazioni hanno un unico obiettivo: proteggere il governo israeliano dalle critiche internazionali e dalla responsabilità legale.

Purtroppo, i rappresentanti di alcuni governi occidentali hanno dato una forte spinta a queste campagne diffamatorie, accusando la signora Albanese di antisemitismo. Respingiamo tali accuse, che sono infondate e istigano in maniera sconsiderata contro la signora Albanese, con il rischio di mettere in pericolo la sua sicurezza personale.

Intervenendo in difesa di più di due milioni di civili a Gaza, le cui vite sono minacciate esistenzialmente, anche dalla fame deliberata, la signora Albanese ha denunciato la collusione politica e la complicità militare dei governi occidentali nell’annientamento di Gaza da parte di Israele. Invece di fermare i crimini di guerra di Israele, alcuni di questi governi stanno cercando di mettere a tacere la messaggera.

Come ebrei impegnati per la giustizia, l’uguaglianza e i diritti umani universali, condanniamo fermamente il vergognoso sostegno diplomatico e militare che molti governi occidentali, in particolare gli Stati Uniti e la Germania, hanno offerto alla continua campagna di uccisioni di massa di civili palestinesi da parte di Israele e alla sua barbara distruzione di tutte le basi della vita palestinese a Gaza.

Per estensione, condanniamo la crescente strumentalizzazione dell’antisemitismo a questo proposito, in particolare attraverso la definizione altamente controversa di antisemitismo dell’IHRA, che viene anche usata come arma contro la signora Albanese e le Nazioni Unite più in generale.

Con la protezione dei governi statunitense ed europeo, Israele ha ucciso decine di migliaia di civili palestinesi in nome della “protezione degli ebrei”. Oltre al catastrofico fallimento di civiltà che la tolleranza internazionale di queste uccisioni rappresenta, questa orribile violenza e crudeltà non porterà sicurezza agli ebrei. Al contrario, l’imprecisa e malaugurata conflazione dello Stato di Israele con il popolo ebraico espone e mette in pericolo gli ebrei.

Guidati dalla lunga tradizione umanistica ebraica e dalle lezioni universali della Shoah, ci solleviamo per fermare il governo israeliano nel suo attacco genocida a Gaza. Deploriamo fortemente che le organizzazioni ebraiche affermate, che pretendono di rappresentare le comunità ebraiche in Europa e nel Nord America, abbiano scelto di mantenere il loro cieco sostegno al governo israeliano – nonostante i suoi orribili crimini di guerra a Gaza e l’escalation di violenza contro i palestinesi in Cisgiordania.

Altrettanto deplorevole è il fatto che diversi “coordinatori nazionali per la lotta all’antisemitismo” siano diventati complici di questo approccio immorale e fuorviante, attraverso la loro stretta collaborazione con il governo israeliano e la loro ossessiva promozione della definizione dell’IHRA. Non potrebbero rendere un disservizio maggiore alla lotta contro l’antisemitismo, cinicamente alimentata da politici di destra che tendono a ignorare.

L’unica strada verso la sicurezza e la stabilità per tutti è un approccio basato sui diritti umani e la riaffermazione dell’ordine giuridico internazionale attraverso l’applicazione coerente del diritto internazionale – proprio ciò che la signora Albanese sostiene e chiede.

Ci congratuliamo per l’eccezionale fermezza morale della relatrice delle Nazioni Unite per i diritti umani Albanese in mezzo alle indicibili sofferenze dei palestinesi e di fronte agli attacchi maligni contro di lei e il suo mandato ONU.

I gruppi firmatari sono i seguenti:

A Different Jewish Voice (Olanda)
Antizionist Jewish Alliance in Belgium (Belgio)
Boycott from Within (Palestina/Israele)
Decolonizer (Belgio)
Een Andere Joodse Stem (Belgio)
European Jews for a Just Peace (Europa)
European Jews for Palestine (Europa)
IfNotNow Toronto (Canada)
Independent Jewish Voices (Canada)
International Jewish Anti-Zionist Network (Argentina)
International Jewish Anti-Zionist Network (Spagna)
International Jewish Anti-Zionist Network (Regno Unito)
Israelis Against Apartheid (Israele/Palestina)
Jewish Call for Peace (Lussemburgo)
Jewish Voice for Labour (Regno Unito)
Jews for Justice for Palestinians (Regno Unito)
Jews for Palestine (Irlanda)
Jøder for Retfærdig Fred af 5784 (Danimarca)
Jødiske Stemmer for Rettferdig Fred (Norvegia)
Judeobolschewiener*innen (Austria)
Judeus pela Paz e Justiça (Portogallo)
Jüdische Stimme für Demokratie und Gerechtigkeit in Israel/Palästina (Svizzera)
Jüdische Stimme für gerechten Frieden im Nahen Osten (Germania)
Junts Associació Catalana de Jueus i Palestins (Spagna)
MARAD, Collectif juif decolonial (Svizzera)
Nahlieli – Jews For Justice In Palestine (Finlandia)
Tsedek! (Francia)
Union des progressistes juifs de Belgique (Belgio)
Union juive française pour la paix (Francia)
United Jewish People’s Order (Canada)

[Moira Amargi]

Tenerife Horse Rescue: Il Santuario per animali nel Deserto

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Nascosto nel cuore dell’isola di Tenerife, in mezzo al deserto, vi è il Tenerife Horse Rescue, santuario per animali che offre un riparo sicuro, cure e una seconda possibilità agli animali in difficoltà. Il suo obiettivo è di avere un impatto positivo sulla comunità e sugli animali che accoglie, cercando di mettere in atto pratiche sostenibili quali il riciclo e l’autoproduzione. Nel santuario vengono accolti animali di ogni tipo, in particolar modo quelli che provengono da contesti dove il loro stato di benessere può essere trascurato, come le fattorie o gli allevamenti. «Qui, tutto ha una seconda possibilità» afferma Edo, tra i suoi fondatori, sottolineando l’impegno della struttura verso la compassione e il rinnovamento, «ogni animale qui ha una storia». Oltre a fornire un rifugio, il Tenerife Horse Rescue è diventato un luogo di trasformazione, attirando persone che cercano un nuovo inizio e un senso di comunità.

Un luogo di aiuto e recupero, nel segno della sostenibilità

L’obiettivo principale di Tenerife Horse Rescue è riabilitare gli animali e, quando possibile, trovare loro una casa definitiva. Questa missione va oltre la creazione di un rifugio sicuro, puntando a creare uno spazio in cui animali e persone possono coesistere in armonia. I volontari a breve termine sono una parte essenziale del supporto al santuario, aiutando con le spese veterinarie e nelle attività quotidiane – tra queste, la manutenzione del giardino, la cura degli spazi e l’organizzazione di eventi. 

L’impegno per la sostenibilità è una delle caratteristiche principali del rifugio, che, utilizzando metodi ecologici, cerca di gestire le risorse nel modo più efficiente possibile, riducendo gli sprechi. Così, l’acqua potabile viene raccolta in serbatoi e utilizzata con parsimonia, mentre quella non potabile viene filtrata e riutilizzata per annaffiare le piante. Gli scarti degli animali sono usati per riscaldare l’acqua e come fertilizzante per l’orto, riducendo i costi e promuovendo un ciclo di vita sostenibile.

Attraverso il riciclo, inoltre, i rifiuti vengono trasformati in risorse preziose. Edo sottolinea che «dalla spazzatura si può trovare oro»: qualsiasi materiale riutilizzabile viene infatti recuperato e impiegato per costruzioni e altre necessità del santuario. Molte delle strutture sono realizzate con materiali riciclati, al fine di realizzare uno spazio accogliente e funzionale con il minimo impatto ambientale. 

Un impegno per il futuro

Nella visione dei fondatori e dei volontari del Tenerife Horse Rescue, un aspetto fondamentale è educare le persone sulla sostenibilità e sul benessere degli animali, costruendo così una connessione più profonda tra uomo e natura. Per questo motivo, tra i piani futuri c’è il riutilizzo di vecchi serbatoi d’acqua come spazi didattici per condividere conoscenze su animali e pratiche ecologiche. Il motto del santuario, «Eutopia: scoprire sogni che diventano realtà», riflette questo obiettivo ispiratore.

Il santuario ha anche un impatto positivo sulla comunità locale, grazie ai programmi di volontariato e collaborazioni con supermercati. Raccogliendo cibo in eccesso, i gestori del rifugio cercano di ridurre lo spreco alimentare, nutrendo sia gli animali che le persone in difficoltà. Questa iniziativa aiuta a supportare quasi 400 animali e 50-60 persone al giorno, promuovendo una cultura della responsabilità e della consapevolezza ambientale. 

[di Bernardo Cumbo]