lunedì 29 Dicembre 2025
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Una sentenza negli USA dichiara la bandiera israeliana simbolo di ebraismo

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Un giudice federale statunitense ha equiparato la bandiera israeliana a quella che ha definito «razza ebraica». La decisione arriva nell’ambito di una causa intentata da un’attivista pro-Israele, che ha accusato una persona di averla aggredita durante una manifestazione. Secondo la ricostruzione accolta dal tribunale, l’attivista portava al collo una bandiera israeliana, che la sua presunta assalitrice avrebbe tirato, strangolandola brevemente; la difesa, invece, sosteneva che tra le due ci sarebbe stato un breve scontro e che la kefiah dell’imputata si sarebbe impigliata nella bandiera. L’atto, in ogni caso, è antisemita, ritiene il tribunale di Washington DC, perché legato a un simbolo della religione ebraica: la stella di David disegnata sulla bandiera. La decisione del giudice stabilisce un nuovo standard legale che può essere utilizzato per equiparare antisionismo e discriminazione antiebraica. Con essa, insomma, viene portata avanti una diretta equiparazione tra antisionismo e antisemitismo, identificando lo Stato di Israele con la religione ebraica stessa.

La causa dell’attivista pro-Israele è stata presentata lo scorso luglio dal National Jewish Advocacy Center, un’organizzazione no-profit che ha rappresentato l’attivista. Le versioni fornite sulla vicenda sono due: l’attivista sostiene di essere stata strangolata per breve tempo dopo una colluttazione con l’imputata, che avrebbe tirato la bandiera attorno al suo collo; la difesa invece affermava che tra le due ci sarebbe stato uno scontro senza alcun contatto di natura dolosa, e che la kefiah – tipica sciarpa palestinese – dell’imputata si sarebbe impigliata nella bandiera dell’attivista pro-Israele. Comunque sia andata, a fermare la situazione è arrivato un agente delle forze dell’ordine, che ha arrestato l’imputata. L’agente ha fornito una testimonianza senza esporsi in tribunale, dove, sottolineano gli stessi giornali israeliani che riportano la vicenda, “l’aggressione deve essere provata oltre ogni ragionevole dubbio”.

L’ONG sosteneva che i diritti civili dell’attivista sarebbero stati violati perché aggredita su base etnica; nella causa, spiegano i giornali israeliani che hanno intervistato i rappresentanti dell’ONG, veniva argomentato che il sionismo costituirebbe un aspetto della fede ebraica, e non una posizione politica. I legali hanno utilizzato un’interpretazione del concetto di sionismo come forma di protezione degli ebrei filo-israeliani, individuando nell’antisionismo un’idea che mina i diritti civili statunitensi nell’ambito di religione, etnia e origine nazionale. Il tribunale ha stabilito che l’imputata «ha deliberatamente discriminato [l’attivista] su base razziale», portando come prova la testimonianza dell’agente che l’ha arrestata. La violenza, sostiene il giudice, non si sarebbe verificata se non ci fossero stati motivi di discriminazione razziale: «Tirare deliberatamente una bandiera israeliana legata al collo di una persona ebrea per strangolarla è una prova diretta di discriminazione razziale», si legge nelle argomentazioni del giudice. «La Stella di Davidimpressa sulla bandiera israelianasimboleggia la razza ebraica». Secondo il giudice, insomma, l’imputata avrebbe strangolato deliberatamente l’attivista pro-Israele, e il fatto che per portare avanti la propria aggressione abbia usato una bandiera israeliana costituirebbe una prova della natura antisemita del presunto attacco.

L’equazione utilizzata dal tribunale statunitense mette in parallelo la religione ebraica ai propri simboli – in questo caso la stella di David – e quegli stessi simboli a Israele, poiché la stella di David è presente sulla sua bandiera. Come ha spiegato Matthew Mainen, avvocato di NJAC, la sentenza del giudice «consolida la giurisprudenza che equipara gli attacchi alla Stella di David e alla bandiera israeliana all’antisemitismo». Nelle future cause, spiega l’avvocato, l’accusa potrà citare questa vicenda «come prova dell’esistenza di uno standard giuridico che equipara l’antisionismo alla discriminazione antiebraica». Insomma, chiosa l’avvocato, «l’antisionismo è ovviamente antisemitismo».

Yemen: Israele bombarda una centrale elettrica

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L’esercito israeliano ha colpito una centrale elettrica nella capitale yemenita Sana’a, controllata dal movimento Ansar Allah, meglio noto con il nome di Houthi. Il bombardamento è avvenuto all’alba di oggi, domenica 17 agosto, e, di preciso, ha preso di mira i generatori della centrale elettrica di Haziz, nel distretto di Sanhan, a sud della capitale. Da quanto comunicano i media ufficiali di Ansar Allah, sarebbero stati lanciati due distinti attacchi, che avrebbero messo fuori servizio alcuni dei generatori. Subito dopo i bombardamenti sarebbe scoppiato un incendio, che tuttavia sarebbe stato domato dalle autorità yemenite. Non sono stati riportati feriti.

Pisa, morta ventenne arrivata da Gaza malnutrita

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È morta a Pisa Marah Abu Zuhri, la ventenne palestinese arrivata meno di 24 ore prima dalla Striscia di Gaza con un volo militare nell’ambito dell’operazione umanitaria del governo italiano. Lo rivela l’Azienda ospedaliero-universitaria pisana alla stampa, aggiungendo che la giovane era giunta in condizioni gravissime, segnata da una profonda malnutrizione, ed era stata ricoverata d’urgenza all’ospedale di Cisanello. Nonostante i primi interventi, una crisi respiratoria improvvisa ha causato l’arresto cardiaco che le è stato fatale. «Il sistema sanitario regionale con il proprio personale, che ringrazio, sarà sempre in prima fila per garantire massimo sostegno a favore della popolazione di Gaza», commenta il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani.

Meta era pronta a tollerare le interazioni sessuali tra IA e bambini

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Documenti interni a Meta hanno portato alla luce le politiche aziendali sui chatbot di intelligenza artificiale. Dai carteggi emerge che, spinta dal desiderio di dimostrarsi competitiva, l’azienda sia disposta a tollerare, da parte di questi strumenti, una serie di atteggiamenti controversi. Tra questi figurano la generazione di contenuti provocatori o discriminatori, la diffusione di disinformazione medica e persino l’intrattenimento di conversazioni a sfondo sessuale o romantico con bambini.

La notizia è stata riportata da Reuters, agenzia di stampa che è riuscita a mettere le mani su GenAI: Content Risk Standards, un vademecum approvatoda diversi rami aziendali, tra cui quello legale e quello etico. Si tratta di un documento di oltre 200 pagine che fornisce indicazioni precise sugli atteggiamenti che il personale dovrebbe o non dovrebbe considerare accettabili da parte dei chatbot basati sui sistemi di IA di Meta.

Il margine di tolleranza delineato è ampio: secondo le rivelazioni, Meta ritiene accettabile che lo strumento “coinvolga un infante in conversazioni di natura romantica o sensuale”, che “descriva un bambino in termini che evidenzino la sua attrattività” o che supporti gli utenti nello sviluppare tesi controverse, ad esempio che la popolazione nera sia “più sciocca dei bianchi”. I carteggi spiegano inoltre che Meta AI si tuteli dalle possibili ripercussioni legali dei contenuti prodotti dalle sue macchine inserendo avvisi che segnalano come tali informazioni possano essere “verificabilmente false”. Tra gli esempi riportati, viene citata la possibilità che il chatbot elabori un testo di approfondimento sulla presunta infezione da clamidia che, secondo il gossip, colpirebbe l’intera famiglia reale britannica.

Meta ha confermato l’autenticità del documento, precisando che, da quando la stampa ha iniziato a occuparsi della vicenda, l’azienda ha rimosso i passaggi in cui veniva considerato tollerabile che un’IA flirtasse con minori o partecipasse a giochi di ruolo per impersonare un loro ipotetico partner amoroso. Nonostante tali rassicurazioni, l’episodio si inserisce in un contesto in cui Meta – come altre Big Tech – ha ormai reso esplicite le proprie priorità, soprattutto in materia di tutela dei minori.

Nel luglio scorso, Meta è stata citata in giudizio da Strike 3 Holdings e Counterlife Media, due case di produzione di film pornografici, che accusano la compagnia di aver addestrato le proprie IA utilizzando senza autorizzazione almeno 2.396 dei loro film. La denuncia appare plausibile: se un tempo le aziende mostravano prudenza nell’impiegare materiali pornografici per l’addestramento delle IA, oggi la sete di dati le ha spinte a raccogliere qualsiasi contenuto adulto disponibile in rete. Una tendenza che, secondo molti, sta contribuendo a creare sistemi capaci di promuovere un’immagine distorta delle donne e delle minoranze etniche, oltre a facilitare la produzione di materiale pedopornografico.

L’atteggiamento di scarso interesse di Meta nei confronti della protezione dei minori è stato messo in evidenza anche di recente, con una causa promossa da NetChoice – associazione di categoria che rappresenta i principali portali del web – contro lo stato del Colorado. Giovedì 14 agosto è stata infatti depositata una denuncia nella quale i social media chiedono a un giudice federale di annullare una legge che impone di notificare agli utenti minorenni, tramite messaggi pop-up, gli impatti psicologici che l’uso dei social può avere sui giovani. Secondo la coalizione industriale, tali segnalazioni violerebbero il Primo Emendamento della Costituzione statunitense, quello sulla libertà di parola, in quanto obbligherebbero le piattaforme a diffondere messaggi specifici che, evidentemente, non riflettono le reali preoccupazioni delle aziende coinvolte.

Pakistan, piogge e inondazioni provocano oltre 300 morti

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In Pakistan, nella provincia nord-occidentale di Khyber Pakhtunkhwa, forti piogge e inondazioni hanno provocato 307 decessi in 48 ore, e il numero sembra destinato ad aumentare a causa dei centinaia di dispersi. Lo riferiscono le autorità locali alle agenzie di stampa internazionali, aggiungendo che anche fulmini, frane e crolli di edifici hanno contribuito all’ondata più letale della stagione monsonica di quest’anno. Tra le aree più colpite c’è il distretto di Buner, a tre ore e mezza di auto a nord della capitale Islamabad, dove si contano 184 vittime e danni ingenti a infrastrutture, coltivazioni e frutteti. «I nostri cuori sono rivolti alle famiglie che hanno perso i propri cari, a coloro che sono rimasti feriti e a quanti hanno visto le loro case e i loro mezzi di sussistenza spazzati via», ha dichiarato il ministro Ishaq Dar.

Il governo Meloni si lava la coscienza ospitando 31 bambini palestinesi per curarli

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Italiani fiancheggiatori del genocidio, ma sempre “brava gente”. Potrebbe essere riassunto così l’atteggiamento del governo Meloni che, mentre continua a bloccare qualsiasi misura contro il governo israeliano in discussione a Bruxelles e a rifiutarsi di riconoscere lo Stato di Palestina, ha annunciato con enfasi l’arrivo negli ospedali italiani di 114 palestinesi, tra cui 31 bambini bisognosi di cure per «ferite ed amputazioni»: ossia per essere curati dagli effetti delle bombe e dei proiettili che l’esercito israeliano continua a scaricare su Gaza con il silenzio complice anche dello stesso governo italiano. «Continueremo a sostenere la popolazione civile di Gaza e a lavorare per raggiungere la pace – ha scritto su X il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che da mesi nega che a Gaza sia in atto un genocidio -. I bambini sono un simbolo di speranza e di futuro: garantire loro cure e assistenza sanitaria è un dovere». Intanto, a Gaza, il numero di bambini uccisi è arrivato a oltre 18mila.

I bambini provenienti dalla Striscia di Gaza, accompagnati da 83 profughi palestinesi, sono arrivati sul suolo italiano mercoledì sera per ricevere urgenti cure mediche. L’operazione sanitaria, la più grande dal gennaio 2024, ha visto l’impiego di tre aerei da trasporto C-130 dell’Aeronautica militare. I voli sono partiti da Pisa, passando per il Cairo e Ramon (Eilat), e hanno portato i piccoli pazienti, affetti da gravi malformazioni congenite o ferite importanti, verso strutture ospedaliere dello Stivale. L’operazione, coordinata dalla presidenza del Consiglio e in collaborazione con vari ministeri e organismi internazionali, si inserisce nel contesto delle attività umanitarie italiane, come il progetto “Food for Gaza”. A presenziare all’arrivo dei profughi c’era il ministro degli Esteri Antonio Tajani. «Ci auguriamo che il buon senso prevalga e finisca la guerra il prima possibile», ha detto ai cronisti sul posto, ribadendo «contrarietà» per la nuova operazione israeliana a Gaza e invitando Hamas a «liberare senza ulteriori perdite di tempo gli ostaggi israeliani».

Sin dal 2023, Tajani aveva sempre preso le parti di Israele. Nel gennaio scorso, quando già si contavano quasi 47mila morti nella Striscia, ai microfoni di Report era arrivato a dichiarareNetanyahu non sta commettendo alcun crimine di guerra a Gaza». Poi, negli ultimi tempi, una timida inversione di rotta, mantenendo comunque un eloquente equilibrismo. «Non c’è giuridicamente genocidio, che è una decisione preordinata di sterminare un popolo. Stanno facendo delle cose inaccettabili a Gaza ma non è un genocidio. Quello è ciò che aveva pianificato Hitler contro gli ebrei, che aveva deciso di sterminarli – ha dichiarato lo scorso 7 agosto –. Qui c’è una guerra in corso e si sta colpendo, secondo me, oltre ogni limite la popolazione civile che non ha nulla a che fare con Hamas». Negli ultimi giorni, invece, è uscito con dichiarazioni assai più dure il ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto. In un’intervista a La Stampa, quest’ultimo ha affermato che «a Gaza siamo di fronte alla pura negazione del diritto e dei valori fondanti della nostra civiltà», aggiungendo che «non convince più» la motivazione della «legittima difesa di una democrazia di fronte a un terribile attacco terroristico», e che «contro l’occupazione di Gaza e alcuni atti gravi in Cisgiordania» occorre «prendere decisioni che obblighino Netanyahu a ragionare».

Eppure, nessuna mossa concreta è stata assunta dal governo italiano per contribuire a fermare i massacri in corso in Palesina. Nonostante le parole di condanna di Giorgia Meloni e Antonio Tajani dello scorso luglio dopo quasi due anni di violenze e più di 50mila morti – arrivate, per amor di verità, solo quando l’esercito israeliano ha colpito la Chiesa cattolica della Sacra Famiglia, l’unica presente nella Striscia –, l’Italia non ha infatti intrapreso azioni politiche decisive, come il riconoscimento dello Stato di Palestina o la sospensione dei trattati con Israele. La proposta di fermare la cooperazione militare con Israele e l’interruzione dell’Accordo di associazione UE-Israele è stata ignorata, così come il blocco del commercio di armi verso Israele e la sospensione degli scambi con le colonie israeliane, nonostante il parere della Corte Internazionale di Giustizia. Mentre altri Paesi europei hanno intrapreso azioni simili, come Belgio, Spagna e Regno Unito, il nostro Paese ha impedito misure analoghe, mantenendo una posizione di sostegno implicito a Israele.

Sciopero assistenti di volo, Air Canada sospende tutte le operazioni

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Air Canada ha annunciato la sospensione di tutti i voli a causa di uno sciopero degli assistenti di volo. Con circa 700 voli al giorno verso 65 paesi e 130.000 passeggeri, la compagnia ha dovuto cancellare 623 voli già venerdì sera. Air Canada ha cercato di riprogrammare i voli sugli aerei di altre compagnie, ma la difficoltà di trovare posti liberi durante l’estate ha complicato la situazione, dal momento che Air Canada detiene oltre il 40% del mercato canadese. Oltre agli aumenti salariali, il sindacato richiede il pagamento del lavoro a terra non retribuito, incluso quello svolto durante l’imbarco.

Air Canada ha annunciato la sospensione di tutti i voli a causa di uno sciopero degli assistenti di volo. Con circa 700 voli al giorno verso 65 paesi e 130.000 passeggeri, la compagnia ha dovuto cancellare 623 voli già venerdì sera. Air Canada ha cercato di riprogrammare i voli sugli aerei di altre compagnie, ma la difficoltà di trovare posti liberi durante l’estate ha complicato la situazione, dal momento che Air Canada detiene oltre il 40% del mercato canadese. Oltre agli aumenti salariali, il sindacato richiede il pagamento del lavoro a terra non retribuito, incluso quello svolto durante l’imbarco.

Feria d’agosto

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Rubo il titolo a Cesare Pavese il quale pensava che l’estate fosse il tempo del mito; un autore che coltivava l’assoluto di un giorno qualsiasi, le voci magiche di donne sconosciute, lo sguardo dell’orizzonte come fossero gli occhi di un dio, che attribuiva umori alla natura, che scambiava la morte con un ricco faticoso raccolto, lui che fondeva la realtà di un dolore segreto con il tempo del destino incompiuto.

Cesare, io vorrei prendere questi giorni come specchio di un bisogno simbolico, il senso di un altrove, di uno spazio riservato, di una fantasia che trasforma il frastuono in un canto liberatore, di un sussurro che gareggia con i lievi turbini di un rio.

Questi pochi, estesi giorni d’agosto che l’imperatore romano concedeva, insieme alle libertates decembris, consapevole che anche il potere richiede una ricreazione per il popolo, la vittoria temporanea di una fantasia che capovolga le consuetudini e le obbedienze.

Feria d’agosto rende fertili, lente, dense e colme di amore le ore sottratte alla convenienza e alle necessità.

Feria di agosto è il tempo della nostra rivincita, del glorioso scetticismo con cui riempiamo spiagge, tavolate e passeggiate, dove il poco diventa sublime, perché è gioia per incontri festosi.

La felicità di Ferragosto segue le stelle cadenti, fa un tutt’uno con le scappate da casa, sa di liberazione, si commuove di attimi, si accontenta di istanti rubati, di spazi sottratti, sogna perché è religiosa e proletaria, artistica e rivoluzionaria, povera e sterminata, unica ma ripetibile.

Dacci il nostro pane moltiplicato da un Ferragosto senza orari, illuminato da un bisogno di amore, di confidenza, di gioia, di cielo e di mare, per ritrovare prima di tutto noi stessi, dopo essersi felicemente smarriti, noi, io e te e gli altri, limitati e divini come i giorni di cui ci è dato gioire.

Per finire ecco qualche parola di Feria d’agosto, la declamazione tragica e sottile di Cesare, il nostro irripetibile profeta: 

«Una notte di agosto, di quelle agitate da un vento tiepido e tempestoso, camminavamo sul marciapiede indugiando e scambiando rade parole. Il vento che ci faceva carezze improvvise, m’impresse su guance e labbra un’ondata odorosa, poi continuò i suoi mulinelli tra le foglie già secche del viale. Ora, non so se quel tepore sapesse di donna o di foglie estive, ma il cuore mi traboccò improvvisamente, tanto che mi fermai».

La letteratura è utopia, Cesare Pavese scrittore è e rimane il sacerdote di un sogno.

Massacri a Gaza: 44 morti in 24 ore e raid mortali notturni

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Solo ieri, almeno 44 persone sono state uccise dagli attacchi israeliani a Gaza, mentre raid mortali sono proseguiti nella notte. Aerei da combattimento israeliani hanno infatti bombardato una casa nel campo profughi di Bureij, nella zona centrale di Gaza, uccidendo sei palestinesi, tra cui quattro bambini. Uccisi anche sei palestinesi in cerca di aiuti nella zona di Zikim, nel nord-ovest di Gaza, mentre un marito e una moglie sono deceduti in un bombardamento ad al-Mawasi, vicino a Khan Younis. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani afferma che almeno 1.760 palestinesi sono rimasti uccisi mentre cercavano aiuti dalla fine di maggio.

Trump-Putin parlano assieme e annunciano “grandi progressi”, ma nessun dettaglio

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L’aspettativa era quella tipica di un momento storico e, sotto molti aspetti, l’attesa è stata ripagata. Ieri, venerdì 15 agosto, il presidente americano Trump e il presidente russo Putin hanno tenuto un colloquio privato di quasi tre ore alla Joint base Elmendorf-Richardson a Anchorage, in Alaska, incentrato sulla risoluzione del conflitto russo-ucraino. Un incontro, a detta di entrambi e dei rispettivi staff di consiglieri che li hanno coadiuvati, «molto positivo». Prima del vertice, i due leader si erano già incontrati in aeroporto, dove, a favore di telecamera, avevano mostrato grande affinità e confidenza reciproca. L’incontro è sfociato in un punto stampa in cui Trump e Putin si sono spesi in vicendevoli lodi, auspicando un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia sul versante politico-commerciale. Putin ha aperto alla prospettiva della pace in Ucraina, mentre Trump ha fatto riferimento ad alcuni punti su cui non si è ancora giunti a un accordo, mostrandosi però ottimista. Al momento non ci sono le condizioni per un cessate il fuoco, ma tutti gli indicatori – sebbene i dettagli del colloquio non siano stati resi noti – dimostrano la potenziale crucialità di questo primo passo.

Attorno alle 21 italiane di ieri (le 11 locali), il Presidente russo Putin è arrivato alla Base Congiunta Elmendorf-Richardson di Anchorage, in Alaska, dove lo aspettava il presidente USA Donald Trump, con cui non si incontrava dal 2019. Quest’ultimo lo ha accolto con grandi sorrisi e addirittura con un applauso, catturato dalle telecamere in diretta (un frammento video che è stato poi fatto sparire dai filmati pubblicati dagli account ufficiali della Casa Bianca). I due leader hanno successivamente percorso insieme un tappeto rosso passando davanti alla guardia d’onore, prima di salire a bordo della stessa auto – fattore non scontato – che li ha portati al luogo del vertice. E, se come spesso si dice, “la forma è anche sostanza”, tutto faceva presagire che l’occasione non sarebbe stata persa. Ai colloqui, a porte chiuse, hanno partecipato, per la Russia, il ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il consigliere Yuri Ushakov; per gli USA c’erano il segretario di Stato Marco Rubio e l’inviato speciale Steve Witkoff. Il meeting è durato due ore e quarantacinque minuti, poi i due leader hanno raggiunto la sala stampa per rilasciare le dichiarazioni di rito, senza però rispondere alle domande dei giornalisti presenti. Sullo sfondo, campeggiava l’eloquente scritta “perseguire la pace”.

Contravvenendo al protocollo, a prendere la parola per primo non è stato il “padrone di casa” Donald Trump, ma il suo omologo russo, che ha parlato per 8 minuti (il doppio del tempo rispetto al tycoon). «Ringrazio il mio collega per avermi invitato in Alaska – ha detto Putin – siamo vicini, molto vicini». Lodando il presidente Trump per averlo accolto in modo «affettuoso» e ribadendo che, se nel 2020 «fosse stato lui il presidente, non ci sarebbe stato il conflitto», Putin ha affermato: «Siamo orientati a concludere la guerra con l’Ucraina ma dobbiamo garantire la sicurezza della Russia. Dovevamo incontrarci con gli Stati Uniti, dobbiamo voltare pagina e ristabilire rapporti che non erano mai così bassi dal tempo della guerra fredda. Dobbiamo agire in campo politico ma anche in campo economico». Nel suo intervento, Putin ha dichiarato che, per risolvere la guerra in Ucraina, occorre «eliminare le cause profonde di quel conflitto, considerare tutte le legittime preoccupazioni della Russia e ristabilire un giusto equilibrio di sicurezza in Europa e nel mondo», aggiungendo di essere concorde con Trump sul fatto che «anche la sicurezza dell’Ucraina dovrebbe essere garantita. Nonostante il clima positivo, come era prevedibile, non è stato subito raggiunto un accordo sul cessate il fuoco e sulla fine del conflitto. «Ci sono stati molti, moltissimi punti su cui abbiamo concordato, direi un paio di punti importanti su cui non siamo ancora arrivati, ma abbiamo fatto qualche progresso», ha detto Donald Trump, che ha annunciato che avrebbe sentito a breve il presidente ucraino Zelensky e i rappresentanti della NATO.

La prima importante reazione al vertice Trump-Putin è arrivata dal presidente ucraino Vladimir Zelensky, che su X ha annunciato che lunedì incontrerà Trump a Washington D.C. «per discutere tutti i dettagli riguardanti la fine delle uccisioni e della guerra» e di essere «grato per l’invito». Confermando che il presidente USA lo ha «informato del suo incontro con il leader russo e dei punti principali della loro discussione», Zelensky ha ribadito la sua «disponibilità a lavorare con il massimo sforzo per raggiungere la pace» e a sostenere «la proposta del presidente Trump di un incontro trilaterale tra Ucraina, Stati Uniti e Russia».

Il vertice in Alaska ha suscitato grande attenzione sulla stampa russa, che, seppure solitamente assai “abbottonata”, ha evidenziato due temi principali: la «chance per la pace» in Ucraina e le prospettive di rafforzamento delle relazioni tra Mosca e Washington, anche sotto il profilo della «cooperazione commerciale». L’agenzia Ria Novosti ha sottolineato l’opportunità di porre fine al conflitto in Ucraina grazie alla proposta di Putin. Anche il giornale Izvestia si è concentrato sulla stessa questione, evidenziando l’annuncio del presidente russo riguardo alla possibilità di una risoluzione del conflitto, ma ha ampliato la sua analisi, esplorando le prospettive di una collaborazione più ampia tra le due potenze, con un focus sulla cooperazione economica e commerciale. Nel suo intervento, infatti, Putin non ha mancato di citare l’attualità della collaborazione nell’Artico e dei contatti interregionali, inclusi quelli tra l’Estremo Oriente russo e la West Coast americana. Ed è forse proprio questo il vero punto di svolta, che potrebbe costituire il prodromo per un riavvicinamento che vada oltre il solo capitolo della guerra russo-ucraina.