giovedì 27 Novembre 2025
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Prima regolarizzati, poi licenziati: gli operai di Forlì bloccano di nuovo l’azienda

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Lavoravano 12 ore al giorno per 6 giorni alla settimana, sottopagati e costretti a dormire nello stesso magazzino in cui producevano divani per conto della loro ditta madre, la Gruppo 8, una delle maggiori aziende operanti nel “Distretto dell’imbottito” di Forlì. A dicembre, dopo una settimana di proteste trascorsa dormendo al freddo davanti ai cancelli, erano riusciti a ottenere condizioni di lavoro accettabili: 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, un contratto stabile e una sistemazione in albergo in attesa di trovare casa. Ma quel “sogno”, se così si può chiamare, è durato poco: appena terminate le ultime consegne, sono stati tutti licenziati in tronco.

Parliamo della difficile, e per molti aspetti esemplare, situazione di un gruppo di operai pakistani che lo scorso anno si erano trasferiti da Prato in Romagna per lavorare alla Sofalegname, azienda che produce in subappalto per la Gruppo 8. Dopo pochi mesi dall’accordo raggiunto con i lavoratori, l’azienda ha sospeso la produzione: «Il 3 luglio l’azienda ci ha comunicato che lo stabilimento sarebbe stato smantellato – spiega a L’Indipendente Sarah Caudiero del sindacato Sudd Cobas –. Nel frattempo è partito un procedimento per delocalizzare la produzione in Cina».

A quel punto gli operai sono tornati a manifestare davanti ai cancelli, questa volta sotto il sole torrido di luglio. Hanno montato tende e, da oltre quindici giorni, presidiano l’ingresso della sede madre, la Gruppo 8: gli altri lavoratori possono entrare, ma i camion no. Di fatto, ogni ingresso e uscita di materiali è bloccato: «Stanno causando un danno economico da mezzo milione di euro», ha commentato l’avvocato della ditta, Massimiliano Pompignoli. «Tengono in ostaggio la produzione».

Lunedì scorso, i manifestanti, seduti a terra per impedire il passaggio di un mezzo pesante, sono stati sgomberati con la forza dalla polizia

Con il passare dei giorni, la situazione è diventata sempre più tesa, fino a degenerare lunedì scorso, quando i manifestanti – seduti a terra per impedire il passaggio di un mezzo pesante – sono stati sgomberati con la forza dalla polizia. Nei video diffusi dal sindacato si vedono gli agenti strattonare e gettare a terra con violenza i contestatori: tre operai sono finiti in ospedale per le ferite riportate. «Il messaggio che passa è che le aziende possono fare ciò che vogliono», commenta ancora Caudiero. «Se c’è uno sciopero, interviene la polizia per liberarle del problema».

Lo sciopero, però, non si è fermato. Il giorno successivo gli operai erano di nuovo davanti ai cancelli. Sugli striscioni appesi ai loro tendoni improvvisati si legge: «Vogliamo i nostri diritti 8×5» e «la Gruppo 8 sfrutta e scappa».

«La dinamica è chiara» – continua Caudiero – «C’è una società vuota, la Sofalegname, in cui un caporale ha reclutato persone per tenerle in condizioni di semi-schiavitù. Quando l’azienda è stata costretta a regolarizzare la loro posizione, si è deciso di chiudere lo stabilimento»

Una forma di sfruttamento alla luce del sole, ben conosciuta dai sindacalisti di Sì Cobas, attivi da anni a Prato. In quella città, gli alloggi di fortuna ricavati dentro le fabbriche per gli operai cinesi erano una prassi fino al 2013, quando un incendio alla ditta tessile Teresa Moda causò la morte di otto persone sorprese nel sonno. Per quella tragedia le due titolari sono state condannate, ma nel frattempo sono tornate in Cina. Anche la Gruppo 8 di Forlì ha legami con la Cina: fa capo alla multinazionale della moda HTL, con sede a Singapore. «Queste aziende vengono in Italia per vantarsi del Made in Italy, ma vogliono trovare le regole di altri Paesi. Quando capiscono di dover rispettare le leggi italiane, se ne vanno», afferma Caudiero.

Anche a Prato, Sudd Cobas ha vissuto una stagione di lotte. Nella scorsa primavera si sono contati oltre 70 scioperi e, a ottobre, tremila persone sono scese in piazza dopo le aggressioni subite da alcuni operai durante un presidio. Le proteste hanno però portato anche a risultati concreti: «In molte situazioni siamo riusciti a ottenere contratti regolari e condizioni di lavoro dignitose – conclude Caudiero –. Tutte cose che dovrebbero essere la normalità, ma che invece dobbiamo ancora lottare ogni giorno per difendere».

Ed è proprio questo che stanno facendo oggi, di nuovo, i lavoratori della Sofalegname. Quegli stessi operai che pochi mesi fa credevano di aver trovato una vita migliore, ora resistono sotto il sole, chiedendo solo ciò che in qualsiasi posto di lavoro dovrebbe essere scontato: rispetto, legalità e diritti.

I membri della commissione d’inchiesta ONU per i territori palestinesi occupati si sono dimessi

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I tre membri della Commissione d’inchiesta ONU per i territori palestinesi Occupati hanno annunciato in blocco le loro dimissioni. Il gruppo è stato istituito nel 2021 per accertare i fatti che avvengono sul territorio palestinese e israeliano. Tra le motivazioni fornite dai singoli relatori, vi sono ragioni di età, questioni mediche, e «il peso di diversi altri impegni». Le dimissioni, che avranno effetto il prossimo novembre, sono arrivate in parallelo all’imposizione di sanzioni nei confronti della Relatrice Speciale per i territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese; la notizia del loro allontanamento dalla Commissione è passata in sordina sulla stampa internazionale, ma è stata accolta con piacere dai media e dai gruppi che ne contestavano l’operato, che vedono proprio nelle pressioni statunitensi le vere ragioni dietro le dimissioni: «La paura di dover rendere conto sta finalmente prendendo piede», ha detto Hilel Neuer, vertice di UN Watch, organizzazione spesso critica nei confronti delle voci che si battono per la Palestina; «Francesca Albanese era solo la punta dell’iceberg».

Le dimissioni dei membri della Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta per i Territori Palestinesi Occupati sono arrivate una di seguito all’altra a partire dallo scorso 8 luglio, ma sono state rese note solo una settimana dopo. La prima a presentare le proprie dimissioni è stata Navanethem Pillay, 83 anni, direttrice della Commissione. Nella breve lettera, Pillay spiega che le dimissioni arrivano «a causa dell’età, di problemi medici e del peso di diversi altri impegni» e che avranno effetto a partire dal 3 novembre. Alla lettera di Pillay è seguita, il 9 luglio, quella di Chris Sidoti, 74 anni, che sostiene che «il pensionamento del Presidente è il momento opportuno per ricostituire la Commissione», mostrandosi aperto a un eventuale riassegnazione dell’incarico. L’ultimo a rassegnare le proprie dimissioni è stato Miloon Kothari, 69 anni, già Relatore speciale ONU sul Diritto a un Alloggio Adeguato, che sostiene che la decisione segue una riunione della Commissione tenutasi la settimana precedente.

Le dimissioni della presidente del gruppo Pillay sono state rassegnate in parallelo all’imposizione di sanzioni alla Relatrice speciale Francesca Albanese, tanto che secondo i media israeliani e il gruppo UN Watch sarebbero da ricondurre proprio a queste, o più in generale alle pressioni statunitensi su coloro che perseguono i crimini di guerra israeliani. «UN Watch ha tracciato una linea diretta tra le ultime dimissioni e lo shock politico causato dalla decisione degli Stati Uniti di sanzionare Francesca Albanese», si legge nel comunicato del gruppo; malgrado le date non sembrino combaciare (le sanzioni ad Albanese sono state annunciate il 9 luglio, ma le dimissioni di Pillay sono state firmate l’8 luglio, e Kothari parla di una decisione raggiunta la settimana precedente), gli Stati Uniti stanno effettivamente aumentando la propria pressione a livello internazionale; le sanzioni ad Albanese sono infatti state precedute da analoghe misure contro quattro giudici della Corte Penale Internazionale, per le loro «azioni illegittime» contro Washington e Israele; le misure contro i giudici e Albanese, inoltre, si appoggiano a un decreto con cui Trump aveva aperto la strada alle sanzioni contro la Corte Penale Internazionale e coloro che collaborano con essa per perseguire i crimini israeliani. Il primo a essere colpito era stato il procuratore della CPI Karim Khan, che aveva chiesto l’emissione dei mandati di arresto internazionale contro Netanyahu e il suo ex ministro Gallant.

UE: la Slovacchia si oppone alle nuove sanzioni alla Russia

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La Slovacchia ha bloccato il nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia. La scelta di fermare l’approvazione del pacchetto arriva dopo una serie di falliti tentativi di negoziato tra Bratislava e Bruxelles su questioni legate al settore energetico. La diatriba è sorta in seguito alla proposta della Commissione di abbandonare completamente l’uso del gas russo entro il 2028; la Slovacchia dipende ancora dalle importazioni russe, e per questo a chiesto maggiori garanzie per non essere danneggiata dal piano della UE, minacciando di esercitare il veto sul prossimo pacchetto di sanzioni e rinviandone il voto.

In Spagna un tribunale ha stabilito che gli allevamenti intensivi violano i diritti umani

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Il Tribunale superiore di giustizia della Galizia ha emesso una sentenza storica, unica nel suo genere, che riconosce la violazione dei diritti umani da parte delle autorità regionali e statali spagnole per l’inquinamento provocato dagli allevamenti intensivi. La Corte ha in particolare stabilito che l'inquinamento, a danno di migliaia di residenti nella regione di A Limia, nel sud della Galizia, rappresenta una violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione spagnola e dal diritto europeo.
La Corte ha accertato che le istituzioni Xunta de Galicia e Autorità di bacino del fiume ...

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UE: sanzioni a individui iraniani

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L’UE ha imposto sanzioni a otto persone e a un’entità accusati dell’assassinio di dissidenti iraniani per conto del governo di Teheran. A dare la notizia è stato il Consiglio europeo, che ha spiegato che le sanzioni includono il congelamento dei beni e il divieto di viaggio. Il Consiglio ha inserito nell’elenco la Rete Zindashti, che definisce come un gruppo criminale collegato al Ministero dell’Intelligence e della Sicurezza iraniano, accusandolo di «atti di repressione transnazionale». Incluso anche il capo della Rete, Naji Ibrahim Sharifi-Zindashti, individuato come uno dei capi della criminalità organizzata legata al narcotraffico. Preso di mira anche Mohammed Ansari, capo di una unità legata ai pasdaran.

Sfruttamento e caporalato nella moda di lusso: Loro Piana in amministrazione giudiziaria

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Il marchio di abbigliamento di lusso Loro Piana è stato messo sotto amministrazione giudiziaria con l’accusa di avere subappaltato colposamente parte della propria produzione ad aziende che sfruttano i lavoratori. A chiedere e ottenere la misura di prevenzione è stata la Procura di Milano, impegnata in una più ampia indagine sullo stato di salute dei marchi di abbigliamento in Italia. Quella di Loro Piana è la quinta amministrazione giudiziaria che ha investito il settore tra il 2024 e il 2025. Gli altri brand di lusso coinvolti sono Alviero Martini, Armani Operations, Manufactures Dior e Valentino Bags Lab.

Loro Piana è un brand vercellese dell’abbigliamento di lusso specializzato in cashmere, parte del gruppo Moët Hennessy Louis Vuitton (LVMH). L’accusa mossa dalla Procura di Milano a Loro Piana è quella di aver instaurato rapporti stabili “con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori” e agevolato “colposamente” il caporalato cinese lungo la filiera della lavorazione del cashmere in Italia. In questo modo, vestiti venduti a migliaia di euro nei negozi Loro Piana nascondevano costi di lavorazione da circa un centinaio di euro, per un sistema di caporalato e sfruttamento a danno degli operai ricostruito dai carabinieri del Comando Tutela Lavoro. È emersa una catena di appalti e subappalti, con al vertice Loro Piana, impegnata nell’ideazione dei capi di abbigliamento. La realizzazione era affidata invece a Evergreen, una società con 7 operai e quasi nessun macchinario, che a sua volta si rivolgeva — come ricostruito dal filone giudiziario — alla Sor-Man, altra azienda italiana che subappaltava a due ditte cinesi: la Clover Moda e la Day Meiying. Secondo il Tribunale di Milano, queste ditte erano impostate su condizioni di lavoro illegali, tra evasione fiscale e contributiva e carenze nella sicurezza degli operai, sottopagati e “di fatto continuamente sorvegliati”. Inoltre, i consumi energetici delle ditte hanno rivelato che “il lavoro era svolto per tutto il giorno, indistintamente” compresi “sabati e domeniche ed i giorni festivi”.

Proprio il Tribunale di Milano ha accolto la richiesta della Procura e disposto per Loro Piana l’amministrazione giudiziaria, una misura preventiva, “volta non a punire l’imprenditore che sia intraneo all’associazione criminale, quanto a contrastare la contaminazione antigiuridica di imprese sane, sottoponendole a controllo giudiziario” — come spiegato dallo stesso Tribunale di Milano in una pronuncia recente. Mentre appaltatori e subappaltatori sono stati denunciati e multati, Loro Piana non risulta infatti indagata dai magistrati. Il brand di lusso vercellese, che conta all’attivo più di 2mila dipendenti e un fatturato da oltre 1,6 miliardi di euro, avrebbe comunque agevolato il sistema di sfruttamento e caporalato, ottenendo la massimizzazione dei profitti dall’abbattimento illegale dei costi di produzione. Pertanto, l’amministratore giudiziario discuterà nei prossimi mesi coi giudici del piano di risanamento aziendale, costringendo la società a rivedere le proprie politiche di appalti e subappalti. Questa misura, insieme alle quattro comminate ai colossi della moda italiana, punta a un radicale cambio di gestione del settore, che, come rivelato dai recenti filoni investigativi, nasconde spesso dietro abiti costosi attacchi alla dignità dei lavoratori. Starà poi alla classe politica decidere di cogliere o meno i segnali della magistratura e procedere con una regolamentazione più stringente sulla catena di appalti e subappalti su cui si regge il lavoro nel nostro Paese.

L’Ucraina ha esteso la legge marziale fino a novembre

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Il parlamento ucraino ha esteso la legge marziale fino al 5 novembre. A dare la notizia è il deputato Yaroslav Zhelezniak. Da quanto riporta Zhelezniak, l’estensione è stata approvata da 320 deputati, mentre uno solo ha votato contro; dall’inizio della guerra con la Russia, è la sedicesima volta che il parlamento proroga la scadenza della legge marziale. L’ultima volta risale il 16 aprile, quando il parlamento aveva approvato una estensione valida fino al 6 agosto. L’estensione approvata nella giornata di oggi, martedì 15 luglio, entrerà in vigore il 7 di agosto.

La nuova legge finanziaria di Trump apre a disboscamento ed estrattivismo

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La One Big Beautiful Bill Act (la “grande e bellissima legge”), approvata in via definitiva dalla Camera USA, è la legislazione finanziaria su cui Trump ha puntato molto per rispondere ai grandi temi della propria campagna elettorale: su tutti, quelli della sicurezza e della difesa, specie per quanto riguarda i confini, e quello in materia fiscale. All’interno di questa mastodontica legge è compresa una massiccia vendita di terreni federali, al fine di costruire alloggi e aumentare in maniera vigorosa la produzione di legname e la concessione in leasing di terre ove estrarre materie prime. La One Big Beautiful Bill Act non è solo una manovra finanziaria ma una vera e propria riscrittura delle priorità nazionali in materia di conservazione e risorse naturali.

Come proposto dal Comitato per l’energia e le risorse naturali del Senato statunitense, il Bureau of Land Management (BLM) e il Servizio Forestale degli Stati Uniti sono obbligati a identificare e cedere una quantità di terreno compresa tra i 2,2 milioni e 3,3 milioni di acri, in 11 Stati: Alaska, Arizona, California, Colorado, Idaho, Nevada, New Mexico, Oregon, Utah, Washington e Wyoming. Infatti, come esposto nella scheda informativa del Comitato, le due agenzie sarebbero obbligate a cedere tra lo 0,5% e lo 0,75% dei propri terreni, il cui totale ammonta a circa 438 milioni di acri (circa 177 milioni di ettari). L’obiettivo primario dichiarato di queste vendite è lo sviluppo di alloggi o la soddisfazione di “esigenze comunitarie associate”, con l’ambizione di generare fino a 10 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni

Oltre alla vendita di terreni, il disegno di legge apre le porte a un’accelerazione significativa nello sfruttamento delle risorse naturali. All’interno di riserve forestali create dal demanio pubblico, la legge richiede al Servizio Forestale di aumentare la vendita di legname di 7 milioni di metri cubi rispetto a quella venduta nell’anno fiscale precedente, e così fino al 2034. Per questo il Comitato del Senato suggerisce la realizzazione di almeno una quarantina di contratti a lungo termine. Tradotto: disboscamento di grandi aree verdi

Inoltre, la lege prevede di raccogliere oltre 15 miliardi di dollari attraverso l’espansione del leasing di petrolio, gas, carbone e geotermico in aree federali. Questo in particolare avverrà in Alaska, dove il governo federale possiede il 61% di tutte le terre dello Stato. La legge richiede al governo federale, entro il 2035, di tenere aste di concessione anche all’interno dell’Arctic National Wildlife Refuge, un’enorme area protetta di circa 20 milioni di acri nel nord-est dell’Alaska, nel Cook Inlet, zona vicino al Golfo d’Alaska il cui ecosistema è molto sensibile, così come nella National Petroleum Reserve in Alaska (NPRA), zona ecologicamente molto importante per la sua fauna e in cui insistono diversi villaggi Iñupiat. In quest’area era già stato aperto un contenzioso nel 2023, durante l’amministrazione Biden, la quale aveva dato via alle perforazioni con delle restrizioni rispetto alla prossimità dei villaggi Iñupiat. Una mossa finanziaria cruciale per lo stato è l’aumento della quota di royalties che rimarranno in Alaska: dal 50% precedente all’attuale 90% su tutti i canoni e le royalties derivanti dalle concessioni di petrolio e gas. Insomma, un po’ di carota dopo il bastone.

La risposta a queste proposte è stata un coro di allarme da parte dei gruppi ambientalisti e di conservazione, così come da parte delle comunità indigene. La vendita di terre pubbliche, lungi dall’essere una soluzione alla crisi abitativa, è vista come uno «stratagemma sfacciato per vendere terre pubbliche incontaminate per case trofeo e comunità recintate che non faranno nulla per affrontare la carenza di alloggi a prezzi accessibili», come affermato al New York Times da Jennifer Rokala, direttrice esecutiva del Center for Western Priorities. La critica è amplificata dalla mancanza di requisiti di accessibilità nel disegno di legge, suggerendo che le nuove costruzioni potrebbero anche andare a persone non bisognose o alla costruzione di quartieri lussuosi, esclusivi e recintati e protetti dalle guardie di sicurezza.

L’espansione delle perforazioni petrolifere e del taglio di legname solleva interrogativi profondi sulla gestione delle risorse. Ma Trump era stato chiaro fin dalla campagna elettorale, in cui aveva coniato lo slogan “Drill baby, drill”. Le modifiche alle royalties petrolifere per l’Alaska, pur attraenti per le casse statali, rappresentano un incentivo a un maggiore sfruttamento del territorio e di utilizzo di combustibili fossili. In definitiva, il trumpiano One Big Beautiful Bill Act, oltre alle problematiche che L’Indipendente ha già esposto, è una politica che porterà alla svendita di terreno pubblico, al disboscamento di intere foreste e alla trivellazione e all’estrazione di materie prime che occorro alla immensa macchina (da guerra) statunitense. 

La colazione dei bambini oltre il marketing: i prodotti da evitare

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Da sempre i prodotti che l’industria alimentare e il marketing propongono per i bambini sono colorati, allegri, raffigurano pupazzetti simpatici e si accompagnano a spot TV che promettono tanta salute ed energia per i bimbi. Molti consumatori non sanno che tali prodotti sono quasi per intero a base di zucchero e non di cacao. Questo è il caso, ad esempio, di un noto prodotto in polvere da aggiungere al latte, che esiste in commercio da tantissimi anni e che ancora oggi si compone per ben il 75% di puro zucchero (un tempo arrivava persino all’81% di zucchero).

Questi prodotti, inoltre, richiamano con delle scritte sulle confezioni alla buona salute del sistema immunitario per la presenza di vitamine, ma non fanno nessun accenno al fatto che il prodotto si compone in prevalenza di zucchero, il quale non ha un impatto positivo sul sistema immunitario.

 

Un altro prodotto per la colazione dei bambini che l’industria promuove e vende nei supermercati è il latte fresco già zuccherato e contenente già la polvere di cacao. In Italia tipicamente si trova con la dicitura frontale nella confezione di «Il latte della Lola» raffigurante una simpatica mucca sorridente disegnata come fumetto. Come può non piacere ai bambini e persino alle mamme? Ebbene, al di là delle apparenze è sempre bene analizzare però il prodotto da un punto di vista nutrizionale e di salubrità. Ed ecco che si palesano tutti i suoi difetti: questo latte pronto all’uso ha un quantitativo di zuccheri che è di 2 volte e mezzo quello del latte naturale (10g su 100g di alimento, anziché 3,5g su 100g), proprio perché è stato aggiunto lo zucchero negli ingredienti. Già così siamo fuori da un contesto di prodotto sano per la colazione: ormai sappiamo, infatti, che tutti gli studi e le ricerche scientifiche ci dicono che non bisogna aggiungere lo zucchero nei cibi dei bambini – l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda addirittura di non somministrare mai zucchero ai bambini almeno fino ai 2 anni di età (quindi nemmeno cibi come biscotti, gelati, merendine o caramelle). Il latte possiede già la sua quota di zuccheri naturali (lattosio), pari a 3,5 grammi su 100g di alimento: non ne vanno aggiunti altri

Ma non finisce qua, il «latte della Lola» presenta anche altri problemi di tipo nutrizionale. Per prepararlo viene tolta la panna del latte intero e rimpiazzata con un additivo che lo rende cremoso e più denso: la carragenina, un emulsionante. Si tratta di additivi alimentari ampiamente utilizzati nell’industria alimentare perché permettono di migliorare la consistenza, il colore e il gusto dei cibi processati, oltre ad aumentare la durata di conservazione dei prodotti. 

Ma c’è un problema: anche la carragenina è una sostanza sconsigliata nella dieta, sia dei bambini che degli adulti stavolta, in quanto è collegata negli studi a problemi di salute come tumori e diabete di tipo 2. Il meccanismo attraverso il quale si arriva allo sviluppo di tumori e diabete nell’uso di questo tipo di additivi è collegato agli effetti deleteri che gli emulsionanti come la carragenina esercitano sul microbiota intestinale (cioè i batteri dell’intestino) e all’infiammazione che tali additivi determinano nell’organismo. Queste non sono solo mere ipotesi ma conclusioni scritte nere su bianco in diversi studi scientifici effettuati ad oggi su queste sostanze, come ad esempio questo studio molto esteso effettuato in Francia e pubblicato nel febbraio 2024 sulla rivista Plos Medicine.

Una terza categoria di prodotti per la colazione o la merenda dei bambini su cui il marketing alimentare ha investito tantissimo sono gli yogurt, che però sarebbe meglio definire pseudo-yogurt, in quanto non si tratta mai, a ben guardare, di veri yogurt ma di preparazioni dolciarie a base di yogurt. E anche in questo caso la costante negativa è l’aggiunta di zucchero a quello che potrebbe semplicemente essere un alimento naturale. Nel caso che vi mostro ho scelto un prodotto al gusto di fragola, pertanto anziché vedere solo yogurt e fragole nella lista ingredienti, ci si ritrova in aggiunta anche zucchero, aromi, stabilizzanti, amido di mais, concentrato di minerali del latte. Ma se lo yogurt è presente nel prodotto, perché aggiungere dei minerali del latte? Evidentemente quello yogurt è molto poco, oppure ha perso con il processo di lavorazione alcune sostanze importanti (come minerali e vitamine). Da segnalare che in questo prodotto è stato aggiunto tanto zucchero da far lievitare il contenuto complessivo a ben 16 grammi (ovvero 4 cucchiaini) per un vasetto da 125 grammi, mentre uno yogurt naturale ne avrebbe appena 4 grammi. Quattro volte più zuccheri, insomma. 

E per quanto riguarda il contenuto calorico in questi “prodotti sani” per bambini? Come si può leggere dalla tabella nutrizionale di questo pseudo-yogurt, siamo a 94 calorie, contro le 60 di uno yogurt intero naturale. Non solo più zuccheri e additivi dunque, ma anche più calorie, senza nemmeno accorgersene, per la maggior parte dei genitori che non conoscono le caratteristiche nutrizionali di yogurt e pseudo-yogurt. Molti di loro saranno semplicemente convinti di acquistare uno yogurt, anche perché sulla confezione c’è scritto in effetti «yogurt cremoso senza pezzi di fragola». In realtà non si tratta di uno yogurt ma di un dessert (o preparazione dolciaria) a base di yogurt: due prodotti ben diversi e con caratteristiche nutrizionali differenti, come avete appena potuto constatare da questa analisi. 

In conclusione, i bambini dovrebbero essere i componenti della famiglia ai quali si dà il cibo più sano, invece spesso finiscono per essere proprio coloro che ricevono ogni giorno sostanze e alimenti industriali a base di additivi e sostanze poco salutari. Riflettiamo su questi aspetti e sforziamoci di avere maggiore consapevolezza delle scelte alimentari destinate alla loro nutrizione, dando meno peso agli spot TV sui prodotti per bambini e più importanza a quelli che sono i consigli e raccomandazioni di esperti e nutrizionisti.

Nasce la Global Sumud Flotilla: una flotta di decine di navi partirà verso Gaza

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La solidarietà internazionale verso il popolo palestinese ha fatto un passo avanti. Gli attivisti della Freedom Flotilla, Global March to Gaza e Sumud Convoy hanno deciso di unire le forze, istituendo la Global Sumud Flotilla, «la più grande flottiglia civile mai realizzata per rompere l’assedio illegale di Israele» sulla Striscia di Gaza, dove continuano a essere uccisi centinaia di palestinesi ogni giorno. Di fronte alla repressione subita nelle scorse settimane, i volontari provenienti da tutto il mondo hanno deciso di non indietreggiare, rilanciando la solidarietà verso il popolo palestinese con una strategia comune: un convoglio marittimo coordinato, in partenza da diversi porti del Mediterraneo, che seguirà le orme di tre precedenti missioni della Freedom Flotilla. L’ultima di queste è condotta dall’imbarcazione Handala, che salperà tra pochi giorni dall’Italia in direzione Gaza.

Nelle prime due settimane di giugno, tre diverse iniziative pacifiche hanno provato a rompere l’assedio israeliano in Palestina, contando su migliaia di attivisti e volontari. La Freedom Flotilla ha tentato la strada marittima, mentre la Global March to Gaza e il Sumud Convoy quella terrestre. Tutte e tre hanno però trovato la repressione. Nel primo caso, l’esercito israeliano ha sequestrato l’equipaggio che portava aiuti a Gaza, rimpatriandolo dopo diversi giorni di carcere. Per quanto riguarda le iniziative via terra, a fare il lavoro sporco per Israele sono state rispettivamente le autorità egiziane e quelle libiche, che hanno bloccato migliaia di persone sul proprio territorio. Nonostante la repressione, gli attivisti hanno deciso di rilanciare il proprio impegno verso il popolo palestinese, mettendo in piedi un nuovo progetto che dovrebbe portare decine di imbarcazioni — una piccola flotta nonviolenta — in viaggio verso la Palestina. Gli obiettivi dichiarati consistono nella consegna urgente di aiuti umanitari alla popolazione palestinese a Gaza, per un corridoio guidato dai popoli là dove i governi hanno fallito; nel fermare il genocidio; nel denunciare il silenzio globale, la complicità, la protezione e i profitti costruiti con quella che di recente la relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese ha definito un’economia del genocidio.

«Sarà un messaggio al mondo intero, un promemoria che i palestinesi a Gaza e in tutta la Palestina non sono soli, e che i popoli non resteranno in silenzio», hanno dichiarato gli attivisti della Global Freedom Flotilla. La solidarietà al popolo palestinese non sarà infatti intaccata dalla più che probabile ondata repressiva che Israele sferrerà nuovamente verso gli attivisti, con l’obiettivo di ostacolare l’arrivo degli aiuti umanitari e mantenere l’assedio sulla Striscia di Gaza. La violenza verso i volontari provenienti da tutto il mondo potrebbe poi comportare un effetto boomerang per Israele, scatenando innanzitutto un’indignazione della società civile internazionale — ad esempio con un rilancio del boicottaggio — seguita dai fino ad ora silenti governi nazionali.

Nel frattempo, nella Striscia di Gaza l’esercito israeliano continua ad uccidere ogni giorno centinaia di palestinesi, molti dei quali in attesa di acqua o dell’unica razione di cibo della giornata. All’alba un bombardamento ha preso di mira il campo profughi di Shati, uccidendo almeno 5 persone e ferendone decine. Nelle ultime ore, le forze di sicurezza israeliane (IDF) hanno dato l’ordine di evacuare Gaza city e Jabalia e spostarsi a sud verso al-Mawasi, un’area che Israele considera sicura ma che bombarda costantemente.