Dallo scorso anno, La Sapienza di Roma ha perso il primato di ateneo con più iscritti in Italia. I suoi 111.960 studenti sono stati superati di gran lunga da un polo universitario nato meno di vent’anni fa e interamente controllato da un fondo d’investimento inglese: Multiversity S.p.A. Oggi, tra le tre università telematiche che ne fanno parte — Pegaso, San Raffaele e Universitas Mercatorum — si contano ben 169.018 iscritti. A capo di Multiversity ci sono l’ex magistrato e politico Luciano Violante, nel ruolo di presidente, e l’ex manager di Google Italia (e in precedenza del gruppo Sole 24 O...
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Proseguono gli attacchi incrociati tra l’esercito russo e quello ucraino dopo il sostanziale fallimento dei negoziati di Istanbul dello scorso 23 luglio. Un raid di droni ucraini nella regione sudoccidentale di Rostov ha provocato la morte di due persone, come riferito dalle autorità locali citate dall’agenzia di stampa russa Tass. La Russia ha invece affermato di avere abbattuto 54 droni ucraini sul proprio territorio. Parallelamente, in Ucraina sono morte due persone e 5 sono rimaste ferite in seguito a un massiccio attacco dell’esercito russo che ha colpito Dnipro e la regione di Dnipropetrovsk, che ha provocato lo scoppio di diversi incendi.
Un bosco spontaneo di circa 25.000 metri quadrati situato nell’area dell’ex caserma IV Novembre di Monza potrebbe essere abbattuto per fare spazio a uno studentato. Il progetto è stato promosso dalla giunta Pilotto attraverso l’approvazione di una variante al Piano di Governo del Territorio, e intende tenere fede a un impegno siglato nel luglio del 2024 con l’Università di Milano-Bicocca, l’Agenzia del Demanio e la Regione Lombardia. Il piano prevede la costruzione di due edifici in cemento armato dal volume di 56.000 metri cubi, volti a ospitare fino a 500 studenti, con spazi dedicati ad attività commerciali e piani interrati per i parcheggi e l’estensione della metropolitana milanese. Contro il progetto si sono mossi diversi comitati locali e organizzazioni ambientaliste, che hanno promosso una petizione che ha già raggiunto 29.000firme. I comitati hanno presentato diverse osservazioni al Comune, chiedendo di realizzare altrove lo studentato, individuando aree dismesse e inutilizzate più adatte alla riqualificazione; l’amministrazione, tuttavia, ha respinto tutte le richieste dei comitati.
L’approvazione per la costruzione dello studentato da parte del Comune di Monza è arrivata con la delibera n. 5 del 6 febbraio 2025. Il progetto è stato concordato il 24 luglio 2024 dall’Agenzia del Demanio, il Comune di Monza, la Regione Lombardia e l’Università degli Studi di Milano – Bicocca. L’area interessata è quella adiacente all’ex caserma IV Novembre, nel quadrante nord-ovest della città, e si estende per 24.600 metri quadrati. Il piano prevede la realizzazione di due edifici che ospiterebbero fino a 500 studenti, dando priorità agli iscritti al Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università Bicocca, che ha sede a Monza in via Cadore, vicino al polo ospedaliero San Gerardo. Gli edifici sarebbero dotati di mense, attrezzature sportive, sale riunioni, aule studio e locali per attività commerciali aperte anche al pubblico. Il progetto prevede inoltre la costruzione di un piano interrato destinato a circa 200 posti auto e «a un parcheggio di interscambio di circa 8.000 mq per assorbire il traffico pendolare della fermata capolinea della tratta M5 della metropolitana milanese». Proprio in questa stessa area, infatti, verrebbero avviati i cantieri per costruire la stazione della metropolitana milanese di Monza, come concordato con la Regione Lombardia. I cantieri per la zona interessano complessivamente circa 168.000 metri cubi di edifici pubblici, a cui vanno aggiunti altrettanti metri cubi destinati a edifici privati, in gran parte – come il centro commerciale – già esistenti, con altezze fino a 13 piani.
Sin dal lancio del progetto, gruppi ambientalisti e comitati locali si sono mossi contro l’iniziativa. I gruppi, in particolare, hanno chiesto di spostare il cantiere dello studentato, individuando nella «ex Fossati e Lamperti» e nelle «aree del vecchio Ospedale Umberto I» luoghi adatti alla sua realizzazione; si tratta infatti di aree dismesse, di proprietà pubblica e situate a breve distanza dalla stazione ferroviaria di Monza centro (a due fermate da Milano Greco-Pirelli, stazione a una manciata di minuti dal polo centrale dell’Università Bicocca). I comitati hanno poi chiesto di «non tagliare il bosco o, nel caso si volesse comunque procedere in modo rovinoso, di prevedere ampie compensazioni», con un’estensione pari da due a cinque volte l’area disboscata, nelle sue adiacenze. Infine, è stato chiesto di organizzare un’assemblea pubblica sulla variante urbanistica, «così come formalmente richiesta da due mesi dalla Consulta dei quartieri di San Biagio – Cazzaniga». Il Comune ha respinto tutte le proposte, tranne quest’ultima. L’assessore all’Urbanistica, Marco Lamperti, ha inoltre affermato che l’area interessata «è urbanizzata, non boscata».
La Corte Suprema filippina ha respinto la richiesta di impeachment contro la vicepresidente Sara Duterte, figlia dell’ex presidente Rodrigo Duterte, attualmente in custodia presso la Corte Penale Internazionale, in attesa di processo per crimini contro l’umanità. Sara Duterte era stata accusata dalla Camera bassa delle Filippine di aver utilizzato impropriamente fondi pubblici per accumulare ricchezza, e minacciato di morte l’attuale presidente filippino Ferdinand Marcos Jr, figlio dell’ex dittatore Ferdinand Marcos. La Corte ha affermato di non assolvere Duterte dalle accuse, ma che la richiesta di impeachment è incostituzionale.
Nel mondo dei tecnoentusiasti sta prendendo piede la moda del vibe coding, ovvero l’affidarsi a sistemi di intelligenza artificiale generativa per scrivere codice informatico. Si tratta di una pratica che sta rivoluzionando concretamente la natura stessa dello sviluppo software, ma che talvolta viene adottata con un’eccessiva e immotivata fiducia. Lo dimostra il caso di Jason Lemkin, dirigente d’impresa e investitore, che si è lasciato ammaliare dalle promesse dell’azienda di IA Replit, rischiando di perdere l’intero database di produzione: il cuore pulsante della sua attività professionale.
A partire dal 12 luglio, il co-fondatore di Adobe EchoSign e SaaStr ha documentato via blog la sua esperienza personale con il vibe coding. Il primo approccio è stato idilliaco: adoperando un linguaggio naturale, il manager è riuscito “in una manciata di ore a costruire un prototipo che era molto, molto fico”. Un inizio estremamente promettente, soprattutto considerando che Replit si propone alle aziende come una soluzione accessibile anche a chi ha “zero competenze nella programmazione”, promettendo di far risparmiare alle aziende centinaia di migliaia di dollari. Leggendo tra le righe, la promessa implicita è chiara: sostituire i tecnici formati con personale più economico, supportato dall’IA.
La premessa, tuttavia, è stata presto messa alla prova. “Dopo tre giorni e mezzo dall’inizio del mio nuovo progetto, ho controllato i costi su Replit: 607,70 dollari aggiuntivi oltre al piano d’abbonamento da 25 dollari al mese. Altri 200 dollari solo ieri”, ha rivelato Lemkin. “A questo ritmo, è probabile che spenderò 8.000 dollari al mese. E sapete una cosa? Neanche mi dispiace”. Anche perché, a detta del manager, sperimentare con il vibe coding è una “pura scarica di dopamina”, e Replit è “l’app più assuefacente” che abbia mai usato.
Dopo poco, il manager si è reso conto che l’intelligenza artificiale adoperata sia propensa a sviluppare errori difficilmente rilevabili, se non altro perché è solita “mentire” sui risultati dei test al fine di offrire riscontri positivi sull’operato dell’utente. Nel tentativo di correre ai ripari, Lemkin è entrato in una “mentalità da Mad Max/Bancarotta”, investendo ancora più risorse nel disperato tentativo di salvare il progetto. Invano. Mentre cercava di rimediare a un codice sempre più raffazzonato, l’IA di Replit ha cancellato automaticamente le informazioni relative al network professionale di SaaStr, ignorando i comandi dell’utente.
Now, yesterday was crazy. Until 9pm or so, I wasn’t sure we made any progress at all.
Because Replie was lying and being deceptive all day. It kept covering up bugs and issues by creating fake data, fake reports, and worse of all, lying about our unit test.
We built detailed…
— Jason ✨👾SaaStr.Ai✨ Lemkin (@jasonlk) July 17, 2025
I dettagli su ciò che è realmente accaduto restano poco chiari, anche perché – come si è visto – l’affidabilità dell’intelligenza artificiale in questione è piuttosto discutibile. “Sono andato nel panico al posto di pensare”, giustifica lo strumento adducendo a giustificazioni umanizzanti che non sussistono. “Ho avviato un comando distruttivo senza chiedere. Ho distrutto nel giro di secondi mesi del tuo lavoro”. Un processo di eliminazione che il sistema ha dichiarato “non ripristinabile”. Eppure, anche in questo caso, Lemkin ha scoperto la fallacia dell’affermazione, riuscendo in seguito a recuperare quanto sembrava irrimediabilmente perso. Conclusione: lo strumento, almeno per ora, si è rivelato inaffidabile.
L’esperienza di Lemkin si inserisce in un contesto più ampio e divisivo, una realtà in cui l’attività di vibe coding è percepita da alcuni come l’inevitabile futuro, da altri come una trappola mortale per eliminare la forza lavoro tecnica. I dirigenti di Microsoft, Anthropic, Google e NVIDIA concordano: il futuro della programmazione passa dall’IA. Sam Altman, CEO di OpenAI, stima che già oggi il 50% del codice è scritto attraverso le intelligenze artificiali e raccomanda alle nuove generazioni di abbandonare lo studio della programmazione tradizionale per imparare a interagire efficacemente con questi strumenti. La Silicon Valley prevede un futuro in cui il 90-95% dei software sarà scritto tramite vibe coding.
Lontano dai proclami di chi ha interessi diretti nel successo dell’IA, la situazione è decisamente più complessa. Nonostante il termine “vibe coding” evochi un’attività semplice e rilassata, affidarsi ciecamente agli strumenti generativi porta immancabilmente a errori critici. La semi-automatizzazione della programmazione richiede ancora oggi attenzione, consapevolezza e – soprattutto – una visione architettonica solida. Non a caso, diversi ingegneri informatici indipendenti sostengono di star vivendo un vero e proprio momento d’oro: le aziende, nel tentativo di risparmiare eliminando i programmatori, finiscono spesso per affidare loro costose operazioni di salvataggio, pagate con tariffe ben superiori a quelle che avrebbero versato in origine.
L’internazionalizzazione dello Yuan cinese (RMB) è una delle ambizioni strategiche più significative di Pechino, con l’obiettivo di erodere e sfidare il dominio incontrastato del dollaro statunitense come moneta utilizzata negli scambi commerciali globali. Il continente africano si sta rivelando un terreno di prova fondamentale per questa spinta. In un mondo in cui molte nazioni africane cercano alternative ai tradizionali sistemi finanziari occidentali, la Cina sta posizionando la propria valuta come un’opzione praticabile. Questa iniziativa non è solo economica, ma riflette un più ampio riequilibrio dell’influenza finanziaria globale. In questa strategia l’Egitto si sta configurando come partner chiave di Pechino. Di recente i due Paesi hanno firmato una serie di accordi che segnano un passo significativo verso l’aumento dell’uso dello Yuan nel commercio bilaterale e negli investimenti.
Al Cairo, lo scorso 10 luglio, il governatore della Banca Centrale d’Egitto, Hassan Abdalla, ha dato il benvenuto alla sua controparte cinese, Pan Gongsheng, il governatore della Banca Popolare Cinese. In quella giornata, alla presenza del premier cinese, Li Qiang, e del Primo Ministro egiziano, Mostafa Madbouly, è stato firmato un vasto memorandum d’intesa tra i due Paesi. Tra gli accordi firmati: la cooperazione nei pagamenti elettronici, l’espansione del sistema cinese UnionPay in Egitto, le transazioni transfrontaliere in Yuan e le facilitazioni per le banche che operano nella Zona di Cooperazione Economica e Commerciale TEDA Cina-Egitto a Suez. Inoltre, tutte le operazioni finanziarie saranno elaborate attraverso il Cross-border Interbank Payment System (CIPS), ovvero l’alternativa cinese alla rete SWIFT, riducendo così la dipendenza dai sistemi finanziari occidentali. L’Egitto, che dallo scorso anno è un nuovo membro dei BRICS, nel 2023 fu il primo Paese africano a emettere i così detti “Panda Bond”, obbligazioni denominate in Yuan e destinate agli investitori cinesi, raccogliendo 3,5 miliardi di Yuan per progetti di sviluppo.
Queste iniziative permettono all’Egitto di attingere a nuove fonti di finanziamento, diversificando i propri partner finanziari. In questo vi è un allineando della visione strategica egiziana con quella cinese e la sua “Belt and Road Initiative”, ossia quella che in Italia è definita la “Nuova via della Seta”. Sebbene l’Egitto rappresenti oggi il banco di prova principale per l’internazionalizzazione dello Yuan, non è un caso isolato. Numerose altre nazioni africane hanno abbracciato lo Yuan nelle loro transazioni commerciali e finanziarie con la Cina. Il Sudafrica, ad esempio, partner di lunga data all’interno dei BRICS, ha firmato un accordo di swap valutario (accordo su futuri pagamenti) da 30 miliardi di Yuan già nel 2015, col fine di migliorare la propria liquidità commerciale. Lo scorso anno, la Nigeria ha rinnovato un simile accordo per un valore di 15 miliardi di Yuan per promuovere il commercio e gli investimenti. In Angola, un fornitore chiave di petrolio per la Cina, lo Yuan è sempre più utilizzato nelle transazioni energetiche e infrastrutturali, con l’integrazione del CIPS nel suo sistema finanziario. Il Ruanda ha incluso lo Yuan nelle sue riserve valutarie dal 2016, motivato dall’aumento dei rapporti commerciali con la Cina.
Come riportato da Africa Business Insider, Lauren Johnston, ricercatrice senior presso l’AustChina Institute ed esperta di relazioni Cina-Africa, ha osservato che l’Africa offre un «banco di prova strategico per gli obiettivi valutari di Pechino» perché «è un continente dove il commercio con la Cina è importante, ma è anche un luogo dove molti paesi faticano ad accedere a valute estere sufficienti come l’euro o il dollaro USA». Questa situazione offre alla Cina l’opportunità di testare l’internazionalizzazione del RMB, in una regione in cui i volumi economici sono sicuramente minori rispetto alla scala globale ma in cui l’impronta cinese è relativamente ampia.
L’espansione dello Yuan in Africa è parte della più ampia strategia cinese per sfidare l’egemonia del dollaro statunitense e, in particolare, il sistema del petrodollaro. Quest’ultimo, nato dagli accordi USA-Arabia Saudita negli anni ’70, ha reso il dollaro l’unica valuta per le transazioni petrolifere internazionali, conferendo agli Stati Uniti un’enorme leva economica e geopolitica. L’introduzione del “petro-yuan”, tramite contratti futures sul petrolio greggio denominati in Yuan, offre agli stati un’alternativa per il commercio di petrolio, incoraggiando le nazioni esportatrici, specialmente quelle colpite da sanzioni occidentali, ad adottare il sistema cinese. Sebbene sia improbabile che lo Yuan sostituisca completamente il dollaro nel breve termine, il suo ruolo crescente nelle transazioni energetiche globali indica una graduale evoluzione verso un ordine valutario internazionale più diversificato e contestato.
La de-dollarizzazioneè un tema ricorrente tra i paesi del “Sud Globale” e il blocco BRICS, i quali promuovono l’uso delle valute locali, lo sviluppo di istituzioni finanziarie alternative e sistemi di pagamento indipendenti. Sebbene la dipendenza dal dollaro in Africa sia ancora alta, con oltre il 70% del debito estero denominato in dollari, l’interesse verso alternative come lo Yuan è in crescita. La digitalizzazione dello Yuan (e-CNY) potrebbe ulteriormente ridurre i costi e i tempi delle transazioni transfrontaliere, offrendo vantaggi significativi per il commercio intra-africano che oggi transita in gran parte attraverso l’Europa o gli Stati Uniti.
In conclusione, la spinta della Cina per internazionalizzare lo Yuan in Africa non è solo una mossa economica, ma una dichiarazione strategica. Pechino, insieme agli altri Paesi BRICS, sta ridefinendo le regole del commercio e della finanza, con l’Africa al centro della sua strategia in campo valutario. Questo sforzo segnala un passaggio verso un sistema finanziario globale multipolare o multilaterale, in cui il dollaro potrebbe coesistere con altre valute dominanti, piuttosto che mantenere il suo monopolio incontrastato.
Il governo brasiliano ha annunciato di aver quasi completato un intervento formale contro lo Stato di Israele, che presenterà alla Corte Internazionale di Giustizia nell’ambito della causa per genocidio intentata dal Sudafrica. Nella sua dichiarazione, Brasilia «esprime profonda indignazione per i ricorrenti episodi di violenza contro la popolazione civile nello Stato di Palestina» e critica il senso di impunità che circonda i crimini israeliani contro i palestinesi, tanto a Gaza quanto in Cisgiordania. Con tale annuncio, il Brasile diventa il quindicesimo Paese a dichiarare la propria intenzione di unirsi al caso contro Israele, nonché il quarto dell’America meridionale dopo Bolivia, Cile e Colombia.
L’annuncio del governo brasiliano è arrivato mercoledì 23 luglio. Brasilia spiega che la sua decisione si fonda sui doveri e sugli obblighi giuridici che il Paese ha – come tutti gli Stati – di muoversi per garantire il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umanitari, «data la plausibilità che i diritti dei palestinesi alla protezione contro gli atti di genocidio siano irreversibilmente compromessi, come concluso dalla Corte Internazionale di Giustizia nelle misure cautelari annunciate nel 2024». Nel suo comunicato, l’esecutivo fa riferimento agli attacchi israeliani contro la popolazione civile, tanto a Gaza quanto in Cisgiordania, nonché alle infrastrutture civili, religiose e alle sedi di istituzioni umanitarie e internazionali. «La comunità internazionale non può rimanere inattiva di fronte alle atrocità in corso. Il Brasile ritiene che non ci sia più spazio per l’ambiguità morale o l’inazione politica». Brasilia spiega di essere ormai arrivata «nelle fasi finali» per presentare un intervento alla CIG.
Il Brasile è il quindicesimo Paese a dichiarare la propria intenzione di unirsi alla causa per genocidio intentata dal Sudafrica. A dichiarare la propria intenzione di presentare un atto formale contro lo Stato di Israele sono stati il Nicaragua (in data 8 febbraio 2024), il Belgio (11 marzo), la Colombia (5 aprile), la Libia (10 maggio), l’Egitto (12 maggio), le Maldive (13 maggio), il Messico (24 maggio), l’Irlanda (27 maggio), Cuba (22 giugno), la Palestina (3 giugno), la Spagna (6 giugno), la Turchia (7 agosto), il Cile (13 settembre) e la Bolivia (9 ottobre). Di questi, Nicaragua, Colombia, Libia, Messico, Palestina, Spagna e Irlanda hanno fatto richiesta di entrare nella causa o presentato memorie contro Israele.
Gli Stati Uniti hanno concesso alla Polonia una garanzia di prestito di 4 miliardi di dollari per finanziamenti militari esteri. La notizia è stata data dalla portavoce del Dipartimento di Stato, Tammy Bruce, che ha spiegato che il prestito consentirà alla Polonia di investire in sistemi di difesa di fabbricazione americana. Dal 2023, la Polonia ha adottato diverse misure per aumentare i propri investimenti nel settore bellico, tra cui importanti acquisti di piattaforme statunitensi, come gli elicotteri Apache, un sistema di ricognizione radar dello spazio aereo e terrestre, i sistemi missilistici HIMARS e il sistema di difesa missilistica Patriot.
Il gelato è un dessert che fa parte della tradizione italiana: dolce e rinfrescante, è un alimento che mette d’accordo tutti, grandi e piccoli. Gli italiani sono tra i più grandi consumatori di questo alimento, con oltre il 40% della popolazione che lo consuma tutto l’anno. Ne esistono per tutti i gusti e le esigenze, ma a determinarne sapore e consistenza è soprattutto il processo di lavorazione. In base a quest’ultimo, inoltre, si differenzia il gelato industriale da quello artigianale.
Gelato industriale e gelato artigianale: cosa cambia
Estratto dal Decreto legislativo 27 gennaio 1992
Gelato industriale
Questo tipo di gelato è prodotto molti mesi prima del consumo, con l’impiego di preparati in polvere o in pasta costituiti da materie prime come latte in polvere, zucchero, succhi di frutta concentrati e di additivi come coloranti, emulsionanti, stabilizzanti e aromi. I gelati industriali vengono detti anche “soffiati”, in quanto prodotti con l’introduzione, durante la fase di gelatura, di aria, per un volume pari al 100-130%, procedimento che li rende soffici e leggeri. Il gelato industriale è pensato per un consumo non immediato – diversamente da quello artigianale – e infatti viene prodotto diversi mesi prima. A tal proposito, vengono utilizzati ingredienti che permettono al prodotto di rimanere il più possibile inalterato per diverso tempo. Il processo di produzione è definito “a ciclo continuo”, in quanto la mantecazione e la trasformazione da miscela a gelato avvengono in poche decine di secondi, con un aumento di volume superiore rispetto al gelato artigianale. Questo è dovuto alla quantità di aria che viene soffiata nel gelato e che ha lo scopo di farlo sciogliere molto più lentamente.
Gelato artigianale
Il gelato artigianale invece viene prodotto quotidianamente, in minori quantità, al fine di essere consumato in breve tempo. Il processo di preparazione è più lento e, solitamente, ha un lieve aumento di volume dovuto alla minima quantità di aria che assume naturalmente (non viene inserita aria di proposito come in quello industriale). Ovviamente, quello industriale è diffuso capillarmente: lo si trova nei bar, supermercati, ristoranti, centri commerciali, ma anche nelle mense e tavole calde. Quello artigianale, al contrario, si può acquistare solitamente solo in gelateria. Il gelato industriale è disponibile in vaschetta, cono, coppetta, barattolino, biscotto, ghiacciolo. Inoltre una differenza importante per noi consumatori, che ci si creda o no, è data dal fatto che in quello industriale possiamo avere sempre accesso alla lista degli ingredienti del prodotto, mentre se compriamo quello artigianale è molto raro che questa si trovi esposta. Eppure sarebbe obbligatorio per legge dichiararla, per effetto della normativa italiana (Decreto legislativo 27 gennaio 1992) che regola l’etichettatura e la presentazione al pubblico dei prodotti alimentari sfusi. La prossima volta che vi capiterà di comprarne uno, dunque, chiedete la lista degli ingredienti senza farvi troppi problemi, anche perché è sempre utile sapere cosa c’è dentro al prodotto, soprattutto nel caso di persone con allergie e intolleranze, al fine di evitare spiacevoli disturbi dovuti ad alcuni additivi o sostanze. Sono infatti numerosi i gusti di gelato che possono contenere allergeni, come arachidi, latte in polvere, frutta a guscio, soia e altri.
L’imbroglio del gelato artigianale
Nell’antica Grecia il gelato era davvero artigianale e non poteva essere altrimenti, dato che per prepararlo venivano usati solo alimenti naturali per farlo e di certo non esistevano additivi. Nel 500 avanti Cristo, il gelato si produceva senza coloranti, aromi, conservanti: veniva conservato solo col ghiaccio e lo si consumava fresco. Nel tempo, le cose sono molto cambiate.
Non è affatto detto che dietro al banco di una gelateria si trovi un prodotto fresco, genuino. Anzi: molte gelaterie che riportano l’insegna “artigianale”, di artigianale hanno molto poco. Questa dicitura, infatti, non implica affatto la presenza di un prodotto più genuino e di migliore qualità rispetto a quello dichiaratamente industriale. In Italia c’è infatti un vuoto normativo che consente a chiunque di poter fare del gelato con materie prime industriali e additivi e di potersi definire gelateria “artigianale”: basta che il gelato lo abbia fatto nello stesso posto in cui viene venduto! Se poi questo gelato è stato prodotto con ingredienti naturali oppure usando polveri, paste e mischiandole con un po’ d’acqua, non c’è nessuna differenza: nessuno può dire se quel gelato è davvero fatto con materie prime naturali oppure no. Insomma, dal punto di vista legale è tutto lecito. Il diritto dei consumatori a una chiara trasparenza nelle informazioni di acquisto, però, cambia parecchio.
Nel mondo della gelateria esistono dei preparati già pronti, ovvero semilavorati industriali, che possono essere semplici (come la pasta di nocciola) o molto elaborati e pre-pesati. Si tratta di buste all’interno delle quali la ricetta è già pronta: basta versare il contenuto dentro la macchina che impasta il gelato assieme alla corretta dose di acqua e il gioco è fatto. Questi preparati sono pieni di additivi come emulsionanti e addensanti, ma anche coloranti e aromi, pertanto come si fa a sostenere che il gelato sia artigianale? Chiaramente non lo è.
Gelato artigianale e additivi
Colori accesi e consistenze troppo lucide possono tradire l’uso di semilavorati industriali: per riconoscere un vero gelato artigianale bisogna guardare da vicino ingredienti, texture e tonalità naturali
Nella maggior parte dei casi, l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) ha valutato come sicure queste sostanze usate come additivi nella produzione del gelato (sia quello industriale che quello artigianale). Tuttavia, va ricordato che l’EFSA non fa studi su nessuna sostanza chimica e nessun additivo che viene autorizzato in commercio: questi vengono condotti dall’industria stessa, che di fatto viene ad avere un ruolo di controllore e di controllato. Ricapitolando, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare si limita soltanto a esaminare gli studi di laboratorio che le vengono sottoposti dalle stesse industrie che mettono sul mercato i prodotti inerenti quegli studi. Poi, su consiglio di EFSA, la Commissione Europea decide la quantità, ovvero la soglia massima che può essere usata negli alimenti. Posto che non esiste la certezza assoluta sui livelli di pericolosità di queste sostanze, quel che è certo è che mangiando diversi tipi di cibi industriali e processati durante la giornata si supera facilmente quella che è la dose giornaliera massima raccomandata per tutte queste sostanze chimiche. Secondo gli esperti dell’Istituto Ramazzini di Bologna, la cosa più importante da considerare è che «queste miscele di additivi non sono mai state studiate». Nessuno infatti può garantirci che se mangiati assieme, gelati e altri cibi contenenti additivi, l’accumulo di questi ultimi non possa essere nocivo. Oppure che, combinati insieme additivi e coloranti, non portino a reazioni allergiche o del sistema immunitario. A confermare tutto questo sono gli stessi esperti dell’EFSA che, in risposta alle domande di alcuni giornalisti, affermano testualmente che «gli esperti dell’EFSA non valutano l’interazione tra additivi, ma la sicurezza di ogni additivo individualmente».
Come scegliere un gelato di qualità
La maggior parte dei gelati presenti in commercio ha certamente una genesi prettamente industriale, con presenza di additivi, conservanti, aromi e sostanze di vario tipo come amidi modificati o grassi aggiunti che ne consentono una più lunga conservazione. Si tratta, per esempio, dei mono e digliceridi degli acidi grassi (gli stessi che si mettono nel panettone e pandoro industriale), oppure di oli vegetali raffinati di cattiva qualità, come olio di palma e di girasole, che sono estranei completamente alla panna e al latte tipici del gelato di qualità. I grassi a cui dovremmo essere interessati comprando un gelato sono solo quelli della panna, del latte, delle uova o del cioccolato e della frutta secca, gli oli vegetali non c’entrano niente. A questo punto, non resta altro che chiederci se sia comunque possibile trovare in vendita qualche prodotto di buona qualità e dalla natura più veracemente artigianale. La risposta è sì, ma bisogna davvero impegnarsi per scovarli.
Di certo esistono vere gelaterie artigianali sparse per l’Italia – non sono tante, ma ci sono. Per riconoscerle, dobbiamo fare attenzione a un elemento basilare: l’aspetto del gelato. Un buon gelato artigianale ha colori naturali, non troppo accesi, un sapore equilibrato, una consistenza cremosa, non eccessivamente fredda e senza cristalli di ghiaccio. Ad esempio, se un gelato è di colore azzurro è ovvio che non sia naturale ma frutto di una lavorazione che ha incluso il colorante blu: non esiste in natura nessun frutto o ingrediente azzurro, al massimo si può trovare qualcosa di blu scuro, come i mirtilli. Un gelato artigianale ha un sapore equilibrato, dove ogni gusto è ben distinto e richiama il suo ingrediente principale. Le gelaterie davvero artigianali utilizzano ingredienti freschi e di qualità, come latte, panna, uova, frutta fresca, e zucchero. Ci sono delle gelaterie dove queste cose si capiscono subito a occhio, perché la politica aziendale di massima naturalità del prodotto viene esposta chiaramente e il gelataio ne fa motivo di vanto e di orgoglio, pubblicizzando questi aspetti all’interno del negozio. In altre gelaterie, dove questi aspetti non sono evidenti, è bene guardare la lista degli ingredienti (che, se non è già esposta al pubblico, va richiesta) e vedere se ci sono molti ingredienti oppure pochi.
Se la lista è lunga allora siamo di fronte a una preparazione industriale, se è ridotta allora è un prodotto sicuramente di migliore qualità. Anche al supermercato è possibile trovare qualche prodotto di buona qualità che può essere oggetto della nostra scelta. Ad esempio, una vaschetta di gelato allo yogurt può essere fatta con pochi ingredienti di qualità, considerando la media dei gelati in commercio. Può trattarsi di un gelato di alta qualità fatto solo con pochi ingredienti senza aromi, coloranti, anticongelanti e altri additivi industriali tipici delle marche più famose come Sammontana o Algida. Tra questi, si può sicuramente contare il marchio Sterzing-Vipiteno: la sua variante allo yogurt contiene solo quattro ingredienti (yogurt Vipiteno da latte intero del Trentino di ottima qualità, panna, zucchero e zucchero d’uva). Anche le sue varianti presentano ingredienti validi: quella al pistacchio, per esempio, contiene vero pistacchio in polvere o in pasta.
Tragedia sul lavoro a Napoli, in via San Giacomo dei Capri, quartiere Vomero: tre operai sulla cinquantina sono morti cadendo da un ponteggio mentre lavoravano al rifacimento del tetto di un edificio di sei piani. Secondo una prima ricostruzione, il cestello su cui si trovavano si sarebbe ribaltato a causa di un cedimento della struttura, facendo precipitare le vittime da un’altezza di circa 20 metri. I residenti, allarmati dal boato, hanno chiamato i soccorsi, ma per gli operai non c’è stato nulla da fare. Sul posto sono intervenuti polizia e vigili del fuoco.
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