mercoledì 5 Novembre 2025
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Migrante inseguito da agenti e lasciato privo di sensi nel CPR: per la questura è “caduto”

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Il Centro di Permanenza e Rimpatrio di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), già più volte finito sotto la lente dei media e di organizzazioni internazionali per le violenze messe in atto sui migranti, sarebbe stato teatro di una nuova aggressione ai danni di un trattenuto. A seguito di una delle numerose rivolte, motivate dalle degradanti condizioni di detenzione al suo interno, un migrante disarmato e senza vestiti è infatti stato rincorso da numerosi poliziotti in tenuta antisommossa, che lo avrebbero violentemente picchiato. Il filmato che testimonia gli effetti del presunto pestaggio sul migrante, realizzato da un altro trattenuto, è stato diffuso dalla rete Mai più lager – No ai CPR, che sottolinea come non si tratti di un episodio isolato, ma di un caso particolarmente violento di quella che è «ordinaria violenza quotidiana» all’interno dei Centri.

Il cuore della denuncia è rappresentato da due video, risalenti allo scorso 5 giugno, filtrati dall’interno del CPR di Gradisca d’Isonzo che mostrano, in sequenza, un migrante in biancheria intima inseguito da agenti in tenuta antisommossa, strattonato e trascinato di peso in una stanza buia, e poco dopo disteso a terra, con il volto e il capo coperti di sangue. Nel primo filmato si distinguono chiaramente le grida – «No, no!» – mentre il fuggitivo è accerchiato; nel secondo, si vede il migrante steso a terra con la faccia insanguinata. Il silenzio è rotto dalla voce di un altro migrante, che riprendendo il volto dell’uomo aggredito dice «è tutto sangue». Il pavimento è sporco e in parte bagnato, gli ambienti cupi; nessun soccorso medico arriva sul luogo. Nell’inquadratura si intravede poi una persona che, quasi meccanicamente, gli solleva la testa. A commentare i filmati è la rete No CPR: «Riceviamo segnalazioni simili almeno una volta la settimana», denunciano gli attivisti, che hanno verificato l’autenticità dei video.

Nonostante tutto, la Questura di Gorizia nega tutto. In una nota scrive che la sera del 5 giugno sarebbe scoppiata una protesta con incendi appiccati nella cosiddetta “zona blu” e le forze dell’ordine sarebbero intervenute per ripristinare l’ordine e proteggere il personale dell’ente gestore. Il video in cui si vede l’uomo trascinato in una stanza, sostiene la Questura, sarebbe documentazione dell’accompagnamento nella sua camera, mentre la ferita sarebbe da addebitare a una «caduta accidentale» del migrante, «secondo quanto da lui riferito e registrato agli atti». Quest’ultimo, continua la Questura, sarebbe già stato «protagonista di episodi con dinamiche compatibili con atti autolesionistici a fini strumentali». Una ricostruzione che appare assai inconciliabile con quanto mostrato nei due filmati, oltre che in un’immagine che mostra la schiena del trattenuto piena di lividi. E peraltro non supportata, momento, da elementi concreti che la corroborino. A reagire contro la nota della polizia sono gli stessi membri della rete No CPR: «La questura diffonde una nota per contestare che si sia trattato di un pestaggio e affermare che è stato solo autolesionismo… non manca di minacciare iniziative contro chi ha parlato di pestaggio: una replica che tradisce profonda difficoltà ed imbarazzo davanti ad un’evidenza inequivocabile della violenza quotidiana dei CPR, che ogni tanto riesce ad emergere».

Le tensioni esplodono in un contesto già segnato da protesta continua: cibo scarso e di pessima qualità, acqua razionata a non più di due bottiglie da mezzo litro al giorno, totale assenza di prodotti per l’igiene, locali degradati. A queste carenze si aggiunge una sospetta epidemia di scabbia: molti trattenuti mostrano pustole pruriginose e macchie cutanee. «Ho avuto modo di esaminarne personalmente alcune e da infettivologo posso dire che c’è il forte rischio che si tratti di scabbia», conferma il dottor Nicola Cocco della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni. In molti casi, l’unico rimedio somministrato è stato «un semplice antistaminico», del tutto inefficace contro il parassita. Il CPR, gestito dalla cooperativa Ekene – nata da Edeco, coinvolta in diverse inchieste – è stato più volte al centro di scandali per maltrattamenti, appalti e decessi sospetti. Nonostante questo, continua ad aggiudicarsi la gestione di centri in tutta Italia.

Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) – organo del Consiglio d’Europa – ha denunciato negli scorsi mesi gravi violazioni dei diritti umani nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio italiani, tra cui anche quello di Gradisca d’Isonzo: maltrattamenti fisici, somministrazione nascosta di psicofarmaci, assenza di assistenza sanitaria e condizioni igieniche vergognose. Lo stesso sistema di supervisione delle forze dell’ordine, riporta il CPT, dovrebbe essere rivisto. Nei CPR vengono infatti inviati a rotazione gruppi antisommossa e d’intervento, mentre sarebbero necessarie figure professionali appositamente preparate e in grado di riconoscere i sintomi di possibili reazioni da stress. Ai migranti non vengono nemmeno garantiti diritti basilari come l’accesso a un avvocato, le informazioni sui propri diritti e la notifica del loro trattenimento a terzi. In un tale contesto di estrema criticità, spesso le società non rispettano i capitolati d’appalto e gestiscono le strutture in modo non trasparente, mentre sono numerose le indagini penali aperte contro i gestori dei centri.

Acciaio, Nippon Steel acquisisce US Steel

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L’azienda giapponese attiva nel settore siderurgico Nippon Steel ha terminato l’acquisizione dell’omologa statunitense U.S. Steel finalizzando quella che hanno definito «partnership storica». L’accordo, dal valore di 15 miliardi di dollari, prevede l’introduzione di una clausola che permette al governo statunitense di avere voce in capitolo sulle decisioni dell’azienda. Washington in particolare avrà un posto nella governance aziendale e potrà esercitare diritto di veto nelle questioni di interesse nazionale. L’acquisizione da parte di Nippon Steel dell’azienda con sede a Pittsburgh arriva dopo 18 mesi di trattative, in cui il governo statunitense si è opposto alla vendita proprio per il timore di perdere il controllo di un’azienda strategica.

Meta riduce la supervisione umana, l’IA giudicherà i rischi per la privacy

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Stando a quanto riportato da documenti interni trapelati alla stampa, Meta avrebbe deciso di ridimensionare gli attuali meccanismi di supervisione progettati per garantire che le modifiche ai propri portali social non comportino rischi eccessivi per la società e per la privacy degli utenti. La Big Tech starebbe infatti valutando la sostituzione dei revisori umani con un sistema automatizzato che rischia, però, di trasformarsi in una forma di autocertificazione, privilegiando l’efficienza e la rapidità a scapito della sicurezza.

Questa evoluzione gestionale è stata inizialmente evidenziata dalla testata The Information, cui ha fatto seguito un’inchiesta di NPR, testata che è entrata in possesso di documenti chiaramente non destinati alla divulgazione pubblica. Secondo quanto emerge dai carteggi, Meta vorrebbe delegare una parte significativa delle verifiche sulle nuove funzionalità a dei modelli di intelligenza artificiale. L’attuale processo, svolto da esseri umani, prevede un confronto interno volto a individuare e prevenire eventuali criticità. Il nuovo approccio mira ad automatizzare circa il 90% delle valutazioni, riducendo in maniera sensibile il numero di dipendenti, i quali avranno più che altro il compito di supervisionare i casi giudicati troppo complessi per la sola IA.

Il cambiamento rappresenterebbe la realizzazione del sogno di molti ingegneri informatici dell’impresa, soggetti che vengono valutati soprattutto in base alla velocità e all’efficienza con cui sviluppano e rilasciano nuove funzionalità per piattaforme come Facebook, WhatsApp e Instagram. Il modello oggi vigente richiede tempo, rallentando non poco la pubblicazione delle innovazioni progettate. Ridurre il coinvolgimento umano consentirebbe un’accelerazione significativa dei cicli di sviluppo e una maggiore reattività nei cambiamenti ai servizi. 

Il timore principale è, tuttavia, che Meta stia abbracciando nuovamente la celebre massima aziendale del “move fast and break things”, privilegiando la rapidità e l’espansione rispetto alla tutela degli utenti. Una strategia che potrebbe rivelarsi rischiosa, soprattutto considerando che l’IA si potrebbe trovare a giudicare situazioni delicate legate alla disinformazione, alla diffusione di contenuti violenti o ai pericoli per i minori.

Meta, del resto, non ha mai mostrato un forte entusiasmo per questo genere di sistemi di supervisione. Il meccanismo che l’azienda si appresta a stravolgere è stato originalmente imposto nel 2012 dalla Federal Trade Commission (FTC), l’ente statunitense per la tutela dei consumatori. Dopo un anno di indagini, l’Agenzia fu in grado di evidenziare che l’allora Facebook fosse probabilmente solita condividere con terze parti una quantità di dati personali che gli utenti non avevano autorizzato a rendere pubblici: il sistema di vigilanza  fu parte integrante di un accordo extragiudiziale stipulato per far cadere le accuse.

Tuttavia, quella soluzione non si è mai distinta per efficacia né per un reale intento protettivo. Già nel 2013, appena un anno dopo l’accordo con la FTC, Facebook dette vita a politiche di raccolta dati che, nel 2018, sono finite al centro dello scandalo Cambridge Analytica. Un caso che ha mostrato quanto il social potesse rappresentare una minaccia concreta alla privacy e al benessere collettivo. Nel 2019, dopo una lunga ed estenuante indagine, la FTC ha inflitto a Meta una multa record da 5 miliardi di dollari per violazioni in materia di privacy e protezione dei dati, imponendo nuove restrizioni e l’adozione di un robusto programma interno di responsabilizzazione, con obblighi che hanno coinvolto anche i vertici aziendali e il consiglio di amministrazione.

L’adozione massiva dell’automazione nei controlli rischia quindi di configurarsi come un espediente per svuotare di significato obblighi normativi che, pur non essendo formalmente revocabili, possono essere indeboliti fino a diventare inefficaci. Una strategia che, tra l’altro, potrebbe acuire le tensioni con l’Unione Europea. Non è affatto scontato, infatti, che un sistema basato su IA sia in grado di rispettare i requisiti previsti dal Digital Services Act, pacchetto di leggi che impone standard rigorosi di trasparenza e due diligence per le piattaforme digitali. Il problema è che, al momento, non esistono indicazioni chiare su come un sistema così profondamente affidato a un’IA possa adempiere a tali obblighi.

L’AIEA sbugiarda i leader UE: “nessuna prova che l’Iran stia fabbricando armi nucleari”

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Dopo una settimana di speculazioni, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica smentisce quanto dichiarato da tutti i leader del blocco Occidentale: l’Iran non sta sviluppando nessuna arma nucleare. A dirlo è stato il direttore dell’AIEA Rafael Mariano Grossi, in occasione di un’intervista all’emittente statunitense CNN: «Ciò che abbiamo riportato è che non avevamo alcuna prova di uno sforzo sistematico per passare a un’arma nucleare». La smentita arriva dopo giorni di bombardamenti israeliani sui siti nucleari iraniani giustificati sulla base di un rapporto dello stesso Grossi, distorto dalla maggior parte dei politici del mondo. Non c’è insomma nessuna «minaccia reale», come definita da Giorgia Meloni: «Per avere un’arma nucleare», infatti, «bisogna metallizzare l’uranio, avere nutrienti, detonatori; bisogna avere materiali da inserire nella testata per farla esplodere. Per non parlare del fatto che potresti volerla testare», ha specificato Grossi; tutte cose, come provato svariate volte da diversi rapporti, che l’Iran non sta facendo.

Nelle ultime settimane, i leader di tutto il mondo stanno utilizzando il rapporto dell’AIEA per giustificare le aggressioni israeliane all’Iran e descriverle come attacchi preventivi. La premier italiana Giorgia Meloni ha parlato di una «minaccia reale», di fronte alla quale «Israele ha diritto di difendersi»; la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha rimarcato «la forte preoccupazione» dell’UE sui programmi nucleari e missilistici balistici dell’Iran, sottoscritta anche dal presidente francese Macron; il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha affermato che Israele sta facendo «il lavoro sporco» per conto nostro, e intimato l’Iran a «fare un passo indietro» suggerendo velatamente un possibile coinvolgimento europeo nel conflitto. Israele, dopo tutto, ha giustificato le proprie aggressioni proprio facendo appello alla presunta intenzione di costruire armi nucleari dell’Iran. L’intervista a Rafael Grossi sbugiarda tutte queste dichiarazioni, mostrando il chiaro intento retorico dei leader occidentali. Grossi taglia la questione alla radice: «C’è questa competizione su chi ha torto o ragione riguardo al tempo necessario all’Iran per costruire un’arma nucleare», ha detto. «Sono speculazioni». «Se ci fosse stata qualche attività clandestina, nascosta o lontana dai nostri ispettori, avremmo potuto saperlo»; eppure, non ci sono prove.

Le parole di Grossi confermano quanto già noto da tempo: non c’è alcuna prova che Teheran si stia dotando di armi nucleari. A gennaio, in occasione della conferenza di sicurezza Cipher Brief, il direttore della CIA William Burns ha affermato che malgrado l’Iran stia aumentando la propria produzione di uranio arricchitonon starebbe producendo alcuna arma nucleare, ipotesi che ha poi ribadito all’emittente statunitense NPR. A marzo, la direttrice dell’intelligence statunitense Tulsi Gabbard ha sottoscritto quanto detto da Burns in occasione di una seduta davanti al Senato. L’Iran, inoltre, è uno dei Paesi firmatari del trattato di non proliferazione nucleare, carta che, di contro, Israele non ha mai ratificato. È a tal proposito noto che lo Stato ebraico sia dotato di armi nucleari sebbene il governo israeliano non abbia mai confermato ufficialmente di possedere un arsenale nucleare.

Sicilia, presidente dell’Assemblea Regionale Galvagno indagato per corruzione

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Gaetano Galvagno, presidente dell’Assemblea regionale siciliana e figura di spicco di Fratelli d’Italia in Sicilia, è indagato per corruzione dalla procura di Palermo. Secondo l’accusa, avrebbe destinato circa 300mila euro di fondi regionali in cambio di incarichi a due suoi collaboratori. Le indagini, iniziate nel 2023 ma rese note solo ora, riguardano due finanziamenti: 100mila euro alla fondazione Dragotto per l’evento “Un magico Natale” e 300mila euro al Comune di Catania per iniziative natalizie. Secondo la Procura, intercettazioni proverebbero l’accordo corruttivo. Galvagno nega ogni addebito.

Nuova Zelanda: stop ai finanziamenti a Isole Cook per legami con la Cina

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La Nuova Zelanda ha sospeso milioni di dollari di finanziamenti alle Isole Cook, territorio scorporato legato politicamente al Paese, a causa degli accordi che il piccolo Stato del Pacifico ha stipulato con la Cina. A dichiararlo è il portavoce del ministro degli Esteri neozelandese, che ha spiegato che la Nuova Zelanda, il principale finanziatore delle Isole Cook, ha bloccato 18,2 milioni di dollari neozelandesi (circa 9,5 milioni), perché essi si fondano su un «rapporto bilaterale di elevata fiducia». Inoltre, il Paese «non prenderà in considerazione nuovi finanziamenti significativi finché il governo delle Isole Cook non adotterà misure concrete per riparare i rapporti e ripristinare la fiducia».

In due anni la Giamaica ha dimezzato il tasso di povertà tra la popolazione

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Giamaica

Nel corso degli ultimi anni, la Giamaica ha fatto importanti passi avanti nel miglioramento delle condizioni di vita della sua popolazione, con un calo significativo della povertà. Secondo i dati diffusi dal Planning Institute of Jamaica (PIOJ) e dallo Statistical Institute of Jamaica (STATIN), il tasso di povertà è sceso dal 16,7% del 2021 all'8,2% nel 2023, segnando il valore più basso mai registrato dal 1989, anno in cui sono iniziate le misurazioni ufficiali.
La riduzione della povertà ha riguardato diverse aree del Paese, inclusi sia i centri urbani che le zone rurali. Nella capitale King...

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Netanyahu, 30 anni di menzogne e allarmismo sul programma nucleare iraniano

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Da oltre trent’anni Benjamin Netanyahu recita ossessivamente lo stesso copione: l’Iran è sul punto di sviluppare un’arma nucleare, e il mondo – sotto la regia degli Stati Uniti – deve intervenire per fermarlo. Un disco rotto che ha accompagnato ripetute crisi internazionali, elezioni israeliane e operazioni militari, ma che, alla prova dei fatti, si è puntualmente infranto contro la mancanza di prove.

Oggi il mondo è sull’orlo del precipizio dietro al pretesto che l’Iran avrebbe già le capacità per costruire nove bombe nucleari. L’AIEA ha formalmente stabilito che l’Iran non sta rispettando i suoi obblighi sul Trattato di non proliferazione nucleare (l’accordo internazionale a cui, paradossalmente, Israele – che possiede circa 200 testate – non aderisce) per la prima volta in venti anni. Il ministero degli Esteri iraniano e l’Organizzazione Nazionale per l’Energia Atomica hanno replicato che la decisione è «politica per eccellenza e riflette un chiaro pregiudizio». Alcuni media iraniani hanno pubblicato una serie di documenti che dimostrerebbero le pressioni che il direttore Rafael Grossi avrebbe ricevuto da Israele, finendo per seguire le direttive di Tel Aviv. Secondo le agenzie di stampa Fars e Iran Press, citando rappresentanti dell’intelligence iraniana, l’AIEA avrebbe trasmesso segretamente la corrispondenza riservata che l’Agenzia intratteneva con Teheran ai servizi segreti israeliani.

Il tormentone politico della minaccia nucleare iraniana comincia nel lontano il 1992, quando Netanyahu, allora parlamentare, iniziò a puntare il dito contro l’Iran, accusando Teheran di essere a tre o cinque anni dal possedere un’arma nucleare, sottolineando la necessità di un’azione internazionale guidata dagli Stati Uniti per fermare il programma. Nel 1995, durante un discorso contraddistinto dalla tipica retorica tutt’altro che misurata, Netanyahu ribadì il concetto, insistendo che la minaccia dovesse essere «sradicata». Nel suo libro del 1995, Lotta al terrorismo, Netanyahu mise nero su bianco il concetto che l’Iran avrebbe avuto un’arma nucleare «entro tre o cinque anni». Nel 1996, parlando al Congresso degli Stati Uniti, Netanyahu avvertì che se l’Iran avesse acquisito armi nucleari, ciò avrebbe avuto «conseguenze catastrofiche» non solo per Israele e il Medio Oriente, ma per il mondo intero, aggiungendo che la scadenza per raggiungere questo obiettivo era «estremamente vicina». 

Nel 2002, in un’altra testimonianza al Congresso, Netanyahu si concentrò inizialmente sull’Iraq, per poi tornare a sottolineare il pericolo dell’Iran, sostenendo che il programma nucleare iraniano fosse così avanzato che il Paese stava utilizzando «centrifughe grandi come lavatrici». Affermazioni che si sono rivelate sfacciatamente false come le previsioni del decennio precedente. 

Nel 2009, come rivelato da un cablogramma di WikiLeaks, Netanyahu – allora candidato premier – informò una delegazione del Congresso USA che l’Iran era probabilmente a uno o due anni dal raggiungere la capacità di sviluppare armi nucleari. Nelle interviste rilasciate ai giornalisti in quel periodo – ricordiamo quella a Jeffrey Goldberg di The Atlantic –, Netanyahu continuò ad agitare lo spauracchio su questa presunta imminente minaccia “apocalittica”.

Nel 2012, tornò alla carica, dichiarando in colloqui privati riportati dai media israeliani, che l’Iran era a pochi mesi dal raggiungere capacità nucleari. Nello stesso anno, durante un discorso alle Nazioni Unite, utilizzò un cartello con il disegno in stile cartoon di una bomba sferica e tracciò una riga sotto la miccia, per illustrare che l’Iran sarebbe stato in grado di costruire un’arma nucleare entro un anno. Tali affermazioni furono clamorosamente smentite dalle analisi della stessa intelligence israeliana, che indicavano che l’Iran non stava attivamente sviluppando un’arma nucleare.

Nel 2018, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Netanyahu accusò l’Iran di mantenere un «magazzino atomico segreto» a Teheran, mostrando foto e sostenendo che ciò dimostrava l’intento di sviluppare armi nucleari, nonostante l’accordo nucleare del 2015 (JCPOA). I funzionari dell’intelligence USA confermarono che queste informazioni erano già note e non cambiavano il giudizio che l’Iran non stesse riavviando un programma nucleare militare. Nel 2019 Netanyahu continuò a lanciare avvertimenti sull’Iran, sostenendo che il Paese fosse vicino a un punto di svolta nel suo programma nucleare, anche se non fornì dettagli specifici.

Quest’anno, in un’intervista a News Max, Netanyahu ha ammesso che Israele ha «ritardato ma non fermato» il programma nucleare iraniano, e che Teheran a “giorni” sarebbe riuscita ad arricchire abbastanza uranio per una bomba. In seguito, ha sostenuto che l’Iran avrebbe ottenuto abbastanza uranio arricchito per nove bombe nucleari. Queste accuse ufficiali sono state contestate dall’intelligence USA, secondo cui l’Iran sarebbe ancora ad anni di distanza dalla capacità di produrre un’arma nucleare. La direttrice dell’intelligence nazionale statunitense, Tulsi Gabbard, al Congresso ha spiegato ai legislatori che l’Iran non stava costruendo un’arma nucleare e la sua Guida suprema non aveva riautorizzato il programma inattivo, nonostante avesse arricchito l’uranio a livelli più elevati. Il 17 giugno, il presidente americano Donald Trump ha respinto la valutazione delle agenzie di spionaggio statunitensi durante un volo notturno di ritorno dal G7 a Washington. Senza motivare le sue dichiarazioni ha liquidato il report dei suoi 007, limitandosi a un commento laconico: «Non mi interessa cosa ha detto». Sconfessando di fatto Gabbard.

A partire dall’amministrazione Reagan, l’ostracismo americano nei confronti del programma nucleare iraniano si è evoluto nei decenni, consolidandosi in una piena demonizzazione sotto la presidenza Clinton, sempre più ostaggio delle lobby sioniste. Al contempo, per oltre tre decenni, Netanyahu ha diffuso false dichiarazioni sui programmi di armi nucleari che contraddicevano le analisi dei suoi stessi consulenti di intelligence, senza che le sue ripetute previsioni si siano mai concretizzate nei tempi indicati. Il suo allarmismo ciclico riemerge puntualmente quando serve a coprire tensioni interne, distrarre l’opinione pubblica da negoziati internazionali scomodi o dal genocidio a Gaza, garantirsi la sopravvivenza politica o a rilanciare le sue fortune politiche. L’Iran come spauracchio eterno, utile leva di pressione geopolitica.

Siamo di fronte al solito schema, volto a creare un diversivo e a strumentalizzare una minaccia per ottenere un casus belli e a legittimare un regime change. Si tratta della stessa narrazione che permise agli Stati Uniti, nel 2003, di trascinare il mondo in una guerra disastrosa contro l’Iraq, fondata sul pretesto delle armi di distruzione di massa mai esistite. Ieri la fialetta con l’antrace agitata da Colin Powell, oggi il copione si ripropone, stavolta con l’Iran come nemico designato. 

Netanyahu continua a gridare al lupo. Il lupo, ancora una volta, non c’è, ma ci troviamo tutti sul ciglio del precipizio a contemplare inebetiti il burrone sotto di noi, mentre il pifferaio israeliano continua a suonare il suo canto di guerra.

È stata scattata la più grande fotografia dell’universo

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Un’unica immagine composta da oltre 10.000 esposizioni, quasi 800.000 galassie osservate e un catalogo liberamente accessibile con le loro proprietà principali: è il risultato di COSMOS-Web, ritenuta la più ampia mappa dell’universo primordiale mai realizzata, ottenuta grazie al telescopio spaziale James Webb (JWST). La fotografia, presentata recentemente e frutto del più grande programma di osservazione condotto dal JWST nel suo primo anno di attività, copre un’area pari a tre lune piene e rappresenta un balzo in avanti per la comprensione dell’evoluzione delle galassie. A guidare il progetto, un team di quasi 50 scienziati coordinati da Jeyhan Kartaltepe – del Rochester Institute of Technology e Caitlin Casey – dell’University of California – che ha reso disponibile anche un visualizzatore interattivo per esplorare liberamente i dati. «È stato incredibile rivelare galassie prima invisibili, ed è stato molto gratificante vederle finalmente apparire sui nostri computer», commentano gli esperti.

Uno screenshot di una sezione di cielo nel catalogo interattivo di COSMOS-Web. (Credit: COSMOS-Web)

Il programma COSMOS-Web è stato selezionato come osservazione generale principale per il primo anno di attività del telescopio spaziale James Webb, lanciato nel 2021. Il progetto ha ottenuto il maggior numero di ore di osservazione, pari a circa 250, e si inserisce nel contesto del Cosmic Evolution Survey (COSMOS), un’iniziativa avviata nel 2007 che coinvolge più di 200 ricercatori. A differenza di altri studi JWST, che si concentrano su aree molto ristrette ma profonde del cielo, COSMOS-Web ha privilegiato la dimensione dell’area osservata: 0,54 gradi quadrati con la Near Infrared Camera (NIRCam) e 0,2 con il Mid Infrared Instrument (MIRI), pari a una porzione di cielo grande circa quanto tre lune piene. Si tratta di un’ampiezza che ha permesso di studiare le galassie in un arco temporale di oltre 13 miliardi di anni – analizzando la loro evoluzione strutturale, morfologica e fisica – e che ha permesso la creazione del catalogo COSMOS2025, accessibile pubblicamente, che contiene dati dettagliati sulla fotometria, la forma, il redshift e altri parametri fisici delle galassie. I ricercatori, poi, hanno anche utilizzato tecniche di apprendimento automatico per stimare con maggiore precisione le proprietà fisiche dei corpi celesti.

Questo montaggio fotografico di COSMOS-Web mostra nove galassie che abbracciano l’intero tempo cosmico, da in alto a sinistra a in basso a destra: l’universo attuale, 3, 4, 8, 9, 10, 11, 12 e 13 miliardi di anni fa. (Crediti immagine: Kartaltepe, Casey, Franco e il team di COSMOS-Web)

Tra le principali finalità del progetto, spiegano gli scienziati, vi era lo studio dell’epoca della reionizzazione – un periodo avvenuto oltre 13 miliardi di anni fa, durante il quale la luce delle prime galassie dissipò la nebbia primordiale di idrogeno – e l’analisi delle strutture cosmiche nei primi due miliardi di anni. Per farlo, gli scienziati hanno trattato le galassie come “traccianti” della distribuzione della materia e hanno utilizzato il JWST per raggiungere una profondità osservativa superiore alle attese. «La realtà si è rivelata migliore: siamo riusciti ad andare più in profondità di quanto ci aspettassimo», spiega Kartaltepe, aggiungendo che grazie al contributo dello strumento MIRI, è stato inoltre possibile studiare la massa delle galassie primordiali e caratterizzarne l’attività stellare nel tempo cosmico, superando i limiti imposti dall’estinzione della polvere cosmica. La costruzione del catalogo, aggiungono gli esperti, ha richiesto un lungo lavoro di squadra, dalla correzione degli artefatti nelle immagini all’allineamento con i dati preesistenti, per un totale di 150 visite osservative e oltre 10.000 immagini singole. «Abbiamo dati e cataloghi di cui siamo assolutamente certi», aggiunge Kartaltepe, «e non posso esagerare nell’enfatizzare quanto il settore sia cambiato». La mappa interattiva è consultabile cliccando su questo link.

Antitrust: multa da tre milioni per Virgin Active

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L’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha erogato una multa di tre milioni di euro per la catena di palestre Virgin Active Italia accusandola di condurre pratiche commerciali scorrette. L’Antitrust, di preciso, accusa Virgin di non avere informato per tempo e adeguatamente i propri clienti sulle condizioni e sui termini di adesione, disdetta e recesso degli abbonamenti. Virgin Active Italia gestisce 40 palestre in tutta Italia, e nel 2024 ha raggiunto i 100mila abbonamenti.