Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato il rientro di 84 prigionieri di guerra ucraini in seguito a uno scambio con la Russia. Tra di loro ci sono soldati catturati a Mariupol e altri arrestati dall’esercito russo tra il 2014 e il 2017, prima dell’invasione del febbraio 2022. L’ente ucraino per la gestione dei prigionieri ha confermato che 33 sono militari e 51 civili. Anche il ministero della Difesa russo ha confermato lo scambio, che ha previsto la restituzione di 84 soldati russi. Si tratta di uno degli scambi di prigionieri più significativi dall’inizio del conflitto.
Inondazioni in India: almeno 32 morti e 50 dispersi nel Kashmir
Almeno 32 persone sono morte a causa di inondazioni improvvise provocate da forti piogge nel remoto villaggio montuoso di Chositi, nel Kashmir indiano. Le squadre di soccorso hanno salvato oltre 100 persone, ma il bilancio è destinato ad aggravarsi: circa 50 persone risultano infatti ancora disperse. Il viceministro indiano Jitendra Singh ha confermato che le inondazioni sono state causate dalle intense precipitazioni nella regione di Jammu e Kashmir. Gli abitanti e i funzionari locali hanno recuperato sette corpi dai detriti e dal fango, mentre le operazioni di salvataggio proseguono senza sosta.
Italia, arrivati 31 bambini da Gaza per cure
Il ministero degli Esteri italiano ha diffuso un comunicato in cui annuncia che ieri, 13 dicembre, sono arrivati nel Paese 31 bambini bisognosi di cure, con 83 accompagnatori palestinesi. I bambini verranno ora trasferiti verso gli ospedali, per poi venire, assieme agli accompagnatori, presi in carico dal Sistema di Accoglienza Integrata del Ministero dell’Interno per l’inserimento alloggiativo. A tutti i 114 palestinesi sarà fornito permesso di soggiorno. Quella di ieri risulta la 14esima missione ospedaliera italiana da gennaio 2024.
In Italia è stato ucciso legalmente un lupo, è la prima volta dopo mezzo secolo
Un evento senza precedenti ha segnato il panorama naturalistico italiano: nella notte tra l’11 e il 12 agosto, un lupo maschio di circa 45 kg è stato abbattuto legalmente in Alta Val Venosta, a 2800 metri di altitudine, dal Corpo forestale provinciale di Bolzano. È il primo abbattimento autorizzato dopo 50 anni di protezione per la specie, sancita dalla legge che nel 1971 ha messo il lupo sotto tutela. La decisione arriva a pochi mesi dalla modifica della normativa europea che ha ridotto il livello di protezione per il grande carnivoro. L’autorizzazione a selezionare e abbattere due lupi in maniera casuale nell’area era stata firmata lo scorso 30 luglio dal presidente della provincia, Arno Kompatscher, dopo una serie di attacchi al bestiame che hanno causato numerose perdite tra maggio e agosto 2025.
Le associazioni animaliste Enpa, Lav e Lndc avevano fatto ricorso al Tar contro l’autorizzazione della Provincia autonoma di Bolzano per abbattere i lupi nel Comune di Malles, ma il tribunale ha sospeso l’autorizzazione. Successivamente, il Consiglio di Stato ha dato il via libera, respingendo la richiesta di sospensiva e supportando la decisione con il parere favorevole dell’Ispra e dell’Osservatorio faunistico provinciale. Secondo le autorità altoatesine, tra maggio e luglio sono stati registrati 31 attacchi di lupo a bestiame in un alpeggio dell’Alta Val Venosta, una cifra inferiore ai 42 dello scorso anno. Il presidente Kompatscher ha giustificato l’abbattimento come misura necessaria per la regolamentazione dei lupi pericolosi e la salvaguardia dell’allevamento alpino. All’interno del provvedimento, si prevedeva l’uccisione di due lupi in maniera casuale, senza alcuna selezione specifica. «I prelievi tramite abbattimento avvengano senza limitazione alcuna di orari, l’utilizzo di armi lunghe a canna rigata e con modalità tali da perseguire anche il condizionamento negativo nei confronti di altri eventuali lupi», si legge nel testo.
Le associazioni animaliste Lav, Enpa, Lndc e “Io non ho paura del lupo” hanno fortemente criticato l’abbattimento dell’esemplare, sostenendo che le condizioni legali per l’intervento non siano state rispettate. Le organizzazioni ritengono infatti che le misure di prevenzione fossero inadeguate, evidenziando che le predazioni che avrebbero giustificato tale scelta si sono verificate fuori dai recinti e senza l’uso di cani da guardiania. Massimo Vitturi (Lav) ha dichiarato che, se i sistemi di protezione fossero stati correttamente applicati, l’abbattimento sarebbe stato evitabile, annunciando una denuncia per uccisione di animale contro la Provincia di Bolzano.
Questa svolta non sembra però casuale. A inizio giugno, infatti, il Consiglio Europeo aveva messo il timbro finale sulla modifica dello status di protezione dei lupi da “strettamente protetti” a “protetti” decretata dalla Commissione e approvata dall’Eurocamera. Il cambio di status permetterà agli Stati membri di avere «una maggiore flessibilità nella gestione delle popolazioni di lupi al fine di migliorare la coesistenza con gli esseri umani e ridurre al minimo l’impatto della crescente popolazione di lupi in Europa», come si legge sul sito del Parlamento europeo. I Paesi dell’UE potranno così procedere con meno restrizioni all’abbattimento dei lupi, con l’unico vincolo di «continuare a garantire uno stato di conservazione soddisfacente» dell’animale – la cui popolazione è oggi stimata in 20mila esemplari in tutta Europa. «Il declassamento dello status di protezione è un passo importante per poter adottare misure mirate come i prelievi regolamentati e avere un minore impatto sull’agricoltura e sull’economia alpina – aveva dichiarato a inizio luglio l’assessore alle Foreste della Provincia di Bolzano Luis Walcher -. Con la riduzione dello status di protezione del lupo ci siamo avvicinati al nostro obiettivo di preservare e proteggere l’agricoltura, in particolare quella di montagna, attraverso il prelievo dei lupi considerati problematici».
A plaudire al declassamento dello status di protezione del grande carnivoro era stato sin da subito anche Maurizio Fugatti, presidente della provincia di Trento, primo grande sponsor degli abbattimenti di lupi e orsi. Nel luglio del 2023, Fugatti aveva firmato per la prima volta un decreto, autorizzato dall’ISPRA, con cui si ordinava l’abbattimento di due esemplari di lupo appartenenti al branco presente nella zona di Malga Boldera, nel versante trentino dei Monti Lessini, nel Comune di Ala. Il provvedimento era arrivato dopo alcuni episodi di predazioni da parte dei lupi ai danni dei pascoli della zona. Ciononostante, le uccisioni non si sono verificate. Infatti, dopo un ricorso presentato dalle associazioni Lav, Lndc Animal Protection e WWF, lo scorso febbraio il Tar di Trento lo ha dichiarato improcedibile: dal momento che la malga Boldera, dove i lupi avevano predato 16 bovini e 2 asini, non ospita più animali, non esiste più un pericolo associato ai lupi, quindi non è necessario procedere all’abbattimento.
Il governo dirotta i fondi per le vittime di mafia alle Olimpiadi di Cortina ’26
Il governo Meloni ha deciso di destinare 43 milioni di euro, provenienti dal Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime di mafia, usura e agli orfani di femminicidio, al finanziamento delle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026. Una scelta su cui ha messo il timbro definitivo l’approvazione finale in Parlamento del decreto “Sport”, attraverso cui sono stati stanziati quasi 400 milioni per i Giochi. Le opposizioni avevano presentato emendamenti per chiedere l’utilizzo di fondi alternativi, che sono stati tutti respinti dalla maggioranza. Il governo ha difeso la decisione, affermando che si tratta di un residuo del fondo, che non è stato completamente utilizzato, e che verrà impiegato per gli equipaggiamenti e gli alloggi delle forze di polizia durante le Olimpiadi. Ferma però la condanna delle associazioni antimafia, che parlano di uno «schiaffo» alle vittime.
La norma, contenuta nel decreto “Sport”, prevede che una parte dei costi per la sicurezza olimpica venga coperta con i residui non spesi dal fondo di solidarietà, destinato a risarcire le vittime di crimini violenti e a sostenere gli orfani di crimini domestici. Il decreto ha visto l’approvazione di un budget complessivo di 271 milioni per la sicurezza, ma solo una parte verrà coperta dal Ministero dell’Economia, mentre i restanti 43 milioni derivano appunto dal fondo di rotazione. PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra hanno protestato, accusando il governo di mettere a rischio i fondi destinati a persone già vulnerabili. Il governo ha utilizzato una legge del 2012 per attingere ai fondi non spesi, una norma che prevede che le risorse possano essere destinate a «interventi urgenti e indifferibili» e «eventi celebrativi». «Viene trasmesso un messaggio distorto: non viene sottratta alcuna risorsa, è un residuo che viene utilizzato non per spese frivole, ma per equipaggiamenti, alloggi delle Forze di Polizia», ha dichiarato la sottosegretaria Matilde Siracusano, cercando di difendere la decisione dell’esecutivo.
Tuttavia, la giustificazione non ha placato le polemiche. In una nota, l’associazione Libera ha scritto che è «inaccettabile che un fondo nato per proteggere imprenditori e cittadini che si ribellano a racket e usura finisca per finanziare i servizi di ordine pubblico di un grande evento sportivo», evidenziando come l’usura e l’estorsione non siano fenomeni in declino, ma che anzi siano «sempre più diffusi e pervasivi», essendoci dunque urgenza di «un intervento complesso, sociale, culturale ed economico, attento ai contesti locali, che metta a disposizione strumenti di sostegno e campagne di sensibilizzazione per aiutare chi si sente isolato ad affrontare queste minacce». Ancora più dura la reazione de La Tazzina della Legalità, che denuncia come il governo stia tentando di «“minimizzare”, parlando “di “residui” e di “interventi urgenti”, ma tradire le vittime e i collaboratori di giustizia in questo modo significa lanciare un messaggio devastante: “state zitti, denunciare vi costa caro, perché vi lasceremo soli”». «È uno schiaffo alla dignità e alla speranza di chi ha fatto della legalità una missione di vita», conclude l’associazione.
La decisione, secondo molti, rappresenta un ulteriore esempio di come l’evento olimpico, inizialmente presentato come a “costo zero” per l’economia, stia assumendo dimensioni finanziarie enormi, con un deficit patrimoniale che nel 2023 ha toccato i 108 milioni di euro. Tra le varie norme incluse nel decreto “Sport”, infatti, ci sono quelle rivolte a coprire i buchi di bilancio della Fondazione Milano-Cortina per i Giochi. Il provvedimento ha infatti stanziato 328 milioni di euro alla istituzione di un nuovo Commissario per le Paralimpiadi, che avrebbe il compito di «subentrare nei rapporti giuridici della Fondazione». Una formulazione che appare come una scusa per scorporare parte dei costi, dal momento che le Paralimpiadi erano già presenti nel Comitato. A chiarirlo è infatti la relazione tecnica pubblicata dalla Camera dei Deputati che accompagna il decreto, in cui si conferma l’assegnazione di quasi 400 milioni di euro a Fondazione Milano Cortina, proprio grazie alla creazione del commissario per le Paralimpiadi. A quest’ultimo il governo assegna 248 milioni di euro per «la tempestiva realizzazione degli interventi» e altri 79 milioni per «le esigenze di carattere logistico necessarie allo svolgimento delle competizioni sportive». Con i 43 milioni per potenziare la sicurezza attorno alle sedi olimpiche attinti dal fondo di solidarietà, l’esborso complessivo sale a 371 milioni di euro.
USA, esercito schiera forze nei Caraibi meridionali contro i narcos
Gli Stati Uniti hanno dispiegato forze aeree e navali nel Mar dei Caraibi meridionali per contrastare le minacce dei cartelli della droga latinoamericani. La decisione, voluta dal presidente Trump, mira a colpire le bande di narcotrafficanti, designate come organizzazioni terroristiche globali. Il Pentagono ha ricevuto l’ordine di preparare opzioni per un’operazione di sicurezza, parte di un ampio piano che include la limitazione dell’immigrazione e la protezione del confine meridionale. Già nei mesi precedenti, erano state schierate navi da guerra per supportare gli sforzi di contrasto al traffico di droga.
Sfidando censura e odio per raccontare Gaza sui social: intervista a Karem “from Haifa” Rohana
Accento toscano, ma il suo cuore palestinese, Karem Rohana è scampato all’eccidio in corso a Gaza perché la sua famiglia ha avuto la possibilità, e la fortuna, di emigrare. Discendente da una famiglia di Haifa, che con la nascita di Israele ha perso tutto ed è diventata arabo-israeliana, Karem, fin da bambino, vive in Italia. E attraverso il suo profilo Instagram, “Karem From Haifa”, racconta la storia e la causa palestinese e contribuendo a diffondere la verità su quanto accade a Gaza e nei territori occupati sfidando la censura e l’odio dei supporters di Israele, al punto da aver subito anche un brutale pestaggio. L’Indipendente lo ha raggiunto per una intervista.
Leggendo la tua storia, sono rimasta colpita dalla tua doppia cittadinanza per così dire. Tu sei palestinese, ma hai un passaporto israeliano. Cosa si prova a vivere da palestinese in uno stato come quello di Israele?
I palestinesi che vivono dentro lo Stato di Israele sono meno colpiti da violenze fisiche rispetto agli abitanti di Gaza o della Cisgiordania, (in Cisgiordania ad esempio l’Occupazione passa attraverso la militarizzazione del territorio e una violenza sistematica) ma siamo colpiti da violenze identitarie. Un palestinese che vive in Israele di fatto non può essere palestinese. Non ti puoi dichiarare palestinese, non puoi usare simboli palestinesi. Ci sono tante tradizioni palestinesi che sono state vietate per legge, come la raccolta della za’atar, una spezia che fa parte della nostra tradizione culinaria. Nel 48 Israele ha cancellato l’identità palestinese e continua a farlo tuttora. I palestinesi, inoltre, non hanno gli stessi diritti dei cittadini israeliani: ci sono cittadini di serie a e cittadini di serie b, cioè noi.
Parlando invece di Gaza e della Cisgiordania; nel quotidiano, nella vita di tutti i giorni, come si manifesta la presenza israeliana?
Non esiste un aspetto della tua vita in Cisgiordania o a Gaza che non sia controllato da Israele. Checkpoint disseminati lungo tutto il territorio, requisizioni di terre e proprietà che vengono poi assegnate a quelli che si definiscono «Coloni», violenze continue e perfino uccisioni. Ma tutto questo tipo di violenza non puoi neanche denunciarla. Quando dei militari assaltano il tuo villaggio, confiscando e distruggendo tutto quello che possedevi e coltivavi magari da generazioni, tu poi per ottenere giustizia dovresti rivolgerti alla polizia militare. Tribunali cioè che sono fatti di quelle persone che hanno preso di mira il tuo villaggio. E che tipo di giustizia puoi sperare di ottenere? Esistono infatti due tipi di tribunali: i tribunali civili per gli israeliani, e i tribunali militari per i palestinesi. Noi siamo l’unico posto al mondo dove i minori, anche i bambini, vengono giudicati da tribunali militari.
Mi domando come si possa vivere con la consapevolezza di non essere realmente libero, di non avere un tribunale, uno Stato, un corpo di Polizia che ti difenda… anzi, oggi essere palestinese significa vivere con la certezza che tutto ciò che conosci e ami può esserti strappato via da un momento all’altro. Qual è secondo te la cosa più preziosa di cui ti privano? O la più dolorosa?
Soprattutto ti tolgono il «tempo». Per fare una qualsiasi cosa, dalla più importante alla più banale, ci metti ore, perché gli israeliani controllano i tuoi spostamenti. Ci sono ovunque posti di blocco. Se vieni fermato a un posto di blocco, la polizia può trattenerti per ore. O arrestarti per nessun motivo, oltre al fatto di essere palestinese. Ti pesa anche il dover convivere con l’assenza di qualsiasi punto fermo, di qualsiasi certezza. Non hai la certezza di poter andare a scuola, perché da un momento all’altro quella scuola possono demolirla per «ragioni militari». Tu stesso puoi venire ucciso, una realtà con cui ogni palestinese deve scendere a patti.
Quando si parla di Palestina e di Israele si incomincia partendo dal 7 ottobre, come se fosse una data simbolica che ha fatto da spartiacque nell’immaginario collettivo tra un «prima» e un «dopo». Tu credi sia giusto?
Il 7 ottobre fu il giorno in cui morirono per colpa di Hamas tanti israeliani, ma ci si dimentica che prima, per i palestinesi, ogni giorno poteva essere il 7 ottobre. I palestinesi morivano, ma nessuno ne parlava. Nessuno se ne interessava. Quel tipo di violenza che ha scosso l’opinione pubblica, com’è giusto che sia, era però esercitato nei confronti dei palestinesi tutti i giorni.
Nadav Weimen, il direttore dell’associazione Braeking the Silence, che raccoglie le testimonianze e i racconti di ex soldati dell’IDF che lottano contro l’Occupazione, ha raccontato di un tipo di violenza sistematica. Queste sono le sue parole: «Ogni notte mettevamo in atto un’operazione chiamata “Straw Window”. Essa consisteva in sostanza nell’impossessarsi di una casa privata palestinese e convertirla in un avamposto militare; e come lo facevamo? Assaltando letteralmente la casa nel bel mezzo della notte, trascinando tutti i membri della famiglia giù dai loro letti e confinandoli tutti in una stanza così che non potessero disturbarci. (…) Lo scopo era di far percepire la nostra presenza e di rinnovare nei palestinesi la consapevolezza di chi aveva il loro controllo.» Ecco, io mi domando: come possa una società come quella israeliana, vicina per cultura, tradizioni e filosofia all’Occidente, accettare che questo tipo di violenza e di brutalità coesista al suo interno. Tu cosa ne pensi?
La società israeliana deve ignorare certi suo aspetti, i più violenti e scabrosi, per mantenere viva l’Occupazione. Si tratta di una società che ha accettato una violenza intrinseca strutturale. Per andare avanti devono fingere di non sapere e di non vedere, o al contrario giustificare questa violenza sostenendo che tutto ciò viene fatto in nome della sicurezza. Per garantire e proteggere la «nostra sicurezza», così dicono. Ma di fatto questo tipo di violenza non fa che alimentare estremismi, odio e fenomeni di guerriglia armata; oggi c’è Hamas, ma domani chissà quanti altri ne nasceranno se non si interrompe questa spirale di violenza.
In questi ultimi anni sei stato sempre più presente sui social, fino a costruirti una comunità con migliaia e migliaia di lettori. Come ti è nata l’idea di raccontare la Palestina usando i social?
L’idea mi è nata dall’esigenza che avvertivo di parlare della Palestina, in un momento in cui nel dibattito pubblico e politico non trovava spazio. All’epoca non si poteva parlare di Palestina, era un argomento tabù. Ricordo che quando uscì il report di Amnesty International sull’apartheid palestinese, riconoscendo che quello vissuto dai palestinesi ora in Cisgiordania ora a Gaza era un vero e proprio apartheid, la politica e le istituzioni all’epoca finsero di ignorarlo. O addirittura lo censurarono. Così decisi di crearmi da solo uno spazio dove poter dar voce a tutto questo.
Proprio in questi giorni al centro del dibattito pubblico, soprattutto in Italia, vi è l’uso della parola «genocidio». Lo scrittore israeliano David Grossman ha ammesso che quello portato avanti da Israele a Gaza è un genocidio; della stessa opinione è la storica Anna Foa. Qual è la tua opinione?
Il termine genocidio presuppone che dietro vi sia una disumanizzazione di certi gruppi etnici e quindi presuppone un’ideologia che va smantellata, perché non è compatibile con i valori umani. Se parliamo di crimini di guerra, possiamo sempre sperare di identificare e punire i colpevoli, in questo caso il governo di Netanyahu, se, invece, riconosci il genocidio, sei costretto ad ammettere che dietro c’è tutta una struttura ideologica che lo porta avanti. In questo caso la disumanizzazione del popolo palestinese.
Dopo l’annuncio di Macron e di Starmer, molti paesi europei e non, stanno discutendo della possibilità di ufficializzare il riconoscimento dello Stato di Palestina. Io, invece, mi chiedo quanto il riconoscimento tardivo della Palestina come Stato possa realmente incidere sulle sorti del popolo palestinese, in un contesto in cui il diritto internazionale, come ci insegna la Storia recente e passata, viene puntualmente calpestato. Secondo te è ancora possibile l’opzione del «due popoli, due Stati?» Oppure tu auspichi e vorresti qualcosa di diverso?
La soluzione dei due Stati a ora non è fattibile. Non è accettata nemmeno da chi la millanta. Di fatto è una narrazione che serve a legittimare la politica portata avanti da Israele, perché nel frattempo (così si giustificano i paesi occidentali) stiamo riconoscendo lo Stato palestinese. E continua a non andare alla radice del problema: uno Stato come quello di Israele basato su una supremazia etnico-religiosa non potrà mai accettare l’esistenza di uno Stato palestinese. La soluzione percorribile per me è uno Stato unico, uno Stato democratico che accolga tutti, israeliani e palestinesi, senza più fare discriminazioni. Una convivenza pacifica tra i due popoli non vuol dire dimenticare ciò che è stato, ma rispettare la terra, il posto, i diritti umani non solo di alcuni ma di tutti.
Ferragosto: domani “bollino rosso” per il caldo in 16 città italiane
Per Ferragosto, il ministero della Salute ha previsto 16 città italiane con il livello massimo di rischio caldo, indicato come “bollino rosso”: Bologna, Bolzano, Brescia, Firenze, Frosinone, Genova, Latina, Milano, Perugia, Rieti, Roma, Torino, Trieste, Venezia, Verona e Viterbo. Questo livello di rischio riguarda le condizioni meteorologiche pericolose per la salute, non solo per le persone vulnerabili, ma anche per i soggetti sani. Le temperature previste variano tra i 34°C di Milano e i 38°C di Firenze. Si prevede che l’ondata di calore, causata da un anticiclone subtropicale, durerà almeno fino al 17-18 agosto.








