venerdì 28 Novembre 2025
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Lo scandalo dell’urbanistica che scuote Milano viene da lontano

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Le istituzioni milanesi sono piombate nel caos. La Procura di Milano ha richiesto la disposizione di sei misure di custodia cautelare, di cui quattro in carcere e due agli arresti domiciliari, nell’ambito dell’inchiesta urbanistica che da mesi sta interessando i piani alti del potere e dell’urbanistica milanese. Tra questi, spiccano i nomi del presidente di COIMA, Manfredi Catella e dell’assessore alla Rigenerazione Urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi. La nuova inchiesta aperta dalla Procura svelerebbe gravi illeciti nell’ambito dell’urbanistica meneghina; le ipotesi di reato includono corruzione, falsità ideologica, velocizzazione illegale dei permessi edilizi, conflitto d’interessi e promozione di pratiche speculative. Secondo alcuni giornali risulterebbe indagato anche il sindaco di Milano, Beppe Sala, che sarebbe stato a conoscenza delle manovre illecite. Le radici del problema, tuttavia, affondano in anni di cattive pratiche fondate su corruzione e speculazione, che hanno accompagnato lo svilupparsi della città “che non si ferma mai”. 

Tra le misure cautelari emerge anche la figura di Giuseppe Marinoni, presidente della Commissione Paesaggio, riconfermato per il quadriennio 2025-2028, su proposta dello stesso Tancredi. Secondo le accuse Marinoni avrebbe ordito dal 2021 una trama atta a costruire un «piano di governo del territorio ombra» con il fine di garantire gli interessi privati del settore urbanistico e immobiliare a discapito di quelli pubblici.

La commissione presieduta da Marinoni avrebbe sbloccato progetti urbanistici su pressione dei vari colossi dell’architettura e della politica milanese. Di questo circolo farebbero parte Catella, Tancredi, Stefano Boeri e lo stesso Sala. Le indagini della procura mettono così in evidenza pratiche opache, tra le quali rientra la riconferma nel dicembre 2024 di Marinoni alla presidenza della commissione, nonostante le indagini a suo carico messe in moto nel novembre dello stesso anno.

Marinoni avrebbe ricevuto quindi incarichi di consulenza dalle aziende private, che finivano per essere esaminate dalla stessa Commissione Paesaggio di cui è presidente. Le istituzioni politiche comunali venivano spinte ad approvare queste opere grazie all’influenza di Giancarlo Tancredi, uomo di fiducia di Beppe Sala. Sono numerose le opere d’architettura coinvolte: il Pirellino, i Bastioni di Porta Nuova, Goccia-Bovisa e lo Scalo di Porta Romana sono solo alcuni dei progetti illeciti che sembrano coinvolgere anche le principali aziende immobiliari della città, da Unipol a Hines, nonostante non figurino al momento tra le liste degli indagati.

Richiesta la detenzione anche per Giovanni Oggioni, ex vicepresidente della Commissione Paesaggio e già agli arresti domiciliari dallo scorso marzo, accusato di aver attuato pratiche di influenza e favoreggiamento in cambio di utilità. L’ex vicepresidente, secondo il pm, avrebbe partecipato nella stesura del decreto SalvaMilano per coprire l’approvazione di progetti illegali e creato un canale politico per far arrivare la legge in Parlamento. Inoltre, secondo la Procura, avrebbe fatto passare in Commissione tra il 2020 e il 2023 vari progetti della società di sviluppo immobiliare residenziale Abitare In, a cambio dell’assunzione nell’azienda della figlia.

Risulta indagato anche Stefano Boeri, architetto, tra le varie opere, del Pirellino, incarico assunto dopo la vittoria del concorso indetto da COIMA nel 2019, e del noto Bosco Verticale. Boeri, già indagato per turbativa d’asta, false dichiarazioni e abuso d’ufficio, avrebbe esercitato pressioni «indebite e reiterate» nei confronti di Marinoni, in merito ad opinioni inizialmente sfavorevoli nell’ambito dell’edificazione del Pirellino.

Manfredi Catella chiude il cerchio dei nomi caldi in questa storia. Direttore di COIMA, Catella è il principale promotore della nuova Milano; suoi sono i progetti di Porta Nuova, Torre Unicredit, BAM Biblioteca degli alberi. A questo si aggiungono i progetti sugli scali ferroviari e la costruzione del Villaggio Olimpico nello scalo di Porta Romana. Anche lui sarebbe coinvolto in pratiche di corruzione e falso nell’ottenimento di permessi di costruzione.

Dure le reazioni della politica, con Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia e Lega che chiedono le dimissioni di Beppe Sala, mentre tace per il momento il Partito Democratico.

Per quanto le richieste di misure cautelari presentate dalla Procura abbiano sconvolto l’urbanistica e le istituzioni milanesi, lo scoppio dello scandalo si scorgeva già da lontano. Il clamore mediatico del tutto prevedibile che ne è conseguito, non dovrebbe offuscare la consapevolezza che queste pratiche si sono perpetrate per anni, spesso nel silenzio complice di una stampa legata mani e piedi dagli interessi della politica e della finanza. Il “modello Milano”, che nel corso del tempo ha ricevuto l’encomio imprenditoriale ed istituzionale, ha svelato una verità già nota ad una parte della cittadinanza. La politica del mattone, finalizzata alla costruzione dell’idea di una città smart, non ha fatto altro che rendere la vita della cittadinanza impossibile, ingabbiata, spesso consapevolmente, nella retorica della metropoli che non si ferma mai. Questo modello urbanistico mira ad una campagna promozionale costante, come già ci avevano dimostrato i progetti Expo 2015 e ora Olimpiadi Milano-Cortina 2026, volti ad attirare l’interesse internazionale a detrimento dei bisogni concreti della popolazione che abita la città. I comitati di quartiere in lotta, le associazioni, i giornalisti, spesso considerati come delle fastidiose Cassandra, avvertivano già da tempo sul futuro di una città costruita sulla speculazione e sulla corruzione del modello pubblico-privato. La politica che ha espulso e continua a espellere sempre più gente dalla capitale lombarda ha svelato le sue modalità. Il castello di carte inizia a crollare.

Israele bombarda una chiesa cattolica e Meloni finge di indignarsi

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È finalmente arrivato un commento da parte del governo italiano sulla strage di civili messa in atto a Gaza da Israele. «Inaccettabili» gli attacchi contro i civili che Tel Aviv «porta avanti da mesi» per Giorgia Meloni, «non più ammissibili» per Tajani. A risvegliare il governo è stata la notizia dell’attacco contro la chiesa cattolica della Sacra Famiglia, l’unica presente nella Striscia di Gaza. Peccato per il tempismo, perchè le dichiarazioni giungono giusto nella stessa mattinata nella quale la maggioranza di governo ha bocciato la mozione con la quale le opposizioni chiedevano la revisione del memorandum d’intesa tra Italia e Israele.

«I raid israeliani su Gaza colpiscono anche la chiesa della Sacra Famiglia. Sono inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta portando avanti da mesi. Nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento» dichiara la presidente del Consiglio. «Gli attacchi dell’esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza non sono più ammissibili. Nel raid di questa mattina è stata colpita anche la Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, un atto grave contro un luogo di culto cristiano. Tutta la mia vicinanza a Padre Romanelli, rimasto ferito durante il raid. È tempo di fermarsi e trovare la pace» le fa eco il suo vice. Nella sola giornata di oggi, le IDF (le forze armate israeliane) hanno ucciso oltre venti persone nel corso degli attacchi lungo tutta la Striscia di Gaza, durante i quali è stata anche danneggiata la chiesa di padre Romanelli, che si trova a Gaza City. Il prete è rimasto leggermente ferito nell’attacco, insieme ad altre persone che hanno riportato ferite gravi.

La disinformazione parte dai titoli: La Stampa e Repubblica riscrivono fatti e geografia

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Nel cuore della notte tra il 15 e il 16 luglio 2025, decine di droni ucraini hanno colpito il territorio della Federazione Russa, con particolare intensità sulla città di Voronezh, situata a circa 200 chilometri dal confine ucraino. Secondo il governatore regionale Alexander Gusev, l’attacco ha causato 16 feriti, tra cui un adolescente. Le immagini circolate – come quelle ripresa da una dashcam – mostrano un’esplosione provocata da un drone ucraino che si abbatte su un edificio civile, causando danni a case, negozi, veicoli e persino un asilo, fortunatamente vuoto. 

Il Ministero della Difesa russo ha riferito che ben 55 droni ucraini sarebbero stati abbattuti durante la notte su cinque regioni della Russia, tra cui appunto Voronezh, e sul Mar Nero. L’obiettivo? Infrastrutture strategiche e militari. Ma come spesso accade in guerra, a pagare è anche la popolazione civile. Voronezh, infatti, non è una località di confine dimenticata: è un centro nevralgico, sede di strutture militari e di produzione industriale. Ma soprattutto è, senza ombra di dubbio, una città russa. Peccato che alcuni importanti quotidiani italiani sembrino ignorarlo.

Nella corsa spasmodica alla pubblicazione, La Repubblica e La Stampa sono incappate in uno scivolone giornalistico imbarazzante, ma emblematico dei tempi che corrono: titoli fuorvianti che hanno attribuito l’attacco a “droni russi” e collocato la città di Voronezh, in Ucraina. Ad esempio, il titolo de La Stampa recitava: «Ucraina: nuovo attacco di droni russi a Voronezh, colpito un asilo», mentre quello de La Repubblica: «Ucraina: attacco di droni russi sulla regione di Voronezh, colpito anche un asilo». Un’affermazione, doppio errore: i droni erano ucraini, non russi, e Voronezh non è in Ucraina. Eppure, bastava leggere qualche riga più sotto, all’interno dell’articolo, per scoprire che l’attacco era stato in realtà lanciato da Kiev contro una città in territorio russo. Una svista? Forse. Ma l’errore non è di poco conto, soprattutto quando si gioca con la percezione della realtà nel mezzo di un conflitto armato. 

Titoli così redatti non sono semplici sviste, bensì strumenti narrativi. Perché nel mondo dell’informazione – dove molti lettori si fermano al titolo – la prima impressione è quella che plasma l’opinione pubblica. E un titolo che dipinge la Russia come aggressore, anche quando subisce un attacco, ha un potenziale propagandistico devastante.

La narrazione distorta ha scatenato reazioni indignate sui social, soprattutto su X, dove molti utenti hanno evidenziato l’errore grossolano. Fonti russe, come Pravda Italia, hanno amplificato l’errore, accusando i media italiani di «riscrivere la realtà da zero», insinuando che non si tratti più di incompetenza ma di sistematica manipolazione. E il sospetto non è peregrino. 

Già in passato, La Stampa è stata criticata non solo per aver cancellato gli articoli in cui raccontava la nazificazione dell’Ucraina, ma anche per diverse fake news, tra cui la pubblicazione di una foto del 2022 che mostrava i danni provocati da un missile Tochka-U ucraino su Donetsk, ma presentata come prova di un attacco russo. Il quotidiano piemontese aveva messo in prima pagina una foto che mostrava un uomo anziano disperato che si copriva il volto con le mani. Intorno a lui una distesa di cadaveri straziati: braccia mutilate, arti smembrati, urla di dolore. Lo scatto faceva pensare subito alle conseguenze di un attacco russo contro l’Ucraina, perché nelle colonne che affiancavano la copertina si parlava di Leopoli e Kiev. Il titolo a corredo della fotografia era La carneficina. Attorno a quella foto venivano richiamati articoli sui «traumi dei bambini in fuga da Leopoli», su come Kiev si preparasse all’«assalto finale» dei russi, sulla strategia di Biden, sulle reazioni dell’Occidente o le gesta della giornalista anti-Putin a Mosca. Facile, dunque, dedurre dalla pagina come i cadaveri nell’immagine fossero persone di nazionalità ucraine, vittime dei bombardamenti russi. Eppure, non era così. Quell’immagine drammatica era stata immortalata a Donetsk e quei corpi maciullati a terra erano i cadaveri di 23 civili russofoni, caduti sotto le schegge di un missile Tochka-U abbattutosi nelle strade centrali della città. 

L’incidente di Voronezh non è dunque un caso isolato, ma l’ennesimo episodio di una tendenza a raccontare la guerra attraverso lenti ideologiche, sacrificando il rigore giornalistico sull’altare del sensazionalismo e della sciatteria (o peggio, della propaganda). La strategia ucraina è chiara: colpire con droni a lungo raggio basi militari e infrastrutture strategiche all’interno del territorio russo. Lo aveva già dimostrato l’operazione “Pavutyna” (la “ragnatela”) del 1° giugno 2025, che ha danneggiato fino a 41 bombardieri strategici russi.

Ma se i fatti sul campo parlano chiaro, la rappresentazione mediatica continua a offuscarli. Il risultato è una stampa che, consapevolmente o meno, contribuisce a una distorsione sistematica della percezione pubblica, facendo apparire la Russia come l’unico aggressore in ogni contesto, anche quando viene attaccata sul proprio territorio. L’errore su Voronezh non è un dettaglio. È un colpo inferto alla credibilità di due tra i principali quotidiani italiani, che in un momento così delicato non possono permettersi leggerezze, superficialità o, peggio, narrazioni precostituite. Il giornalismo dovrebbe essere una barriera contro la propaganda, non un suo megafono.

E invece, nel caos informativo della guerra ibrida, dove ogni notizia è un’arma, basta un titolo sbagliato per riscrivere la geografia, manipolare la percezione e, in definitiva, scegliere da che parte stare. Anche (e soprattutto) senza dirlo esplicitamente.

Camera: bocciata la mozione per sospendere l’accordo Italia-Israele

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La Camera dei Deputati ha bocciato una mozione per la sospensione del memorandum di intesa tra Italia Israele. La mozione, presentata da PD, AvS e M5S ha ricevuto 142 voti contrari, 105 voti favorevoli e 14 astensioni. Essa proponeva di «avviare immediatamente il procedimento di denuncia formale dell’accordo», e, in attesa dell’avvio della revisione formale, di sospendere temporaneamente gli accordi in essere legati a esso. La mozione prevedeva anche la sospensione «di qualsiasi forma di cooperazione militare con Israele».

Il Pentagono si lega alle principali aziende di intelligenza artificiale

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pentagono usa

La Difesa statunitense ha annunciato l’avvio di una partnership con le principali aziende specializzate nel settore dell’intelligenza artificiale. Con contratti da 200 milioni di dollari l’uno, la Chief Digital and Artificial Intelligence Office (CDAO) si è aggiudicata per un anno servizi di IA volti ad affrontare “sfide critiche per la sicurezza nazionale”, con applicazioni che spazieranno in “molteplici ambiti operativi”, inclusa la sfera del combattimento.

A beneficiare dell’investimento governativo saranno Anthropic, Google, OpenAI e xAI, i principali protagonisti statunitensi del settore, i quali metteranno a disposizione i loro modelli di IA generativa per rispondere alle esigenze del Paese. Non essendo stati divulgati dettagli concreti sul modus operandi della collaborazione, non resta che formulare ipotesi sul come questa possa prendere forma concretamente. Qualche indizio può altresì essere ricavato prendendo in considerazione gli obiettivi ufficiali della CDAO: accelerare l’adozione di strumenti capaci di incidere su ogni settore del Pentagono, dagli uffici al campo di battaglia.

“L’adozione dell’intelligenza artificiale sta trasformando la capacità del Dipartimento di supportare i nostri combattenti e mantenere un vantaggio strategico sui nostri avversari”, ha dichiarato il Dr. Doug Matty, responsabile del CDAO. “Sfruttare soluzioni commerciali in un approccio integrato accelererà l’uso dell’IA avanzata nei nostri compiti essenziali, sia nell’ambito congiunto della sfera del combattimento sia nei sistemi informativi di intelligence, business e amministrazione”.

La notizia era nell’aria: il 16 giugno OpenAI aveva già pubblicato sul proprio blog la firma di un contratto con il Pentagono per il lancio di “OpenAI for Government”, progetto pensato per “servire il bene pubblico” agevolando i dipendenti federali nella riduzione della burocrazia e migliorando il servizio alle “persone americane”. Pur presentando il rapporto in termini manageriali e pacifici, OpenAI stessa ha ammesso che svilupperà “modelli personalizzati per la sicurezza nazionale”.

È ormai storicamente comprovato che, nel tempo, le Big Tech abbiano instaurato relazioni con le agenzie d’intelligence; tuttavia, il settore informatico mostra oggi un interesse sempre più marcato verso l’industria militare, rivelandosi apparentemente pronto a mettere da parte ogni riserva etica in cambio di contratti milionari. Amazon, Microsoft e Google, per esempio, hanno intensificato la fornitura di servizi cloud a Israele contestualmente all’invasione della Palestina: un rapporto ufficialmente “non bellico”, ma che i vertici israeliani hanno apertamente ammesso di utilizzare sul campo di battaglia.

L’apertura dei contratti da parte del Pentagono coincide, peraltro, con un momento mediaticamente molto critico nei confronti di come siano gestiti e sviluppati i chatbot. Solo una settimana fa Grok, il chatbot di xAI, ha fatto emergere i toni esplicitamente nazisti dei suoi materiali di riferimento, denunciando presunte cabale ebraiche e promuovendo le politiche di Adolf Hitler come soluzione all’odio nei confronti dei cittadini caucasici. Considerando che xAI è una delle aziende selezionate dalla Difesa, desta non poco scalpore l’idea che l’esercito possa integrare nelle sue operazioni uno strumento che si è autodefinito “Mecha Hitler”.

In Colombia il Sud Globale annuncia misure concrete contro il genocidio a Gaza

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Dodici Paesi del cosiddetto “Sud Globale” hanno deciso di adottare immediatamente misure concrete per fermare il genocidio a Gaza. L’annuncio è arrivato nell’ambito della conferenza di Bogotá, organizzata dal Gruppo dell’Aia, una coalizione di Paesi nata all’inizio dell’anno per rendere efficaci le decisioni delle istituzioni internazionali. Tra le misure concordate, l’embargo di armi a Israele, la chiusura dei porti alle navi dotate di simili carichi da destinare a Tel Aviv, e l’avvio di una «revisione urgente» di tutti i contratti pubblici; i Paesi hanno fissato una data di scadenza per permettere ad altri Stati di aggiungersi all’iniziativa, individuandola nel prossimo 20 settembre, quando avrà inizio l’80º ciclo dell’Assemblea Generale dell’ONU. Alla conferenza hanno partecipato altri 18 Paesi, tra cui Cina, Irlanda e Spagna, che hanno dichiarato all’unanimità «che l’era dell’impunità deve finire». «Un passo avanti epocale», ha dichiarato la Relatrice ONU per i territori palestinesi occupati Francesca Albanese, presente alla conferenza. «Il tempo stringe perché altri Stati – dall’Europa al mondo arabo e oltre – si uniscano a loro».

La conferenza di Bogotá è iniziata martedì 15 luglio e terminata ieri, 16 luglio. Al termine delle discussioni, 12 Stati (Bolivia, Cuba, Colombia, Indonesia, Iraq, Libia, Malesia, Namibia, Nicaragua, Oman, Saint Vincent e Grenadine, Sudafrica) hanno approvato misure da adottare immediatamente, dividendole in più punti: impedire la fornitura o il trasferimento di armi, munizioni, carburante militare, equipaggiamento militare correlato e articoli a duplice uso civile e militare a Israele; impedire il transito, l’attracco e la prestazione di servizi alle navi in tutti i casi in cui vi sia un chiaro rischio che trasportino tali carichi; impedire il trasporto dei medesimi materiali in navi che battono la loro bandiera; avviare un’immediata revisione dei contratti pubblici per impedire alle istituzioni di finanziare la presenza illegale di Israele nei territori palestinesi occupati; rispettare gli obblighi internazionali e collaborare a renderli efficaci. La conferenza ha concordato una scadenza per permettere a tutti gli Stati di prendere misure contro Israele. La data coincide con i termini della risoluzione ONU del 18 settembre, con la quale l’Assemblea Generale chiede la fine dell’occupazione in Palestina e dà un anno a tutti gli Stati per prendere misure contro di essa.

Agli incontri erano presenti un totale di 30 Stati, tra cui quattro europei: Irlanda, Norvegia, Slovenia e Spagna. Nelle deliberazioni della conferenza di Bogotá, i partecipanti hanno concordato all’unanimità «che il diritto internazionale deve essere applicato senza timore o favoritismi attraverso politiche e legislazioni interne immediate», lanciando un appello per un cessate il fuoco immediato. La conferenza è stata presidiata da Colombia e Sudafrica ed è stata organizzata dagli otto Paesi del Gruppo dell’Aia, che include, oltre ai presidianti, Bolivia, Cuba, Honduras, Malesia, Namibia e Senegal. Il Gruppo dell’Aia è stato formato il 31 gennaio 2025, con l’obiettivo di perseguire «un’azione collettiva attraverso misure legali e diplomatiche coordinate a livello nazionale e internazionale» per garantire il rispetto delle decisioni della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale Internazionale, con particolare riguardo proprio alla questione palestinese.

La Corte Penale conferma il mandato di cattura contro Netanyahu

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I giudici della Corte Penale Internazionale hanno respinto la richiesta di Israele di ritirare i mandati di arresto contro Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant; i giudici hanno anche respinto la richiesta israeliana di sospendere l’indagine più ampia della CPI sui crimini nei Territori Palestinesi. Israele sostiene l’assenza di una valida base giurisdizionale per i mandati di arresto, per la quale ha presentato ricorso; per tale motivo, lo Stato ebraico ha chiesto la decadenza dei mandati d’arresto. I giudici hanno stabilito che il ricorso risulta ancora pendente, ma che non per questo i mandati hanno perso la efficacia.

Il Regno Unito introdurrà il divieto di munizioni al piombo nelle attività di caccia

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A partire dal 2026, il Regno Unito avvierà una serie di misure che limiteranno l’uso di pallini e proiettili al piombo nelle attività di caccia e tiro, con l’obiettivo di proteggere la fauna selvatica e ridurre l’inquinamento causato dal contatto del metallo con terra e acqua. Le munizioni contenenti piombo saranno vietate in Inghilterra, Galles e Scozia, con un periodo di transizione che si estenderà fino al 2029. Una decisione che arriva dopo anni di dibattito e pressioni da parte delle organizzazioni ambientaliste, che sottolineano come ogni anno il piombo utilizzato nelle munizioni finisca...

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Il sindaco di Bologna risponde a L’Indipendente, ma la toppa è peggiore del buco

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Dopo l’articolo de L’Indipendente, il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha risposto nei commenti, smentendo alcuni dati che erano stati diffusi dal Comune stesso, nel tentativo di giustificare l’acquisto di un centinaio di alberelli per contrastare il caldo in città. Tuttavia, l’intervento di Lepore – così come tutta la comunicazione da parte del Comune – si astiene dal chiarire i punti più controversi della vicenda, che la fanno sembrare una grande manovra di greenwashing e propaganda politica.

Il primo tra tutti riguarda l’utilità che questi alberelli hanno nel contrastare il caldo e creare zone d’ombra. Sembrerebbe infatti evidente che tanto gli alberi quanto gli arbusti collocati nelle varie parti della città non filtrino la luce solare e non facciano ombra, proprio in ragione della loro misura ridotta. Tuttavia, non risultano disponibili informazioni aggiuntive del Comune in tal senso. Non è nemmeno chiaro l’effettivo bilancio arboreo attuale della città, ovvero la quantità di alberi presenti nel Comune. Secondo i dati del 2021 (che stilavano un bilancio dell’amministrazione precedente), Bologna contava un totale di 85.270 alberi, 6447 in più in cinque anni. Non è specificato, tuttavia, quanti di questi siano alberelli giovani e quanti grandi alberi, dal momento che il loro impatto su ambiente ed ecosistema è estremamente diverso. Non è nemmeno specificato, al momento, quale sia il bilancio arboreo della corrente amministrazione.

A quanto risulta, inoltre, non esiste alcun dato ufficiale sul numero di alberi abbattuti per far posto alle grandi opere, come nel caso del Passante di Mezzo o della nuova linea tramviaria (nonostante siano puntuali le smentite del Comune su quelli che non vengono abbattuti). A mancare è anche il numero degli alberelli che effettivamente sopravvive dopo i primi anni: secondo quanto denuncia a L’Indipendente il Comitato Tutela Alberi di Bologna, infatti, molti di questi hanno vita breve proprio a causa della mancanza di cure da parte delle ditte appaltatrici.

«In piazza Maggiore, nel chiostro interno di Palazzo d’Accursio, sede del Consiglio Comunale, ci sono quattro alberelli in vaso che sono sopravvissuti perchè sono leggermente in ombra. Dei sei che si trovano nel piazzale interno, completamente esposti al sole, quattro sono già secchi» ci spiega il Comitato. «È stato detto che è stato sabotato l’impianto di manutenzione, in realtà questa non viene proprio fatta». Il problema riguarda anche quelli recentemente installati. «Già sabato gli arbusti che sono stati collocati tra Palazzo Re Enzo e via Rizzoli erano già in sofferenza. Sono stati travasati in vasi di plastica rivestiti di iuta e tra i due è stata messa della sabbia per evitare che si ribaltino col vento. Vengono bagnati solo tre volte a settimana, è troppo poco con queste temperature».

Turchia: ex sindaco di Istanbul condannato a un 1 anno e 8 mesi

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L’ex sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu è stato condannato a un anno e otto mesi per oltraggio a pubblico ufficiale. Imamoglu è il principale politico dell’opposizione turca, ed è stato arrestato lo scorso marzo con l’accusa di corruzione. I fatti per cui è stato condannato sono scollegati all’accusa per cui è stato arrestato. Essi riguardano dei commenti rilasciati lo scorso 20 gennaio, in cui Imamoglu criticava il procuratore capo di Istanbul Akin Gurlek, accusandolo di aver preso di mira esponenti dell’opposizione attraverso presunte indagini politicamente motivate.