venerdì 7 Marzo 2025
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Israele attacca con cento aerei il Libano e dice di avere ucciso un capo di Hezbollah

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Continuano a intensificarsi gli scontri sul fronte libanese, dove, nella giornata di ieri, in occasione dell’anniversario del 7 ottobre, Israele ha colpito oltre un centinaio obiettivi nel giro di un’ora, accelerando anche l’invasione via terra. I bombardamenti di ieri sono stati annunciati dal portavoce dell’esercito israeliano per i media arabi, Avichay Adraee, che in un post rilasciato sulla piattaforma social X (ex Twitter) ha annunciato la riuscita di una «sortita aerea offensiva» che ha coinvolto 100 aerei dell’aeronautica israeliana. Questa mattina, lo stesso Adraee ha comunicato che, in seguito agli attacchi, sarebbe stato ucciso un importante capo di Hezbollah, notizia non ancora confermata dall’organizzazione libanese. Parallelamente, la stessa Hezbollah ha effettuato diversi raid su suolo israeliano, prendendo di mira, nello specifico, le città di Haifa e di Tel Aviv. Intanto, la possibile risposta israeliana all’attacco iraniano di martedì 1 ottobre si fa sempre più vicina, e si parla sempre più di potenziali «obiettivi nucleari»: ripetutamente interrogato sull’eventuale posizionamento degli Stati Uniti nel caso in cui Israele dovesse prendere di mira le strutture nucleari di Teheran, il portavoce del Pentagono, Patrick “Pat” Ryder, ha evaso le domande, preferendo rimanere sul vago.

Gli attacchi israeliani di ieri sono stati annunciati da Avichay Adraee attorno alle 18:45. Secondo quanto riporta il portavoce delle IDF, Israele avrebbe colpito 120 obiettivi prevalentemente nel Libano meridionale, bersagliando anche il quartiere Burj el-Barajneh di Beirut e la valle della Beqa, nell’area settentrionale del Paese. Presa di mira anche l’area sulla costa che va dal fiume Awali verso il confine meridionale. A venire colpiti, nello specifico, obiettivi della Radwan Force, le forze di operazione di Hezbollah che promuovono incursioni in territorio israeliano, della piattaforma missilistica dell’organizzazione, del suo sistema di intelligence e siti di produzione di armi. Precedentemente, nell’arco della giornata, le IDF avevano colpito circa altri 70 siti. Nel corso degli attacchi sarebbe stato ucciso il «cosiddetto Suhail Hussein Hosseini, capo dello staff terroristico di Hezbollah», dichiarazione non ancora confermata dall’organizzazione libanese. «Questi attacchi», descrive Adraee, «si aggiungono a una serie di raid volti a intensificare l’offensiva contro le capacità di comando, controllo e fuoco di Hezbollah, oltre a sostenere le forze di terra che operano per raggiungere i loro obiettivi». Nella notte, proprio il fronte terrestre è stato oggetto di rinforzi; alle tre divisioni di esercito regolare già schierate, Israele ne ha infatti aggiunta una quarta composta da riservisti. Secondo il Ministero della Salute libanese, in seguito agli attacchi di ieri sarebbero state uccise 22 persone, e ferite altre 111. In totale, il numero di vittime dall’escalation tra Israele ed Hezbollah dell’8 ottobre 2023, ammonta a 2.083, e quello dei feriti a 9.869.

Nel corso della giornata, anche lo Stato ebraico è stato oggetto di bombardamenti. Hezbollah ha continuato a prendere di mira, come ormai da giorni, la città di Haifa, colpendo decine di obiettivi sulla costa. Colpiti anche Tel Aviv e i dintorni della città, dove a partire dalle 16.00 circa hanno iniziato a risuonare le sirene di allarme e a sentirsi diversi botti. Durante gli attacchi, le autorità israeliane hanno momentaneamente interrotto i voli da e per l’aeroporto di Ben-Gurion. Colpiti, infine, anche obiettivi collocati nell’area centrale del Paese. Alcuni degli attacchi sono stati lanciati dallo Yemen, dagli Houthi. Ancora poco chiara l’entità dei danni e ignoto l’eventuale numero di vittime.

Nel frattempo, sembra sempre più imminente un attacco israeliano sull’Iran, annunciato dopo l’offensiva aerea lanciata da Teheran martedì 1 ottobre. Questa è arrivata in risposta alle uccisioni del capo di Hamas Ismail Haniye, e del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, e in concomitanza con l’inizio dell’invasione via terra del Libano, il cui fronte risulta particolarmente acceso da martedì 24 settembre. Negli ultimi giorni sta facendo parecchio discutere la possibilità che Israele decida di attaccare «simbolicamente» le piattaforme nucleari iraniane. A comunicarlo è stato l’ex primo ministro e generale israeliano Ehud Barak che in una intervista al Guardian ha rivelato che «Ci sono alcuni commentatori e anche alcune persone all’interno dell’establishment della difesa che hanno sollevato la domanda: perché diavolo non colpire il programma militare nucleare?». Interrogato sulla questione, il portavoce del Pentagono, ha schivato ripetutamente il tema: «apprezzo la domanda», ha detto a più riprese, «ma quello che state dicendo è “cosa accadrebbe se”», parlando di una cosa che «non è ancora successa». Insomma, in sede di conferenza stampa non avrebbe senso fare ipotesi.

[di Dario Lucisano]

Diritti Saharawi, la Corte di Giustizia ha annullato gli accordi commerciali tra UE e Marocco

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saharawi

La Corte di Giustizia Europea ha dichiarato non validi gli accordi di pesca e agricoltura siglati nel 2019 tra l’Unione Europea e il Marocco, che permettevano a quest’ultimo di esportare nell’UE prodotti provenienti dal Sahara Occidentale. Una decisione considerata una vittoria significativa per i diritti del popolo saharawi, nativo di questa regione contesa, che non ha mai dato il proprio consenso allo sfruttamento delle risorse locali, come sottolineato nel testo della dichiarazione. La Corte ha infatti evidenziato che ogni accordo che coinvolga il Sahara Occidentale deve rispettare il princ...

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Israele attacca il Libano con 100 aerei

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Un centinaio di aerei dell’esercito israeliano (IDF) hanno colpito 120 obiettivi in Libano nel giro di un’ora, dichiarando che si trattasse di siti di Hezbollah. Poco prima, i militari avevano avvertito i civili di allontanarsi dalle spiagge e di non viaggiare su imbarcazioni. L’IDF ha anche dichiarato di aver designato una nuova zona militare nel nord del Paese, la quarta dall’inizio dell’invasione di terra.

Il Burkina Faso ha annunciato la nazionalizzazione delle miniere

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Il presidente della giunta militare che governa il Burkina Faso, capitano Ibrahim Traorè, ha annunciato la volontà di riportare sotto il controllo statale le miniere d’oro del Paese, ritirando i permessi di sfruttamento alle multinazionali straniere. Traorè lo ha annunciato durante un programma radiofonico, in occasione del secondo anniversario del colpo di Stato del 30 settembre 2022 che ha rovesciato il precedente governo filoccidentale, sostituendolo con una giunta militare antimperialista e sovranista. Il capo della giunta non ha specificato quali permessi saranno ritirati né ha citato le aziende straniere coinvolte, ma ha dichiarato la volontà di prendere il controllo dell’economia nazionale sfruttando la conoscenza locale: «Sappiamo come estrarre il nostro oro e non capisco perché dovremmo permettere alle multinazionali di venire a estrarlo» ha detto.

Nel Paese – che è il quinto produttore di oro del Continente – operano multinazionali inglesi, australiane, russe e canadesi. Considerato che il metallo giallo è il principale prodotto di esportazione del Burkina Faso, nazionalizzare le miniere significa dirottare i profitti a beneficio dello sviluppo nazionale piuttosto che di aziende straniere, ma anche contribuire a risolvere il problema della sicurezza interna, minata dal terrorismo. Traoré ha infatti spiegato che «una grande quantità di oro lascia il Paese in modo fraudolento e contribuisce ad alimentare il terrorismo». Già a fine agosto, il Paese africano aveva concluso un accordo del valore di 80 milioni di dollari per nazionalizzare le miniere d’oro di Boungou e Wahgnion, mentre alla fine del 2023, il capitano della giunta aveva posato la prima pietra della prima raffineria d’oro nazionale del Paese. «È una questione di sovranità, prima di tutto. Siamo un Paese produttore di oro, ma non abbiamo alcun controllo sull’oro che produciamo. Non porteremo più il nostro oro all’estero per la raffinazione», aveva asserito.

La volontà di nazionalizzare le risorse minerarie della nazione va di pari passo con il desiderio di diversi Stati dell’Africa Subsahariana di liberarsi dal giogo del neocolonialismo occidentale, per poter esercitare la sovranità economica, politica e monetaria sui loro territori e restituire così dignità e prosperità ai Paesi della regione. Proprio con questa finalità, si sono succeduti dal 2020 in avanti diversi colpi di Stato in molte nazioni del Sahel, tra cui Burkina Faso, Mali e Niger. In ciascuno di questi Stati, i governi filoccidentali sono stati sostituiti da giunte militari ostili alle ingerenze politiche europee – e in particolare francesi – e americane nell’area. In particolare, il golpe in Burkina Faso è stato alimentato dalla crisi di sicurezza interna, causata dagli attacchi alla popolazione civile da parte di Isis e al-Qaeda. La Francia – che era presente sul territorio con suoi contingenti militari – non è stata in grado di garantire protezione alla popolazione né tantomeno di annientare le organizzazioni terroristiche. Queste circostanze, insieme a risentimenti di lunga data nei confronti dell’ex potenza coloniale, hanno contribuito al golpe del 2022 che ha portato alla destituzione del tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba – che a sua volta aveva preso il potere con un colpo di Stato – sostituito dal capitano Traoré. Nel febbraio del 2023, la giunta burkinabè ha espulso dal suo territorio le truppe francesi. Allo stesso tempo, Ouagadougou (capitale del Burkina Faso) ha stretto le sue relazioni politiche, commerciali e militari con la Russia a cui la popolazione guarda con particolare favore.

Per consolidare la lotta contro l’egemonia occidentale nella regione, i tre Stati citati – Mali, Niger e Burkina Faso – hanno dato vita all’Alleanza degli Stati del Sahel (AES) con l’obiettivo di affrancarsi dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS)  e soprattutto di costruire una comunità libera dal controllo di potenze straniere. Inoltre, le giunte golpiste dei tre Paesi hanno annunciato la volontà di creare una moneta comune regionale anticoloniale che sostituisca il franco Cfa attualmente in uso. In questa cornice di ricerca di indipendenza e sovranità, va inserita la decisione di nazionalizzare le miniere d’oro del Burkina Faso.

Molti altri Paesi – non solo africani – stanno perseguendo la strada delle nazionalizzazioni, in contrapposizione ai dogmi neoliberisti. Solo per citarne alcuni, lo Zimbabwe, nel 2023, aveva deciso di vietare tutte le esportazioni di litio dal Paese, al fine di creare un’industria nazionale per la trasformazione delle materie prime. Il governo militare del Niger, invece, agli inizi del 2024, ha nazionalizzato lo sfruttamento dell’acqua potabile, istituendo una nuova compagnia di Stato, denominata Nigerian Waters. Similmente, in Sudamerica, il Messico ha deciso lo scorso anno di nazionalizzare il litio, mentre Cuba, nonostante il pesante embargo statunitense, continua a gestire in autonomia le sue risorse, confermandosi uno dei principali produttori mondiali di zucchero e nichel. Si tratta di iniziative importanti che segnano il tramonto delle imposizioni neoliberiste occidentali e la ricerca sempre più determinata di sovranità e indipendenza da parte dei Paesi del sud del mondo.

[di Giorgia Audiello]

Il TAR del Piemonte ha sospeso la caccia a quattro specie che rischiano l’estinzione

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Il Tar del Piemonte ha emesso una pronuncia che blocca la stagione di caccia sul territorio regionale, accogliendo il ricorso di alcune associazioni animaliste. I giudici amministrativi hanno riconosciuto l’esistenza di una «situazione di eccezionale gravità ed urgenza», stabilendo che la misura è necessaria «al fine di proteggere la biodiversità del territorio regionale». Ma ora, tra amministrazione regionale e associazioni, è guerra sull’interpretazione da dare al verdetto. Secondo la giunta, la sentenza ha sospeso solo la caccia di quattro specie di uccelli tipici (Moretta, Pernice bianca, Coturnice e Fagiano di monte) e quindi i fucili possono continuare a prendere di mira il resto della fauna. Una interpretazione radicalmente contestata dagli animalisti, che accusano la Regione di disattendere una pronuncia che bloccherebbe tutta l’attività venatoria. Ora si attende un chiarimento definitivo da parte dei giudici amministrativi, a cui la Regione ha chiesto attraverso un’istanza un tempestivo chiarimento sui dispositivi del verdetto.

«La sospensione è stata motivata da diverse irregolarità riscontrate nel processo di approvazione del calendario», hanno scritto in una nota congiunta le associazioni animaliste ricorrenti Pro Natura, Oipa e Leal, le quali hanno in particolare evidenziato la «mancanza di trasparenza» della Regione Piemonte, che «non ha pubblicato l’allegato C del calendario, che conteneva le contro motivazioni regionali rispetto al parere dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), obbligatorio ma non vincolante». All’interno della loro istanza, le associazioni avevano evidenziato «l’inadeguatezza della pianificazione», non essendo stato presentato un Piano faunistico venatorio regionale aggiornato, fatto che «solleva preoccupazioni riguardo alla gestione delle specie a rischio di estinzione come la moretta, la pernice bianca, la coturnice e il fagiano di monte». Le associazioni hanno concluso la nota affermando che «per le sigle ricorrenti questa decisione rappresenta un’importante vittoria e un passo significativo nella tutela della fauna selvatica in Piemonte». A smorzare gli entusiasmi è stato però il contenuto del comunicato diramato dalla Regione, in cui si diceva che, al netto delle quattro specie protette menzionate, l’attività venatoria «può proseguire». L’assessore regionale Paolo Bongioanni ha infatti spiegato: «I nostri avvocati hanno interpretato che il Tar abbia bloccato solo le battute alla fauna alpina, ora aspettiamo una risposta dai giudici». Nel frattempo, ha detto senza mezzi termini, «la caccia può continuare».

Nella discussione è intervenuto anche il deputato della Lega Francesco Bruzzone, il quale ha chiesto che la giunta piemontese si attivi per approvare nell’immediato una delibera ponte che consenta la riapertura della caccia in attesa della discussione del ricorso. Nel frattempo, la Regione Piemonte, attraverso l’Avvocatura regionale, ha depositato presso il Tribunale Amministrativo Regionale un’istanza con la quale ha richiesto un tempestivo chiarimento sui dispositivi del decreto presidenziale che ha sancito la sospensione. Il dibattito, dunque, resta caldo, anche perché i contorni dello scenario aperto dalla pronuncia del TAR non sono affatto definiti.

[di Stefano Baudino]

Tv di Stato russa, attacco “senza precedenti” da hacker filo-ucraini

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Un attacco di un gruppo hacker filo-ucraino ha colpito nelle ore notturne i canali televisivi statali russi Rossiya 1 e Rossiya 24. L’emittente radiotelevisiva di stato russa Vgtrk ha confermato che «la notte del 7 ottobre, i servizi online della radiotelevisione statale sono stati sottoposti a un attacco hacker senza precedenti», rassicurando comunque che «non è stato causato alcun danno significativo al lavoro della holding mediatica». A rivendicare l’attacco alle trasmissioni online della tv di Stato russa è stato il gruppo di criminali informatici legato all’Ucraina chiamato Sudo rm-RF.

Ancora divieti ai cortei per la Palestina: a Torino vietata anche una fiaccolata

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La questura di Torino, su disposizione del questore Paolo Sirna, ha vietato preventivamente ogni manifestazione pro Palestina in programma per oggi nel capoluogo piemontese. Lo ha comunicato in una nota ufficiale in cui si legge che, «in riferimento alle manifestazioni pro Palestina in programma per il prossimo 7 ottobre», a Torino «il Questore ha prescritto ai comitati organizzatori di svolgere le medesime in data diversa ed esclusivamente in forma statica». Si ripete, dunque, lo stesso scenario aperto dal divieto imposto dalla questura di Roma, su indicazione del ministero dell’Interno, al corteo in supporto alla resistenza palestinese organizzato per sabato 5 ottobre nella Capitale, che ha visto gli attivisti sfidare le autorità e scendere comunque in piazza. I comitati torinesi protestano veementemente contro la decisione, facendo notare come si tratti di un divieto puramente ideologico e confermando la fiaccolata prevista per questa sera in solidarietà con il popolo palestinese.

Nella nota con cui la questura di Torino ha sancito il divieto, si scrive che lo svolgimento delle manifestazioni in programma si colloca «nella cornice di un’ampia e diffusa mobilitazione indetta nel ricordo del primo anniversario dell’attacco allo Stato di Israele da parte delle frange palestinesi riconducibili al movimento di Hamas sfociato nell’uccisione, il 7 ottobre dello scorso anno, di numerose vittime e nel rapimento di altrettante persone alcune delle quali decedute durante il conflitto». Dunque, «in una data così fortemente simbolica, poiché coincidente con l’eccidio commesso ai danni della popolazione israeliana, non può escludersi che i manifestanti possano essere indotti a compiere azioni lesive e contrarie all’ordine e alla sicurezza pubblici». Eppure, secondo la legge, gli unici casi in cui le autorità possono vietare una manifestazione sono quelli in cui è possibile identificare dei «comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica», avendo dunque in mano elementi puntuali e circoscritti su concreti pericoli. Cosa che, evidentemente, la nota della questura non riesce a esplicitare, facendo unicamente riferimento alla data in cui le manifestazioni sono state fissate. A protestare contro la decisione della questura è il Coordinamento Torino X Gaza, che ha scritto che il divieto «è, come per la piazza di Roma, squisitamente politico»: infatti, «benché fintamente declassato a motivi di “ordine pubblico”, una scusa molto in voga negli ultimi anni e non solo a Torino», esso «è chiaramente volto a silenziare il dissenso politico e per tanto va inserito nel contesto generale di repressione e criminalizzazione a cui stiamo assistendo». «Rifiutiamo l’appiattimento delle manifestazioni in supporto alla Palestina a riunioni di “galassie pro Hamas”, – hanno concluso gli attivisti – così come la stantia equiparazione della resistenza palestinese a “terrorismo”. Riconosciamo nella censura che provano ad imporci una parte della strategia di supporto e collaborazionismo dello stato Italiano alle politiche genocidiarie israeliane e rivendichiamo pertanto il diritto a manifestare». Alle ore 20, dunque, terranno comunque in piazza Castello una fiaccolata intitolata «un anno di genocidio, un anno di resistenza».

Il comunicato della questura di Torino è stato pubblicato sabato 5 ottobre, mentre a Roma andava in scena il corteo nazionale in sostegno alla resistenza palestinese. Nonostante il divieto spiccato dalla questura romana e l’intensa pioggia, già dalle ore 13 migliaia di persone, tra cui moltissimi studenti, si sono ritrovati nel piazzale delle Piramide cestia. E, nonostante l’ingente schieramento di polizia, hanno deciso di muovere in corteo dietro allo striscione “Palestina e Libano uniti: fermiamo il genocidio con la resistenza”. Molti manifestanti non sono riusciti ad arrivare, diversi i casi di pullman fermati dalla celere ai caselli autostradali. Nel pomeriggio, non sono mancati momenti di scontro con la polizia. Bottiglie, bombe carta e fumogeni lanciate dalla parte più calda del corteo; manganelli e massicci lanci di lacrimogeni alla rinfusa che, come al solito, hanno finito per intossicare centinaia di persone da parte degli agenti. Dopo qualche minuto di confronto all’altezza di via Ostiense le forze dell’ordine sono entrate nella piazza con pensati cariche e camion con gli idranti, mettendo in fuga migliaia di persone.

[di Stefano Baudino]

“Sopravvivere nell’era dell’Intelligenza Artificiale”: il nuovo libro de L’Indipendente

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Dalla sua fulminea ascesa, la questione dell’intelligenza artificiale è diventata centrale nel dibattito pubblico. Tuttavia, affidandosi alle narrazioni mainstream, è difficile coglierne l’essenza senza incorrere in visioni distorte e semplicistiche. Molte letture sono acriticamente entusiastiche e rassicuranti, altre distopiche fino a paventare scenari apocalittici. Ma, innanzitutto, cosa si intende precisamente quando si parla di intelligenza artificiale? Quali sono e quali potrebbero essere i suoi effetti reali sulla nostra vita quotidiana, sull’informazione, sulla società e sul mondo del lavoro? Domande centrali alle quali rispondiamo in “Sopravvivere nell’era dell’intelligenza artificiale, il nuovo libro de L’Indipendente: 230 pagine di analisi, prospettive e infografiche, scritte da 23 diversi collaboratori selezionati tra i maggiori esperti in materia. Una guida approfondita, basata su fonti verificate e, allo stesso tempo, redatta in modo semplice per essere comprensibile da tutti.

L’opera è una guida essenziale che esplora in profondità l’impatto delle tecnologie IA sulla nostra società, rivelando il dietro le quinte di un mondo in costante trasformazione. Un libro che affronta le grandi domande che tutti ci poniamo su una tecnologia che, piaccia o meno, è già tra noi e che è essenziale imparare a conoscere, per adoperarla in modo cosciente o per difendersene.

Dall’uso delle intelligenze artificiali come strumento di controllo sociale alle ripercussioni sulla geopolitica e sui conflitti armati, fino all’analisi dell’impatto futuro sul mondo del lavoro, sull’informazione e sulla società nel suo complesso, Sopravvivere nell’era dell’Intelligenza Artificiale è un testo pensato per chi desidera comprendere meglio le sfide e le opportunità delle IA. Senza offrire risposte semplicistiche, ma stimolando una riflessione critica sulla direzione del nostro futuro tecnologico.

Sopravvivere nell’era dell’Intelligenza Artificiale” è la seconda uscita nella nostra collana di libri intitolata Oltre le apparenze”, curata direttamente dalla redazione giornalistica de L’Indipendente. Un progetto editoriale nato con l’obiettivo di spiegare in modo approfondito e accurato alcune delle questioni più rilevanti e divisive dell’attualità. Nella convinzione che questo impegno possa contribuire a quello che consideriamo il primo dovere del giornalismo: costruire una corretta conoscenza tra i cittadini. Il libro “Sopravvivere nell’era dell’Intelligenza Artificiale” è acquistabile al costo di 18 euro (spese di spedizione incluse) sul nostro negozio online: disponibile a questo link.

Trieste, al via il processo contro i portuali anti Green Pass

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Il 4 ottobre si è tenuta una manifestazione di solidarietà presso il Tribunale di Trieste, contestualmente all’inizio del processo contro 18 persone fermate il 18 ottobre 2021 durante lo sgombero del presidio anti Green Pass al varco 4 del Porto di Trieste. Secondo alcuni manifestanti, quella giornata ha segnato una grave violazione di diritti fondamentali, compresi il diritto al lavoro e alla protesta pacifica. Ugo Rossi, Consigliere Comunale e portavoce di Insieme Liberi, ha dichiarato che il processo mira a colpire cittadini e attivisti che si opponevano a una «dittatura sanitaria». L’evento, organizzato dal Coordinamento No Green Pass e Oltre – Trieste, è stato sostenuto da Insieme Liberi e Associazione Alister.

No TAV, la polizia sgombera lo storico presidio di San Giuliano

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Nella notte tra domenica 6 e lunedì 7 ottobre, lo storico presidio No TAV Sole e Baleno di San Giuliano, in Val Susa, è stato sgomberato dalle forze dell’ordine. Il presidio si trovava infatti su di un terreno soggetto ad esproprio, in quanto dovrebbe sorgervi la stazione internazionale dell’Alta Velocità. Si tratta di un progetto di portata enorme, dall’estensione pari a quella di circa 80 campi da calcio. Proprio per impedirne la costruzione, un migliaio di attivisti aveva acquistato il terreno nel 2012, erigendovi poi il presidio. Con l’avvicinarsi dell’inizio della campagna di espropri, preannunciati nel 2023, gli attivisti avevano iniziato a presidiare in modo permanente la zona a partire da sabato 5 ottobre. Tuttavia, la scorsa notte l’area è stata definitivamente sgomberata dalle forze dell’ordine, che stanno procedendo in queste ore a transennarla per interdirne l’accesso.

Secondo quanto riferito dai presenti, le forze dell’ordine hanno iniziato ad arrivare al presidio intorno all’una e mezza del mattino. Per ritardarne l’avanzata, gli attivisti hanno incendiato alcune barricate, azione alla quale è seguito un fitto lancio di lacrimogeni da parte degli agenti, per lo più ad altezza uomo. Verso le quattro del mattino, lo sgombero è stato portato a termine, e gli agenti hanno iniziato a recintare la zona. Prende così forma, a poco a poco, l’ennesimo cantiere della Val di Susa, la cui estensione, scrive il Movimento, dovrebbe equivalere a quella di «80 campi da calcio», causando inoltre una «elevata dispersione di polveri sottili», con «aumento delle malattie cardiovascolari e respiratorie, dato ammesso dalla stessa azienda proponente».

La zona era stata acquistata da oltre un migliaio di attivisti provenienti da tutta Italia nel 2012, nell’ambito della campagna Compra un posto in prima fila, quando la costruzione della stazione internazionale rappresentava ancora solamente un’ipotesi nella mente degli architetti dell’Alta Velocità. «Il popolo valsusino, i No TAV, faranno tutto il necessarrio, insieme, per bloccare la devastazione di questa valle e lo spreco immane di denaro pubblico previsto da questo progetto» avevano dichiarato allora gli attivisti. I decreti di esproprio per la zona di San Giuliano erano stati inviati ai proprietari nel 2023 e nel giugno di quest’anno sono arrivate le raccomandate che formalizzavano le procedure. Il 9 ottobre dovrebbero essere avviate quelle per i terreni acquistati collettivamente dai No TAV, mentre nei prossimi mesi dovrebbero essere portate a termine quelli di tre abitazioni.

Sono numerosi i cantieri che devastano la Val di Susa, tutti riguardanti le opere collaterali dell’Alta Velocità, a partire da un nuovo svincolo per l’autostrada fino al nuovo autoporto di San Didero. Se in queste aree i lavori procedono a rilento, sono del tutto fermi nel cantiere principale, quello dove dovrebbe essere realizzato il tunnel a doppia canna per il passaggio dei treni. Nel frattempo, i costi di realizzazione lievitano (da 8,6 a 11,1 miliardi, con un aumento del 30%) e i tempi di consegna si dilatano, passando dal 2033 al 2035.

[di Valeria Casolaro]