mercoledì 24 Dicembre 2025
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Vaccini: il governo rende plurale il Comitato Consultivo, media e virostar insorgono

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Con un decreto firmato il 5 agosto, il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha nominato i nuovi componenti del Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni (NITAG), che dovrebbe supportare le politiche vaccinali nazionali con raccomandazioni basate su evidenze scientifiche e valutazioni indipendenti. L’incarico di vertice passa a Roberto Parrella, presidente della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali. Riguardo ai ventidue membri del Comitato, a far discutere sono due nomi in particolare, che segnano una novità rispetto al passato, avendo difeso posizioni critiche nei confronti dei vaccini, compresi quelli contro il Covid. I due profili che hanno innescato un’aspra polemica sono quelli di Paolo Bellavite, ex docente di Patologia Generale all’università di Verona e di Eugenio Serravalle, specialista in Pediatria preventiva e Neonatologia, presidente dell’associazione dell’Associazione di studi e informazione sulla salute (Assis). Con attacchi durissimi, sia di colleghi che a mezzo stampa, sulla presenza di due “no vax” nel Comitato, mentre nessuna eco hanno avuto altre nomine che mostrano come Schillaci abbia aperto le porte del NITAG a esponenti che sono diretta espressione dell’industria farmaceutica.

La cornice mediatica, costruita chirurgicamente, ha innescato una sorta di macchina del fango: le opinioni dei due medici vengono presentate come “antiscientifiche”, mentre il racconto punta tutto sull’indignazione, la levata di scudi dell’opposizione e la reazione stizzita della “comunità scientifica”. Tra etichette diffamatorie di “no vax” e “terrapiattisti”, petizioni lampo e pressioni su Schillaci per spingerlo a revocare le nomine e le dimissioni di Francesca Russo, dirigente del Veneto, con un ultimatum al ministro: “O loro o me”. Una sorta di maccartismo, in cui il confronto si trasforma in tribunale virtuale e il dibattito scientifico in una gogna pubblica. Ironia della sorte, il prestigio scientifico di Bellavite, misurato internazionalmente attraverso il suo punteggio H-Index (l’indice che classifica i ricercatori in base alle pubblicazioni effettuate e alle citazioni dei loro lavori scientifici), che è di 51, è nettamente superiore a quello di diverse virostar come Roberto Burioni (fermo a 38) e Fabrizio Pregliasco (che ha 29 punti). Tuttavia, invece di analizzare il merito della produzione scientifica di Bellavite, è stata suonata la tromba dell’ennesima caccia alle streghe, con titoli a effetto che tuonano in merito al rischio dell’insinuarsi strisciante delle “pseudoscienze nelle istituzioni”, e articoli del calibro: “Schillaci senza vergogna nomina gli idoli dei no-vax nel comitato per le politiche vaccinali” (Il Domani).

A guidare le proteste è il Patto Trasversale per la Scienza, promosso da Guido Silvestri e Roberto Burioni, che ha lanciato una petizione per chiedere la revoca delle nomine su Change.org che, in pochi giorni, ha raccolto oltre 14 mila firme. 

Quella messa in atto è la tecnica che negli studi sui media viene definita character assassination (distruzione della reputazione), con l’utilizzo di tecniche di manipolazione per screditare i due medici “eretici”, in modo da dipingerli come dei mezzi stregoni, etichettati dall’opposizione a “ultrà no vax” e ridotti dai quotidiani a “due esperti di omeopatia schierati al fianco dei gruppi no vax più rumorosi”. 

Qual è la loro colpa? Aver espresso critiche e richieste di prudenza durante la gestione della pandemia e sulle vaccinazioni pediatriche anti-Covid. Già nel 2021, Bellavite aveva messo in dubbio la relazione tra rischi e benefici, parlando dei vaccini contro il Covid-19 nella trasmissione diMartedì su La7 («Chi ha paura del vaccino ha ragione, in un certo senso, perché mancavano informazioni su rischi e benefici»). Anche Serravalle ha sollevato questioni etiche e scientifiche riguardo alla moltiplicazione dei vaccini pediatrici, arrivando a paventare un tema tabù, ossia, una possibile correlazione con alcuni casi di autismo, senza però superare mai il limite della riflessione critica. Proprio Serravalle, con una decennale esperienza sul campo, ha deciso di adottare il principio di cautela, ricordando che «I vaccini possono causare reazioni avverse anche gravi» e che «Come tutti i farmaci non sono esenti da effetti collaterali». In un contesto sano, ciò dovrebbe alimentare un dibattito basato su dati, non essere motivo di esclusione. Invece, la prudenza metodologica viene impacchettata dentro il frame “no vax”, sinonimo di pericolo pubblico. 

E, mentre si demonizza chi esprime un pensiero scientifico non omologato, si adotta il doppio standard e si chiude un occhio su possibili conflitti di interesse di altri membri del comitato legati a industrie farmaceutiche, come Emanuele Montomoli, ordinario di igiene presso l’Università degli Studi di Siena, fondatore, presidente (non con funzione esecutiva) e direttore scientifico di VisMederi, un’azienda biotecnologica che si occupa di sviluppo clinico di vaccini e di progetti nell’ambito delle malattie infettive emergenti, in collaborazione con le più importanti aziende farmaceutiche internazionali.

Siria, scontri tra Forze Democratiche Siriane ed esercito

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L’agenzia di stampa statale siriana Sana ha riportato di scontri tra le Forze Democratiche Siriane (SDF), coalizione a guida curda, e l’esercito regolare. Secondo fonti del ministero della Difesa, gli scontri sarebbero avvenuti ad Aleppo, e un soldato dell’esercito sarebbe rimasto ucciso. I combattimenti si inseriscono all’interno di un contesto di aumento delle tensioni tra le SDF e il governo centrale. A marzo, le parti avevano raggiunto un accordo per unirsi all’esercito del Paese, che tuttavia non è ancora stato implementato. In questi giorni era previsto un incontro a Parigi tra i rappresentanti di SDF e di Damasco, ma il governo ha annunciato di avere ritirato la propria partecipazione.

Jimmy Lai: il processo simbolo su cui si misura il futuro democratico di Hong Kong

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Il 14 agosto 2025 la corte speciale di Hong Kong ascolterà le arringhe finali nel processo a Jimmy Lai, imprenditore e attivista pro-democrazia e cittadino del regno Unito detenuto da oltre quattro anni con accuse legate alla controversa Legge di Sicurezza Nazionale imposta mentre infuriavano le proteste popolari del 2020. Accusa e difesa presenteranno le rispettive sintesi delle prove, prima che i tre giudici — nominati direttamente dal capo del governo e che decideranno in assenza di giuria — si ritirino per deliberare. Dopo le arringhe, la sentenza potrebbe richiedere settimane o mesi. In caso di condanna per “collusione con forze straniere” e altri reati previsti dalla legge, Lai rischia l’ergastolo.

Si tratta di un momento di particolare rilevanza per il significato politico che il caso ha assunto nel dibattito globale sui diritti e le libertà a Hong Kong. «A quattro anni dal suo arresto le autorità di Hong Kong hanno una strategia chiara: mantenere il processo in corso, sfumare la strada e sperare che il mondo dimentichi Jimmy Lai», ha dichiarato la direttrice delle campagne di Reporter Senza Frontiere (RSF). Nel 2020, la stessa organizzazione aveva conferito a Lai il Premio Speciale per la Libertà di Stampa.

La vicenda di Jimmy Lai non può essere compresa senza ripercorrere la sua storia personale. Nato a Canton (Guangzhou), grande città portuale cinese, nel 1947, Lai lasciò la Cina nel 1961 all’età di 12 anni, arrivando clandestinamente a Hong Kong nascosto nella stiva di un’imbarcazione. Iniziò a lavorare come operaio tessile, dormendo in fabbrica e vivendo con mezzi minimi; grazie a intraprendenza e determinazione divenne direttore di stabilimento entro i vent’anni. Nel 1981 fondò Giordano, catena di abbigliamento che crebbe fino a diventare un marchio internazionale.

Il massacro di piazza Tiananmen del 1989 rappresentò il punto di svolta politico nella sua vita. Lai sostenne apertamente il movimento democratico e iniziò a criticare pubblicamente la leadership di Pechino, attirandosi l’ostilità del Partito Comunista Cinese. In quello stesso anno lanciò il magazine Next e, nel 1995, il quotidiano Apple Daily, noto per il suo stile popolare e la linea editoriale critica verso il governo centrale. Negli anni successivi fu bersaglio di boicottaggi e pressioni economiche. L’entrata in vigore della Legge di Sicurezza Nazionale nel 2020 segnò una svolta definitiva: nell’agosto di quell’anno venne arrestato con accuse gravi, tra cui collusione con forze straniere e pubblicazione di materiale sovversivo.

Il processo attuale è iniziato il 18 dicembre 2023 e ha visto mesi di deposizioni, comprese oltre cinquanta giornate di testimonianza diretta di Lai. Nel luglio 2024, come riportato da Reuters, il tribunale di Hong Kong ha respinto la richiesta dei legali di porre fine anticipatamente al processo, stabilendo che esistevano prove sufficienti per procedere. In quell’occasione, i giudici fissarono la ripresa delle udienze al 20 novembre 2024, tappa intermedia che ha portato alla chiusura della fase istruttoria e alla fissazione della data del 14 agosto come ultimo atto in aula prima che la corte decida

Per i sostenitori di Lai, un’eventuale condanna rappresenterebbe un ulteriore passo nella trasformazione della città da centro libero a territorio sottoposto a un controllo politico stretto da parte di Pechino. Tra i suoi sostenitori internazionali figura anche Jennifer Robinson, nota per essere stata l’avvocato chiave nella liberazione di Julian Assange — giornalista e fondatore di WikiLeaks perseguito dagli Stati Uniti per la pubblicazione di documenti segreti.

L’ipotesi di pace in Ucraina spaventa le aziende di armi: cala anche Leonardo SPA

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La prospettiva di una soluzione pacifica al conflitto russo-ucraino, sostenuta dagli Stati Uniti, sta mettendo sotto pressione il settore della difesa europeo. L’incontro tra Trump e Putin in Alaska, previsto per venerdì, alimenta le speculazioni su una possibile soluzione di pace, con conseguenti timori tra gli investitori del comparto. Dall’annuncio dell’incontro, le azioni dell’azienda italiana Leonardo, a maggioranza statale, sono scese di oltre l’8%. In Europa, anche Thales, BAE Systems e Rheinmetall segnano ribassi significativi. Nonostante il rallentamento del flusso di ordini, tuttavia, il mercato resta volatile, con la crescente tensione in Medio Oriente che continua a influenzare il settore.

Dopo l’annuncio dell’incontro tra Trump e Putin rilasciato lo scorso giovedì 7 agosto, tutte le maggiori aziende europee delle armi sono calate a picco. Il 7 agosto, Leonardo aveva aperto con 49,28€ per azione, per scendere a 46,49€ nell’arco di sole due ore dopo l’annuncio, con una variazione pari al -5,66%. Dopo il picco al ribasso, raggiunto alle 13, a fine giornata l’azienda è risalita leggermente a 47,03€, chiudendo così il primo giorno dopo l’annuncio del Cremlino a -4,56%. Oggi, scattato il quinto giorno dall’annuncio, ha aperto a 45,11 €, segnando un calo dell’8,46% rispetto all’apertura di giovedì scorso. Gli investitori dell’azienda italiana non sono gli unici a nutrire timori per una soluzione pacifica alla guerra in Ucraina. La francese Thales ha segnato un calo del 2,28% nella sola giornata dell’annuncio, e a oggi i suoi titoli valgono il 3,34% in meno; il 7 agosto, la multinazionale britannica BAE Systems aveva perso il 4,25%, e negli ultimi quattro giorni ha registrato un calo del 6,97%. Giovedì scorso, Rheinmetall, la maggiore azienda tedesca delle armi, era calata del 3,9%, e oggi registra un calo dell’11,02% rispetto all’apertura del medesimo giorno. Tiene, a suo modo, l’azienda di diritto europeo Airbus Group (a partecipazione olandese, francese, tedesca e spagnola), che dal 7 agosto ha registrato un calo dell’1,56%.

Il calo generalizzato registrato dalle maggiori aziende europee delle armi negli ultimi cinque giorni costituisce una delle maggiori tendenze al ribasso dall’inizio dell’anno. Tutte le aziende citate, comunque, risultano in piena crescita: a marzo, gli annunci militaristi dei leader sulla necessità di un piano per riarmare l’Europa hanno esaltato le aziende di armi in borsa; qualche giorno dopo, Leonardo ha rivisto le stime di crescita al rialzo e ha distribuito dividendi raddoppiati. Dall’inizio dell’anno, l’azienda italiana è cresciuta del 76,36%, Thales è cresciuta del 67,37%, BAE Systems del 49,2%, e Rheinmetall ha registrato un incremento pari al 158,52%.

Taranto, ambientalisti ricorrono al TAR contro l’AIA concessa all’ex Ilva

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Le associazioni ambientaliste Peacelink e Giustizia per Taranto hanno presentato un ricorso al Tar contro l’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) concessa lo scorso mese all’ex Ilva, che consente l’uso del carbone per altri 12 anni. «È inaccettabile», ha dichiarato Alessandro Marescotti di Peacelink, sottolineando che molte realtà locali si sono associate all’iniziativa. A tal fine è stata avviata una raccolta fondi, che in poche ore ha superato i 5.000 euro. Le associazioni chiedono il fermo delle emissioni pericolose e propongono un piano di riqualificazione per i lavoratori in esubero, stimando un costo di 500 milioni l’anno, inferiore alle perdite aziendali.

Spagna, in atto decine di incendi: un morto e 7mila evacuati

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In Spagna, decine di incendi boschivi stanno devastando varie aree del Paese, con un morto e centinaia di chilometri quadrati bruciati. Circa 7mila persone sono state evacuate, tra cui 3.700 nella Castiglia e León, 2.000 a Cadice e 180 a nord di Madrid. Un incendio scoppiato a Tres Cantos ha ucciso un uomo, mentre le fiamme hanno distrutto 10 km². Le condizioni climatiche, come il caldo intenso, la siccità e i venti forti, hanno alimentato gli incendi in corso in Galizia, Andalusia, Castiglia e León e Castiglia-La Mancha. Interventi aerei e di terra sono in atto.

Crosetto: “Netanyahu ha perso la ragione e va fermato”, il governo farà finalmente qualcosa?

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Per la prima volta, un membro del governo italiano ha duramente attaccato il premier israeliano Benjamin Netanyahu per i massacri a Gaza e ipotizzato conseguenze per le sue azioni. Si tratta del ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, che ha rilasciato un’intervista a La Stampa dai toni molto accesi. «A Gaza siamo di fronte alla pura negazione del diritto e dei valori fondanti della nostra civiltà» ha dichiarato il capo del dicastero di via XX Settembre, aggiungendo che «non convince più» la motivazione della «legittima difesa di una democrazia di fronte a un terribile attacco terroristico», e che «contro l’occupazione di Gaza e alcuni atti gravi in Cisgiordania» occorre «prendere decisioni che obblighino Netanyahu a ragionare». Si attende ora di vedere se alle dure parole di Crosetto seguiranno fatti da parte del governo Meloni, che si è finora contraddistinto come uno dei maggiori difensori d’Israele in Europa, al punto da rinunciare – tra i pochi – al riconoscimento dello Stato di Palestina e votare contro la revisione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Crosetto si è espresso senza mezzi termini sulle colonne del giornale diretto da Andrea Malaguti, intervistato dal giornalista Alessandro De Angelis. «Noi siamo impegnati sul fronte degli aiuti umanitari, ma oltre alla condanna bisogna ora trovare il modo per obbligare Netanyahu a ragionare». Secondo il ministro, infatti, «non sarebbe una mossa contro Israele, ma un modo per salvare quel popolo da un governo che ha perso ragione e umanità», dal momento che occorre sempre «distinguere i governi dagli Stati e dai popoli come dalle religioni che professano». Un discorso che «vale per Netanyahu, vale per Putin, i cui metodi, ormai, pericolosamente si assomigliano». Un conto, ha dichiarato il ministro, «è liberare Gaza da Hamas, un conto dai palestinesi. La prima si può chiamare liberazione. Cacciare invece un popolo dalla sua terra è ben altro, e il termine usato mi pare del tutto improprio». Crosetto afferma l’esecutivo di Tel Aviv «non è disposto a dialogare» poiché «ha assunto una linea fondamentalista e integralista». Non si tratta più di «legittima difesa», ha evidenziato il ministro, ma «un progetto di segno diverso: la conquista di un territorio straniero mettendo in conto una catastrofe umanitaria».

In realtà, fino ad oggi, nessuna delle timide e sparute critiche avanzate da ministri del governo italiano nei confronti di Israele ha mai portato ad alcuna conseguenza tangibile. Dopo quasi due anni di violenze e oltre 50mila morti, solo lo scorso luglio – e solo in seguito all’attacco contro la chiesa cattolica a Gaza – l’esecutivo Meloni ha trovato il tempo di condannare gli attacchi israeliani, ma ha evitato azioni concrete. Nonostante le parole di Giorgia Meloni e Antonio Tajani contro Israele, l’Italia non ha infatti intrapreso misure politiche decisive, come il riconoscimento dello Stato di Palestina, sospensione dei trattati con Israele o sanzioni contro i responsabili israeliani. Anche la proposta di sospendere il memorandum di cooperazione militare con Israele, che sarebbe conforme agli obblighi internazionali, è stata completamente ignorata, così come l’interruzione dell’Accordo di associazione UE-Israele.

L’Italia ha rifiutato anche iniziative come il blocco del commercio di armi verso Israele o la sospensione degli scambi con le colonie israeliane, nonostante il parere della Corte Internazionale di Giustizia che considera illegali gli insediamenti nei territori occupati. Mentre Stati come Belgio, Spagna e Regno Unito hanno intrapreso azioni simili, il nostro Paese ha impedito che tali misure venissero adottate, rimanendo in una posizione di sostegno implicito a Israele. Anche per quanto riguarda le sanzioni, mentre altri Paesi europei hanno agito contro i coloni israeliani e i ministri estremisti, l’Italia ha opposto resistenza, definendo le sanzioni contro Tel Aviv come «velleitarie». Ora il ministro Crosetto sembra essere uscito allo scoperto in maniera chiara. Solo il tempo chiarirà se questa “fuga in avanti” potrà essere foriera di un cambio di rotta da parte dell’esecutivo sulla lettura dei massacri in Palestina da parte del governo israeliano.

Nel frattempo, nella Striscia di Gaza si continua a morire di morte violenta e di stenti. Solo dall’alba di oggi, come attestato da Al Jazeera, nel governatorato di Khan Younis almeno cinque persone sono state uccise in un attacco israeliano contro una tenda che ospitava civili sfollati nella zona di al-Mawasi. Nella città di Gaza, che Israele ha dichiarato di voler invadere, almeno quattro persone sono state uccise e altre sono rimaste ferite in un attacco aereo su un appartamento nella zona di al-Sahaba. Pesanti bombardamenti hanno colpito anche altre abitazioni nella città di Gaza, provocando ulteriori 8 morti. Almeno 20 persone sono rimaste intrappolate sotto le macerie dopo che è stata colpita una struttura residenziale nei pressi della moschea di al-Faruq. Inoltre, il Ministero della Salute di Gaza ha registrato cinque morti dovute a carestia e malnutrizione nelle ultime 24 ore, tra cui due bambini, il che porta il numero totale di decessi correlati alla fame registrati dal 7 ottobre 2023 a 227. 103 di questi erano bambini.

Trump esclude Zelensky dal vertice con Putin e annuncia che dovrà “scambiare territori”

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Zelensky non sarà presente ai colloqui tra Trump e Putin in programma venerdì 15 agosto, e Russia e Ucraina dovranno con ogni probabilità «scambiare territori». A dirlo è stato lo stesso presidente Donald Trump durante una conferenza stampa alla Casa Bianca. «Il prossimo incontro sarà tra Zelensky e Putin o tra Zelensky, Putin e me: sarò presente se ce ne fosse bisogno», ha detto Trump; «ma prima voglio tenere un incontro tra i due leader», ha precisato, riferendosi a sé e all’omologo russo. Parlando dello scambio di territori, Trump ha spiegato che tale scenario è emerso «parlando con la Russia» e con «tutti quanti». Niente da fare, insomma, per i leader europei e Zelensky, che si sono scagliati contro la decisione di Trump di incontrare Putin in solitaria, negando la presenza di altri rappresentanti. Per ora, gli autoproclamatisi “volenterosi” sembrano essere riusciti a ottenere solo una telefonata con Trump, che dovrebbe tenersi domani.

L’incontro tra Trump e Putin, sostiene il presidente statunitense, servirà a «sondare il terreno» e comprendere se e quanto spazio vi sia per un accordo di pace tra Russia e Ucraina. Nel corso della conferenza stampa, Trump ha ribadito la sua posizione già espressa in passato, secondo cui entrambi i Paesi dovrebbero fare concessioni l’uno all’altro: un accordo prevedrà «cose buone, non cose cattive, anche un po’ di cose cattive per entrambi», ha detto Trump. «Cambieremo le linee di battaglia». Insomma, secondo il presidente statunitense, un accordo con la Russia non può che passare dalla cessione di alcuni territori ucraini e dal ritiro delle truppe russe da alcune delle posizioni conquistate. Zelensky, dal canto suo, ha rifiutato l’idea di uno scambio di territori e ha affermato che un simile accordo richiederebbe una riforma costituzionale. Trump si è detto «scocciato» dalla posizione di Zelensky: «Ha l’approvazione per andare in guerra e uccidere tutti, ma ha bisogno dell’approvazione per fare uno scambio di terre. Perché uno scambio di terre ci sarà».

Sull’ipotesi dello scambio di territori, i leader europei hanno fatto eco alle parole di Zelensky e si sono opposti all’incontro a due tra Trump e Putin: «Restiamo fedeli al principio secondo cui i confini internazionali non devono essere modificati con la forza», si legge in un comunicato firmato da Francia, Italia, Germania, Polonia e Commissione europea, rilasciato dopo l’annuncio dell’incontro tra i due leader; «l’attuale linea di contatto dovrebbe essere il punto di partenza dei negoziati». L’Europa ha poi contestato l’assenza di Zelensky all’incontro di venerdì. I leader europei e il presidente ucraino ritengono infatti che l’imbastimento di un tavolo delle trattative possa avvenire solo dopo l’implementazione di un cessate il fuoco e con la presenza di Kiev: «Negoziati significativi possono aver luogo solo nel contesto di un cessate il fuoco o di una riduzione delle ostilità», affermano i politici europei. «Il percorso verso la pace in Ucraina non può essere deciso senza l’Ucraina». Anche su questo punto, Trump è stato piuttosto chiaro: gli incontri tra Putin e Zelensky si terranno, ma solo dopo il suo personale vertice con il presidente russo. I Paesi dell’UE hanno reiterato la loro posizione in un comunicato uscito questa mattina firmato da tutti gli Stati membri a esclusione dell’Ungheria.

Nonostante le richieste europee, insomma, Trump non ha mutato prospettiva e ha chiuso la porta alla possibilità di invitare Zelensky all’incontro. Ha tuttavia rassicurato che aggiornerà lui e l’Europa subito dopo la sua conclusione. Sembra inoltre che la cosiddetta “coalizione dei volenterosi” sia riuscita a strappare in extremis un colloquio telefonico con Trump, a cui dovrebbero partecipare Zelensky, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il premier britannico Keir Starmer. La telefonata dovrebbe tenersi domani, ma non è ancora chiaro se il presidente Trump abbia a tutti gli effetti accettato l’invito.

La Malesia annuncia una delegazione regionale di pace in Birmania

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Il primo ministro della Malesia ha annunciato l’invio di una delegazione per la pace in Birmania, dove dal 2021 è in corso una guerra civile tra la giunta golpista e gruppi ribelli. L’annuncio è arrivato a margine di un incontro con il presidente ad interim del Bangladesh, Muhammad Yunus, in occasione di una conferenza stampa congiunta. La delegazione sarà guidata dal ministro degli esteri della Malesia e includerà rappresentanti dello stesso Bangladesh, e di Indonesia, Filippine e Thailandia. Essa intende anche risolvere la crisi migratoria della popolazione Rohingya in fuga dalla guerra: a oggi il Bangladesh ospita oltre un milione di rifugiati Rohingya.

Trump sospende i dazi alla Cina per 90 giorni

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per sospendere l’entrata in vigore dei dazi del 145% alla Cina per altri 90 giorni, rinviandola al 10 novembre. «Tutti gli altri elementi dell’accordo rimarranno invariati», ha scritto Trump su Truth. Con questa proroga, Trump conferma i termini dell’accordo provvisorio siglato con la Cina a maggio, che prevede l’imposizione di dazi del 30% sui prodotti cinesi in entrata. Le trattative per un accordo definitivo dovrebbero continuare, ma risultano ancora in stallo.