In una mossa già anticipata a fine aprile, ieri la casa automobilistica Volvo ha annunciato il taglio di 3.000 posti di lavoro come parte di un vasto piano di riduzione dei costi dovuto alla crisi che sta affliggendo la compagnia, così come tutto il settore automobilistico europeo. Infatti, i licenziamenti arrivano mentre la casa automobilistica cerca di resuscitare il suo prezzo azionario e aumentare la domanda, ristrutturando parte della sua attività. La maggior parte dei tagli dovrebbe colpire i lavoratori svedesi e, nello specifico, i così detti “colletti bianchi” che lavorano negli uffici della casa automobilistica, i quali rappresenterebbe la maggior quota di dipendenti, anche più degli operai.
Il piano di ristrutturazione della casa automobilistica, che dal 2010 è di proprietà del conglomerato multinazionale cinese Geely Holding, le permetterà di risparmiare fino a 1,9 miliardi di euro. Parte integrante di questo piano è il licenziamento di 3000 lavoratori, un 40% dei quali è formato da “colletti bianchi”, ovvero coloro che lavorano nei vari uffici, specie nella comunicazione e nelle risorse umane. Volvo ha una forza lavoro globale che si aggira sulle 44.000 unità, di cui 29.000 in Europa. Nel primo trimestre, la compagnia ha registrato un utile operativo di 175 milioni di euro rispetto ai 433 milioni dello stesso periodo dell’anno precedente. Le azioni della casa automobilistica sono scese molto nell’ultimo periodo, con ribassamenti che sono arrivati anche al 10% prima di risalire, senza però riguadagnare il calo avuto. Per rialzare il suo valore, l’azienda ha anche messo a punto un piano di riacquisto delle proprie azioni. Tra le cause della crisi di Volvo c’è quindi il suo valore azionario in discesa, il calo delle vendite, il collasso del mercato dei veicoli elettrici sui cui Volvo aveva puntato tutto.
Il CEO di Volvo, Hakan Samuelsson, che è stato recentemente riportato in quel ruolo dopo aver diretto l’azienda per un decennio fino al 2022, ha fatto riferimento alla forte competizione nel mercato dell’auto elettrica, senza però citare la Cina – regina incontrastata in questo segmento della produzione automobilistica. EppureVolvo intende diventare una casa automobilistica interamente elettrica. «Con cinque auto completamente elettriche (EV) già sul mercato e altri cinque modelli in fase di sviluppo, l’elettrificazione completa rimane un pilastro fondamentale della strategia di prodotto di Volvo Cars. Il suo obiettivo a lungo termine rimane quello di diventare un’azienda automobilistica completamente elettrica e mira anche a raggiungere zero emissioni nette di gas serra entro il 2040», è scritto sul sito della casa automobilistica.
L’incertezza del mercato europeo, già in forte crisida un paio di anni in primis per la forte concorrenza cinese, è anche dovuta alle minacce tariffarie di Trump che ha proposto, e poi sospeso, una tariffa del 25% sull’importazione di veicoli all’interno degli Stati Uniti. «Abbiamo bisogno di tornare a una sorta di accordo commerciale con gli Stati Uniti. Altrimenti, questo sarà ovviamente molto difficile per il business negli Stati Uniti», ha detto Samuelsson. Per quanto concerne la crisi generale dell’auotomotive europeo, per cui l’UE ha deciso di rivedere in grossa parte gli obiettivi del Green Deal e della transizione ecologica, il CEO di Volvo ha detto: «L’industria automobilistica è nel bel mezzo di un periodo difficile. Per affrontare questo problema, dobbiamo migliorare la nostra generazione di flussi di cassa e ridurre strutturalmente i nostri costi».
La crisi è profonda e persino i grandi e prestigiosi marchi europei, come quelli tedeschi e così adesso Volvo, sono costretti a tagliare per cercare di rimanere al passo con la concorrenza spietata del mercato globale dei veicoli. Ovviamente i primi a rimetterci sono sempre i lavoratori.
Dopo i casi dei mesi scorsi che hanno coinvolto Armani, Dior e Alviero Martini, questa volta sotto i riflettori è finito Valentino. Il Tribunale di Milano, nel corso di un’indagine sullo sfruttamento lavorativo nella filiera produttiva del marchio, ha disposto l’amministrazione giudiziaria per Valentino Bags Lab Srl, società controllata direttamente da Valentino Spa. Le accuse non sono di sfruttamento “diretto”, ma di omissione di controllo e “modelli organizzativi inadeguati”. Ignorando quanto accadeva nelle società subappaltatrici, senza effettuare i dovuti controlli e le necessarie verifiche delle condizioni di lavoro, la società si sarebbe resa complice. Quella di mettere la testa sotto la sabbia è d’altronde una strategia diffusa tra i marchi: per ridurre al massimo i costi e aumentare i profitti, si appaltano i lavori ad aziende che sfruttano la manodopera, poi, quando la vicenda viene a galla, la grande casa di turno afferma sistematicamente che non ne sapeva nulla e che non è colpa sua se il committente è uno sfruttatore.
L’inchiesta, infatti, ha messo in luce una filiera in cui aziende subappaltatrici erano gestite da imprenditori cinesi che impiegavano manodopera in condizioni ben oltre il limite dell’umanità: senza contratti, senza alcuna tutela, con turni lunghissimi e stipendi ben al di sotto del minimo legale, il tutto in ambienti privi delle più fondamentali norme di sicurezza.
Frammentare all’infinito la catena produttiva, fingendo di non sapere dove (e come) siano prodotti i propri capi o accessori, non è più credibile per una casa di moda con fatturati da oltre un miliardo e mezzo di euro, gestita da una holding (Qatar Mayhoola Investment). Ma, in generale, non è più ammissibile a nessun livello di questo sistema, ormai al collasso, chiamato Moda.
Facendo finta di non vedere, si è comunque complici. E questa cecità volontaria non sta portando a nulla di buono o costruttivo. Anzi. Le torri d’avorio stanno crollando sotto il loro stesso peso, mostrando a tutti il re. Nudo.
Un punto di non ritorno, iniziato negli sweatshop agli inizi del ’900, e che si sta perpetuando fino ai nostri giorni a tutti i livelli: il sistema moda, ormai, è un colabrodo. La filiera produttiva italiana è messa malissimo, con sempre più aziende costrette a ricorrere agli ammortizzatori sociali, quando non addirittura a chiudere; quelle che sopravvivono lo fanno costantemente strozzate dai loro committenti, che ancora non si vergognano di giocare al ribasso contrattando sui centesimi di euro mentre evadono il fisco. Subappalti opachi, controlli inesistenti, lavoratori invisibili. Storiche realtà, fiori all’occhiello di quello che una volta era l’orgoglio del Made in Italy, abbandonate e dimenticate da tutti, soprattutto da quella politica che dovrebbe impiegare risorse per risollevare il settore, ma che praticamente è assente. Il tutto mentre si punta il dito solo sul fast fashion, responsabile sì di danni ambientali e disuguaglianze sociali, ma come tutti gli altri.
Eppure, lo show deve andare avanti. E mentre sfilano le collezioni cruise in piazze improbabili (come quella di Santo Spirito, sottratta ai cittadini di Firenze e messa in vendita per un discutibile defilé di Gucci), la stampa di settore distrae con gossip sull’ennesimo giro di direttori creativi – anche questo un chiaro sintomo di marchi in crisi che non sanno più a chi appellarsi per rianimare le vendite – mentre le fondamenta tremano a colpi di inchieste, controlli, confessioni e testimonianze di chi non ne può più di questa ipocrisia diffusa. Ed è pronto a gridare al mondo che la moda, senza etica e senza giustizia, non può più andare avanti. Un sistema nuovo potrà rinascere, sì, ma solo sulle ceneri di quello precedente.
Una maschera del teatro milanese La Scala è stata licenziata per avere urlato “Palestina libera” e tentato di srotolare uno striscione prima di un concerto lo scorso 4 maggio. La notizia arriva dalla sigla sindacale CUB, che ha attaccato i vertici del teatro per la loro decisione. «Evidentemente per la direzione ha detto qualcosa da punire severamente», critica il sindacato. Il teatro non ha commentato l’accaduto, ma ha confermato la decisione di licenziare la lavoratrice. La donna, 24 anni, aveva scelto di manifestare il proprio supporto per la Palestina mentre faceva ingresso a teatro la premier Giorgia Meloni.
La situazione delle carceri italiane è sempre più drammatica: a fronte di una capienza reale di 46.700 posti, al 30 aprile 2025 i detenuti sono 62.445, con un tasso di sovraffollamento medio del 133%. Lo ha attestato il nuovo rapporto di Antigone dal titolo “Senza Respiro”, che ha chiarito come solo 36 istituti su 189 non siano sovraffollati, mentre in 58 il tasso superi il 150%. Il 2024 è stato l’anno peggiore di sempre per i suicidi in carcere, con 91 morti, mentre nei soli primi cinque mesi del 2025 se ne sono verificati 33. Anche le carceri minorili registrano criticità: 611 giovani detenuti, +54% in due anni. Il decreto Caivano ha favorito il trasferimento punitivo di neomaggiorenni negli istituti per adulti (189 casi nel 2024). Inoltre, Antigone denuncia gli effetti del decreto Sicurezza, che abolisce l’obbligo di rinviare la detenzione per madri con figli piccoli e introduce la possibilità di separarli.
La ricerca conferma che il numero di suicidi verificatisi dietro le sbarre nel 2024 è il più alto dal 2002, anno di inizio del monitoraggio. Una tendenza mortale che pare inarrestabile, se stiamo alle cifre dei primi mesi del 2025. 62 di questi suicidi sono avvenuti nei primi sei mesi di detenzione, di cui 11 nella prima settimana, fase in cui il detenuto è spesso lasciato solo in reparti fatiscenti e chiusi. Il tasso di suicidi è passato a 14,8 casi ogni 10mila detenuti, il valore più alto mai osservato, 25 volte superiore a quello della popolazione esterna. Allarme rosso anche per il totale dei decessi: 246 morti in detenzione nel 2024, tra suicidi e altre cause, un primato negativo per l’intero sistema penitenziario italiano. Per quanto concerne il sovraffollamento, sono ben 58 le strutture carcerarie che viaggiano oltre il 150% di occupazione. Tra le più critiche, ci sono Milano San Vittore (220%), Foggia (212%) e Lucca (205%)
Su un totale di 95 istituti esaminati da Antigone, 47 si trovano in aree extraurbane e 48 in contesti urbani. Tra questi ultimi, soltanto 8 sono stati costruiti recentemente, mentre 19 risalgono a prima del 1.900. In 30 strutture sono state riscontrate celle dove non erano garantiti i 3 metri quadrati calpestabili per persona. In 12 istituti mancava il riscaldamento nelle celle e in 43 non era disponibile l’acqua calda. In 53 strutture le celle erano prive di doccia, e in 4 casi il wc non era collocato in un ambiente separato. Quanto agli spazi comuni, in 40 istituti, sebbene presenti biblioteche, queste non erano fruibili come spazi condivisi. In 4 strutture mancavano aree riservate alla scuola, tra cui 2 case di reclusione. In 20 non esistevano spazi per attività lavorative, in 12 non vi erano aree per la socialità all’interno delle sezioni detentive e in 24 mancavano cortili per il passeggio distinti per ciascuna sezione.
Un allarme serio si registra in riferimento alle strutture penali per minori, che secondo il rapporto sono «a un passo dall’implosione». Al 30 aprile 2025 i giovani ristretti erano 611 (di cui 27 ragazze), contro i 381 del 2022 e i 587 di fine 2024, con un aumento del 54% in due anni. Il Decreto Caivano ha aggravato la crisi, trasferendo 189 ultra-diciottenni negli istituti per adulti – l’80% in più rispetto al 2022 – interrompendo i percorsi rieducativi. Ben 9 IPM su 17 superano la capienza (alcuni quasi al 200%): il Beccaria di Milano e l’IPM di Quartucciu a Cagliari toccano il 150%, Firenze il 147%. I giovani detenuti stranieri, per quasi l’80% provenienti dal Nord Africa, quasi sempre minori stranieri non accompagnati – costituiscono il 49,9% del totale delle presenze. I minorenni detenuti sono il 62,1%. Il 65% dei ragazzi in carcere sono in custodia cautelare, una percentuale che sale all’81,4% se consideriamo i soli detenuti minorenni. Anche nelle carceri minorili il sovraffollamento e la deprivazione umana favoriscono il ricorso massiccio a benzodiazepine e antipsicotici: a Torino nel 2024 è aumentato del 64% rispetto al 2022, a Nisida l’incremento è del 352% in tre anni, a Pontremoli di oltre il 1.000%.
Antigone punta inoltre il dito contro il “Decreto Sicurezza” che proprio ieri ha ottenuto il via libera della Camera ed è ora all’esame del Senato. «Il cosiddetto decreto legge sicurezza emanato dal governo ad aprile ha cancellato l’obbligo del rinvio dell’esecuzione della pena per donne incinte o con prole inferiore a un anno di età, che da oggi potranno dunque entrare in carcere aumentando il numero di bambini dietro le sbarre – mette nero su bianco l’Associazione -. Si introduce inoltre per la prima volta la possibilità che il bambino venga sottratto alla madre: il decreto prevede che la donna sottoposta alla custodia cautelare in un Icam possa venire trasferita in chiave punitiva in un carcere ordinario senza suo fi glio quando la sua condotta non è considerata adeguata». «Sorprende – si legge ancora nel documento – che la rubrica dell’articolo parli di “condotte pericolose realizzate da detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri”, declinando al maschile il sostantivo quando gli Icam ospitano solo donne».
Diversi attacchi israeliani si sono verificati nelle ultime ore nei pressi delle due città meridionali di Rafah e Khan Younis. Lo riportano fonti mediche ad Al Jazeera, che parla di almeno 10 morti in un raid dell’IDF contro un’abitazione a Jabalia e di almeno due morti in un attacco contro un’auto civile ad Abasan al-Kabira, a est di Khan Younis. Almeno una persona è stata uccisa dal fuoco israeliano a Shakoush, nella zona nord-occidentale di Rafah, mentre altri due palestinesi sono rimasti uccisi in un raid contro una tenda che ospitava sfollati ad al-Mawasi, a ovest di Khan Younis.
Nel 2025 il congedo parentale italiano sarà più generoso. L’INPS, attraverso una circolare, ha chiarito le modalità di accesso e le novità introdotte dalla legge di bilancio per l’anno in corso. Il cambiamento più rilevante riguarda l’aumento della retribuzione all’80% per i primi tre mesi di congedo facoltativo, fruibile da genitori lavoratori dipendenti entro i primi sei anni di vita del bambino o del suo ingresso in famiglia. Tuttavia, l'Italia si colloca ancora molto lontano dagli standard di buona parte dei Paesi europei, dove spesso i diritti dei neo-genitori in questo ambito sono molto ...
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Secondo quanto riferito dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, Israele avrebbe accettato la proposta di tregua avanzata dagli Stati Uniti, ora al vaglio di Hamas. Tuttavia, non vi sono ancora riscontri sulla posizione di quest’ultimo. “Israele ha firmato la proposta prima che fosse inviata ad Hamas” ha dichiarato la portavoce. “Posso confermare che le discussioi stanno continuando e che speriamo che si possa arrivare a un accordo”.
Con 163 voti favorevoli, 91 contrari e un astenuto, la Camera ha approvato il decreto Sicurezza voluto dal governo Meloni, che inasprisce pene per chi manifesta e introduce oltre dieci nuovi reati e nove aggravanti. Tra le misure: carcere per chi blocca le strade, stretta sulla cannabis light, sgomberi più rapidi, eliminazione del rinvio pena per madri detenute e le cosiddette norme “Anti No-Tav e No-Ponte”. I parlamentari hanno esposto dai banchi delle opposizioni cartelli con scritto «Né liberi, né sicuri», «Decreto paura». Ora la palla passa al Senato per l’approvazione definitiva.
Negli Stati Uniti c’è un gruppo espressamente sionista, che si autodefinisce “aggressivo”, il quale intende far deportare tutti gli stranieri che partecipano alle manifestazioni pro-Palestina che si svolgono nel Paese, specie nei campus universitari. Il nome dell’organizzazione è Betar (traducibile in “fortezza”) e i suoi membri dicono di lavorare a stretto contatto con l’amministrazione statunitense, a cui avrebbero fornito una lista di persone da far arrestare e deportare fuori dagli Stati Uniti. Lo scopo di Betar sarebbe quello di «mantenere l’America al sicuro» e di far piazza pulita di quelli che loro definiscono «terroristi». Studenti, professori e intellettuali sono tutti obiettivi di questa organizzazione che persino la Anti-Defamation League, uno dei principali gruppi di lobby pro-Israele negli Stati Uniti, ha aggiunto al suo database di estremisti.
Cos’è Betar?
Il Movimento Betar, scritto anche Beitar, è un movimento giovanile sionista revisionista fondato nel 1923 a Riga, in Lettonia, da Vladimir Jabotinsky, fondatore di varie organizzazioni ebraiche, compresa quella para-militare Irgun. Betar è uno dei numerosi movimenti giovanili di destra che sorsero in quel periodo e che adottarono saluti speciali e uniformi influenzate dal fascismo. Durante la seconda guerra mondiale, Betar reclutò combattenti tanto per i gruppi ebraici alleati degli inglesi quanto per quelli che combatterono contro di loro nella Palestina mandataria. Il gruppo era tradizionalmente collegato al partito Herut e poi al Likud ed è stato affiliato all’Irgun, organizzazione paramilitare che ha operato nella Palestina mandataria dal 1931 al 1949, prima di essere assorbita all’interno dell’apparato statale militare israeliano.
Alcuni dei politici più importanti di Israele sono stati membri di Betar in gioventù, in particolare i primi ministri Yitzhak Shamir e Menachem Begin. Il gruppo ha affrontato polemiche sul suo sostegno al terrorismo sionista e al Kahanismo, un movimento che chiede la segregazione dei non ebrei. Il gruppo Betar US, la costola Nnordamericana di Betar, sta lavorando a stretto contatto con l’amministrazione Trump, preparando file su migliaia di figure filo-palestinesi con l’intenzione di farle deportare fuori dagli Stati Uniti.
Betar US: “aggressivi e senza scuse sionisti”
Sul sito dell’organizzazione statunitense, in cui si rivendica e si sottolinea una «resurrezione» dopo una «riforma» avvenuta nell’estate 2024, si trova scritto: «Betar è qui per reclutare, sviluppare e responsabilizzare gli ebrei ad essere leader e difensori di Zion, la nazione di Israele, nei campus, nelle città, nei media, nelle comunità imprenditoriali e per le strade. Siamo rumorosi, orgogliosi, aggressivi e senza scuse sionisti».
Il profilo X di Betar US è pieno zeppo di video d’odio nei confronti dei palestinesi e di tutti coloro che sostengono la causa palestinese. Betar ha rivendicato la sua responsabilità nell’arresto e nella detenzione di Mahmoud Khalil, il leader delle manifestazioni studentesche nazionali antigenocidio iniziate alla Columbia University lo scorso anno e che poi si sono diffuse in quasi tutti i campus universitari statunitensi. «Abbiamo fornito centinaia di nomi all’amministrazione Trump, tra titolari di visto, mediorientali naturalizzati e stranieri che non hanno libertà di parola nei loro Paesi, e che poi vengono in Occidente per infuriare contro l’America e sostenere le organizzazioni terroristiche designate dagli Stati Uniti», ha detto il portavoce di Betar, Daniel Levy, a The National. Levy ha poi detto che Betar sostiene le iniziative dell’amministrazione Trump per «mantenere l’America al sicuro» e ha detto «l’America è in guai seri a causa dei terroristi in mezzo a noi».
Durante la campagna presidenziale del 2024, Trump ha ripetutamente promesso di deportare gli studenti stranieri coinvolti nelle proteste filo-palestinesi nei campus universitari e ha spesso definito le manifestazioni contro le azioni di Israele a Gaza come espressioni di sostegno a Hamas. Alla metà di marzo, Tufts Rumeysa Ozturk, nella lista di Betar, era stata arrestata rischiando la deportazione. L’accusa a lei rivolta era quella di essere stata coautrice di un editoriale pro-palestinese su un giornale studentesco pubblicato lo scorso anno. Per questo era stata segnalata per attivismo anti-israeliano. Il 28 marzo scorso, Mosab Abu Toha, scrittore e poeta palestinese che si trova negli Stati Uniti con un visto dell’Università di Syracuse, ha comunicato su X di aver annullato tutti i suoi eventi perché si sente in pericolo, «soprattutto dopo aver visto studenti e professori universitari rapiti per strada proprio di fronte ad altre persone».
Gli obiettivi di Betar non sono soltanto stranieri pro-palestinesi ma anche ebrei statunitensi. Nel febbraio scorso, Betar ha attaccato lo scrittore ebreo Peter Beinart, collaboratore del New York Times, definendolo «traditore» per aver criticato Israele. Stessa cosa è accaduto con il politologo ebreo Norman Finkelstein, da sempre critico nei confronti dello Stato ebraico e del sionismo. Il gruppo ha più volte contestato Finkelstein durante le sue conferenze. Betar è anche ferocemente contro Hareetz, il giornale israeliano che molto spesso espone i crimini di Israele nei confronti dei palestinesi. Come riporta il Jerusalem Post, il gruppo è così esplicito nel suo odio per i palestinesi che, nel febbraio scorso, persino la Anti-Defamation League, uno dei principali gruppi di lobby pro-Israele negli Stati Uniti, ha aggiunto Betar US al suo database di estremisti.
Lista per la deportazione
Il gruppo ha compilato una cosiddetta «lista di deportazione» in cui sono riportate le persone che ritengono siano negli Stati Uniti con un visto e che hanno partecipato a proteste pro-palestinesi, sostenendo che questi individui «terrorizzano l’America» e che per questo debbano essere espulsi dal Paese. Levy ha fornito una dichiarazione al The Guardian dicendo che la sua organizzazione ha fornito all’amministrazione Trump «migliaia di nomi» di studenti e docenti della Columbia University, dell’Università della Pennsylvania, della UCLA, della Syracuse University, e di altre istituzioni universitarie, che ritengono essere colpevoli di lesa maestà nei confronti di Israele per le proteste di massa che hanno attraversato, e attraversano tutt’ora, i campus statunitensi da un anno a questa parte. Nello specifico, si tratterebbe di circa 1.800 persone che secondo Betar andrebbero espulse dagli Stati Uniti.
Ross Glick, amministratore delegato del gruppo fino al mese scorso, come mostrano alcuni video sul suo profilo Instagram, ha incontrato alcuni legislatori tra cui il senatore democratico John Fetterman e i repubblicani Ted Cruz e James Lancford, i quali hanno tutti sostenuto la campagna «Beitar Stati Uniti» per «liberare il paese da migliaia di sostenitori del terrorismo». Poco dopo la visita di Glick a Washington, D.C., Trump ha firmato un ordine esecutivo intitolato «Misure aggiuntive per combattere l’antisemitismo» che prometteva di «espellere gli stranieri residenti che violano le nostre leggi», nel tentativo di «sopprimere atti di sovversione e intimidazione pro-Hamas» e «indagare e punire il razzismo antiebraico nei college e nelle università antiamericane di sinistra».
Trump stesso ha dichiarato che l’arresto di Khalil, è stato «il primo di molti arresti imminenti». E così è stato. «A seguito dei miei ordini esecutivi precedentemente firmati, l’ICE ha orgogliosamente arrestato e detenuto Mahmoud Khalil, uno studente radicale straniero pro-Hamas nel campus della Columbia University [..] Sappiamo che ci sono più studenti alla Columbia e ad altre università in tutto il paese che si sono impegnati in attività pro-terroristiche, antisemite e antiamericane, e l’amministrazione Trump non lo tollererà [..] Troveremo, arresteremo e deporteremo questi simpatizzanti terroristi dal nostro paese – per non tornare mai più. Se sostieni il terrorismo, incluso il massacro di uomini, donne e bambini innocenti, la tua presenza è contraria ai nostri interessi di politica nazionale e estera, e non sei il benvenuto qui. Ci aspettiamo che tutti i college e le università americane siano conformi», ha scritto Trump sul suo social Truth. E il gruppo ultra-sionista Betar non può che essere d’accordo.
Una mano colpisce con forza una pallina facendola impattare su un muro. Lo schiocco risuona nel campo, e, sotto gli occhi attenti degli spettatori seduti sulle gradinate, l’avversario risponde colpendo nuovamente la palla. Nel Paese basco è possibile assistere a una scena simile praticamente ovunque: nelle piazze principali dei paesi e delle città basche, come in apposite strutture al coperto, si trovano i pilotaleku, i muri, tradotti in italiano con il termine «frontoni», dove si svolgono le partite dellaeuskal pilota, la palla basca.
L’origine di questo sport risulta complessa da decifrare. Sono presenti in varie parti del mondo testimonianze che dimostrano come questo gioco, per certi versi semplice, sia stato praticato fin dall’antichità in varie forme e con vari strumenti. Secondo gli storici, però, la diffusione di una versione embrionale di questo sport risale all’epoca romana, quando la pila giunse nell’attuale territorio francese. Le fonti attestano che in epoca medievale in tutta la Francia era praticato uno sport simile, nel quale si utilizzavano diversi strumenti per colpire la palla, che con il tempo avrebbe poi dato vita alla pallacorda e al Jeu de Paume. Altre testimonianze invece confermano che già dal XIII secolo il gioco della pilota era estremamente rilevante nel Regno di Navarra, dove la pratica includeva, oltre all’uso dei guanti in vimini, anche le mani. Nel corso dei secoli, a causa della colonizzazione delle Americhe protratta anche dai coloni provenienti dalle province basche, lo sport raggiunse il continente sudamericano, suscitando rapidamente grande interesse nella popolazione.
Fu nel secolo XX che la euskal pilota sfociò nel professionismo. Rese ormai ufficiali le quattro versioni, differenziate dall’utilizzo degli strumenti, le competizioni si diffusero in tutto il mondo, la pilota entrò a far parte dell’edizione dei Giochi Olimpici del 1900 (per poi uscirne a causa del divieto olimpico di ospitare sport professionistici) e nel 1952 viene istituito il campionato del mondo, che nel 2030 celebrerà la sua XXI edizione tra le città di Bilbo e Gernika.
Sebbene la versione più diffusa sembri essere quella con il jai alai (o zesta-punta), una cesta concava in vimini con la quale si raccoglie la palla al volo per poi scagliarla contro il muro, la modalità di gioco più rappresentativa e sentita dal popolo basco è sicuramente quella con le mani, la esku-huskako pilota.
La palla, colpita rigorosamente con le mani nude, è composta da tre strati, il primo di gomma, il secondo di lana e il terzo di cuoio. Durante la partita si possono affrontare due contendenti in singolo o quattro in due coppie, che, senza limiti di tempo, devono colpire la pallina con la mano, senza trattenerla, verso il muro. Se la pallina rimbalza due volte o viene colpita in punti specifici del muro, il punto va alla squadra avversaria.
La società basca è strettamente legata alla tradizione della pilota, tanto che tutti gli atleti e le atlete che nel corso dei decenni hanno portato ai titoli vinti dalla nazionale spagnola, vantano origini basche. A riguardo, nel dicembre del 2024 la Federazione Internazionale della Palla Basca ha riconosciuto, scatenando non poche polemiche da parte di alcuni settori della politica spagnola, l’ufficialità della selezione nazionale di Euskal Herria, che per il campionato mondiale del 2030, oltre a ospitare la competizione, potrà vedere per la prima volta in campo i giocatori e le giocatrici vestire la maglia con i colori della ikurrina, la bandiera basca.
Nel corso dei decenni i pilotaleku sono stati teatro di contestazioni politiche. Nel settembre del 1970, a Donostia si inaugurava il campionato mondiale di Palla Basca, con la presenza del dittatore spagnolo Francisco Franco; un uomo, Joseba Elosegi, si lanciò dagli spalti avvolto dalla bandiera basca in fiamme, prontamente spenta da uno dei giocatori presenti in campo. Elosegi, poi divenuto consigliere del Partito Nazionalista Basco (PNV-EAJ), spiegò che quel gesto, che lo portò a scontare sette anni di carcere, voleva portare il fuoco che distrusse Gernika davanti agli occhi di chi lo provocò. Nel 1978, invece, durante l’inaugurazione del campionato mondiale di Biarritz, nel Paese basco del nord (situato nel territorio francese), la delegazione dell’Unidad Popular, esiliata durante gli anni di Augusto Pinochet a Parigi, promise un’azione di boicottaggio nel caso in cui la nazionale del Cile avesse sfilato con la propria bandiera. Per risolvere il contenzioso l’organizzazione del mondiale proibì l’utilizzo di ogni bandiera nazionale, eccetto quella dello Stato ospitante. A sventolare nel campo di Biarritz, però, invece del tricolore francese, fu l’ikurrina basca.
La palla basca è un gioco teoricamente semplice. Anche grazie alla sua immediatezza, nel corso dei secoli ha appassionato e avvicinato sempre più persone, dando vita a varianti e modalità peculiari diffuse oggi in tutto il mondo. Nella cultura popolare è stato raccontato svariate volte, dalle serie televisive al cinema mainstream, nonostante sia indubbiamente un gioco «di nicchia», lontano dai business milionari presenti in altri sport. Per il paese basco, però, la pilota rappresenta molto di più. Lontano dalle prime pagine dei giornali e dai notiziari generalisti, questo sport è il legame tra un popolo e la sua storia millenaria. Lo sguardo dei tifosi sugli spalti che segue con attenzione la palla schiantarsi più volte sul muro è stato incorniciato da vari contesti sociopolitici, dalla colonizzazione della Corona spagnola del territorio basco, agli eccidi delle milizie franchiste, per passare poi agli anni delle stragi, del terrorismo di Stato e dell’eroina. Poter finalmente vedere i giocatori e le giocatrici con la maglia con i colori dell’ikurrina, è indubbiamente il sogno di un’indipendenza ottenuta al momento solo tra i campi di questo sport. Nonostante il passare dei secoli, il suono dello schiocco della palla sul muro è sempre lo stesso, il suono della libertà basca.
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