sabato 23 Novembre 2024
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Pagava paramilitari in cambio di protezione: Chiquita condannata a risarcire i colombiani

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Dopo un processo durato 17 anni, con una sentenza storica, una giurida dello Stato della Florida ha costretto Chiquita Brands International a risarcire le famiglie di nove delle vittime del gruppo paramilitare colombiano AUC (Forze di Autodifesa Unite della Colombia), che la multinazionale ha ammesso di aver finanziato per circa 13 anni. Tra di essi vi erano lavoratori, sindacalisti, attivisti e altri cittadini colombiani torturati e brutalmente uccisi (alcuni furono ritrovati decapitati e smembrati) dalle AUC. Tra il 1994 e il 2007 Chiquita, l’azienda leader nel commercio di banane, ha infatti elargito alle AUC un centinaio di pagamenti, per un valore complessivo di 1,7 milioni di dollari, nella piena consapevolezza del loro ruolo nel massacrare e violare i diritti umani della popolazione civile. Grazie a questo verdetto, le famiglie di nove delle centinaia di vittime delle AUC riceveranno compensazioni per l’ammontare complessivo di 38,3 milioni di dollari. La sentenza è storica anche perchè si tratta, secondo quanto riferito da EarthRights (la ONG impegnata nella difesa dei diritti umani e dell’ambiente che ha supportato le famiglie), della prima volta in cui una giuria americana condanna un’azienda statunitense per complicità in gravi violazioni dei diritti umani in un altro Paese. «Questo verdetto invia un messaggio forte alle aziende di tutto il mondo: chi trae profitto dalle violazioni dei diritti umani non resterà impunito. Queste famiglie, vittime di gruppi armati e multinazionali, hanno fatto valere il loro potere e hanno prevalso nel processo giudiziario» ha dichiarato Marc Simmons, consigliere generale di EarthRights International.

Era il 1928 quando, nella città di Ciénaga, nei pressi di Santa Marta, si consumava quello che rimase impresso nella memoria storica come il “Masacre de las Bananeras”, letteralmente il massacro delle produttrici di banane. Allora, il governo colombiano, sotto pressione della United Fruit Company e degli Stati Uniti, massacrò un numero imprecisato (si parlerà di svariate centinaia) di operai in sciopero dal 12 novembre precedente per chiedere condizioni lavorative dignitose. Il tempo è trascorso, ma le modalità di tutelare gli interessi capitalistici e predatori della multinazionale non sono cambiate. Nemmeno 80 anni dopo, infatti, nel 2004, Chiquita Brands International (nata dalle ceneri della United Fruit Company) ha ammesso di aver effettuato pagamenti per 1,7 milioni di dollari a un gruppo paramilitare armato di destra, incaricato, tra il 1994 e il 2007, di massacrare chiunque si frapponesse con gli interessi economici dell’azienda.

A partire dagli anni ’80, infatti, il lucroso commercio delle banane, in Colombia, è stato accompagnato da un sanguinoso conflitto a fuoco, che vide coinvolte le FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) e l’ELN (l’Esercito di Liberazione Nazionale) contro l’amministrazione locale colombiana. Le FARC, autoproclamatesi un’organizzazione agraria e antimperialista di ispirazione bolivariana e matrice marxista-leninista, intendevano rappresentare i lavoratori poveri delle campagne in lotta contro le classi agiate colombiane, opponendosi all’imperialismo statunitense, alla monopolizzazione delle risorse da parte delle multinazionali e alla violenza paramilitare e governativa. Su di una linea simile operava l’ELN, gruppo marxista attivo in Colombia dal 1964 e considerato un gruppo terroristico dall’Unione Europea. Nel 1997, per contrastare questi gruppi – che mettevano a repentaglio gli interessi delle multinazionali attive nel Paese – vennero create le AUC, Autodefensas Unidas de Colombia, composte di vari gruppi paramilitari e di estrema destra colombiani. Tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione europea hanno inserito le AUC nella lista delle organizzazioni terroristiche. Nel 2000, l’ex leader di AUC Carlos Castaño Gil dichiarò che il 70% dei proventi del gruppo provenivano dalla cocaina, il resto da «donazioni» degli sponsor – tra i quali, per l’appunto, Chiquita. Il gruppo fu smantellato del tutto nel 2006.

Il denaro elargito, ha sostenuto l’azienda, sarebbe servito per proteggere i lavoratori dalle violenze dei gruppi locali. Tuttavia, tra le vittime delle violenze omicide delle AUC vi sono gli stessi dipendenti della multinazionale (una cinquantina in tutto). In questo modo, infatti, il gruppo paramilitare si assicurava i pagamenti da parte dell’azienda. Secondo la Commissione per la verità colombiana, il legame tra le due parti era poi molto più stretto, arrivando al punto in cui i paramilitari utilizzavano i container aziendali che trasportavano le banane per nascondere le partite di droga. Tali accuse sono sempre state negate da Chiquita, ma sarebbero state confermate dalle indagini di alcune organizzazioni giudiziarie e da testimonianze interne.

Ora, un contenzioso durato 17 anni, i familiari di alcune delle vittime potranno finalmente ricevere una compensazione in denaro. Tuttavia, nel procedimento contro dirigenti e amministratori di alto profilo dell’azienda, incriminati per associazione a delinquere, nulla si muove da almeno cinque anni: segno di come la strada per ottenere piena giustizia sia ancora lunga.

[di Valeria Casolaro]

Rapporto ONU: Israele usa sistematicamente abusi sessuali e torture sui palestinesi

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Nei giorni scorsi la notizia del rapporto ONU che accusa Israele di avere commesso crimini di guerra e contro l’umanità ha avuto ampia risonanza; anche noi de L’Indipendente abbiamo restituito brevemente i punti focali del documento, eppure, letto nel suo più pieno contenuto, questo dettaglia con estrema brutalità il modo in cui pratiche come l’abuso sessuale e la tortura verrebbero utilizzate dalle Forze di Difesa Israeliane in maniera apparentemente sistematica. Il resoconto della Commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite è infatti lungo 126 pagine, più del doppio del gemello fascicolo sui crimini del 7 ottobre, e nei suoi 6 capitoli divisi in oltre 500 punti intende restituire, come da titolo “ritrovamenti dettagliati sulle operazioni militari e sugli attacchi effettuati nei territori palestinesi Occupati dal 7 ottobre al 31 dicembre 2023”. Del suo centinaio di pagine, 97 sono dedicate solo a “ritrovamenti fattuali” dei crimini israeliani, e una sola agli stessi ritrovamenti per quanto riguarda crimini dei vari gruppi armati palestinesi. Il documento, insomma, fornisce l’ennesima spietata ricostruzione dell’efferata violenza che colpisce la Palestina, che in larga parte sarebbe portata avanti, in maniera a tratti sistematica, proprio dalle IDF.

Metodologia e crimini di guerra

Prima di procedere con il resoconto, il documento si sofferma brevemente sui metodi utilizzati per stilare il rapporto: da quello che spiegano i punti di metodologia, la Commissione si è basata principalmente su testimonianze dirette delle vittime e di presenti ai fatti e fonti aperte verificate tramite “analisi forense”.  Utili sono stati inoltre i lavori di valutazione sulle stesse testimonianze, ma anche i registri medici, le evidenze audiovisive, le immagini satellitari, e i rapporti militari. Il rapporto passa poi ad analizzare 12 specifici argomenti in cui sono stati rilevati crimini di guerra verificati. Il documento inizia passando in rassegna le dichiarazioni dei politici e delle autorità di Tel Aviv che avrebbero plasmato una narrativa di legittimazione bellica e fomentato odio, vendetta e violenza, manifestando inoltre chiaramente l’intenzione di deportare i civili palestinesi. Evidenze sono poi state trovate anche nel campo dell’uccisione dei civili e della distruzione della Striscia, facilmente riscontrabili dalla documentazione audiovisiva; su tale questione la Commissione torna anche in seguito, stressando il continuo attacco a personale umanitario e a civili che non costituivano minaccia, nonché la distruzione indiscriminata di infrastrutture civili, interi quartieri cittadini, campi coltivabili, colture locali, e in generali strutture e spazi necessari alla vita sociale degli abitanti.

In generale, descrivendo le operazioni militari condotte a Gaza il rapporto suggerisce, senza lanciare specifiche accuse, che l’esercito israeliano “debba rispettare i principi di distinzione, proporzionalità e precauzione” nei suoi attacchi. Per ciò che concerne gli ordini di evacuazione e la designazione di zone franche, invece, il rapporto evidenzia come le IDF abbiano mancato di fornire assistenza alle persone che incontravano difficoltà nel seguire gli ordini di evacuazione, e certifica gli attacchi condotti sulle persone costrette a migrare; la Commissione conferma inoltre anche i ripetuti attacchi alle zone franche e chiude il paragrafo constatando che “il processo di evacuazione e delle zone di sicurezza designate ha fallito nell’assicurare sicurezza agli evacuanti”; Tel Aviv avrebbe inoltre mancato di concedere il ritorno alle proprie abitazioni presso i distretti di Nord Gaza e di Khan Younis. Proprio su questo tema, la Commissione si sofferma lungamente anche sull’effetto delle operazioni militari sulla popolazione di rifugiati palestinesi, le quali avrebbero aumentato considerevolmente il numero degli sfollati, peggiorando inoltre le loro condizioni di vita tra mancato accesso ad acqua, cibo, e trattamenti sanitari. La causa principale di tali operazioni è a tal proposito restituita dai due paragrafi dedicati a quello che viene definito “assedio totale” della Striscia e agli effetti di questo stesso assedio su popolazione e infrastrutture di Gaza. Nello specifico tale stato si concretizza nella mancanza di fornitura di aiuti umanitari, scorte alimentari, e assistenza sanitaria ai civili palestinesi, ma anche nell’ormai carente accesso a scorte di carburante, alla fornitura di elettricità, e alla rete idrica. L’impatto dell’assedio totale viene descritto come “disastroso” e “severo nei riguardi dei servizi essenziali”, e colpirebbe specialmente soggetti sensibili quali donne, bambini, e persone con disabilità.

Crimini umanitari e altri rapporti

Tra i crimini di guerra e umanitari che il rapporto denuncia a Israele i due di maggiore impatto risultano quelli di tortura e stupro, alle volte condotti addirittura sui bambini palestinesi. Secondo la Commissione, i reati legati all’abuso sessuale sarebbero effetto di quella stessa narrativa con cui viene aperto il resoconto, e a partire dall’8 ottobre sarebbero aumentati considerevolmente “in connessione all’intenzione di punire e umiliare i palestinesi come ritorsione per gli attacchi” del 7 ottobre; questo genere di violenza avrebbe principalmente avuto sede in “luoghi appartati, come posti di blocco, centri di detenzione e durante assalti notturni”. La volontà di vendetta e umiliazione descritta dal rapporto, si sarebbe nello specifico manifestata attraverso la scrittura di graffiti sessisti e degradanti, ma anche e soprattutto “filmando e fotografando atti di violenza sessuale e severo maltrattamento”, tra cui l’obbligo a strapparsi le vesti, la “pubblica nudità forzata, e la coercizione nel mantenere una posizione di subordinazione mentre parzialmente svestiti”, così come in quei casi di veri e propri “stupri e altre forme di abuso sessuale”. Secondo la commissione “questi atti sono stati portati avanti su base discriminatoria, tra genere”, nazionalità ed etnia. Riguardo alla questione, la Commissione “conclude” che l’esercito israeliano ha sistematicamente commesso atti “oltraggiosi per la dignità personale”, sfociando spesso in forme di violenza di genere che “costituiscono tortura e trattamenti disumani e crudeli”.

Quello di mercoledì non è il primo rapporto di denuncia delle azioni che Israele sta portando avanti in questo momento a Gaza: tra gli innumerevoli bollettini dell’Agenzia per gli affari umanitari dell’ONU, e il documento “Anatomia di un genocidio” di Francesca Albanese, sono tanti ormai i documenti che evidenziano il continuo violare dei diritti umanitari da parte di Israele. Questi sono stati inoltre appoggiati da molteplici organi internazionali,  come nel caso dei vari ordini di misure per “prevenire il genocidio” da parte della Corte Internazionale di Giustizia, e della richiesta di mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant da parte del procuratore della Corte Penale Internazionale.

[di Dario Lucisano]

UE, via libera alla legge sul ripristino della natura, no dell’Italia

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Nella giornata di oggi i Ministri dell’Ambiente comunitari hanno dato il via libera alla legge sul ripristino della natura. A votare contro, insieme a Finlandia, Olanda, Polonia, Svezia e Ungheria, anche l’Italia. Tra gli astenuti risulta invece solo il Belgio. La legge UE sul ripristino della natura è la prima al mondo a stabilire obiettivi vincolanti per invertire il disboscamento e i danni ambientali causati dalle attività industriali. La norma prevede inoltre che, entro il 2030, vengano attuate misure di ripristino della natura su almeno il 20% delle aree degradate dell’Unione Europea, e stabilisce anche misure di ‘riabilitazione’ in sette diversi settori chiave.

Sardegna, a Saccargia migliaia di cittadini in piazza contro la speculazione energetica

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Migliaia di persone sabato scorso si sono riversate in piazza a Saccargia, nelle campagne di Codrongianus (Sassari), per una grande mobilitazione contro l’assalto speculativo alle fonti rinnovabili in Sardegna. La manifestazione, dal titolo “E-Vento di Saccargia”, ha visto la presenza di gazebo informativi dei comitati e degli interventi sul palco dei loro portavoce e di una serie di esperti, nonché di momenti musicali di artisti che hanno voluto dare il loro contributo alla causa. La manifestazione segue di pochi giorni l’incontro avuto dai membri del coordinamento con la neo presidente della Regione Alessandra Todde, in seguito all’approvazione del ddl della Giunta che ha bloccato per 18 mesi l’installazione di impianti da rinnovabili. Secondo i comitati, anche in seguito al confronto, che si è svolto in un’atmosfera serena e di dialogo, permangono numerosi «punti oscuri», in particolare sul tetto minimo di 6,2 GW di rinnovabili assegnati alla Sardegna in sede di accordo col Ministero e su vari progetti che, nei prossimi anni, investiranno l’Isola.

I progetti che sono stati presentati e che, in parte, hanno già ottenuto l’approvazione, prevedono installazioni di “parchi eolici” in aree di elevato valore paesaggistico, archeologico e culturale. Non è un caso che il palco che ha ospitato l’evento sia stato collocato davanti alla basilica di Saccargia, uno dei monumenti – insieme all’area del villaggio nuragico di Barumini, patrimonio Unesco – minacciato dalla speculazione eolica che avanza in Sardegna. «Il termine speculazione è quello chiave del nostro dramma – ha spiegato Luigi Pisci, uno dei portavoce dei comitati, presente alla manifestazione –. Prima erano i fossili, ora sono le rinnovabili. Quello che sta accadendo oggi in Sardegna è frutto di una storia lunga decenni. I comitati devono essere cani da guardia nei confronti delle decisioni anche del governo regionale. Non vogliamo che tutto sia deciso dalle multinazionali». Il riferimento è all’incontro avvenuto quattro giorni fa con la governatrice della Sardegna Alessandra Todde, durato circa tre ore. «Abbiamo senz’altro apprezzato l’apertura, la disponibilità e il clima colloquiale e disteso», ha dichiarato Pisci, riferendo che restano però aperte «molte questioni che i territori vivono con apprensione», tra cui il tetto minimo di 6,2 gigawatt stabilito in sede di accordo col Mase, reputato «una base di partenza svantaggiosa ingiusta e un vero e proprio handicap per la Sardegna», le «misure normative per impedire lo sfregio di Barumini e Saccargia» e la «delicata questione del Tyrrhenian Link», doppio cavo sottomarino che Terna sta progettando e iniziando a costruire, con l’obiettivo di unire Sardegna, Sicilia e Campania e trasportare energia elettrica nella penisola.

Negli ultimi anni, la popolazione sarda è in lotta per la tutela del patrimonio paesaggistico e naturale dell’isola contro quella che è una vera e propria “invasione” di pale eoliche e di distese di pannelli fotovoltaici. In Sardegna sono infatti state presentate 809 richieste di allaccio di impianti di produzione di energia rinnovabile alla rete elettrica nazionale che, in caso di semaforo verde, produrrebbero 57,67 Gigawatt di potenza, coprendo di fatto tutti i quadranti dell’isola, comprese vaste aree costiere. Il Centro Studi Agricoli ha lanciato l’allarme, denunciando che ben 200mila ettari rischiano di essere compromessi. A fine aprile è emerso che la più grande fabbrica di pannelli fotovoltaici della Repubblica Popolare cinese, la Chint, si è accaparrata dall’azienda spagnola Enersid il più importante progetto solare mai concepito a livello europeo, allungando i suoi tentacoli su mille ettari di terreni nel nord della Sardegna. Solo pochi giorni dopo, Alessandra Todde – presidente della Regione Sardegna dalla tornata elettorale di marzo – ha approvato un disegno di legge che introduce il divieto di realizzare nuovi impianti di produzione e accumulo di energia elettrica da fonti rinnovabili che causano direttamente nuova occupazione di suolo per 18 mesi. Ma per i comitati non basta. E la battaglia prosegue.

[di Stefano Baudino]

Le guerre di cui non si parla ci aiutano a capire il risiko globale (Monthly Report)

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Da due anni a questa parte, l’invasione russa in Ucraina e l’aggressione israeliana in Palestina occupano uno spazio centrale su qualsivoglia mezzo di informazione, costituendo il fulcro di dibattiti politici, articoli giornalistici, approfondimenti di ogni sorta e (improbabili) scambi di opinionisti. L’attenzione globale ruota intorno a queste due zone di conflitto, le quali, tuttavia, costituiscono solamente una percentuale residua dei conflitti attualmente in atto nel mondo. Dallo Yemen al Messico, passando per la Birmania, la Siria, la Repubblica Democratica del Congo e molti altri Paesi, sono decine i conflitti “dimenticati” o dai quali, per una moltitudine di ragioni differenti, si distoglie lo sguardo. E nei quali, spesso, l’Italia gioca un ruolo tutt’altro che marginale. Proprio questi costituiscono i temi del nuovo numero del Monthly Report, il mensile de L’Indipendente nel quale trattiamo argomenti che riteniamo non sufficientemente approfonditi dall’informazione mainstream.

Il numero è disponibile in formato digitale e cartaceo per gli abbonati (qui tutte le info per abbonarsi) ed ora anche per i non abbonati (a questo link).

L’editoriale del nuovo numero: Le tessere della guerra mondiale a pezzi

Birmania, Siria, Palestina, Messico, Nigeria, Brasile, Colombia, Haiti, Yemen, Sudan, Repubblica Democratica del Congo. Questi sono, in ordine, gli undici conflitti più gravi attualmente in corso nel mondo classificati secondo i quattro parametri di mortalità, pericolo, diffusione e frammentazione. Escludendo il massacro in corso in Palestina, di certo questa lista stupirà molti lettori. Alcuni sono conflitti che non vengono mai trattati sui media; per altri, come quelli in Siria e Yemen, molti di noi pensano siano quasi relegati al passato; altri ancora riguardano Paesi che nessuno crede siano in guerra, come il Brasile e la Colombia. E poi non può che balzare agli occhi una rumorosa assenza: il conflitto di cui si parla ininterrottamente da oltre due anni, quello in Ucraina, che non è tra i più gravi del mondo, collocandosi al tredicesimo posto.

L’informazione dominante, al solito, non aiuta a fare un quadro realistico della situazione. Per questo il nuovo numero del Monthly Report è dedicato a conflitti di cui non si parla. Un numero non solo doveroso per accendere il faro dell’informazione su questi teatri di guerra devastanti per milioni di civili, che non hanno la fortuna di godere di attenzione mediatica e quindi del flusso di aiuti umanitari che spesso (parliamo anche di questo) si muovono seguendo la “popolarità” di un conflitto. Ognuno di questi conflitti, infatti, se analizzato, ci permette di comprendere di più sul mondo intero. Yemen e Siria sono tutt’ora tessere essenziali per comporre il puzzle di quella “guerra mondiale a pezzi”, che vede grandi e medie potenze confrontarsi per procura. La situazione in Repubblica Democratica del Congo, un Paese enorme e potenzialmente ricchissimo dove centinaia di milizie depredano il territorio delle sue risorse minerarie provocando violenze ed emigrazioni di massa, è invece cartina di tornasole di un modello di sviluppo capitalistico che ancora rifiuta di valutare le conseguenze delle proprie azioni, chiudendo entrambi gli occhi di fronte al fatto che quelle stesse risorse derubate vengono acquistate dalle grandi aziende occidentali e asiatiche e poi finiscono tra le mani di tutti noi, come elementi base di ogni dispositivo elettronico di consumo. La situazione del Messico (Paese in teoria in pace e democratico, in pratica il più pericoloso al mondo per i civili) è invece il risultato di un’ultradecennale “guerra alla droga” che altro non ha fatto se non servire i narcotrafficanti e gli interessi statunitensi, a danno della popolazione locale.

In questo gioco al massacro globale, purtroppo, l’Italia non è semplice spettatrice. Nonostante l’articolo 11 della nostra Costituzione prescriva al nostro Paese di «ripudiare la guerra», i soldati italiani sono presenti in numerosi conflitti e ancor di più lo sono le nostre armi, prodotte in larga parte dall’azienda di Stato Leonardo Spa. Un capitolo complesso che abbiamo analizzato in una inchiesta intitolata I reali numeri sul coinvolgimento dell’Italia nelle guerre in giro per il mondo, ricostruendo come sarebbero almeno 11.166 i militari italiani impegnati in teatri di guerra all’estero, che costano ai cittadini italiani 1,82 miliardi per il solo anno 2024. Missioni che in base alla neolingua politica vengono ribattezzate di volta in volta di «costruzione», «mantenimento» o «imposizione» della pace, ma che vengono condotte armi in pugno.

L’indice del nuovo numero

  • Conflict Index: i sorprendenti risultati del rapporto globale sui conflitti
  • La guerra come mito
  • Siria e Yemen: due guerre per procura tutt’altro che finite
  • Repubblica Democratica del Congo: il saccheggio infinito che nessuno vuole fermare
  • Messico: lo Stato ufficialmente in pace dove muoiono più civili che in ogni conflitto
  • Birmania: il Paese che non è mai uscito dalla guerra civile
  • Non solo Palestina: gli altri etnocidi fuori dai radar mediatici
  • I reali numeri sul coinvolgimento dell’Italia nelle guerre in giro per il mondo
  • Perché i media parlano solo di alcune guerre
  • Ottenere la pace preparando la pace: l’esperienza della Comunità di Sant’Egidio
  • Come ci siamo abituati alla guerra totale, un concetto che non esisteva

Il mensile, in formato PDF, può essere acquistato (o direttamente scaricato dagli abbonati) a questo link: https://www.lindipendente.online/monthly-report/

Israele: Netanyahu scioglie il gabinetto di guerra

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Secondo quanto riportato dai media israeliani, che citano dichiarazioni di ufficiali di governo, Netanyahu avrebbe sciolto il gabinetto di guerra, decisione presa a seguito dell’uscita dall’organo di governo del generale Benny Gantz. La decisione sarebbe stata presa domenica sera nel corso del Gabinetto di sicurezza politico, ma annunciata solamente questa mattina. Secondo quanto riferito dai media, Netanyahu non creerà un nuovo gabinetto, come richiesto dai leader dell’ultradestra Smotrich e Ben Gvir. Entrambe avevano infatti richiesto di essere inclusi in un nuovo gabinetto, mossa che avrebbe alimentato le tensioni con i partner internazionali, come gli USA.

Comunque andranno a finire le elezioni francesi hanno già provocato un cambiamento

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A una settimana dalla chiusura delle elezioni europee la situazione politica in Francia è in subbuglio. Dopo la fragorosa sconfitta patita alle urne, il presidente Emmanuel Macron ha sciolto il parlamento e proclamato nuove elezioni che si terranno in due turni, il 30 giugno e il 7 luglio. Il destino del parlamento appare quanto mai incerto: la destra del Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen risulta infatti il primo partito del Paese, ma dall’altro estremo delle aule parlamentari, la sinistra ha deciso di riunirsi costituendo il Nuovo Fronte Popolare, che a conti fatti si giocherà il primato alle urne con la controparte di destra. Con l’europeismo di Macron stretto nel mezzo e in posizione di minoranza, quindi, il prossimo voto francese potrebbe portare uno scossone con ampie conseguenze su tutto il continente europeo. La Francia sarà infatti il primo Paese di grandi dimensioni dove a giocarsi la vittoria saranno due poli contrapposti, di destra e di sinistra, entrambi guidati dalle proprie ali più radicali. Da una parte la leadership conservatrice ed euroscettica di Le Pen, dall’altra la sinistra contro i vincoli di bilancio, filopalestinese e per la pace in Ucraina di Jean-Luc Melenchon. Una sfida che certamente sarà attenzionata con un certa dose di terrore politico dalle parti della Commissione Europea.

La destra

Marine Le Pen (RN) ed Eric Ciotti (LR)

Le prossime elezioni legislative in Francia si terranno il 30 giugno e il 7 luglio (il sistema elettorale francese è infatti a due turni). Data la situazione di frenesia in cui versa Parigi in questo momento, non è possibile determinare chi vincerà; le opzioni più papabili, però, parrebbero due: l’ultradestra o la sinistra radicale. Una lotta fra estremi, insomma, che in ogni caso porterebbe a uno sconvolgimento del Paese. Per quanto concerne il fronte di destra, quello di Marine Le Pen è indubbiamente il primo partito del Paese, e il risultato di schiacciante vittoria delle europee (in cui ha preso il 31,37% dei voti), ne è una testimonianza. L’estrema destra non è mai riuscita a salire al governo in Francia, ed è sempre stata marginalizzata dalle forze di centro. A questo giro, però, il RN ha visto un avvicinamento da parte Segretario del Partito Repubblicano Eric Ciotti. I Repubblicani sono sempre stati lontani dai partiti di ultradestra per via della loro ispirazione di stampo gollista.

Martedì Ciotti, ha dichiarato in una intervista di avere intenzione di aprire un dialogo con la destra di Le Pen, scatenando l’ira del proprio partito, con il quale non si era precedentemente consultato: per tale motivo, mercoledì gli organi di partito hanno indetto una riunione costellata da a tratti grotteschi episodi di boicottaggio da parte dello stesso Ciotti, il quale ha chiuso la sede del partito per evitare che i membri collegiali si incontrassero; la riunione si è tenuta comunque, proprio nella stessa sede, riaperta dalla segretaria generale, e in seguito a essa Ciotti è stato addirittura cacciato dagli organi di LR. Il giorno dopo la decisione dei vertici, però, Ciotti si è comunque presentato presso la sede del partito per andare in quello che egli definiva ancora «il suo ufficio», e ha presentato un esposto in tribunale, che ha deciso per un iniziale reintegro. A ora la situazione nel fronte repubblicano risulta ancora spaccata a metà: Ciotti ha detto che presenterà una lista di candidati in linea con le sue idee, mentre il partito ha dichiarato che le liste dei candidati che presenterà saranno diverse da quelle di Ciotti.

La sinistra

Jean-Luc Melenchon il leader di France Insoumise

Il motivo per cui la destra gollista di LR si è spaccata dietro le dichiarazioni di Ciotti va ricercato anche nell’unione dei partiti della sinistra radicale annunciata il 10 giugno dal leader del partito La France Insoumise, Jean-Luc Melenchon. Questa era stata chiamata dal parlamentare dello stesso gruppo Francois Ruffin, che il 9 giugno ha lanciato, sulla scorta delle ultime legislative, un appello per riunire i partiti di sinistra – ossia la stessa France Insoumise, socialisti, comunisti ed ecologisti – sotto un’unica coalizione, in sole 24 ore firmato da 400.000 persone. Alle ultime legislative, la stessa coalizione è arrivata seconda per seggi in parlamento, mentre giusto il 9 giugno, presi tutti insieme, i singoli partiti alle europee hanno ottenuto il 31,58% delle preferenze. I problemi interni al Nuovo Fronte Popolare sono molteplici e sono dovuti alle discordanze di vedute interne nella sinistra francese, che già hanno contribuito a spaccare la coalizione dopo le ultime legislative. Ma è chiaro che alla guida della coalizione, in termini numerici di candidati presenti nei collegi e peso elettorale, sarà appunto il movimento di sinistra radicale di Melenchon, che nel proprio programma ha la ridiscussione dei vincoli di bilancio imposti da Bruxelles, la tassazione dei grandi profitti, il rilancio della sanità pubblica e dello stato sociale, nonché il riconoscimento dello Stato di Palestina, l’appoggio francese alla causa intentata alla Corte Internazionale contro Israele e la pace in Ucraina. Insomma, anche la vittoria della sinistra francese, vista da Bruxelles, sarebbe un duro colpo per gli equilibri che regolano il Vecchio Continente.

Il Centro e le altre opzioni

Emmanuel Macron

Una terza, ma decisamente più improbabile, opzione è quella che si costituiscano gli spazi per tirare su un’alleanza tra centro-destra gollista e centro macroniano, che tuttavia, vista la scissione interna a LR è ancora più difficile che si verifichi di quanto già non lo fosse prima delle europee. Altro scenario è quello messa in campo dallo stesso Macron, che intenderebbe costituire una sorta di larga intesa che renda conto della presenza di destra e sinistra radicali; questa, va sottolineato, avrebbe spazio solo se il vincitore delle elezioni (che sia Le Pen, o il Nuovo Fronte Nazionale) non riuscisse a trovare i numeri necessari – neanche a fronte delle dovute alleanze – per formare una maggioranza governativa. Inoltre, è importante rilevare come anche se dovesse costituirsi un governo largo, questo dovrebbe in ogni caso essere a guida della coalizione di maggioranza, che quindi finirebbe lo stesso per controllare l’esecutivo. Qualsiasi scenario si verifichi, insomma, le opzioni in campo per ora sembrerebbero solo due: o vince la destra, o vince la sinistra. E se Macron non ha davvero intenzione di dimettersi si costituirà quella che in Francia viene definita “coabitazione”, ossia quella situazione in cui il Presidente proviene da un’ala politica, e l’esecutivo da un’altra. Lo stesso Macron, però, ne uscirebbe decisamente ridimensionato.

[di Dario Lucisano]

Incendi in California: 1200 persone evacuate

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Nel sud della California almeno 1200 persone sono state costrette ad evacuare dopo che un incendio è divampato nei pressi della superstrada Interstate 5, a Gorman, un centinaio di km a nord-ovest di Los Angeles. Il Dipartimento della Forestale ha riferito che oltre 6 mila ettari di terreno sono andati in fiamme, mentre sono stati danneggiati alcuni edifici commerciali. A complicare le operazioni di spegnimento sono i venti, che soffiano a 80 km orari, fattore che sta già portando all’attivazione di diversi altri focolai nella zona.

Burkina Faso, Al Qaeda rivendica attacco in cui sono morte 100 persone

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Il gruppo terroristico Al Qaeda ha rivendicato un attacco verificatosi lunedì nel Burkina Faso, in seguito a cui erano stati uccisi 100 soldati. La notizia è stata rilasciata oggi dal SITE Intelligence Group, un gruppo che tra le altre cose monitora l’attività online delle organizzazioni jihadiste. L’attacco era stato precedentemente confermata dall’Unione Europea, che aveva rilasciato un comunicato in cui annunciava la morte di 100 persone presso il villaggio di Zaongo, nella regione centro-settentrionale del Paese. Il Burkina Faso, come molti Paesi del Sahel è teatro di numerosi attacchi da parte di movimenti islamisti, che spesso portano a scontri violenti e assalti nei villaggi.

Decreto Caivano: se anche il disagio giovanile si riduce a un tema di ordine pubblico

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Sull’onda emotiva scatenata dallo stupro di due bambine di 10 e 12 anni nel Comune di Caivano (Napoli), il governo varò il cosiddetto "Decreto Caivano", poi convertito in legge lo scorso novembre. Ad alcuni mesi di distanza è possibile fare un'analisi dei risultati prodotti da una norma che, come spesso accade, approvata sull'onda di un grave fatto di cronaca, conteneva al suo interno diverse misure che sono andate a modificare profondamente l'azione dello Stato e della legge su temi importanti come il disagio giovanile e la dispersione scolastica. In particolare il "decreto Caivano" è interve...

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