venerdì 5 Dicembre 2025
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La sonda Parker ha prodotto le immagini più ravvicinate del Sole mai realizzate

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È la visione più vicina che l’umanità abbia mai avuto del Sole, ed è stata resa possibile dal veicolo che ha sfrecciato alla più alta velocità mai registrata per un oggetto costruito dall’uomo: a soli 6,2 milioni di chilometri dalla sua superficie, la sonda Parker ha catturato immagini record e notevolmente più dettagliate di ogni osservazione precedente dell’atmosfera solare. Lo rivelano direttamente gli esperti della NASA, aggiungendo che le nuove riprese mostrano con straordinaria nitidezza il vento solare – il flusso di particelle cariche che si propaga in tutto il Sistema solare – e la collisione di multiple espulsioni di massa coronale, eventi chiave nella genesi del cosiddetto meteo spaziale. «Stiamo assistendo all’insorgere delle minacce del meteo spaziale per la Terra, con i nostri occhi, non solo con i modelli», commenta l’esperta e dirigente NASA Nicky Fox, aggiungendo che, secondo gli scienziati, i dati ottenuti potranno migliorare le previsioni sui fenomeni che influenzano la nostra tecnologia e la sicurezza degli astronauti, ma anche risolvere alcuni enigmi decennali sulle origini del vento solare.

Il vento solare è una corrente invisibile ma cruciale: fatto di particelle subatomiche elettricamente cariche, si diffonde nello spazio a velocità che superano 1,6 milioni di chilometri l’ora, influenzando le comunicazioni sulla Terra, causando aurore e danneggiando satelliti. Il fenomeno era già stato ipotizzato nel 1958 dall’astrofisico Eugene Parker – a cui è intitolata la sonda – ma per oltre mezzo secolo lo studio è stato limitato a osservazioni indirette o da grandi distanze. Con il lancio della Parker Solar Probe nel 2018, la NASA ha iniziato un’osservazione diretta e ravvicinata: equipaggiata con lo strumento Wispr (Wide-Field Imager for Solar Probe), la sonda ha attraversato più volte la corona, l’atmosfera esterna del Sole, raccogliendo dati ad altissima risoluzione che permettono oggi di analizzare fenomeni finora sfuggenti: dalla collisione delle espulsioni di massa coronale (CME) alla struttura dei campi magnetici solari. I ricercatori, inoltre, stanno anche studiando le origini delle diverse tipologie di vento solare, sia per quanto riguarda quello veloce, più stabile, sia per quello lento, più denso e variabile, che si pensa possa derivare da zone diverse della superficie solare.

Era noto che durante il suo passaggio record del 24 dicembre 2024, la Parker Solar Probe ha volato a soli 6 milioni di chilometri dal Sole. Mancavano però solo le straordinarie immagini raccolte in quella occasione, le quali mostrano, per la prima volta in alta risoluzione, la collisione tra diverse CME che si «accumulano praticamente una sull’altra», come spiega Angelos Vourlidas del Johns Hopkins Applied Physics Laboratory. La fusione di questi eventi, continua, può modificare la traiettoria delle particelle e rafforzarne l’intensità, rendendo quindi più difficili le previsioni e più gravi gli effetti sulla Terra. Le nuove immagini, inoltre, mostrano anche lo strato di corrente eliosferica, ovvero un confine magnetico dove la polarità del campo solare si inverte. Secondo Nour Rawafi, responsabile scientifico del progetto, i dati sono fondamentali per capire «come viene generato il vento solare e come riesce a sfuggire all’immensa attrazione gravitazionale del Sole». Per quanto riguarda i primi risultati preliminari, la sonda ha già confermato l’esistenza di due forme di vento solare lento – che differiscono nella struttura del campo magnetico – e sta ora aiutando gli scienziati a identificarne con precisione l’origine: si ipotizza che il vento alfvénico provenga da buchi coronali – regioni fredde e scure – mentre quello non-alfvénico potrebbe formarsi in strutture ad anello chiamate “casual streamer”. La prossima finestra di osservazione – prevista per il 15 settembre 2025 – offrirà ulteriori dati per verificare queste ipotesi. «Non abbiamo ancora raggiunto un consenso definitivo ma abbiamo un sacco di nuovi dati interessanti», conclude Adam Szabo della NASA, aggiungendo che d’altra parte, però, l’esplorazione del Sole sta portando la ricerca a livelli mai raggiunti prima.

La Francia introduce misure per contrastare il fast fashion

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Il fenomeno del fast fashion (letteralmente, la “moda veloce”) è in gran parte responsabile dell’aumento del consumo di capi di abbigliamento usa e getta. Una crescita costante, diffusa in tutto il mondo, che desta sospetti e preoccupazioni, ma per la quale nessuno sembra prendere misure concrete per contrastarla. A parte la Francia, che recentemente ha messo in atto iniziative più severe per contrastare questo fenomeno, dopo che già lo scorso anno aveva introdotto misure per incentivare la riparazione e disincentivare gli acquisti compulsivi. Tra il 2010 e il 2023, infatti, i capi immessi sul mercato in territorio francese sono aumentati da 2,3 a 3,2 miliardi (+39%), pari a oltre 48 articoli a testa in più all’anno (di cui 35 vengono buttati, secondo l’agenzia ambientale Ademe).

Approvata il 10 giugno con una quasi totalità di voti (337 favorevoli e solo 1 contrario), la legge contro il fast fashion prende di mira i produttori di moda veloce, ovvero coloro che mettono in atto pratiche industriali e commerciali caratterizzate dalla riduzione del ciclo di vita dei capi di abbigliamento (obsolescenza programmata e scarsa qualità), da una produzione di massa (tantissimi modelli in colori e taglie differenti) e dallo scarso o nullo incentivo alla riparazione dei prodotti. Praticamente il 90% delle aziende di moda rientra in questa definizione, ma in questo caso l’attenzione dei legislatori francesi si è concentrata soprattutto sui giganti dell’ultra fast fashion, Shein e Temu, lasciando volutamente fuori aziende europee come Zara, H&M e Kiabi – una mossa che ha indignato diversi gruppi ambientalisti, tra cui Friends of the Earth.

Le aziende che rientreranno nei parametri definiti dalla legge – che saranno ulteriormente dettagliati in un apposito decreto – saranno obbligate a sensibilizzare i clienti sull’impatto ambientale dei prodotti venduti, promuovendo al contempo pratiche di riparazione e riciclo. A questi obblighi si aggiunge una tassa per i prodotti ritenuti “meno sostenibili”: si parte da un massimo di 5 euro ad articolo, che potrà salire a 10 euro entro il 2030, ma non potrà mai superare il 50% del prezzo di vendita. Considerando che moltissimi articoli vengono venduti tra i 2 e i 5 euro, l’efficacia di questa tassa resta dubbia: dissuasiva, sì, ma con un impatto economico potenzialmente minimo per le aziende coinvolte.

Un’altra novità riguarda l’introduzione di un eco-punteggio, assegnato in base a parametri ambientali come il consumo di acqua, le emissioni di CO₂, gli effetti sulla biodiversità, ecc. Anche se non ancora obbligatorio, è già disponibile uno strumento chiamato Ecobalyse, in grado di calcolare l’impatto ambientale in forma numerica, da 1 a infinito. Il sistema, entrato in vigore questo mese, è per ora volontario, ma i brand sono caldamente invitati a utilizzarlo: in caso contrario, potranno essere valutati da enti esterni.

Il punto più controverso della legge riguarda però la comunicazione. Rivenditori come Shein e Temu, privi di una presenza fisica capillare, hanno costruito il loro successo principalmente grazie alla pubblicità sui media e, soprattutto, alla promozione da parte di influencer sui social media. Ma il fast fashion, al pari di alcol e sigarette, nuoce all’ambiente (e quindi anche alla salute), e per questo motivo non potrà più essere pubblicizzato. Per ogni infrazione è prevista una multa fino a 100.000 euro.

Tempi duri, quindi, per quegli influencer che si sono arricchiti promuovendo la moda ultra veloce attraverso contenuti su Instagram, TikTok e altre piattaforme. Mostrare quotidianamente acquisti, normalizzare il cambio d’abito giornaliero, spingere a comprare compulsivamente non sono semplici contenuti, ma atti che hanno conseguenze ambientali e sociali significative. Anche gli influencer finiscono dunque nel mirino della legge, perché non sono solo “persone”, ma veri e propri generatori di tendenze. Promuovere abiti venduti a 5 euro, prodotti in condizioni di lavoro discutibili e con materiali scadenti, è una forma di manipolazione della domanda che alimenta la cultura dell’usa e getta. La visibilità non è neutra: è responsabilità. Chi crea contenuti è responsabile dei messaggi che trasmette al proprio pubblico, grande o piccolo che sia.

Per questo, la legge vieta pubblicità e post sponsorizzati per marchi di ultra fast fashion, campagne di influencer marketing o link di affiliazione verso i marchi vietati, e qualsiasi sponsorizzazione rivolta a minori o bambini. Anche contenuti non sponsorizzati potranno essere oscurati o penalizzati se ritenuti idonei ad aumentare la visibilità dei marchi incriminati. Limitando pubblicità e contenuti social, la Francia spera di rallentare il sovraconsumo.

La legge rappresenta un passo avanti nella lotta contro l’impatto ambientale ed economico del fast fashion, ed è un chiaro monito per aziende e consumatori. Tuttavia, il fatto che la normativa si concentri quasi esclusivamente su due marchi, escludendo numerose aziende europee con responsabilità simili, è un’occasione persa. Il protezionismo sembra aver prevalso sull’ambizione di guidare l’intero settore verso pratiche più sostenibili. Chissà che questa legge non serva comunque da stimolo per iniziative più ampie, coerenti e condivise in tutta Europa, e non solo.

L’UE ha scelto di non sanzionare Israele nonostante il genocidio in corso in Palestina

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Nonostante le gravi violazioni dei diritti umani e i continui attacchi ai civili, i ministri degli Affari esteri, riunitisi ieri a Bruxelles per l’ultimo Consiglio prima della pausa estiva, hanno deciso di non sanzionare lo Stato ebraico, affermando di accogliere con favore i «segnali positivi» che arrivano dalla Striscia di Gaza, tra cui il massiccio ingresso di aiuti umanitari nell’enclave palestinese. «Vediamo entrare più camion e rifornimenti, più varchi aperti e riparazioni alle linee elettriche» ha affermato l’Alta rappresentante dell’UE per gli Affari esteri, Kaja Kallas, aggiungendo che «Non è chiaramente abbastanza, l’Ue continuerà a seguire da vicino l’attuazione di questo accordo comune e fornirà aggiornamenti ogni due settimane». Bruxelles è riuscita così a salvare Tel Aviv e i preziosi accordi economico-commerciali che intrattiene con lo Stato ebraico grazie a un ampio accordo risalente al 1995. Dal canto suo, Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty International, ha asserito che «Il rifiuto dell’UE di sospendere l’accordo con Israele è un tradimento crudele e illegale» e che il voto dei 27 ministri degli Esteri «sarà ricordato come uno dei momenti più vergognosi nella storia dell’UE».

L’ipotesi di sanzionare Israele era emersa lo scorso giugno proprio in seguito alla revisione dell’Accordo di associazione Ue-Israele che aveva certificato le violazioni da parte israeliana: il Servizio europeo di azione esterna (Seae), infatti, aveva constatato che «vi sono indicazioni che Israele violerebbe i propri obblighi in materia di diritti umani ai sensi dell’articolo 2 dell’accordo di associazione Ue-Israele». Lo Stato ebraico avrebbe trasgredito le norme sui diritti umani innumerevoli volte dall’inizio della campagna militare a Gaza: gli ultimi episodi riguardano la violazione del cessate il fuoco il 18 marzo, il prolungato assedio alla popolazione della Striscia, oltre che gli insediamenti illegali in Cisgiordania. Ma anche l’uccisione dei palestinesi durante la distribuzione del cibo e l’assassinio intenzionale di giornalisti e operatori umanitari. Nonostante ciò, Bruxelles ha deciso di non sanzionare Israele, in cambio di un accordo che prevede che gli aiuti su larga scala siano forniti direttamente alla popolazione – tagliando fuori la controversa Gaza Humanitarian Foundation – e un aumento sostanziale del numero di camion giornalieri per il trasporto di generi alimentari e di prima necessità. Intanto, però, le forze israeliane hanno continuato a uccidere decine di civili palestinesi.

Le sanzioni sono state sostenute soprattutto dai rappresentanti di Spagna, Irlanda e Slovenia, mentre gli altri Paesi dell’Ue hanno voluto rimandare ogni decisione. Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, già a giugno aveva sottolineato che quella dell’Italia è una posizione diversa da quella della Spagna: «per noi è fondamentale avere un dialogo con Israele» aveva affermato, aggiungendo che «Avendo un dialogo aperto si possono avere dei risultati» e che «le scelte velleitarie non servono a nulla e sono finalizzate magari alla politica interna dei Paesi». Inequivocabile, dunque, la posizione dell’Italia accanto allo Stato ebraico, nonostante le comprovate violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale, accertate da organizzazioni e tribunali internazionali e documentate dai giornalisti locali, sebbene Israele abbia ridotto al minimo l’accesso dei reporter alle zone devastate dalla guerra.

L’esito del voto dei 27 ministri degli Esteri europei appariva scontato allo stesso ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, ieri sera a Bruxelles per un vertice dei Paesi del Mediterraneo. Sa’ar è stato in grado di predire che «nessuna delle 10 proposte contenuta nel rapporto sarà applicata dai 27 Stati membri domani» confermando la profonda influenza che lo Stato ebraico esercita sui Paesi dell’Unione. Da parte sua, la Kallas si è limitata vagamente ad assicurare che «tutte le opzioni sono sul tavolo e che se la situazione non migliora potremo usarle». Rispetto a questo approccio che cerca di salvare l’immagine dell’Ue di fronte all’opinione pubblica, la segretaria generale di Amnesty International ha sottolineato che «I leader europei hanno avuto l’opportunità di prendere una posizione di principio contro i crimini di Israele, ma gli hanno invece dato il via libera per continuare il suo genocidio a Gaza, l’occupazione illegale dell’intero Territorio Palestinese Occupato (TPO) e il suo sistema di apartheid contro i palestinesi», definendo tutto questo «più che codardia politica».

L’atteggiamento e i toni verso Israele sono molto diversi rispetto a quelli decisi e perentori che Bruxelles assume nei confronti di altre nazioni come la Russia e l’Iran, confermando così l’adozione di doppi standard di valutazione da parte dei funzionari e dei ministri europei, dettati da interessi politici e commerciali. La prossima riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue sarà solamente ad ottobre, tra più di due mesi. Nel frattempo, Israele potrebbe continuare a violare le più basilari norme del diritto internazionale senza conseguenze e conservando le sue vantaggiose relazioni commerciali e diplomatiche con le nazioni dell’UE.

 

Etiopia, arrestati 82 sospetti militanti islamisti

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L’Etiopia ha arrestato 82 presunti militanti di gruppi islamisti, che sarebbero stati addestrati e schierati per compiere operazioni in tutto il Paese. Le persone arrestate sono sospettate di fare parte di un gruppo somalo affiliato a Daesh, che opera nella regione semi-autonoma del Puntland. Secondo delle stime, in Somalia sarebbe presente un numero compreso tra i 700 e i 1.500 militanti affiliati allo Stato Islamico, e la presenza del gruppo sarebbe cresciuta negli ultimi anni grazie all’afflusso di combattenti stranieri e all’aumento delle entrate.

Prima regolarizzati, poi licenziati: gli operai di Forlì bloccano di nuovo l’azienda

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Lavoravano 12 ore al giorno per 6 giorni alla settimana, sottopagati e costretti a dormire nello stesso magazzino in cui producevano divani per conto della loro ditta madre, la Gruppo 8, una delle maggiori aziende operanti nel “Distretto dell’imbottito” di Forlì. A dicembre, dopo una settimana di proteste trascorsa dormendo al freddo davanti ai cancelli, erano riusciti a ottenere condizioni di lavoro accettabili: 8 ore al giorno per 5 giorni alla settimana, un contratto stabile e una sistemazione in albergo in attesa di trovare casa. Ma quel “sogno”, se così si può chiamare, è durato poco: appena terminate le ultime consegne, sono stati tutti licenziati in tronco.

Parliamo della difficile, e per molti aspetti esemplare, situazione di un gruppo di operai pakistani che lo scorso anno si erano trasferiti da Prato in Romagna per lavorare alla Sofalegname, azienda che produce in subappalto per la Gruppo 8. Dopo pochi mesi dall’accordo raggiunto con i lavoratori, l’azienda ha sospeso la produzione: «Il 3 luglio l’azienda ci ha comunicato che lo stabilimento sarebbe stato smantellato – spiega a L’Indipendente Sarah Caudiero del sindacato Sudd Cobas –. Nel frattempo è partito un procedimento per delocalizzare la produzione in Cina».

A quel punto gli operai sono tornati a manifestare davanti ai cancelli, questa volta sotto il sole torrido di luglio. Hanno montato tende e, da oltre quindici giorni, presidiano l’ingresso della sede madre, la Gruppo 8: gli altri lavoratori possono entrare, ma i camion no. Di fatto, ogni ingresso e uscita di materiali è bloccato: «Stanno causando un danno economico da mezzo milione di euro», ha commentato l’avvocato della ditta, Massimiliano Pompignoli. «Tengono in ostaggio la produzione».

Lunedì scorso, i manifestanti, seduti a terra per impedire il passaggio di un mezzo pesante, sono stati sgomberati con la forza dalla polizia

Con il passare dei giorni, la situazione è diventata sempre più tesa, fino a degenerare lunedì scorso, quando i manifestanti – seduti a terra per impedire il passaggio di un mezzo pesante – sono stati sgomberati con la forza dalla polizia. Nei video diffusi dal sindacato si vedono gli agenti strattonare e gettare a terra con violenza i contestatori: tre operai sono finiti in ospedale per le ferite riportate. «Il messaggio che passa è che le aziende possono fare ciò che vogliono», commenta ancora Caudiero. «Se c’è uno sciopero, interviene la polizia per liberarle del problema».

Lo sciopero, però, non si è fermato. Il giorno successivo gli operai erano di nuovo davanti ai cancelli. Sugli striscioni appesi ai loro tendoni improvvisati si legge: «Vogliamo i nostri diritti 8×5» e «la Gruppo 8 sfrutta e scappa».

«La dinamica è chiara» – continua Caudiero – «C’è una società vuota, la Sofalegname, in cui un caporale ha reclutato persone per tenerle in condizioni di semi-schiavitù. Quando l’azienda è stata costretta a regolarizzare la loro posizione, si è deciso di chiudere lo stabilimento»

Una forma di sfruttamento alla luce del sole, ben conosciuta dai sindacalisti di Sì Cobas, attivi da anni a Prato. In quella città, gli alloggi di fortuna ricavati dentro le fabbriche per gli operai cinesi erano una prassi fino al 2013, quando un incendio alla ditta tessile Teresa Moda causò la morte di otto persone sorprese nel sonno. Per quella tragedia le due titolari sono state condannate, ma nel frattempo sono tornate in Cina. Anche la Gruppo 8 di Forlì ha legami con la Cina: fa capo alla multinazionale della moda HTL, con sede a Singapore. «Queste aziende vengono in Italia per vantarsi del Made in Italy, ma vogliono trovare le regole di altri Paesi. Quando capiscono di dover rispettare le leggi italiane, se ne vanno», afferma Caudiero.

Anche a Prato, Sudd Cobas ha vissuto una stagione di lotte. Nella scorsa primavera si sono contati oltre 70 scioperi e, a ottobre, tremila persone sono scese in piazza dopo le aggressioni subite da alcuni operai durante un presidio. Le proteste hanno però portato anche a risultati concreti: «In molte situazioni siamo riusciti a ottenere contratti regolari e condizioni di lavoro dignitose – conclude Caudiero –. Tutte cose che dovrebbero essere la normalità, ma che invece dobbiamo ancora lottare ogni giorno per difendere».

Ed è proprio questo che stanno facendo oggi, di nuovo, i lavoratori della Sofalegname. Quegli stessi operai che pochi mesi fa credevano di aver trovato una vita migliore, ora resistono sotto il sole, chiedendo solo ciò che in qualsiasi posto di lavoro dovrebbe essere scontato: rispetto, legalità e diritti.

I membri della commissione d’inchiesta ONU per i territori palestinesi occupati si sono dimessi

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I tre membri della Commissione d’inchiesta ONU per i territori palestinesi Occupati hanno annunciato in blocco le loro dimissioni. Il gruppo è stato istituito nel 2021 per accertare i fatti che avvengono sul territorio palestinese e israeliano. Tra le motivazioni fornite dai singoli relatori, vi sono ragioni di età, questioni mediche, e «il peso di diversi altri impegni». Le dimissioni, che avranno effetto il prossimo novembre, sono arrivate in parallelo all’imposizione di sanzioni nei confronti della Relatrice Speciale per i territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese; la notizia del loro allontanamento dalla Commissione è passata in sordina sulla stampa internazionale, ma è stata accolta con piacere dai media e dai gruppi che ne contestavano l’operato, che vedono proprio nelle pressioni statunitensi le vere ragioni dietro le dimissioni: «La paura di dover rendere conto sta finalmente prendendo piede», ha detto Hilel Neuer, vertice di UN Watch, organizzazione spesso critica nei confronti delle voci che si battono per la Palestina; «Francesca Albanese era solo la punta dell’iceberg».

Le dimissioni dei membri della Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta per i Territori Palestinesi Occupati sono arrivate una di seguito all’altra a partire dallo scorso 8 luglio, ma sono state rese note solo una settimana dopo. La prima a presentare le proprie dimissioni è stata Navanethem Pillay, 83 anni, direttrice della Commissione. Nella breve lettera, Pillay spiega che le dimissioni arrivano «a causa dell’età, di problemi medici e del peso di diversi altri impegni» e che avranno effetto a partire dal 3 novembre. Alla lettera di Pillay è seguita, il 9 luglio, quella di Chris Sidoti, 74 anni, che sostiene che «il pensionamento del Presidente è il momento opportuno per ricostituire la Commissione», mostrandosi aperto a un eventuale riassegnazione dell’incarico. L’ultimo a rassegnare le proprie dimissioni è stato Miloon Kothari, 69 anni, già Relatore speciale ONU sul Diritto a un Alloggio Adeguato, che sostiene che la decisione segue una riunione della Commissione tenutasi la settimana precedente.

Le dimissioni della presidente del gruppo Pillay sono state rassegnate in parallelo all’imposizione di sanzioni alla Relatrice speciale Francesca Albanese, tanto che secondo i media israeliani e il gruppo UN Watch sarebbero da ricondurre proprio a queste, o più in generale alle pressioni statunitensi su coloro che perseguono i crimini di guerra israeliani. «UN Watch ha tracciato una linea diretta tra le ultime dimissioni e lo shock politico causato dalla decisione degli Stati Uniti di sanzionare Francesca Albanese», si legge nel comunicato del gruppo; malgrado le date non sembrino combaciare (le sanzioni ad Albanese sono state annunciate il 9 luglio, ma le dimissioni di Pillay sono state firmate l’8 luglio, e Kothari parla di una decisione raggiunta la settimana precedente), gli Stati Uniti stanno effettivamente aumentando la propria pressione a livello internazionale; le sanzioni ad Albanese sono infatti state precedute da analoghe misure contro quattro giudici della Corte Penale Internazionale, per le loro «azioni illegittime» contro Washington e Israele; le misure contro i giudici e Albanese, inoltre, si appoggiano a un decreto con cui Trump aveva aperto la strada alle sanzioni contro la Corte Penale Internazionale e coloro che collaborano con essa per perseguire i crimini israeliani. Il primo a essere colpito era stato il procuratore della CPI Karim Khan, che aveva chiesto l’emissione dei mandati di arresto internazionale contro Netanyahu e il suo ex ministro Gallant.

UE: la Slovacchia si oppone alle nuove sanzioni alla Russia

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La Slovacchia ha bloccato il nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia. La scelta di fermare l’approvazione del pacchetto arriva dopo una serie di falliti tentativi di negoziato tra Bratislava e Bruxelles su questioni legate al settore energetico. La diatriba è sorta in seguito alla proposta della Commissione di abbandonare completamente l’uso del gas russo entro il 2028; la Slovacchia dipende ancora dalle importazioni russe, e per questo a chiesto maggiori garanzie per non essere danneggiata dal piano della UE, minacciando di esercitare il veto sul prossimo pacchetto di sanzioni e rinviandone il voto.

In Spagna un tribunale ha stabilito che gli allevamenti intensivi violano i diritti umani

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Il Tribunale superiore di giustizia della Galizia ha emesso una sentenza storica, unica nel suo genere, che riconosce la violazione dei diritti umani da parte delle autorità regionali e statali spagnole per l’inquinamento provocato dagli allevamenti intensivi. La Corte ha in particolare stabilito che l'inquinamento, a danno di migliaia di residenti nella regione di A Limia, nel sud della Galizia, rappresenta una violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione spagnola e dal diritto europeo.
La Corte ha accertato che le istituzioni Xunta de Galicia e Autorità di bacino del fiume ...

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UE: sanzioni a individui iraniani

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L’UE ha imposto sanzioni a otto persone e a un’entità accusati dell’assassinio di dissidenti iraniani per conto del governo di Teheran. A dare la notizia è stato il Consiglio europeo, che ha spiegato che le sanzioni includono il congelamento dei beni e il divieto di viaggio. Il Consiglio ha inserito nell’elenco la Rete Zindashti, che definisce come un gruppo criminale collegato al Ministero dell’Intelligence e della Sicurezza iraniano, accusandolo di «atti di repressione transnazionale». Incluso anche il capo della Rete, Naji Ibrahim Sharifi-Zindashti, individuato come uno dei capi della criminalità organizzata legata al narcotraffico. Preso di mira anche Mohammed Ansari, capo di una unità legata ai pasdaran.

Sfruttamento e caporalato nella moda di lusso: Loro Piana in amministrazione giudiziaria

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Il marchio di abbigliamento di lusso Loro Piana è stato messo sotto amministrazione giudiziaria con l’accusa di avere subappaltato colposamente parte della propria produzione ad aziende che sfruttano i lavoratori. A chiedere e ottenere la misura di prevenzione è stata la Procura di Milano, impegnata in una più ampia indagine sullo stato di salute dei marchi di abbigliamento in Italia. Quella di Loro Piana è la quinta amministrazione giudiziaria che ha investito il settore tra il 2024 e il 2025. Gli altri brand di lusso coinvolti sono Alviero Martini, Armani Operations, Manufactures Dior e Valentino Bags Lab.

Loro Piana è un brand vercellese dell’abbigliamento di lusso specializzato in cashmere, parte del gruppo Moët Hennessy Louis Vuitton (LVMH). L’accusa mossa dalla Procura di Milano a Loro Piana è quella di aver instaurato rapporti stabili “con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori” e agevolato “colposamente” il caporalato cinese lungo la filiera della lavorazione del cashmere in Italia. In questo modo, vestiti venduti a migliaia di euro nei negozi Loro Piana nascondevano costi di lavorazione da circa un centinaio di euro, per un sistema di caporalato e sfruttamento a danno degli operai ricostruito dai carabinieri del Comando Tutela Lavoro. È emersa una catena di appalti e subappalti, con al vertice Loro Piana, impegnata nell’ideazione dei capi di abbigliamento. La realizzazione era affidata invece a Evergreen, una società con 7 operai e quasi nessun macchinario, che a sua volta si rivolgeva — come ricostruito dal filone giudiziario — alla Sor-Man, altra azienda italiana che subappaltava a due ditte cinesi: la Clover Moda e la Day Meiying. Secondo il Tribunale di Milano, queste ditte erano impostate su condizioni di lavoro illegali, tra evasione fiscale e contributiva e carenze nella sicurezza degli operai, sottopagati e “di fatto continuamente sorvegliati”. Inoltre, i consumi energetici delle ditte hanno rivelato che “il lavoro era svolto per tutto il giorno, indistintamente” compresi “sabati e domeniche ed i giorni festivi”.

Proprio il Tribunale di Milano ha accolto la richiesta della Procura e disposto per Loro Piana l’amministrazione giudiziaria, una misura preventiva, “volta non a punire l’imprenditore che sia intraneo all’associazione criminale, quanto a contrastare la contaminazione antigiuridica di imprese sane, sottoponendole a controllo giudiziario” — come spiegato dallo stesso Tribunale di Milano in una pronuncia recente. Mentre appaltatori e subappaltatori sono stati denunciati e multati, Loro Piana non risulta infatti indagata dai magistrati. Il brand di lusso vercellese, che conta all’attivo più di 2mila dipendenti e un fatturato da oltre 1,6 miliardi di euro, avrebbe comunque agevolato il sistema di sfruttamento e caporalato, ottenendo la massimizzazione dei profitti dall’abbattimento illegale dei costi di produzione. Pertanto, l’amministratore giudiziario discuterà nei prossimi mesi coi giudici del piano di risanamento aziendale, costringendo la società a rivedere le proprie politiche di appalti e subappalti. Questa misura, insieme alle quattro comminate ai colossi della moda italiana, punta a un radicale cambio di gestione del settore, che, come rivelato dai recenti filoni investigativi, nasconde spesso dietro abiti costosi attacchi alla dignità dei lavoratori. Starà poi alla classe politica decidere di cogliere o meno i segnali della magistratura e procedere con una regolamentazione più stringente sulla catena di appalti e subappalti su cui si regge il lavoro nel nostro Paese.