giovedì 11 Dicembre 2025
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Zelensky smantella l’apparato anticorruzione e mette le forze dell’ordine sotto il suo controllo

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Il 22 luglio il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, dopo l’approvazione del Parlamento, ha firmato un importante disegno di legge che di fatto elimina l’indipendenza delle istituzioni anticorruzione del Paese. Nello specifico, la normativa prevede la subordinazione dell’Ufficio Nazionale Anticorruzione (NABU) e della Procura Speciale Anticorruzione (SAPO) al Procuratore generale. Secondo gli attivisti e gli esponenti dell’opposizione, ciò renderà impossibile per queste agenzie indagare sui funzionari in carica di alto livello senza l’approvazione dell’amministrazione Zelensky, subordinando così le forze dell’ordine al controllo del governo. La firma del disegno di legge ha suscitato forti proteste in tutto il Paese: si tratta delle prime proteste a livello nazionale dall’inizio della guerra con la Russia nel 2022. Le manifestazioni si sono svolte in diverse città importanti dell’Ucraina, tra cui Kiev, Leopoli, Dnipro e Odessa. Diversi legislatori e esperti ritengono che con questa legge l’Ucraina si sia diretta verso l’autoritarismo e l’illegalità.

Il disegno di legge è stato approvato con il sostegno di 263 deputati, con 13 voti contrari e 13 astenuti e le proteste dei cittadini erano già in corso mentre Zelensky ha firmato il testo. Le due agenzie (l’Ufficio Nazionale Anticorruzione e la Procura Speciale Anticorruzione) erano state create nel 2015, in seguito alla Rivoluzione di Maidan, come parte delle riforme filo-Occidentali, ma quasi subito i governi filoeuropei che hanno guidato l’Ucraina dopo la rimozione dell’ex presidente Viktor Yanukovic, hanno cercato di limitarne i poteri. Solo Zelensky però è riuscito pienamente nell’intento con la firma di un disegno di legge apposito. In particolare, compito della NABU era indagare sulla corruzione ai vertici politici e, successivamente, i suoi casi venivano giudicati dall’Alta Corte Anticorruzione. La nuova legge conferirebbe al procuratore generale l’autorità legale di interferire nel lavoro della NABU e della SAPO e di sottrarre loro qualsiasi caso se lo riterrà opportuno, secondo quanto ha riferito al Kyiv Independent Olena Shcherban, esperta dell’Anti-Corruption Action Center. In Ucraina, il procuratore generale è una figura politica, nominata dal presidente e approvata dal parlamento controllato dal partito di maggioranza.

Secondo alcune testimonianze, il disegno di legge è stato approvato con violazioni procedurali. In particolare, secondo Shcherban, i parlamentari non hanno ricevuto il testo del disegno di legge in tempo utile per visionarlo. «Quello che è successo oggi in aula è stato scioccante», ha dichiarato al Kyiv Independent Inna Sovsun, deputata del partito Holos. «Il disegno di legge è stato approvato nonostante evidenti violazioni procedurali e i deputati del partito Servo del Popolo [il partito di Zelensky, N.d.R.] hanno applaudito». Anche Anastasia Radina, presidente della commissione parlamentare anticorruzione dello stesso partito di Zelensky, ha affermato che l’atto è stato approvato con gravi violazioni procedurali. Inoltre, l’approvazione della legge è avvenuta dopo le perquisizioni a tappeto condotte dalle forze dell’ordine presso le sedi di NABU e SAPO il 21 luglio, proprio nel periodo in cui si sta svolgendo un procedimento penale contro Vitaly Shabunin, uno dei principali attivisti anticorruzione in Ucraina e critici di Zelensky.

Da parte sua, il capo della NABU, Kryvonos, ha esortato senza successo Zelensky a porre il veto al disegno di legge e ha dichiarato di non essere stato contattato dal presidente per discutere dell’intenzione di approvare la nuova normativa. La decisione del governo ucraino rappresenta un ostacolo per le aspirazioni dell’ex Stato sovietico di adesione all’UE, le cui condizioni per l’ingresso comprendono progressi nelle riforme anticorruzione. «Lo smantellamento delle principali garanzie a tutela dell’indipendenza della NABU rappresenta un grave passo indietro», ha affermato Marta Kos, commissaria europea per l’allargamento.

Nel frattempo, è esplosa anche la rabbia degli ucraini: in migliaia sono scesi in piazza dopo la decisione della Verchovna Rada (il parlamento monocamerale ucraino) di smantellare le agenzie anticorruzione, nonostante la legge marziale che vieta gli assembramenti pubblici. Nella capitale, i manifestanti – che comprendevano veterani, soldati in servizio e civili –  con bandiere e cartelli gridavano «Giù le mani da NABU e SAP», «Porre il veto alla legge» e «Nessuna corruzione nel governo». A Leopoli diverse centinaia di persone si sono radunate per esternare la loro indignazione e difendere l’indipendenza delle agenzie anticorruzione. Attorno alla statua del poeta più acclamato dell’Ucraina, Taras Shevchenko, i dimostranti hanno esposto cartelli con cui chiedevano al presidente di bloccare la legge. Anche a Kiev, il coro principale, ripetuto più volte, era rivolto al presidente: «Porre il veto alla legge». Secondo alcuni manifestanti, non porre il veto alla legge equivale a calpestare la memoria di tutti coloro che sono morti al fronte. Con questo atto normativo, il governo ucraino si avvia sempre più sulla strada dell’autoritarismo, contraddicendo quelle presunte aspirazioni democratiche che avrebbero spinto l’Ucraina e lo stesso partito di Zelensky (Servo del popolo) ad avvicinarsi all’UE e ad allontanarsi dalla Russia fin dalle proteste di Maidan del 2014.

L’ambasciata di Tel Aviv ha premiato Matteo Salvini come miglior amico di Israele

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Ieri, mentre l’esercito di Tel Aviv eseguiva l’ennesimo massacro nella Striscia di Gaza, Matteo Salvini veniva premiato come migliore amico di Israele in Italia. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha infatti vinto il premio Israele-Italia 2025, istituito quest’anno da una rete di associazioni vicine allo Stato ebraico. Alla cerimonia di consegna — svoltasi alla Camera dei Deputati — ha presenziato l’ambasciatore di Tel Aviv a Roma, Jonathan Peled, che ha lodato Salvini e il suo «coraggio» di schierarsi al fianco di Israele in ogni situazione. Soltanto pochi mesi fa, sfidando il mandato di arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale (CPI), il vicepremier e segretario della Lega aveva invitato Benjamin Netanyahu a Roma. A febbraio Salvini ha rincarato la dose, organizzando una visita istituzionale in Israele per denunciare «l’indecenza» della CPI. Ieri, nel corso del discorso di ringraziamento, non ha speso una parola su Gaza e sui massacri dell’esercito israeliano, incolpando Hamas del genocidio in corso.

«Non c’è alcun dubbio: se c’è una persona che merita di veder riconosciuto il suo sforzo nell’impegno per i legami strategici tra Italia e Israele, quella persona è proprio Matteo Salvini», ha affermato Jonathan Peled augurandosi, per suo tramite, di poter rafforzare le relazioni tra i due Paesi. Lo stesso premio Israele-Italia — messo in piedi dall’Istituto Milton Friedman, dall’Unione delle associazioni Italia-Israele, dal Maccabi World Union, dall’Israel’s defend and security Forum e dall’Alleanza per Israele — va in questa direzione, nel tentativo di porre un freno alla caduta dell’immagine internazionale dello Stato ebraico dovuta al genocidio perpetrato in Palestina. Proprio mentre l’esercito israeliano prendeva di mira la Striscia di Gaza, tra bombe sui campi profughi e spari sulla folla in attesa di cibo e acqua, Salvini veniva riconosciuto come miglior amico di Israele in Italia. Gli oltre 60mila palestinesi uccisi dall’esercito di Tel Aviv non sono stati menzionati nel suo discorso di ringraziamento, così come il blocco degli aiuti umanitari e il mandato d’arresto internazionale pendente su Netanyahu.

«Lo stop delle ostilità dipende solo da Hamas, se rilasciano gli ostaggi all’indomani finiscono le bombe», ha detto Salvini incorniciando una cerimonia criticata dall’intergruppo per la pace tra Palestina e Israele, composto da circa 80 parlamentari. La sua portavoce, la pentastellata Stefania Ascari, ha così replicato all’evento: «È uno schifo. Ci sono 60mila morti a Gaza, di cui 20 mila bambini, siamo di fronte a uno Stato criminale e genocida, che compie massacri e deportazioni, e da 70 anni ha messo in piedi un regime di apartheid».

L’inchiesta sul malaffare di una cooperativa fa tremare il PD torinese

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Dopo le inchieste sull’urbanistica a Milano, un nuovo terremoto politico travolge il Partito Democratico. A Torino sono infatti stati notificati gli avvisi di conclusione indagini dell’inchiesta sulla cooperativa Rear, attiva nel settore vigilanza e accoglienza, con ramificazioni tra il capoluogo piemontese, Roma e Riva del Garda. Tra gli otto indagati c’è il deputato PD Mauro Laus – già presidente e amministratore “di fatto” della cooperativa – insieme a esponenti di punta come l’assessore Mimmo Carretta e la presidente del consiglio comunale Maria Grazia Grippo. Le accuse vanno dall’infedeltà patrimoniale alla malversazione di fondi pubblici. Al centro dell’inchiesta, appartamenti di pregio formalmente intestati alla cooperativa che sarebbero stati utilizzati dalla famiglia Laus e decine di migliaia di euro provenienti dalla cooperativa che familiari e compagni di partito avrebbero intascato senza una corrispettiva prestazione.

Il 21 luglio la Procura di Torino ha chiuso le indagini che coinvolgono Mauro Laus — deputato, già senatore ed ex amministratore delegato di Rear — e altri sette indagati, tra cui l’attuale presidente della cooperativa, Antonio Munafò, oltre a Carretta e Grippo. I reati contestati includono infedeltà patrimoniale e malversazione di erogazioni pubbliche legate all’utilizzo improprio di finanziamenti statali, anche derivanti dall’emergenza Covid, e alla distribuzione di stipendi “in assenza di prestazione lavorativa”. Secondo gli inquirenti, la famiglia del deputato avrebbe utilizzato alcuni immobili formalmente intestati a Rear, tra cui un appartamento nel cuore di Torino, un box auto, un immobile a Roma e una residenza a Riva del Garda. Secondo l’accusa, gli indagati «hanno compiuto o hanno concorso a deliberare atti di disposizione dei beni sociali», provocando «intenzionalmente» a Rear un danno patrimoniale. La vicinanza tra la cooperativa e la corrente interna del Pd guidata da Laus emerge chiaramente nelle indagini. Carretta e Grippo, suoi fedelissimi, sono stati dipendenti della Rear e hanno ottenuto finanziamenti elettorali dalla stessa cooperativa. Nel 2016, entrambi ricevettero 14.000 euro dalla Rear; nel 2021, l’attuale presidente del Consiglio comunale ha beneficiato di 7mila euro arrivati dal commercialista, Mauro Busso presidente del collegio sindacale della Rear e non indagato.

L’avvocato difensore di Laus, Maurizio Riverditi, ha minimizzato: ««Si tratta di questioni esclusivamente operative su cui è già intervenuta un’ispezione ministeriale». A intervenire con una nota è stato lo stesso Laus: «Affronto questa fase con serenità. Non cerco alibi né indulgenze – ha scritto su Instagram il deputato -. I fatti, una volta emersi con completezza, sapranno raccontare la realtà meglio di ogni congettura». Il Movimento 5 Stelle, tramite il capogruppo civico Andrea Russi, accusa il partito democratico, allontanando la prospettiva del cosiddetto “campo largo”: «Il PD torinese, lo certificano i fatti, non le opinioni, non cambia mai – ha messo nero su bianco in un post su Facebook -. È ancora ostaggio dei suoi kingmaker, dei burattinai che tirano i fili dietro le quinte. E il sindaco Lo Russo tace. Perché tace? Semplice: perché è figlio di questa politica. Cresciuto in questo vivaio, sostenuto da questo sistema alle primarie, alle urne, in consiglio comunale. Come potrebbe rinnegare ciò che lo ha fatto sindaco?».

Il caso Rear getta luce sul rapporto tra appalti, gestione delle cooperative e politica locale. La cooperativa – una realtà di 1.660 dipendenti e 30 milioni di fatturato attiva in vari luoghi simbolo del capoluogo piemontese – era stata commissariata nel 2023 dopo l’avvio delle indagini penali. La chiusura dell’indagine avvicina ora la vicenda a una fase cruciale: gli indagati hanno venti giorni per presentare memorie e documenti ai pm. Tra pochi mesi, potrebbe essere formalizzata la richiesta di rinvio a giudizio.

Columbia University: sospesi 80 studenti per proteste per la Palestina

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La Columbia University ha annunciato un provvedimento disciplinare nei confronti degli studenti che hanno partecipato a due manifestazioni per i diritti del popolo palestinese. Saranno colpiti 80 studenti, ai quali verrà imposta una sospensione da uno a tre anni o l’espulsione; per alcuni è prevista la revoca della laurea. L’annuncio arriva in un momento difficile per l’ateneo, che sta negoziando con il presidente Trump per ripristinare un finanziamento federale di 400 milioni di dollari, congelato proprio a causa della gestione delle proteste contro il genocidio a Gaza, giudicata negativamente dall’amministrazione Trump.

In Sierra Leone i giovani riportano in vita le terre devastate dall’estrazione dei diamanti

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Nel distretto di Kono, nella Sierra Leone orientale, i giovani stanno trasformando terre un tempo devastate dall'estrazione di diamanti in terreni agricoli produttivi. I ragazzi, provenienti da diverse esperienze e con livelli di istruzione variabili, stanno dimostrando che è possibile passare dalla miniera alla terra, creando nuove opportunità economiche e sociali. La zona di Kono è da sempre nota per la sua industria diamantifera e per i crateri colmi d’acqua contaminata che costellano la sua superficie. Sono il risultato di decenni di estrazione di diamanti: un’attività che ha avuto effetti...

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Musica, è morto Ozzy Osbourne: aveva 76 anni

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Ozzy Osbourne, icona dell’heavy metal e fondatore dei Black Sabbath, è morto all’età di 76 anni, poche settimane dopo un concerto d’addio tenuto a Villa Park insieme ad artisti come Metallica e Guns’n’Roses. La sua famiglia ha annunciato la scomparsa, avvenuta circondato dai suoi cari. Affetto dal morbo di Parkinson e da problemi di salute aggravati da una caduta nel 2019, Osbourne è stato una leggenda del rock con successi come Iron Man, Paranoid e Crazy Train. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui l’ingresso nelle Hall of Fame britannica e americana.

Separazione delle carriere: Senato approva in seconda lettura

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Il Senato ha approvato in seconda lettura la riforma costituzionale sulla giustizia che prevede la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, modificando il Titolo IV della Costituzione. Il provvedimento, passato con 106 voti favorevoli, 61 contrari e 11 astenuti, tornerà ora alla Camera per il terzo dei quattro passaggi complessivi previsti. Al momento del voto le opposizioni hanno sollevato proteste in Aula, mostrando cartelli contro la riforma. Giorgia Meloni ha parlato di un passo decisivo per un sistema giudiziario più equo; per Antonio Tajani è una «giornata storica» e della realizzazione del «sogno di Berlusconi».

Ungheria e Serbia annunciano la costruzione di un nuovo oleodotto con la Russia

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Mentre l’Unione Europea continua a imporre sanzioni contro la Russia, l’Ungheria si è accordata con la Serbia e la Federazione russa per potenziare il proprio approvvigionamento di gas. Il ministro ungherese degli Affari Esteri e del Commercio, Péter Szijjártó, ha infatti annunciato la costruzione di un nuovo oleodotto in collaborazione con i «partner» russi e serbi. Le parole di Szijjártó esprimono vicinanza alla Russia e l’intenzione ungherese di non allinearsi alle politiche dell’UE: «Mentre Bruxelles vieta l’energia russa, taglia i legami e blocca le rotte, noi abbiamo bisogno di più fonti e più rotte. L’Ungheria non cadrà vittima di queste decisioni disastrose». Secondo il portavoce del governo ungherese, Zoltan Kovacs, l’oleodotto potrebbe essere operativo entro il 2027. Esso avrà una capacità di 5 milioni di tonnellate all’anno e sarà lungo 300 chilometri.

Gli annunci di Szijjártó e Kovacs sono arrivati ieri, lunedì 21 luglio. Le dichiarazioni sono state rilasciate in seguito a una videoconferenza tra la ministra delle Miniere e dell’Energia serba, Dubravka Đedović Handanović, il primo viceministro dell’Energia russo, Pavel Sorokin, e lo stesso Szijjártó. In occasione dell’incontro, i tre funzionari hanno esaminato gli investimenti per il progetto e lo stato attuale dei preparativi per la costruzione. La costruzione del gasdotto, secondo quanto riporta il governo serbo, dovrebbe iniziare il prossimo anno e terminare nel 2027, anno in cui è previsto anche che il gasdotto entri in funzione. L’agenzia di stampa statale russa TASS riporta che l’opera sarà lunga un totale di 300 chilometri, di cui 180 in territorio ungherese e 120 in territorio serbo. Il progetto prevede anche la costruzione di una stazione di misurazione, che sarebbe edificata al confine tra i due Paesi. L’oleodotto dovrebbe collegare la raffineria di Százhalombatta, di proprietà della compagnia petrolifera e del gas ungherese MOL, con la città di Algyő, nell’Ungheria meridionale, e successivamente con la città serba di Novi Sad. Il progetto è sviluppato congiuntamente da MOL e dalla società serba Transnafta.

TASS riferisce che le discussioni tra Ungheria e Serbia per la costruzione dell’oleodotto vanno avanti da tempo, ma che quella di ieri rappresenta la prima indicazione pubblica della partecipazione della Russia ai colloqui. Lo scorso febbraio, il governo ungherese aveva già annunciato un investimento di 320 milioni nel progetto, dichiarando che gli studi di fattibilità erano già stati effettuati. In quello stesso periodo, Szijjártó scriveva che «oggi, non esiste sicurezza energetica ungherese senza la Serbia, e non esiste sicurezza energetica serba senza l’Ungheria». L’Ungheria dipende quasi interamente dal flusso di gas russo che arriva attraverso la Serbia, e uno dei motivi per cui il primo ministro ungherese Viktor Orbán si è spesso opposto all’imposizione di sanzioni contro la Russia o all’approvazione di pacchetti di aiuto all’Ucraina è proprio legato alla stabilità energetica del Paese: in diverse occasioni, l’Ungheria ha rimarcato il proprio bisogno di garanzie sull’approvvigionamento energetico, minacciando o ponendo il veto alle misure per poi sciogliere la riserva; è successo lo scorso gennaio, o più recentemente a giugno, insieme alla Slovacchia, che ha mantenuto la propria opposizione fino a qualche settimana fa. Con il progetto in attivo, l’Ungheria, sostengono le autorità ungheresi, non si limiterebbe al consumo di idrocarburi, ma diventerebbe anche un Paese di transito per il commercio di petrolio.

La vicenda del maestro Gergiev a Caserta: quando le crociate di regime uccidono la cultura

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È stato annullato il concerto, previsto per la prossima domenica 27 luglio alla Reggia di Caserta, del grandissimo direttore d’orchestra russo Valery Gergiev, reo di aver espresso simpatie per l’attuale presidente del suo Paese – almeno secondo i 700 intellettuali che, lo scorso 18 luglio, hanno indirizzato una lettera di protesta al governatore della Campania, Vincenzo De Luca.

Si tratta di una chiara crociata ideologica in chiave anti-russa più che anti-putiniana – crociata che si era già fatta sentire nel 2022 con l’annullamento di un corso universitario sul grande scrittore Dostoevskij, in quanto considerato un imprescindibile esponente della cultura russa. Apparentemente, per i benpensanti dell’Università Bicocca di Milano, andava stigmatizzato tutto ciò che è russo.

Così, ieri, lunedì 21 luglio, il governatore De Luca ha dovuto cedere alle «logiche di preclusione» e al «rifiuto di dialogare» dei 700 intellettuali, sorretti da numerosi partiti politici, e ha accettato di allontanare dall’Italia uno dei più grandi direttori d’orchestra al mondo, colpevole di aver espresso l’opinione che la guerra in Ucraina sia stata istigata dalla NATO per destabilizzare la Russia. Punto di vista vietatissimo nella nostra sedicente democrazia, la quale impone, come in un qualsiasi regime autoritario, un Pensiero Unico sui fatti ucraini.

Si tratta, tuttavia, di un Pensiero Unico pieno di contraddizioni: eccone una. Tutti sanno (ma molti cercano di dimenticare) che, sotto la presidenza di G.W. Bush, gli Stati Uniti hanno fatto molto di più di quanto la Russia di Putin stia facendo in Ucraina oggi. Infatti, nel 2003, gli USA hanno non solo invaso illegalmente il Paese sovrano dell’Iraq, ma l’hanno occupato per intero, bombardandolo selvaggiamente per ben 10 anni e al costo di oltre un milione di morti civili.

Eppure, per quanto all’epoca ci fossero forti proteste dirette contro Bush, non ci sono stati tentativi istituzionali di istigare un clima di odio verso la cultura e la società statunitensi. In Italia, i corsi universitari su Hemingway si sono tenuti regolarmente, nessuno si è sognato di cancellarli; e se il maestro statunitense James Levine non ha potuto tenere il suo concerto presso l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nel 2021, è soltanto perché egli è purtroppo deceduto tre mesi prima. Nessuno chiedeva l’annullamento del suo concerto perché avrebbe messo in buona luce la cultura statunitense – come il concerto di Gergiev metterebbe in buona luce la cultura russa.

In pratica, non c’è stata nessuna campagna per estirpare l’influenza statunitense in Italia. Non c’è stata un’«inchiesta sull’utilizzo di fondi pubblici» per fermare eventi filo-americani, come invece hanno chiesto i 700 intellettuali per bloccare ogni evento filo-russo nel territorio dell’Unione Europea. Non c’è stata la richiesta di un «fondo culturale dedicato agli artisti che si oppongono» al regime a stelle e strisce, come invece oggi quei 700 intellettuali vorrebbero che ci fosse contro la Russia. Evidentemente, le invasioni e le occupazioni sono accettabili quando a farle è un Paese alleato, non un Paese competitore.

Anzi, per le classi dirigenti occidentali, oggi il Paese di Putin è diventato non solo un concorrente, ma potenzialmente un nemico in guerra. Un nemico da abbattere per eliminare un competitore, certo, ma anche e soprattutto per potersi impadronire delle sue immense ricchezze energetiche.

Così, dal momento che non sono bastati 18 pacchetti di sanzioni per far crollare la Russia, né un’estenuante guerra per procura “fino all’ultimo ucraino” (e quindi fino all’ultimo russo), il Regno Unito, la Francia e la Germania hanno deciso di alzare la posta: hanno formato un’alleanza per spingere l’UE a contemplare un conflitto diretto con la Russia per dare il colpo di grazia al suo regime attuale.

Quei tre Paesi occidentali si ricordano bene, infatti, come il crollo dell’URSS nel 1989 abbia poi consentito all’UE e agli USA di insediare a Mosca il debole Boris Eltsin, disposto a consentire alle industrie energetiche europee e statunitensi di accaparrarsi buona parte delle enormi ricchezze russe. Così, la Francia, la Germania e soprattutto il Regno Unito vogliono fare oggi. E non solo per il petrolio: infatti, il crollo della Russia consentirebbe all’Europa – insieme agli Stati Uniti – di poter più facilmente aggredire in seguito la Cina, costretta a difendersi da sola. Anzi, per molti osservatori, questo è l’obiettivo principale dietro il tentativo di intrappolare e di indebolire la Russia provocando la guerra estenuante in Ucraina.

L’ondata di propaganda antirussa che imperversa in Italia e in Europa da tre anni, dunque, sembrerebbe servire ai tre Paesi occidentali appena menzionati per raccogliere consensi per una guerra anche nucleare dell’Europa contro la Russia.

Bisogna combattere questo indottrinamento e contrastare la propaganda dilagante antirussa. Bisogna creare legami e scambi tra il popolo italiano e quello russo a tutti i livelli. Legami d’amicizia che rendano poi più difficili i tentativi del Potere di trascinarci in una guerra demonizzando la Russia. Legami che renderebbero più difficile cancellare le espressioni della cultura russa, come il concerto che Valery Gergiev avrebbe dovuto tenere questa domenica alla Reggia di Caserta.

Gli USA si ritirano dall’UNESCO

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Gli Stati Uniti d’America hanno annunciato che si ritireranno dall’UNESCO, l’agenzia dell’ONU che si occupa di promuovere la collaborazione e gli scambi culturali. L’annuncio è stato dato da Tammy Bruce, portavoce del dipartimento di Stato, che ha motivato la decisione del Paese sostenendo che le politiche dell’agenzia sarebbero «divisive», e in conflitto con «la nostra politica estera “America First”». A incidere sull’allontanamento dell’amministrazione Trump dall’UNESCO è anche la questione palestinese: «La decisione dell’UNESCO di ammettere lo “Stato di Palestina” come Stato membro è altamente problematica, contraria alla politica statunitense e ha contribuito alla proliferazione della retorica anti-israeliana all’interno dell’organizzazione», si legge nel comunicato di Bruce.