sabato 23 Novembre 2024
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Cos’è l’effetto cocktail negli additivi alimentari?

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In questo articolo ci occupiamo degli additivi alimentari, cioè di tutte quelle sostanze che in Europa sono consentite e vengono aggiunte (da cui il termine “additivo”) dall’industria alimentare nei prodotti e alimenti che troviamo comunemente in commercio. Gli additivi alimentari (ad esempio dolcificanti artificiali, emulsionanti, coloranti, ecc.) vengono ingeriti quotidianamente da miliardi di persone. Negli ultimi anni sono emersi alcuni risultati preoccupanti, derivati principalmente da studi su animali e/o su cellule di laboratorio, che suggeriscono potenziali effetti dannosi di diversi a...

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Congo, “Ribelli islamici uccidono oltre 10 persone in un attacco notturno”

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Nella Repubblica Democratica del Congo presunti “ribelli islamici” hanno ucciso almeno 10 persone questa notte con un attacco diretto contro un villaggio situato nella parte orientale del Paese: lo riportano un amministratore militare ed un leader della società civile a Reuters. Il leader Justin Kavalami ha affermato che gli autori sono membri delle Forze Democratiche Alleate, lo stesso gruppo accusato da un altro funzionario locale di aver assaltato un villaggio, ucciso e giustiziato almeno 16 persone ad inizio settimana. Secondo quanto riportato da Kavalami, le vittime dell’attacco di questa notte sarebbero 13.

Ucraina nell’Unione Europea, la Commissione accelera: soddisfatti tutti i requisiti

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Dopo una fase di tentennamenti, ha ripreso vigore la spinta da parte dei Paesi UE al sostegno a Kiev. La Commissione Europea ha infatti ufficialmente comunicato che l’Ucraina, impegnata nel conflitto con Mosca, ha soddisfatto i criteri necessari per avviare i negoziati formali sulla sua adesione al blocco. Il medesimo discorso vale per la Moldavia, altro Paese interessato dalle tensioni con la Russia e ufficialmente candidato a entrare nell’Ue. Secondo la portavoce per l’allargamento della Commissione europea, Ana Pisoner, l’Ucraina ha infatti «raggiunto» i requisiti funzionali per l’attivazione dell’iter, tra cui spiccano la tutela dello Stato di diritto, l’adeguamento del sistema giudiziario, la battaglia contro la corruzione e il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Una scelta che ha tutto il sapore della mossa politica, dal momento che in Ucraina la corruzione continua a dilagare – numerosi scandali hanno colpito anche diverse figure che si sono succedute nella compagine di governo -, che tutti i media sono stati riuniti sotto un unico ente statale e sono stati messi fuori legge 11 partiti di opposizione. Ora la palla passa ai Paesi membri, che dovranno esprimersi all’unanimità sull’adesione di Ucraina e Moldavia.

Molti Stati, tra cui Turchia, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Albania, sono candidati da anni (alcuni addirittura da decenni) a fare ingresso nell’Unione Europea, ma la situazione per loro è rimasta stagnante. Massima profusione è stata invece impressa agli sforzi per portare l’Ucraina tra i Paesi membri, con un’accelerata che arriva mentre l’avanzata russa sul campo appare indomabile. Quello dell’adesione dell’Ucraina all’Ue è infatti uno dei tasselli chiave attraverso cui si sta rinnovando l’impulso al supporto a Kiev da parte dei Paesi occidentali, che per lunghi mesi era apparso zoppicante – come dimostrano i fondi bloccati negli USA e diverse retromarce in Europa – e che adesso sembra aver nuovamente trovato linfa vitale. Saranno ora direttamente gli Stati membri a lavorare sul dossier Ucraina, dovendo imprimere un via libera senza defezioni: quasi tutti sembrano d’accordo sull’adesione di Kiev, mentre a esprimere le maggiori perplessità è l’Ungheria di Orban, che dubita di quanto attestato dalla Commissione ed è intenzionata a valutare una serie di elementi nei quadri negoziali, che saranno concordati in sede di Consiglio Europeo. Proprio per questo motivo il Belgio, che attualmente detiene la presidenza di turno del Consiglio, auspica di tenere il primo ciclo di colloqui il 25 giugno, prima che l’Ungheria assuma la presidenza di turno, in data 1° luglio. Tra i più attivi c’è il presidente francese Emmanuel Macron, che ieri, in una conferenza stampa congiunta con Zelensky, si è impegnato ad aprire i negoziati per l’adesione di Kiev all’Unione Europea entro fine mese. Macron ha annunciato contestualmente l’istituzione di un fondo da 200 milioni di euro per la ricostruzione delle infrastrutture dell’Ucraina, dichiarando inoltre di voler mettere insieme nei prossimi giorni una coalizione per l’invio di istruttori militari a Kiev.

Le traiettorie di aiuto sono però anche quelle squisitamente belliche. La settimana scorsa, il governo tedesco ha infatti annunciato di aver autorizzato l’esercito di Kiev a utilizzare gli armamenti forniti dalla Germania per attaccare obiettivi militari in territorio russo. La richiesta di dare la possibilità all’Ucraina di colpire obiettivi in Russia era arrivata pochi giorni prima direttamente dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Nella stessa fase, anche il presidente USA Joe Biden aveva autorizzato Kiev a colpire obiettivi in Russia con armi americane, ma solo nelle retrovie dell’offensiva di Kharkov: ciò è effettivamente avvenuto tra il primo e il due giugno, quando le forze armate ucraine hanno utilizzato armi statunitensi – nella fattispecie missili HIMARS -, per colpire un sistema di difesa aerea nella regione russa di Belgorod. Ieri, Biden si è incontrato a Parigi con il suo omologo ucraino Zelensky, con il quale si è per la prima volta scusato pubblicamente per i mesi di stallo che hanno preceduto il via libera del Congresso statunitense degli aiuti militari a Kiev, annunciando altri 225 milioni di dollari in aiuti militari. Sempre nella giornata di ieri, come riportato da Reuters, un alto funzionario della Casa Bianca ha dichiarato che è sempre più concreta l’ipotesi dell’aumento del dispiegamento di armi nucleari strategiche americane nei Paesi Nato. Gli USA rispettano attualmente il limite di 1.550 testate stabilito nel trattato New START del 2010 con la Russia, anche se Mosca ha deciso di sospendere la sua partecipazione lo scorso anno a causa del sostegno offerto da Washington all’Ucraina, collocando armi nucleari strategiche in Bielorussia. Il quadro potrebbe dunque mutare ancora una volta.

[di Stefano Baudino]

”The cats will know”, una poesia di Cesare Pavese (1950)

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Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali 
i gatti lo sapranno.

Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.

Farai gesti anche tu.
Risponderai parole –
viso di primavera
farai gesti anche tu.

I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell’alba,
viso di primavera.

Il pensiero può farsi canzone, prendere le sue ripetizioni, uscire dalla grammatica della prosa, sfidare sensazioni che non si potrebbero altrimenti dire. La mente, il cuore diventano allora un selciato che riceve la pioggia, che si riempie di un rumore già udito mille volte, la pioggia che nel mito è fertile, è portatrice di vita, è la sessualità di un dio o di una dea che preferiscono non incarnarsi, godere di una virtualità assoluta.

Una pioggia che annuncia tempi senza durata, attraversamenti di passi, di gesti, di visi che restano indistinti nei riflessi. Una pioggia in cui le voci sfuggono nel passato e in un improbabile futuro perché nel momento presente sono soltanto echi.

«Le mie ore sono sposate all’ombra./ Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia/ sulle pietre nude dell’approdo»:  così Sylvia Plath. Così perché l’impercettibile si impadronisce della poesia come dell’esperienza e nello stesso tempo deve fare i conti con l’imponderabile, con l’improvviso rumore o con qualche presenza ombrosa, le famose immortali muse inquietanti. Poesia è terapia, lieve  vertigine, negazione delle percezioni sensibili, fiducia affidata a muti ascoltatori, a gatti che non vanno in Paradiso, come scriveva Virginia Woolf. Il domani non è futuro ma sensazione inscritta ora in una mancanza, nella mancanza di un “te” oggetto di amore.

Se il desiderio non è dichiarato non per questo non esiste, il desiderio è unito indissolubilmente al pensiero stesso, ai «dolci pensieri», secondo Leopardi, pensieri che non sono mai saggi, come Omero pretendeva per gli eroi estranei alle passioni.

In fondo i poeti e i loro versi sono ombre che si dileguano, «le poesie distillate da poesie svaniscono» (W. Whitman), le parole sfilacciate perché «stanche e vane», come dice Pavese, non fissano gli eventi, non descrivono cose, non designano oggetti, appartengono a tempi inconsistenti, sanno di passato e di futuro, sono promesse dell’alba dimenticate poi prima di addormentarsi. Se qui i gatti e la pioggia sono protagonisti è perché «lo ripete anche l’aria che quel giorno non torna»: iniziava con questo ritmo un’altra poesia di Pavese, Risveglio. E appunto le parole del risveglio, ancora impregnate di sonno e di sogno, sono quelle del poeta e dell’amore inevitabilmente lontano, cioè non presente alla scrittura.

«Dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte»: la poesia è davvero un viaggio che sfida la selva oscura, che vuole a tutti i costi rifondare una nuova aurora, un tempo nuovo, e i nuovi volti e le altre voci, di altri incontri, di altri giorni.

Questa poesia, splendidamente italiana, perché incardinata a una musica nascosta che la rende canzone, sigilla la vita di uno scrittore che vent’anni prima, nel 1930, scrivendo I mari del Sud, iniziava così: «Camminiamo una sera sul fianco di un colle,/ in silenzio»: un camminare che esprime una intera ispirazione, nel saliscendi delle sue belle colline, un po’ scabre e bruciate, colline forse come donne, «dove sono cresciute le frutta che ho sempre mangiato» (Le maestrine). Destinate, in quanto poesia, ad abitare insieme memoria e desiderio, mai il qui e ora che svanisce.

[di Gian Paolo Caprettini]

Il fondo BlackRock è diventato il maggior detentore di Bitcoin al mondo

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La mole di criptovalute Bitcoin scambiati solo nell’ultimo mese sulla borsa statunitense dei fondi d’investimento ETF (Exchange Traded Fund) ha raggiunto il valore di 2,4 miliardi di dollari. Fase che giunge in un periodo in cui la criptovaluta si trova al picco del proprio valore sul mercato, stabilmente sopra i 60mila euro per singolo Bitcoin da oltre tre mesi. E così, quella che a lungo era stata dipinta come una moneta immateriale da cui era meglio stare alla larga e senza nessuna affidabilità finanziaria, ha conquistato ormai anche i grandi speculatori globali. Il maggiore possessore globale di Bitcoin è infatti diventato il fondo d’investimento americano Blackrock, che ha annunciato di averne per il valore di 20 miliardi nel proprio portafoglio, superando così il fondo specializzato in investimenti digitali Grayscale Investments.

Grayscale Investments è il prodotto finanziario di Stamford che dal settembre del 2013 opera nel settore degli investimenti in valute digitali. Con il lancio del GBTC di Grayscale, l’asset manager del Connecticut è diventato sin da subito il più grande fondo al mondo che investe in criptovalute, noto ufficialmente come Grayscale Bitcoin Trust. Come spiegato da Eric Balchunas, analista senior di ETF di Bloomberg Intelligence, gli ETF hanno raccolto circa 2,4 miliardi di dollari di denaro nell’ultimo mese andando a registrare il terzo maggior volume di afflussi netti nell’intero mercato degli ETF. Con la fine di maggio, l’ETF Bitcoin spot IBIT di BlackRock è emerso come il più grande fondo Bitcoin sul mercato, superando GBTC di Grayscale, arrivando a detenere la gestione 291.563 bitcoin per un valore di 20,15 miliardi di dollari. In soli quattro mesi, IBIT di BlackRock ha accumulato un’impressionante montagna di Bitcoin andando quindi a posizionarsi al primo posto dei detentori della più famosa criptovaluta.

Gli Exchange Traded Fund (ETF) sono di diversi tipi e possono essere venduti in Borsa come qualsiasi altro strumento e godono di una buona flessibilità, permettendo di diversificare il proprio portafoglio e di investire sul lungo periodo, con la certezza di sapere in cosa viene investito il proprio denaro. Gli ETF sono fondi a gestione passiva che tramite la loro composizione riflettono l’andamento del valore di una materia prima o di un indice, tecnicamente indicato come benchmark. Non ci sono gestori che puntano su titoli che si ritengono più convenienti, come avviene nel caso dei fondi comuni a gestione attiva, ma la replica perfetta di quello che avviene in senso generale su un determinato mercato. Gli ETF possono seguire l’andamento degli indici borsistici come anche quello delle materie prime energetiche, come nel caso di gas naturale e petrolio, ma anche di metalli preziosi, terre rare, così come anche di altri tipi di materia prima ad uso industriale.

Nel frattempo, gli emittenti di ETF statunitensi si stanno preparando al lancio degli ETF Spot su Ethereum, in quanto la Securities and Exchange Commission ha approvato di recente la modifica 19b-4 per tali fondi. Le aziende devono ancora ottenere l’approvazione dei loro moduli S-1 da parte dei regolatori per cominciare lo scambio degli ETF su Ethereum ma si prevede che vi sarà un balzo enorme anche per questa criptovaluta. Dunque, secondo gli analisti non vi alcunché di strano sul fatto che BlackRock, il maggior fondo d’investimento al mondo, abbia fatto questa scalata nel mondo delle criptovalute, in particolare su Bitcoin. Ovvero, essendo BlackRock un gigantesco detentore e gestore di capitale da investire, semplicemente sfrutta la sua potenza per accaparrarsi tutto ciò che il mercato e gli investitori credono poter essere fonte di guadagno.

E così, benché Bitcoin, e le criptovalute in generale, sia stato dipinto più di una volta come qualcosa di poco valore, o di “falso”, e quindi dal futuro negativo, ha attirato l’interesse del gigante degli investimenti il quale non ha potuto che mettere i propri tentatoli pure lì, come una piovra che tutto avvolge. Dunque, anche in questo caso, BlackRock, che non è l’unico colosso del settore finanziario che ha puntato sulle criptovalute, si lancia nel fagocitare un settore che appare tutt’altro che dal futuro negativo. In questo modo il Leviatano degli investimenti e della finanza si prende il primo posto anche nel capitale delle criptovalute, seguito da altri come lui, finendo per apparire in ogni dove sul gradino più alto.

[di Michele Manfrin]

Danimarca, aggressione alla Premier

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Nella serata di ieri, la Premier danese Mette Frederiksen è stata aggredita e presa a pugni a Copenaghen, presso un mercato cittadino. Pare che l’aggressore fosse un uomo, arrestato poco dopo; la sua identità risulta ancora ignota. In seguito all’incidente la Premier si è detta “scioccata” di quanto accaduto, e sono arrivati appelli di solidarietà nei suoi confronti da parte di molti leader europei. Non sembra che la Premier abbia riportato ferite gravi dopo l’attacco. Metta Frederiksen è al vertice del partito socialdemocratico danese, e guida il Paese in una coalizione di centrosinistra dal 2019.

Il D-Day diventa anti-russo: il surreale sbarco in Normandia dei media dominanti

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Kiev, la nostra Normandia. Titolo secco per la prima pagina di La Repubblica, corredato dalla foto in cui Joe Biden saluta paternamente Volodymyr Zelensky, con alle spalle un sorridente Macron. La commemorazione del D-Day diventa un’occasione ghiotta per il quotidiano diretto da Maurizio Molinari per imporre il paragone tra i nemici di allora (i nazisti) e quelli di oggi (i russi). Per Anais Ginori è tutta una questione di dettagli: il suo articolo trasuda empatia per il presidente ucraino, che “si china e viene avvolto nell’interminabile abbraccio di un veterano”. Una scena ricca di pathos che sembra sgusciata dalla sceneggiatura di un polpettone hollywoodiano (e non a caso poco più in là ci sono Steven Spielberg e Tom Hanks). Mentre la fiction e la realtà si fondono e si confondono nella cronistoria dell’inviata di Repubblica, il soldato americano, sopravvissuto al D-Day si rivolge a Zelensky dicendogli: «Sei il Salvatore della gente, mi fai venire le lacrime agli occhi». E la commozione dovrebbe assalire e mandare in cortocircuito il lettore, convincendolo che la guerra, in fondo, è un sacrificio accettabile pur di sostenere il “Salvatore” ucraino nella sua guerra di liberazione contro l’“invasore” russo.

Le celebrazioni dell’ottantesimo anniversario che decise le sorti della Seconda guerra mondiale è un pretesto sfacciato per rilanciare la chiamata alle armi e inculcare nell’immaginario collettivo l’ennesimo spauracchio: la Russia che avanza, il nemico alle porte. «Ogni generazione ha il suo D-Day», ha enunciato Joe Biden dalle spiagge della Normandia ed Enrico Franceschini accoglie con enfasi l’invito del presidente americano a “non arrendersi ai dittatori”, per lanciare l’attuale sfida “da cui dipende il destino dei popoli”: liberare Kiev dall’occupazione russa. “La nostra Normandia” richiede, infatti, il “massimo sacrificio”, precisa l’editorialista, evocando così lo spettro della guerra che aleggia sempre più prepotentemente in Occidente. 

Il parallelo con il sostegno a Kiev che riecheggia sulle prime pagine dei giornali non può che suscitare una riflessione su un’altra invasione, quella della propaganda NATO che si riverbera sui quotidiani italiani, piegando la storia agli interessi delle élite guerrafondaie, preda di quell’«estasi bellicosa» lamentata nei giorni scorsi da Peskov. Il caso di Repubblica, infatti, non è isolato. Il paragone improprio con Kiev rimbalza sulle prime pagine della corazzata cartacea e digitale del Belpaese. Per Stefano Montefiori, corrispondente del Corriere della sera, è Un D-Day per Kiev, un’occasione per chiamare alle armi tutti coloro che hanno a cuore la “libertà”. Nessun accenno ai milioni di morti, alla violenza e alla distruzione che una guerra nel cuore dell’Europa potrebbe comportare. La Stampa personalizza il paragone, e il D-Day diventa non solo di Kiev, ma più nel dettaglio “di Zelensky”, che viene salutato “da un’ovazione” e “A difendere la democrazia è un’altra generazione, c’è il cambio della guardia”. A scanso di equivoci, l’inviato del quotidiano torinese spiega che «il terreno di questa sfida resta il cuore dell’Europa, allora la Francia da liberare dal giogo nazista, oggi l’Ucraina invasa dal ‘tiranno’ Putin, attributo che Biden torna ad appiccicargli».

Il Foglio (Normandia, Kharkiv) ricorda, invece, che Putin «calpesta la memoria collettiva e la utilizza per giustificare la sua guerra ingiustificata contro il nazismo immaginario dell’Ucraina», rispolverando indirettamente l’operazione di riverniciatura e falsificazione della realtà, volta a romanzare i neonazisti ucraini “che leggono Kant”, ricorrendo a veri e propri virtuosismi, equiparandoli, come aveva fatto il Secolo d’Italia, agli “Spartani alle Termopili”. Se negli ultimi due anni i media occidentali hanno fatto da grancassa della propaganda per avallare la decisione dei governi occidentali di armare l’Ucraina contro l’“invasore”, ora la narrazione punta a legittimare l’escalation e suggellare la chiamata alle armi, avvertendo che Putin, qualora sconfiggesse le truppe di Kiev, non si fermerebbe all’Ucraina, ma potrebbe anzi invadere l’Europa, arrivando fino al Portogallo. 

La sentenza latina Si vis pacem, para bellum rimbomba malamente nelle esternazioni di Biden, Zelensky e Macron e si propaga come un virus mentale sui mezzi di informazione. Sono mesi, ormai, che si tenta la fuga in avanti auspicando la militarizzazione dell’Europa. Il leit motiv è il seguente: «La Russia non può e non deve vincere questa guerra». Ripetendolo all’infinito come un mantra, i poteri guerrafondai dell’Occidente sperano che lo slogan venga introiettato dalle masse e creduto. Creduto al punto da richiedere sacrifici collettivi per “difendere” l’Europa dall’Orso russo. La sottile linea rossa che si rischia di varcare è sotto gli occhi di tutti, ma i media continuano ad aizzare l’opinione pubblica contro il “nemico”, dispensando tonnellate di moralità e di cronache strazianti, anziché delineare i rischi concreti di questo rigurgito di belligeranza.

[di Enrica Perucchietti]

Tra i bambini di tutto il mondo aumenta la miopia, ma la soluzione sarebbe semplice

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Una vera e propria epidemia di miopia infantile sta colpendo tutto il mondo e la didattica a distanza adottata durante la pandemia di Covid-19 ha accelerato notevolmente il processo trasformando la forma dei bulbi oculari dei bambini: lo riporta un nuovo articolo pubblicato nell’area stampa della rivista scientifica Nature, il quale si basa su oltre una dozzina di studi condotti in Europa ed in Asia. Trascorrere molto più tempo al chiuso e concentrarsi sugli schermi dei dispositivi digitali avrebbe migliorato la chiarezza delle immagini ravvicinate sulla retina ma, d’altra parte, peggiorato la risoluzione degli oggetti più lontani, che appaiono ora più sfocati e meno distinguibili. La soluzione – secondo gli esperti – sarebbe semplice: bisogna cercare di invertire il processo e aumentare la quantità di tempo passata all’aperto. Tuttavia, tali strategie si sono rivelate difficili da attuare in società che incentivano i lavori al chiuso o composte da aree urbane con accesso limitato a spazi verdi sicuri, e per questo gli scienziati stanno studiando nuove tecnologie innovative.

Durante la pandemia di Covid-19, i bambini di tutto il mondo sono stati costretti a rinunciare a gran parte della loro vita sociale vivendo principalmente in luoghi chiusi e imparando ciò che doveva essergli insegnato a scuola attraverso i dispositivi digitali e la didattica a distanza. Ciò ha portato ad una diminuzione sostanziale del tempo trascorso all’aperto e questo cambiamento ha allungato i bulbi oculari dei loro occhi, che si sono adattati per tenere a fuoco gli oggetti usati a corto raggio durante il periodo di distanziamento. Questo fenomeno è stato riportato da diversi studi che vanno dall’Europa all’Asia fino ad arrivare ad Hong Kong, dove una ricerca ha rivelato che l’incidenza di bulbi oculari patologicamente allungati era quasi raddoppiata. I tassi di miopia erano già in forte espansione prima della pandemia – spiega Neelam Pawar, oculista pediatrico presso l’Aravind Eye Hospital di Tirunelveli, in India – ma ora, quelle previsioni allarmanti sembrano addirittura troppo modeste: «Non credo che raddoppierà. Triplicherà», ha aggiunto.

La soluzione sarebbe semplice: più attività all’aperto durante l’infanzia, periodo in cui è più probabile che si verifichino cambiamenti nella struttura degli occhi. Secondo alcuni studi condotti in Asia infatti, un’ora di pausa in più al giorno all’aperto può ridurre notevolmente l’incidenza della miopia. Tuttavia, le ricerche hanno rivelato che tali strategie sono tutt’altro che semplici da attuare in società che incentivano i lavori eseguiti all’interno di spazi chiusi – come le carriere accademiche – o che sono sprovviste di aree urbane con accesso illimitato a spazi verdi e sicuri. «Convincere i bambini ad andare all’aria aperta è una cosa difficile», ha infatti confermato Nathan Congdon, un oftalmologo della Queen’s University di Belfast. I ricercatori, quindi, stanno studiando nuove tecniche per “portare l’esterno all’interno” che non richiedano revisioni del comportamento infantile sfruttando aule di vetro, impianti di illuminazione speciali, carte da parati a tema naturale e occhiali che emettono luce. Tuttavia, l’ostacolo principale risiede nel fatto che gli scienziati non comprendono ancora che cosa dell’esposizione all’aperto aiuti effettivamente a prevenire la miopia.

Secondo una teoria, man mano che l’occhio si sviluppa adegua la sua forma in risposta a determinati segnali visivi. Se questi indicano che l’occhio è troppo corto, questo si allungherà per mettere a fuoco gli oggetti. D’altra parte, se l’occhio diventa troppo lungo riceverà segnali di “stop” che preverrebbero la miopia. Secondo altre teorie invece, i benefici dell’esposizione all’aperto potrebbero essere meno legati alla luce e più associati alla sfocatura: il paesaggio all’aperto – al contrario degli spazi chiusi ricchi di oggetti a distanze variabili – è più strutturato e i suoi elementi sono visti a distanze così grandi che si fondono in una immagine sola, la quale “comunicherebbe” all’occhio di smettere di crescere.

Tutte le teorie, però, sembrano concordare con un obiettivo: cercare soluzioni che imitino i benefici dell’esterno in spazi chiusi. Uno studio del 2015 ha rilevato che dotare le aule di plafoniere più luminose del solito ha ridotto significativamente l’incidenza di miopia e altri approcci basati sul far entrare più luce naturale negli ambienti didattici – utilizzando per esempio vetro e acciaio per creare aule più luminose – hanno portato risultati tutt’altro che indifferenti, anche se secondo altri esperti i costi di costruzione e alcuni rischi per la sicurezza renderebbero il concetto impraticabile. Alcuni scienziati stanno sviluppando un metodo alternativo che prevede l’erogazione di luce direttamente nel bulbo oculare, anche se si sta ancora discutendo su quale lunghezza d’onda sia più vantaggiosa e perché. Per ora, la strategia che sta guadagnando più popolarità in tutti il mondo prevede l’uso di un dispositivo che emette un laser a bassa intensità che migliorerebbe il flusso sanguigno nel bulbo oculare, anche se alcuni specialisti hanno sollevato preoccupazioni sulla sicurezza dopo che una ragazza di 12 anni ha riportato danni alla retina. Infine, una ricerca condotta nell’angolo sud-occidentale della Cina ha svelato che introdurre nelle classi carte da parati su misura che replicavano la complessità visiva di un parco naturale comporta un allungamento degli occhi significativamente inferiore rispetto a quello registrato nelle aule standard.

Si tratta di un insieme di strategie tutte diverse per complessità e meccanismo d’azione ma che dovranno essere tutte considerate se si intende sviluppare un metodo per combattere l’epidemia di miopia infantile in corso. «La società deve fare una scelta fondamentale» – ha affermato l’economista sanitario Kevin Frick – e la salute della vista dei bambini è in gioco.

[di Roberto Demaio]

Argentina, con governo Milei impenna la povertà

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Nel primo trimestre di quest’anno la povertà in Argentina è stimata al 55,5%, in aumento rispetto al 44,7% dello medesimo periodo del 2023. A rivelarlo è l’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul Debito Sociale dell’Università Cattolica Argentina, che ha mostrato come il dato sia aumentato in particolare dopo che il presidente Milei ha prestato giuramento, lo scorso dicembre. Il 17,5% della popolazione del Paese è considerata indigente, quasi il doppio rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno. Da quando Milei è entrato in carica ha svalutato la moneta, mentre i costi dei servizi essenziali sono aumentari di oltre il 300%, limitando notevolmente il potere d’acquisto.

Meta censura il massacro israeliano e licenzia chi si oppone: la denuncia di un dipendente

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Un ex ingegnere informatico di Meta ha trascinato in tribunale il suo ex datore di lavoro accusandolo, tra le altre, di discriminazione e ingiusto licenziamento. Il tecnico informatico, Ferras Hamad, sostiene di essersi visto rescindere il contratto dopo che ha cercato di rimediare alla tendenza della Big Tech di fare affidamento su algoritmici che, fatalmente, oscurano i contenuti che riguardano il massacro subito dal popolo palestinese. La denuncia, datata 4 giugno 2024 e depositata la Corte superiore dello Stato della California, descrive Hamad, cittadino statunitense di origine palestinese, come un professionista il cui valore è ampiamente riconosciuto dai propri superiori. La fiducia lavorativa maturata dal momento della sua assunzione si sarebbe però incrinata nel dicembre del 2023, ovvero quando il tecnico si sarebbe reso conto di alcune “irregolarità”, ovvero del fatto che alcuni contenuti relativi alla Palestina erano stati oscurati in maniera “altamente insolita”

I post notati da Hamad, sostiene l’accusa, avevano subito delle segnalazioni che erano state mitigate, risolte e chiuse in tempi alquanto sospetti. Il passaggio tra le tre fasi non era accompagnato da nessuna nota e la marcatura temporale a loro attribuita indicava che tutto il processo era avvenuto istantaneamente. Denunciando nelle chat preposte il problema, Hamad sarebbe stato contattato privatamente da colleghi esterni al suo gruppo di lavoro, i quali gli avrebbero consigliato di porre fine alla sua indagine al fine di evitare di incappare in non meglio specificate violazioni delle policy aziendali. Il 25 gennaio, tornato dalle vacanze invernali, Hamad sarebbe stato convocato da Lindsay Gold, un’investigatrice di Meta incaricata di esaminare le sue dichiarazioni.

Il 2 febbraio 2024, la sera prima della data di maturazione delle sue azioni, Hamad ha ricevuto comunicazione del suo licenziamento. Il tecnico riporta che le motivazioni fornitegli fanno riferimento alle policy sull’accesso dei dati degli utenti in riferimento a un episodio specifico: Hamad era intervenuto per correggere un atto censorio irregolare avvenuto nei confronti del fotogiornalista Motaz Azaiza, i cui contenuti erano stati immotivatamente etichettati come pornografici e fraudolenti. Meta sostiene che l’intervento di Hamad sia stato giustificato da un sedicente legame di familiarità con Azaiza, legame che il tecnico disconosce. Ufficialmente, il portavoce di Meta Andy Stone si è limitato a sostenere che l’ingegnere informatico sia stato liquidato per aver violato le policy di trattamento dei dati, senza però scendere nei dettagli.

Risulta difficile anticipare quali saranno le evoluzioni del caso giuridico, molti dei suoi risvolti sono ancorati in interpretazioni amministrative e quasi sicuramente il tutto troverà un epilogo in un accordo risolto a porte chiuse. Ciò che è certo, è che questa testimonianza offre uno spaccato sui dietro le quinte del funzionamento di Meta. È infatti noto che Instagram e Facebook, ambo social controllati dalla Big Tech, siano soliti rimuovere o nascondere i post legati alla crisi palestinese, tuttavia la giustificazione asserita dall’azienda è sempre stata quella di una moderazione generica che si lega ai contenuti, più che alla loro provenienza. Che si tratti di Palestina, Israele, Ucraina o di altre regioni, insomma, certi contenuti verrebbero rimossi a prescindere dal contesto, indiscriminatamente. La testimonianza di Hamad mette però in dubbio questo assunto.

L’ingegnere informatico accusa Meta di essere solita cancellare i messaggi interni dei dipendenti che discutono dei bombardamenti subiti dai palestinesi, di aver oscurato le critiche del personale relative agli sforzi di moderazione che hanno colpito i palestinesi e i popoli mussulmani, di aver rimosso i contenuti che fanno riferimento alla giornata ONU della Palestina (29 novembre), di aver sguinzagliato le risorse umane contro coloro che hanno inserito nelle proprie comunicazioni un’emoji della bandiera palestinese e persino di aver aver fatto scomparire le foto delle scarpe Nike Air Jordan, le quali erano probabilmente caratterizzate da abbinamenti cromatici troppo affini ai colori pro-palestinesi. I legali di Hamad fanno notare che una simile severità censoria non sia mai stata adottata nei casi di situazioni omologhe, quali l’attentato di Hamas a Israele o l’invasione russa dell’Ucraina.

[di Walter Ferri]