sabato 23 Novembre 2024
Home Blog Pagina 173

Putin mette ancora una volta in guardia l’Occidente (e loda l’Italia)

1

Il presidente russo Vladimir Putin torna a ventilare il rischio escalation nel quadro del braccio di ferro in atto tra la Russia e i Paesi occidentali. In occasione di una intervista rilasciata mercoledì alle principali agenzie di stampa internazionali a margine del Forum economico di San Pietroburgo, il capo del Cremlino ha infatti censurato la decisione della Germania di allinearsi agli USA nell’autorizzare Kiev a usare i propri armamenti per colpire obiettivi sul territorio russo, affermando che la Russia potrebbe sentirsi in diritto di fornire materiale bellico ad altri Paesi per colpire obiettivi all’interno degli Stati Nato. Parole diverse sono state riservate all’Italia, che si è subito mostrata contraria all’uso delle armi in territorio russo: Putin si è espresso positivamente in merito alla posizione «più moderata» del nostro Paese, dove secondo il capo del Cremlino «non si diffonde una russofobia da cavernicoli», aprendo alla prospettiva di una ricomposizione dei rapporti con Roma.

«Fornire armi in una zona di conflitto è sempre male, un passo pericoloso e grave, soprattutto se è legato al fatto che i fornitori non solo forniscono armi, ma le controllano», ha detto Vladimir Putin commentando la decisione di Stati Uniti e Germania di veicolare armi a Kiev che possono essere impiegate – anche se a determinate condizioni – sul territorio russo. Putin ha affermato che i rapporti tra il suo Paese e la Germania saranno «completamente» compromessi se gli ucraini «utilizzeranno i missili tedeschi per colpire strutture nel territorio russo», definendo «uno shock» l’aver constatato la presenza dei carri armati tedeschi in Ucraina, specie dal momento che «l’atteggiamento nei confronti della Repubblica federale nella società russa è sempre stato molto buono». Nel corso della conferenza, il capo del Cremlino ha ribadito che Mosca è pronta a sedersi al tavolo dei negoziati, sostenendo che il miglior modo per arrivare presto allo stop del conflitto è che «l’occidente smetta di fornire armi all’Ucraina». Il vero affondo è arrivato quando Putin ha affermato che «se i Paesi occidentali autorizzassero l’Ucraina a colpire il territorio russo con i loro missili», allora anche la Russia avrebbe «il diritto di fornire armi dello stesso tipo alle regioni del mondo che potrebbero essere interessate a colpire gli interessi occidentali». «Non spingiamoci a minacciare l’uso di armi nucleari – ha aggiunto Putin -. L’Occidente pensa che non le useremo, ma la Russia può usare tutti i mezzi per difendersi se la sua sovranità e integrità territoriale sono minacciate, la nostra dottrina non va presa alla leggera». Poi ha ridimensionato le sue parole: «Non abbiamo alcun desiderio di attaccare la Nato. Pensate che siamo pazzi?».

Putin ha anche detto la sua sulle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America, dichiarando che il suo Paese lavorerà «con qualsiasi presidente eletto» e respingendo – come peraltro già fatto nei mesi precedenti – l’idea di una affinità con Donald Trump, bollandola come «assurda»: «Io e Trump non abbiamo mai avuto legami speciali – ha detto ai giornalisti –. Quand’era presidente, iniziò a imporre massicce sanzioni contro la Russia. Non direi che dopo le elezioni cambierà qualcosa”. Secondo Putin è infatti prematuro ipotizzare che la posizione degli USA sul conflitto russo-ucraino muterà con un eventuale vittoria del tycoon, dal momento che a suo dire «nessuno negli Stati Uniti è interessato all’Ucraina, ma alla grandezza degli Stati Uniti». Infine, il presidente russo ha parlato del nostro Paese, dichiarando di aver attestato «in modo adeguato» come la posizione dell’Italia verso la Russia sia «più contenuta rispetto ad altri Paesi europei». «In Italia non si diffonde una russofobia da cavernicoli e lo teniamo in considerazione – ha concluso Putin -. Noi speriamo che quando la situazione riguardo all’Ucraina comincerà a stabilizzarsi, riusciremo a ristabilire relazioni con l’Italia forse anche più velocemente che con qualche altro Paese».

La settimana scorsa, il governo tedesco ha annunciato di aver autorizzato l’esercito ucraino a utilizzare gli armamenti forniti dalla Germania per attaccare obiettivi militari in territorio russo. Lo ha fatto per bocca del portavoce Steffen Hebestreit, il quale ha dichiarato che «Germania e Ucraina hanno concordato che le armi che forniremo saranno utilizzate in conformità con il diritto internazionale». La richiesta di dare la possibilità all’Ucraina di colpire obiettivi in Russia era arrivata nei giorni precedenti dal segretario generale della Nato Stoltenberg. Nel frattempo, anche il presidente USA Joe Biden aveva autorizzato Kiev a colpire obiettivi in Russia con armi americane per difendere Kharkiv, dove è in corso l’avanzata di Mosca. Due giorni fa, il Ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius ha dichiarato nelle aule del Bundestag, il Parlamento federale tedesco, che la Germania deve «essere in grado di affrontare una guerra entro il 2029», sottolineando che Putin non si fermerà in Ucraina. Pistorius, che aveva suggerito che la Germania avrebbe dovuto essere pronta alla guerra già lo scorso novembre, è tornato sull’argomento in concomitanza con l’approvazione della nuova strategia di difesa in caso di conflitti.

[di Stefano Baudino]

È uscita la nuova versione del fumetto sulla vita di Julian Assange

0

È stata lanciata la nuova edizione del graphic novel (romanzo a fumetti) Julian Assange di Gianluca Costantini e Dario Morgante, il 4 giugno a Roma presso Latte Bookstore, la libreria-edicola ubicata nella Città dell’Altra Economia a Testaccio. L’evento serale si è concluso poi con un concerto per violino offerto da Marco Quaranta davanti a Anything to Say?, il gruppo scultoreo in bronzo di Davide Dormino installato nell’adiacente piazza Orazio Giustiniani, che raffigura anche il giornalista-editore australiano. Il titolo completo del graphic novel è Julian Assange – WikiLeaks e la sfida per la libertà di informazione. È edito dalla cooperativa Altreconomia con il patrocinio di Amnesty International – Italia. La prima edizione dell’opera, a cura dell’editore Becco Giallo, raccontava le vicende di Assange dall’infanzia fino al 2016; la nuova edizione, invece, arriva fino ai giorni nostri. Ma l’opera non vuol essere una mera biografia bensì un’analisi di ciò che significa sfidare i poteri occulti e, insieme a loro, sempre nascosti nell’ombra, i loro sgherri, la CIA e la NSA.

«Come Assange, io e Dario siamo nati nel 1971», scrive Costantini nell’introduzione, «e siamo cresciuti nel mondo del fumetto underground italiano influenzato dal cyberpunk»  Era un mondo in cui gli hacker come Assange, che riuscivano a snidare e a rivelare i misfatti dei potenti, «erano dei personaggi quasi mitologici». Ma poi, come viene raccontato nella versione aggiornata del volume, anche i Supereroi s’imbattono nella dura realtà.

Alla presentazione ieri sera, Riccardo Nuory, portavoce di Amnesty International – Italia, ha illustrato quella dura realtà riprendendo una frase dalla sua prefazione al libro: «Negli ultimi 40 anni, un lungo periodo di tempo trascorso in Amnesty International, non mi è mai capitato di osservare una situazione come questa: una coalizione di Stati contro una persona».  Il moderatore dell’evento, Salvatore Barbera di Lattes Bookstore, ha poi descritto come, attraverso il blocco di ogni canale di finanziamento per il sito WikiLeaks, seguito dall’intimidazione dello staff e dall’incarcerazione dell’editore Julian Assange, i poteri forti sono riusciti ad intimorire giornalisti e potenziali whistleblower ovunque e così a depotenziare quasi completamente il maggiore canale di informazione libera mai esistito. «E ne sentiamo fortemente la mancanza oggi, con le guerre in Ucraina e a Gaza dove i giornalisti indipendenti vengono tenuti fuori o, nel caso di Gaza, uccisi a sangue freddo», ha commentato Barbera.  

Non ci sarebbero speranze, allora?  Nel suo intervento, Davide Dormino ha lasciato una porta aperta.  Ricordando la frase di Picasso, «l’artista è un bambino sopravvissuto», e rievocando i tratti lievissimi della grafica di Costantini, anche quando disegna scene di guerra, Dormino ha lasciato intendere che la bellezza potrà alla fine, come scrisse Dostoevskij, smuovere le anime e così salvare il mondo.  

Speriamo che la porta aperta a cui Dormino ha accennato sia quella della cella di isolamento di Julian Assange nella prigione londinese di Belmarsh.

La presentazione del graphic novel ha fatto parte di una settimana intera di iniziative presso Latte Bookstore a favore della tappa romana della “scultura itinerante” Anything to Say?, che i romani e i turisti potranno vedere fino al 7 giugno davanti all’ex Mattatoio di Testaccio, a due passi dalla libreria-edicola.  I visitatori che conoscono poco le vicende di Manning e di Snowden, se non quella di Assange, troveranno accanto alla statua uno stand dove gli instancabili attivisti di Free Assange Italia distribuiscono gratuitamente un dépliant con le relative biografie. Inoltre, potranno sfogliare liberamente copie del graphic novel di Costantini e Morgante disponibili sul banco.  Le prossime tappe del tour dell’opera scultorea di Dormino sono Bologna in piazza del Nettuno, il 13 e il 14 giugno prossimi, e poi il 15 e il 16 giugno a Milano presso il Wired Next Fest al Castello Sforzesco.

[di Patrick Boylan – autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo Free Assange Italia]

L’italia si conferma leader Ue nel riciclo degli oli usati

0

Il nostro Paese si conferma leader europeo nella raccolta e rigenerazione degli oli usati. La filiera, infatti, ha raggiunto un tasso di circolarità quasi del 100%. Nel resto d’Europa si rigenera appena il 61%. Lo attestano i dati diffusi dal rapporto di sostenibilità 2023 del Consorzio nazionale per la gestione, raccolta e trattamento degli oli minerali usati. Il 58% dell’olio esausto raccolto viene dal Nord Italia, mentre le regioni del Centro contribuiscono con una raccolta del 18% e il Meridione e le isole arrivano al 23%. L’olio esausto, quando correttamente smaltito e rigenerato, può diventare una preziosa risorsa, ma se non trattato adeguatamente rappresenta una grave minaccia per l’ambiente.

Stragi di mafia, le sentenze sono chiare: lo “Stato deviato” è colpevole, ma si salva sempre

1

Ormai non ci sono più dubbi: le stragi di mafia degli anni Novanta furono il frutto di indicibili intrecci e cointeressenze tra la criminalità organizzata – non soltanto siciliana – e pezzi di Stato “deviato”, che trovarono presumibilmente terreno comune negli ambienti della massoneria coperta e in alcuni personaggi chiave legati a gruppi eversivi neofascisti attivi in quegli anni. A raccontarcelo non sono soltanto gli spunti emersi dalle inchieste delle Procure che da anni si occupano del biennio stragista – in primis quelle di Firenze e Caltanissetta –, ma i contenuti esplosivi di numerose sentenze che, coperte dalla coltre di un sempre più assordante silenzio mediatico, sono state pronunciate negli ultimi mesi nelle aule di giustizia. Eppure, nonostante la progressiva emersione di tali verità, sebbene siano passati più di trent’anni da quegli atti efferati (che, lo ricordiamo, hanno provocato la morte di magistrati, poliziotti e civili), le punizioni sono arrivate soltanto per i mafiosi. Ancora nessuno dei presunti “grandi manovratori” extra-mafiosi e dei soggetti che operativamente si occuparono di depistare le indagini sulle stragi è infatti incorso in sentenze di condanna. E i famosi “servizi segreti deviati” restano, agli occhi dell’opinione pubblica, un’entità eterea e impalpabile.

Il depistaggio Borsellino

L’ultimo capitolo di questa storia è andato in scena martedì 4 giugno, quando la Corte di Appello di Caltanissetta, come già fatto in primo grado dai giudici del Tribunale, ha sancito che il depistaggio sulle indagini in merito alla strage di via D’Amelio, in cui morì il giudice Paolo Borsellino insieme a cinque membri della sua scorta, a livello penale non avrà colpevoli. I giudici hanno infatti dichiarato prescritto il reato di calunnia per i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, alla sbarra poiché ritenuti colpevoli di avere imbeccato il finto pentito Vincenzo Scarantino – il quale si auto-accusò di essere stato l’esecutore materiale della strage di via D’Amelio, ma che in realtà non fece mai parte di Cosa Nostra e non partecipò a nessuna fase del massacro – essendo per loro caduta l’aggravante di aver favorito la mafia. Un precedente processo, il Borsellino-Quater, aveva stabilito che il ruolo cardine nel depistaggio, giudicato “il più grave della storia repubblicana”, sarebbe stato svolto dal capo dei tre poliziotti, l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera. Quest’ultimo, nella recente requisitoria al processo sul depistaggio, è stato definito dal pm Maurizio Bonaccorso come il «ponte» tra il mondo della mafia e quello dei servizi deviati, essendo stato peraltro «finanziato in nero dal SISDE» e «a libro paga dei Madonia», potentissima famiglia di Cosa Nostra. La Barbera è però deceduto nel 2002: non può dunque più incorrere in condanne e, soprattutto, parlare di quello che sa.

In foto: l’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera

Nel 2018, nelle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater, i giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta scrissero che il depistaggio Scarantino fu il frutto di “un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri”. Inoltre, secondo la Corte “c’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino (rimossa dal perimetro della strage poco dopo l’esplosione della bomba, ndr), sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende”, ovvero Arnaldo La Barbera, poliziotto che coordinò le indagini sulla strage di via D’Amelio. Secondo i giudici, infatti, il suo ruolo fu “fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia” ed egli “intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa” di Paolo Borsellino, che “conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci”.

Ma c’è di più. Incredibilmente significativo è stato infatti il contenuto delle motivazioni della sentenza di primo grado al processo sul depistaggio Borsellino, con cui il Tribunale ha dichiarato prescritto il reato di calunnia per i poliziotti Bo e Mattei, essendo per loro caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra, e assolto l’ispettore Ribaudo. I giudici hanno infatti accertato responsabilità extra-mafiose non solo sul depistaggio, ma anche sul concepimento della strage di via D’Amelio. “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra“. Secondo il Tribunale, ciò proverebbe “l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda”, essendo “indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”. Il Tribunale ha poi scritto che il “l’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino”. Dunque, corpi estranei a Cosa Nostra non si sarebbero solo limitati a depistare le indagini, ma avrebbero direttamente preso parte, tanto “nella fase ideativa” quanto in quella “esecutiva”, al tremendo eccidio. Soffermandosi sulla sottrazione dell’agenda rossa, i giudici asseriscono che “un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi, ma già 1992 – il movente dell’eccidio di Via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa Nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di Via D’Amelio”. Eppure, i giudici non sono riusciti a individuare le precise generalità dei responsabili.

Mori e Bellini

C’è un’altra importante novità in questo coacervo di atti giudiziari. Essa riguarda l’inchiesta aperta dalla Procura di Firenze per strage, associazione mafiosa e associazione con fini terroristici ed eversivi contro l’ordine democratico nei confronti dell’ex capo del ROS – poi divenuto anche direttore del SISDE – Mario Mori, che ieri pomeriggio è stato interrogato dai pm fiorentini. Recentemente assolto in Cassazione al processo “Trattativa Stato-mafia” (sebbene la “trattativa” tra il ROS e Cosa Nostra, inaugurata dopo la strage di Capaci per il tramite dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, sia stata pienamente confermata dalle sentenze), secondo le ricostruzioni della Procura toscana, Mori avrebbe ottenuto informazioni da due importanti fonti in merito agli attentati che la mafia aveva in programma di compiere. Si parla, nello specifico delle bombe scoppiate nel 1993 all’Accademia dei Georgofili di Firenze, alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, alla Galleria d’Arte Moderna di via Palestro a Milano, oltre al fallito attentato allo stadio Olimpico del gennaio 1994. Raggiunto da tali informazioni, per i magistrati egli non avrebbe impedito “mediante doverose segnalazioni o denunce, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative o preventive, gli eventi stragisti di Firenze, Roma e Milano di cui aveva avuto plurime anticipazioni”.

In foto: Mario Mori, ex generale del ROS dei Carabinieri

Nello specifico, la Procura afferma che Mori, in prima battuta, sarebbe “stato informato già nell’agosto 1992, dal maresciallo Roberto Tempesta del proposito di Cosa Nostra, veicolatogli dalla fonte Paolo Bellini, di attentare al patrimonio storico, artistico e monumentale italiano, in particolare alla Torre di Pisa”. Successivamente, in occasione “di un colloquio investigativo a Carinola il 25 giugno 1993”, Mori sarebbe invece stato avvertito da Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, il quale gli avrebbe “espressamente comunicato che vi sarebbero stati attentati al Nord”. Siino avrebbe infatti riferito a Mori di avere saputo da molteplici fonti che la mafia aveva intenzione di consumare azioni eclatanti nel nord Italia per favorire l’emersione di nuove entità politiche collegate a Bettino Craxi. Paolo Bellini – punto di tramite tra ambienti dei servizi, carabinieri, eversione di destra e mafia – è attualmente indagato dalla Procura di Firenze con l’accusa di strage con l’aggravante di aver favorito la mafia. Secondo i pm, potrebbe essere proprio Bellini il “suggeritore” degli attentati compiuti nel Nord e nel Centro Italia nel 1993. Bellini è stato inoltre recentemente condannato in primo grado tra gli esecutori della strage di Bologna del 2 agosto 1980, attentato che i giudici – come dimostrano le motivazioni della condanna all’ergastolo inflitta lo scorso settembre all’ex NAR Gilberto Cavallini –, fu a tutti gli effetti una “strage politica”, frutto della convergenza d’interessi tra il gruppo eversivo di matrice neofascista dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), la loggia P2 di Licio Gelli e i servizi segreti deviati che allo stesso Gelli rispondevano e che si occuparono di depistare le indagini sul massacro.

Quelli a carico di Mori sono, ovviamente, soltanto elementi di indagine, ma sul generale le ombre aleggiano da molti anni. Oltre che al processo “Trattativa”, l’ex Ros è infatti andato alla sbarra, accusato di favoreggiamento alla mafia, in seguito all’episodio della mancata perquisizione e sorveglianza del covo di Riina dopo il suo arresto del 15 gennaio, nonché dopo quello della mancata cattura di Provenzano del 31 ottobre 1995 a Mezzojuso da parte dei Carabinieri. A condurre gli uomini di Mori al casolare in cui trascorreva la sua latitanza l’allora capo di Cosa Nostra era stato il coraggioso informatore Luigi Ilardo, che pochi mesi dopo, il 10 maggio 1996, sarebbe stato ucciso dalla mafia in seguito a una probabile “soffiata” da ambienti istituzionali (alla Procura di Catania c’è infatti un fascicolo aperto sui presunti mandanti esterni del delitto). In entrambi i casi, Mori e i suoi coimputati furono assolti “perché il fatto non costituisce reato”.

‘Ndrangheta stragista

Un altro passaggio fondamentale ha avuto luogo nel marzo 2023, quando i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, al processo sulla “’Ndrangheta Stragista”, hanno condannato all’ergastolo il capomafia palermitano Giuseppe Graviano e il boss calabrese Rocco Filippone, ritenuti responsabili come mandanti di una serie di attentati e omicidi avvenuti tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994. Nel marzo di quest’anno, sono uscite le motivazioni della sentenza, che offrono uno scenario molto denso sull’alleanza che le associazioni di criminalità organizzata avrebbero stretto con entità extra-mafiose. Secondo i giudici, è infatti emerso “un quadro ricostruttivo granitico e convergente in ordine all’implicazione dei più alti livelli ‘ndranghetistici nei delitti in esame ed alla loro interazione con la mafia siciliana, la massoneria e i servizi segreti, nonché sul tema di Falange Armata”, ovvero della sigla utilizzata per rivendicare decine di stragi e omicidi “per finalità di depistaggio” che, secondo la Corte, fu il “frutto del ‘suggerimento’ dei servizi segreti deviati”. I giudici hanno accertato non solo “la stretta ‘vicinanza’ fra la ‘ndrangheta e i servizi segreti”, ma anche una vera e propria “sinergia operativa fra i due organismi negli specifici episodi criminosi”, certi dello “strettissimo collegamento sussistente fra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e i servizi segreti nel piano di destabilizzazione dello Stato, per il raggiungimento, ognuno, dei propri obiettivi di natura comunque eversiva”.

I giudici reputano “accertati” gli “intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici”, nell’ambito di una “evidente convergenza e commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro ‘desiderata’”. La Corte ha infatti ricordato come, in seguito allo scoppio di Tangentopoli, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta lavorarono alla creazione di “un nuovo piano politico a carattere autonomista” che potesse sostenere “temi sul fronte della giustizia, quali la modifica della legislazione antimafia”. Un progetto che però fu messo da parte “in favore dell’appoggio al nascente partito di Forza Italia, con alcuni dei cui esponenti i siciliani avevano avviato contatti, tant’è che le stragi cessarono nel corso dell’anno 1994, sussistendo l’aspettativa che il nuovo soggetto politico avrebbe ‘aiutato’ le organizzazioni criminali che l’avevano elettoralmente sostenuto”.

La politica

In questo complesso scenario, non può infatti mancare alla lista delle presunte entità di carattere “eversivo” che hanno strettamente collaborato in quella violenta fase di storia italiana la componente politica. I magistrati di Firenze e Caltanissetta stanno cercando proprio di fare luce su questo tema, rispetto a cui ci sono novità importanti. Per esempio, dall’atto di chiusura indagini inerente il filone dell’inchiesta sul patrimonio dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri – che ha già scontato una condanna a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa – emerge che il “fedelissimo” di Silvio Berlusconi è accusato di violazione della normativa antimafia e, in concorso con sua moglie, di trasferimento fraudolento di valori, con l’aggravante di aver agito “al fine di occultare la più grave condotta di concorso nelle stragi ascrivibile a Silvio Berlusconi e allo stesso Dell’Utri”. Secondo la Procura di Firenze, infatti, le ingenti somme girate da Berlusconi alla famiglia Dell’Utri – circa 28 milioni di euro tra il 2012 e il 2021 (cui va aggiunto, dal maggio 2021, anche un vitalizio da 30mila euro al mese) – sarebbero servite a far tenere la bocca chiusa all’ex senatore in merito alle presunte implicazioni del ruolo politico di Berlusconi dietro le stragi del 1993. Insieme a Dell’Utri, fino al momento della sua morte, era indagato dai pm fiorentini tra i possibili mandanti esterni delle stragi anche lo stesso Berlusconi.

In foto: Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi

Portando lo sguardo in Sicilia, è bene evidenziare che, nel maggio del 2022, il gip del tribunale di Caltanissetta, Graziella Luparello, ha respinto la richiesta di archiviazione – avanzata due mesi prima dalla Procura – dell’inchiesta sui presunti mandanti esterni della strage di via D’Amelio, dando impulso a nuove indagini ed esplicitando anche i “binari” sui quali far convogliare le energie investigative dei pm sul biennio stragista: la possibile rilevanza della “pista ‘istituzionale’”, incentrata sul “concorso nelle stragi di personaggi delle istituzioni deviate, eventualmente organizzati in organismi paramilitari”, quella della “pista nera”, che evidenzi le possibili “collusioni tra mafia siciliana ed esponenti di destra eversiva” nell’ambito della “lettura coordinata dei diversi delitti eccellenti degli anni ’80-’90” – tra le figure che, secondo la gip, meritano un accurato approfondimento investigativo, figura Paolo Bellini –, ma anche quella dell’eventuale presenza “di un anello di carattere politico individuabile in un personaggio o in un partito politico che potrebbe aver concorso a definire la strategia della tensione, allo scopo di legarsi, in un reciproco ‘do ut des’, a Cosa Nostra”.

Di Berlusconi, Dell’Utri e Forza Italia si parla diffusamente anche la summenzionata sentenza sulla “‘Ndrangheta stragista”. Infatti, all’interno delle motivazioni, la Corte ha ricordando come Dell’Utri sia stato definitivamente considerato “responsabile del reato di concorso in esterno in associazione mafiosa nell’arco temporale 1978-1982” per avere “favorito e determinato la realizzazione di un accordo di reciproco interesse fra i boss mafiosi e l’imprenditore Berlusconi”. A questo proposito la Corte evidenzia come la contestuale assunzione nella villa di Arcore – residenza del Cavaliere – del boss mafioso di Porta Nuova Vittorio Mangano “costituiva espressione dell’accordo concluso, in virtù della mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di Cosa Nostra e Berlusconi, in quanto funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore”. I giudici si soffermano poi sui dialoghi intrattenuti da Graviano in carcere con il suo compagno di ora d’aria Umberto Adinolfi, da cui emergono “i contenuti chiari di un risentimento dell’imputato (Graviano, ndr) nei confronti del politico e del ‘compaesano’ Dell’Utri, che avevano tradito gli accordi, non ricambiando, con interventi legislativi, l’aiuto che i siciliani avevano fornito alla nascita del nuovo partito di Forza Italia ed all’elezione dei predetti”. In merito al fallito attentato allo Stadio Olimpico, programmato per la sera del 23 gennaio 1994 e fortunatamente non andato in porto per il malfunzionamento del telecomando, i giudici hanno confermato la ricostruzione del pentito Gaspare Spatuzza – il “vero” esecutore materiale della strage di via D’Amelio, che sconfessò Scarantino –, il quale aveva raccontato ai pm di un incontro avvenuto poco prima della fallita strage al bar Doney di Roma con Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio. In quell’occasione, come dichiarato da Spatuzza, Graviano si era dimostrato soddisfatto, dicendo che “avevamo portato a buon fine tutto quello che noi speravamo”, facendo riferimento a “«quello del Canale 5»” ed al “«compaesano»” Dell’Utri, aggiungendo di avere “«il Paese nelle mani»” e che bisognava dare il “«colpo di grazia»”. Ma l’attentato, dopo l’annuncio della discesa in campo di Silvio Berlusconi (26 gennaio), l’arresto di Giuseppe Graviano (27 gennaio) e la vittoria alle elezioni Politiche di Forza Italia (28 marzo), non fu più replicato.

[di Stefano Baudino]

Israele attacca di nuovo la Cisgiordania: 3 morti

0

Tre giovani palestinesi di età comprese tra i 17 e i 24 anni sono stati uccisi ieri nel nord della Cisgiordania durante scontri a fuoco con l’esercito israeliano. Gli attacchi dell’IDF nell’area sono proseguiti per tutta la notte. L’esercito israeliano ha effettuato incursioni nelle città di Silat, al-Dhahr e al-Fandaqumiya, a sud di Jenin. Nel villaggio di Husan, a ovest di Betlemme, i soldati israeliani hanno lanciato granate stordenti e gas nocivo durante gli scontri con i palestinesi locali. Le truppe hanno anche preso d’assalto la comunità del villaggio di Khallet al-Farra, a sud di Hebron, dove hanno saccheggiato le case prima di ritirarsi.

Quasi la metà dei giornalisti che denunciano reati ambientali ha subito minacce

0

Circa quattro giornalisti su 10 che si occupano di questioni ambientali sono stati minacciati a causa del loro lavoro. L’11% ha persino subito violenze fisiche. È quanto ha rivelato un’indagine globale condotta su oltre 740 giornalisti e redattori di 102 Paesi. Il 43% di coloro che sono stati minacciati “talvolta” o “frequentemente” sarebbe stato in particolare preso di mira da persone impegnate in attività illegali come il disboscamento e l’estrazione mineraria. Circa il 30%, invece, è stato minacciato di azioni legali, a testimonianza della crescente tendenza di aziende e governi a ricorrere al sistema giudiziario per imbavagliare la libertà di parola su certi temi. L’inchiesta è stata condotta dall’Earth Journalism Network (EJN) e rappresenta la prima analisi sulle sfide affrontate dai giornalisti che si occupano delle questioni ecologiche.

Il rapporto dell’EJN in collaborazione con l’Università Deakin, in Australia, è stato pubblicato il 5 giugno col titolo “Covering the Planet report”. Secondo lo studio, i giornalisti che si occupano di ambiente sarebbero più soggetti a soprusi e minacce a causa del «clima ostile» che circonda la pratica del giornalismo ambientale; alle volte i casi di censura sfocerebbero addirittura nella violenza, tanto che, sempre secondo lo studio, «tra il 2005 e il 2016 si stimano 40 giornalisti uccisi a causa del loro lavoro relativo all’ambiente, più di tutti i giornalisti uccisi durante la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan». Nonostante la maggior parte delle provocazioni avvenga in Paesi con un basso indice di libertà di parola, gli episodi di minaccia si verificano anche in Paesi che figurano tra i primi posti nelle varie classifiche sulla libertà di stampa, come per esempio la Finlandia, prima della classifica di Reporters Senza Frontiere.

Nello specifico, dei 744 giornalisti intervistati, 259 (il 35%) sostengono di essere stati minacciati “qualche volta”, mentre 31 (4%) riportano di avere ricevuto minacce “frequentemente”. Il tipo di minaccia più frequente risulta quella verbale con il 52% delle risposte, mentre al secondo posto si trovano le minacce online, con il 43%; a chiudere il podio arrivano le minacce legali, al 29%. Sempre il 29% delle minacce risulterebbe provenire dal Governo, mentre il 25% dalle aziende. In proporzione sembrano essere stati minacciati più uomini che donne (41% contro 36%), e il 39% avrebbe ceduto ai ricatti o alle intimidazioni e sarebbe finito per autocensurarsi. Di questi, la maggior parte delle persone dice di avere sentito l’urgenza di cancellare quanto scritto a causa di coloro che svolgevano attività illegali (42%), e solo l’1% in meno dice di averlo fatto a causa del Governo; la terza “ragione di autocensura” appare essere il responso pubblico (26%).

Il report EJN si concentra poi su altri dati e fornisce ulteriori statistiche, tutti studi rivolti a inquadrare le sfide che il giornalismo ambientale deve affrontare, tra cui figura anche la stessa difficoltà nella restituzione e nella gestione dei dati.

[di Dario Lucisano]

Nigeria: i lavoratori in sciopero conquistano la rete elettrica e chiudono gli aeroporti

0

I principali sindacati nigeriani hanno chiuso la rete nazionale elettrica e interrotto i voli in tutto il Paese, iniziando uno sciopero a tempo indeterminato per il mancato accordo con il governo su un nuovo salario minimo. Si tratta della quarta iniziativa di protesta intrapresa dal Nigerian Labour Congress (NLC) e dal Trade Union Congress (TUC), due delle più grandi federazioni sindacali del Paese, da quando il presidente Bola Tinubu è entrato in carica. La Transmission Company of Nigeria (TCN) ha riferito che i membri del sindacato hanno allontanato gli operatori dalle sale di controllo energetico del Paese e hanno spento almeno sei sottostazioni, chiudendo infine la rete nazionale. La compagnia aerea nigeriana Ibom Air ha dichiarato che sospenderà i voli fino a nuovo avviso a causa dello sciopero, mentre un’altra, la United Nigeria, ha dichiarato che gli aeroporti in tutto il Paese sono stati chiusi poiché i lavoratori in sciopero non hanno permesso a nessuno dei voli di operare.

Lo sciopero è iniziato dopo che si sono interrotti i colloqui tra il governo e le due maggiori federazioni sindacali del Paese, il Nigerian Labour Congress (NLC) e il Trade Union Congress (TUC), circa l’aumento del salario minimo. Questo in corso è il quarto sciopero da quando il Presidente Bola Tinubu è entrato in carica l’anno scorso. La Transmission Company of Nigeria (TCN) ha dichiarato che i membri del sindacato e i lavoratori in sciopero hanno allontanato gli operatori dalle sale di controllo nelle stazioni di energia elettrica del Paese, chiudendo almeno sei sottostazioni e, infine, lasciando al buio milioni di persone in tutto il Paese. I sindacati dell’elettricità e dell’aviazione hanno dichiarato lunedì di aver ordinato ai membri di ritirare a tempo indeterminato i loro servizi, in conformità con lo sciopero. Il TCN ha dichiarato che stava facendo grandi sforzi per recuperare e stabilizzare la rete elettrica nazionale, ma che i sindacati stavano ostacolando il ripristino. Giovedì, l’ente nigeriano per le privatizzazioni ha dichiarato che il Paese ha ottenuto un prestito della Banca Mondiale di 500 milioni di dollari proprio per il suo settore elettrico.

La compagnia aerea nigeriana Ibom Air, a causa dello sciopero, ha dichiarato che sospenderà i voli fino a nuovo avviso, mentre United Nigeria ha dichiarato che gli aeroporti in tutto il Paese sono di fatto chiusi, con i lavoratori in sciopero che non hanno permesso a nessuno dei suoi voli di operare. Anche i sindacati petroliferi hanno minacciato di fermare la produzione di petrolio, ma il capo dell’autorità di regolamentazione petrolifera nigeriana, Gbenga Komolafe, ha affermato che sono in atto contingenze per garantire che la produzione non venga del tutto interrotta. I sindacati avevano chiesto un aumento del salario minimo mensile a 494.000 naira, circa 333 dollari, dall’attuale che si attesta a 30.000 naira, circa 22 dollari. Dalla sua, il governo si sta offrendo di raddoppiarlo a circa 60.000 naira, adeguamento giudicato del tutto insufficiente dai sindacati. Questo, soprattutto, se si pensa che un sacco di riso da 50kg, utilizzato da molti come maggior fonte di nutrimento mensile per una famiglia, costa 75.000 naira (56 dollari).

Da quando è entrato in carica lo scorso anno, il Presidente Bola Tinubu ha intrapreso riforme vaste riforme, le quali hanno alimentato un aumento dell’inflazione ai massimi da quasi 30 anni e hanno peggiorato la crisi del costo della vita nella nazione più popolosa dell’Africa. È stato messo sotto pressione dai sindacati per offrire sollievo alle famiglie e alle piccole imprese dopo aver eliminato i sussidi sulla benzina, che mantenevano il carburante a buon mercato ma costavano al governo 10 miliardi di dollari all’anno, mentre il valore della moneta nazionale scivolava verso il basso, facendo registrare una delle peggiori crisi economiche degli ultimi decenni. Il tutto mentre il mese scorso, il presidente ha approvato un sussidio di 90 miliardi di naira (67 milioni di dollari) per i musulmani che partecipano al pellegrinaggio alla Mecca e, in precedenza, ha autorizzato budget multimilionari per acquisto di SUV e ristrutturazioni per residenze di lusso, nonché per l’acquisto di veicoli per l’ufficio della First Lady, che non è neanche un ruolo formalmente riconosciuto dalla legge nigeriana.

[di Michele Manfrin]

Il consiglio di sorveglianza nucleare delle Nazioni Unite si schiera contro l’Iran

0

Il consiglio di sorveglianza nucleare delle Nazioni Unite ha censurato l’Iran per non aver cooperato pienamente con l’agenzia. Il provvedimento arriva una settimana dopo che un rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica aveva affermato che l’Iran ha ulteriormente aumentato le sue scorte di uranio arricchito a livelli vicini a quelli per lo sviluppo di armi nucleari. Venti membri hanno votato a favore della risoluzione, mentre Russia e Cina si sono opposte. La risoluzione è stata presentata da Francia, Germania e Gran Bretagna. Le risoluzioni di censura del consiglio dell’AIEA non sono giuridicamente vincolanti, ma inviano un forte messaggio politico e diplomatico.

In Messico si stanno ripristinando le fattorie galleggianti dell’epoca azteca

0

Alcuni scienziati dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM), in collaborazione con degli agricoltori locali, stanno promuovendo un programma di ripristino delle chinampas dell’area umida di Xochimilco, a sud di Città del Messico. Le chinampas sono delle piccole isole artificiali create dagli Aztechi, una sorta di fattorie galleggianti che rivestono un ruolo fondamentale nell’identità di Xochimilco, una zona di laghi e paludi sopravvissuta all’urbanizzazione e all’espansione dell’agricoltura industriale. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di conservare il sistema delle chinampas e tutti gli esseri viventi che ne dipendono. Un sistema che, nel 1987, è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO proprio per l’importanza culturale e il valore ecologico che esso riveste.

Le chinampas, una volta usate solo per coltivare ortaggi e verdure a foglia, risultano ora in gran parte abbandonate o trasformate, ad esempio, in campi da calcio e ristoranti. Nel 2018, dati della FAO rivelarono che solo il 17% delle 20.922 chinampas era ancora coltivato in modo tradizionale. Il resto era stato abbandonato o convertito. Inevitabilmente, la trasformazione delle chinampas ha portato anche a cambiamenti nella biodiversità locale, mettendo a rischio specie come l’assolotto, un’iconica salamandra di Xochimilco. Secondo uno studio del 2015, la densità degli assolotti è scesa da 6.000 per chilometro quadrato nel 1998 a soli 100 per chilometro quadrato nel 2008. In 10 anni, una diminuzione del 98%, e il declino continua. Per invertire la tendenza, il Laboratorio di Restauro Ecologico dell’UNAM, insieme ai coltivatori locali, sta quindi lavorando per ripristinare l’area. La loro strategia include la riduzione delle specie invasive come carpe e tilapie, il monitoraggio ambientale e la creazione di “rifugi ecologici”. Il progetto, in particolare, prevede la riabilitazione delle chinampas e dei canali secondari, utilizzando piante acquatiche come biofiltri per migliorare la qualità dell’acqua. Questo approccio non solo protegge l’assolotto, ma ripristina anche l’intero ecosistema. A partire dal 2008, sono stati creati dei rifugi ecologici, ovvero chinampas protette da strutture che impediscono l’ingresso di specie invasive e stabilizzate con alberi di salice. Questi rifugi offrono un habitat sicuro dove specie come l’assolotto possono completare il loro ciclo vitale lontano dai predatori e dall’acqua inquinata. L’obiettivo a lungo termine è quello di trasformare almeno 400 chinampas nei prossimi 15 anni.

Questo richiede però anche volontà politica e collaborazione con i governi. Attualmente, nonostante l’origine decennale del progetto, solo 40 chinampas sono state riabilitate. La nota positiva è che i benefici sono già evidenti. Basilio Rodríguez, uno degli agricoltori inclusi nell’iniziativa, ha ripristinato il suolo rimuovendo il sedimento e stabilizzando l’isola. Ed oggi, la sua chinampa è un esempio di come l’agricoltura sostenibile possa coesistere con la conservazione ambientale. La riabilitazione delle chinampas, infatti, non solo migliora la qualità dell’acqua e aumenta la resa agricola, ma promuove anche una maggiore biodiversità e un ecosistema più sano, nonché fornisce protezione contro i cambiamenti climatici. In generale, le zone umide come Xochimilco sono ecosistemi strategici per mitigare gli effetti della crisi ecologica. Ciò è dovuto principalmente all’importante ruolo che svolgono in termini di cattura e stoccaggio del carbonio, ma anche perché fungono da “ammortizzatori” degli eventi meteorologici estremi, a maggior ragione se si trovano in una città delle proporzioni di Città del Messico. Insomma, – ha commentato Carlos Sumano, membro del Laboratorio di restauro ecologico – «un esempio concreto di come l’umanità possa coesistere in un ecosistema, producendo cibo, soddisfacendo i propri bisogni e, allo stesso tempo, conservando e rispettando l’ambiente. Il sistema delle chinampas conferma che questo è reale, che è possibile, che si può fare, che funziona».

di Simone Valeri

 

Israele senza limiti: ancora stragi a Gaza, mentre i sionisti assaltano Gerusalemme Est

3

Ieri a Gaza si è verificata l’ennesima strage di civili, dopo che l’esercito israeliano ha bombardato una scuola a Nuseirat – nel centro dell’enclave costiera – sostenendo che fosse usata come base dai militanti di Hamas. Una versione smentita dal direttore dell’ufficio stampa governativo gestito da Hamas, Ismail Al-Thawabta, il quale ha negato che nell’edificio fosse presente un posto di comando del Movimento di resistenza palestinese, sostenendo, invece, che il raid avrebbe ucciso 27 persone che si erano rifugiate nella scuola delle Nazioni Unite: «L’occupazione usa la menzogna con l’opinione pubblica, attraverso false storie inventate, per giustificare il brutale crimine commesso contro dozzine di sfollati» ha detto Thawabta all’agenzia di stampa britannica Reuters. Contemporaneamente, si sono verificati assalti violenti da parte di centinaia di coloni israeliani nella Città Vecchia di Gerusalemme est, territorio occupato illegalmente da Israele dalla Guerra dei sei giorni (1967), nonostante gran parte della comunità internazionale riconosca l’illegittimità dell’occupazione. I coloni hanno aggredito giornalisti e commercianti palestinesi e la polizia israeliana ha fatto sapere di avere arrestato diciotto persone.

L’attacco alla scuola gestita dall’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi è solo l’ultimo di una lunga serie di aggressioni alle strutture civili, protette dalla Convenzione di Ginevra, che vanno avanti dall’inizio della campagna militare israeliana nella Striscia da dopo il 7 ottobre: negli scorsi mesi, l’esercito dello Stato ebraico ha posto sotto assedio i due maggiori ospedali dell’enclave, l’Al-Shifa e l’Al-Rantisi, colpendo anche alcune scuole. Ad oggi, la situazione è aggravata dal fatto che lo Stato ebraico non sta rispettando gli ordini della Corte internazionale di giustizia, scaturiti nell’ambito della causa intentata dal Sudafrica contro Tel Aviv per genocidio, ma al contrario sta proseguendo il massacro di civili, nonostante il crescente isolamento internazionale e le pressioni per concordare un cessate il fuoco. L’ultimo bombardamento alla scuola di Nuseirat è avvenuto dopo che Israele ha intrapreso una nuova ondata di attacchi militari che, partita da Rafah – nel sud del territorio palestinese – ha coinvolto poi le restanti parti dell’enclave. Israele ha anche affermato che non ci sarà alcuna sospensione delle operazioni militari durante le trattative per un cessate il fuoco che appaiono al momento in stallo. Tel Aviv ha, infatti, ribadito che la campagna militare non terminerà fino a quando Hamas non sarà stato sconfitto.

Allo stesso tempo, scontri si sono verificati anche a Gerusalemme est, in occasione della parata per il Giorno di Gerusalemme, una ricorrenza annuale con cui Israele ricorda l’occupazione della parte orientale della città da parte del proprio esercito dopo la Guerra dei sei giorni e la conseguente annessione unilaterale. Appena prima dell’inizio dell’evento, centinaia di giovani sionisti ultranazionalisti sono entrati, attraverso la Porta di Damasco, nel quartiere musulmano della Città Vecchia, la parte più antica di Gerusalemme Est. Qui hanno aggredito i residenti palestinesi e cantato cori come «morte agli arabi» e «Maometto è morto». Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, non riuscendo a contenere i manifestanti, le forze dell’ordine hanno dovuto impedire ai giornalisti palestinesi di entrare nella Città Vecchia. Tra le persone aggredite figura anche Nir Hasson, giornalista di Haaretz, buttato a terra e preso a calci prima di essere soccorso da agenti della polizia di frontiera, per avere aiutato un giornalista palestinese a sua volta attaccato.

Ma le tensioni in Medio Oriente non finiscono qui, perché alcuni ministri del governo di Benjamin Netanyahu hanno chiesto apertamente di ingaggiare una guerra contro il Libano, dopo che Hezbollah (il Partito di Dio libanese, nato come organizzazione paramilitare islamica sciita e antisionista) ha colpito sabato scorso il quartier generale della 769ª Brigata israeliana presso Kyriat Shmona con pesanti razzi Burkan, innescando vasti incendi. «Solo poche ore fa sono stato avvertito che la situazione nel nord del Paese sta peggiorando e che la zona di sicurezza deve essere spostata da Israele al sud del Libano», ha dichiarato il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, invocando allo stesso tempo la guerra con Beirut: «Un anno fa un ministro della Difesa disse che avremmo riportato il Libano all’età della pietra. Signor Primo Ministro, signor Ministro della Difesa, signor Capo di Stato Maggiore, è giunto il momento. C’è il pieno sostegno dell’intero popolo israeliano», ha scritto su X. Da parte sua, il primo ministro israeliano, durante una visita alla zona di confine, ha avvertito che Israele è «preparato per un’operazione molto intensa nel nord. In un modo o nell’altro ripristineremo la sicurezza».

Non solo, dunque, non si intravede la fine delle ostilità a Gaza, ma la guerra potrebbe addirittura allargarsi al Libano, infuocando la già tormentata regione mediorientale, mentre Israele continua a violare tutte le norme del diritto internazionale, comprese le disposizioni della Corte internazionale di giustizia.

[di Giorgia Audiello]