domenica 24 Novembre 2024
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Sovrano e indipendente dagli USA: il Messico prosegue sulla strada tracciata da Obrador

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Con le ultime elezioni presidenziali in Messico, svoltesi il 2 giugno insieme a quelle per il rinnovo del Parlamento, i messicani hanno deciso di proseguire sulla strada tracciata dal presidente uscente Andrés Manuel López Obrador, orientata a perseguire una politica estera e nazionale sovrana e indipendente dagli Stati Uniti. Hanno votato, infatti, in maggioranza Claudia Sheinbaum, la candidata del suo partito di sinistra – il Movimento Rigenerazione Nazionale, meglio conosciuto con l’acronimo di Morena – destinata ad essere la prima presidente donna del Paese: secondo il conteggio rapido pubblicato dall’Istituto nazionale elettorale, Sheinbaum avrebbe registrato, infatti, un dato tra il 58,3% e il 60,7% dei voti, staccando di quasi trenta punti percentuali la sua principale rivale, Xóchitl Gálvez, che rappresenta una coalizione di partiti di centro e di centrodestra. Il candidato del Movimento Cittadino (MC) dell’opposizione, Jorge lvarez Maynez, si attesterebbe, invece, tra il 9.9 e il 10.8 per cento. La vittoria dell’esponente di Morena dovrebbe garantire la prosecuzione di una politica estera indipendente come quella che ha caratterizzato il Messico di Obrador, ispirato al progetto della Patria Grande hiberoamericana.

Il governo di Obrador è diventato un riferimento e un baluardo per  tutti i governi non allineati a Washington della regione: è stato, infatti, il grande alleato di Cuba, sotto sanzioni statunitensi, e l’“ancora di salvezza” di diversi presidenti sudamericani. Quest’anno, ad esempio, l’ambasciata messicana ha dato rifugio all’ex vicepresidente “correista” dell’Ecuador, Horge Glas, vittima di una persecuzione giudiziaria ordita dai poteri filoccidentali ecuadoriani. La vicenda ha suscitato clamore, in quanto il neopresidente di Quito, filo-occidentale e filo-americano, Daniel Noboa, ha violato il diritto internazionale ordinando ai suoi uomini di fare irruzione nell’ambasciata messicana, innescando così una grave crisi diplomatica. Allo stesso modo, quando in Perù il governo Castillo è stato rovesciato, nel dicembre 2022, da un golpe sostenuto dagli USA, il Messico di Obrador è stato il primo a rompere i rapporti diplomatici con Lima. Similmente, in Bolivia, dopo il golpe del 2019, quando i gruppi paramilitari di estrema destra hanno cominciato a perseguitare Evo Morales, a offrirgli riparo è stata sempre l’ambasciata messicana di La Paz. Segno di come, per la prima volta, il Messico si è reso protagonista di una politica di sovranità e indipendenza dagli USA mai verificatasi prima e che ci si aspetta verrà proseguita anche da Claudia Sheinbaum.

Ex sindaca di Città del Messico dal 2018 al 2023, fisica e ingegnere energetico, fin dalla sua entrata in politica nel 2000, la carriera di Sheinbaum è stata legata a quella di Obrador, tanto che alcuni analisti ritengono che il suo governo sarà caratterizzato dalla forte influenza dell’ex presidente, sebbene ciò sia negato da entrambi. Le principali sfide che dovrà affrontare la neopresidente riguardano un’economia che cresce ma non quanto sarebbe necessario, la violenza del narcotraffico, che negli ultimi anni con Obrador è aumentata, e l’immigrazione. Mentre, infatti, la politica del presidente uscente – che lascia dopo sei anni, con un indice di popolarità uguale o addirittura più alto di quando era stato eletto, nel 2018, col 53% dei voti – era riuscita a ridurre la povertà grazie ad una razionalizzazione delle risorse pubbliche e una lotta alla corruzione istituzionale dei partiti storici, non è riuscita a migliorare la sicurezza nelle periferie e nelle campagne né a contrastare il narcotraffico. La politica tracciata da Obrador – e che intende proseguire anche Sheinbaum – sintetizzata dallo slogan «Abbracci e non proiettili», ossia tesa a intervenire più sul piano sociale che non su quello dell’intervento armato contro i trafficanti – ha infatti fatto precipitare il Paese in un vortice di violenza. Nonostante ciò, la popolazione messicana ha scelto la candidata di Morena, la cui linea – anche su questo piano – si pone in continuità con quella di Obrador.

Ricercatrice ed esperta di ambiente e sviluppo sostenibile, nonché vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2007, Sheinbaum da sindaca si è concentrata molto sulle questioni ecologiche e su una forte politica sociale, creando infrastrutture e distribuendo aiuti nei quartieri più poveri. Durante il suo mandato ha promosso importanti progetti come il Metrobús e il programma di riforestazione urbana. Come presidente del Messico, invece, ha garantito riforme economiche per rafforzare lo Stato sociale, lo sviluppo di una politica “sulle energie rinnovabili” e un impegno sul contrasto alla violenza, soprattutto contro le donne. Con la sua elezione, il Paese ha confermato di voler proseguire nel solco tracciato da Obrador, non solo per quanto riguarda gli aspetti di gestione interna della nazione, ma anche e soprattutto per la politica estera, sancendo il ruolo del Messico come riferimento e sostegno dei Paesi non allineati a Washington.

[di Giorgia Audiello]

A Bologna sarà possibile tenere un referendum sulla “città 30”

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Il Comitato dei garanti del comune di Bologna ha giudicato ammissibile la richiesta delle forze politiche di centro-destra di indire un referendum consultivo in merito al limite di velocità di 30 chilometri all’ora stabilito da gennaio dall’amministrazione di centro-sinistra nella maggior parte delle strade. Per dare concretezza all’azione i partiti dovranno raccogliere almeno 9mila firme nell’arco di circa tre mesi. Se riusciranno a farlo, il referendum potrà andare in scena già nei primi mesi del prossimo anno. In una nota, il sindaco PD di Bologna, Matteo Lepore, ha definito il possibile referendum «una bella e ulteriore occasione di partecipazione e di confronto».

Quasi il 10% di tutti gli autovelox presenti nel mondo sono istallati in Italia

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Con più di 11.300 presenti sulle proprie strade, l’Italia è il terzo Paese al mondo per numero di autovelox. Lo ha certificato il portale SCDB.info, in cui è presente il più vasto database esistente sui rilevatori velocità, che pone sui due gradini più alti del podio Russia e Brasile. Questi ultimi hanno rispettivamente 18.425 e 18.091 autovelox, ma contano un numero estremamente più alto di abitanti e di chilometri di strade. E se è sicuramente vero che molti rilevatori sono posizionati in punti strategici delle arterie dello Stivale al fine di evitare incidenti, le statistiche fanno propendere per l’idea che la maggior parte degli apparecchi siano utilizzati per “fare cassa”, tant’è che a salvare i bilanci comunali sono spesso le entrate “extra-tributarie”, di cui le multe – comprese quelle che derivano dalle rilevazioni dei rilevatori di velocità – rappresentano una fetta importante.

In totale, secondo quando riportato dal database, in tutto il mondo sono presenti 113.831 autovelox. Di questi, oltre la metà, 66.400, si trovano in Europa, in cui viene ricompreso anche il territorio russo. E proprio la Russia si aggiudica il primato, con ben 18.425 autovelox. Il nostro Paese ne ha soltanto 7mila in meno – precisamente 11.303 -, ovvero il 9,93% di tutti quelli installati nel mondo. Seguono Regno Unito (7.835 dispositivi), Germania (4.720) e Francia (3.850), tutti Paesi la cui popolazione supera nettamente quella italiana e in cui scorrono reti stradali molto più lunghe. Il medesimo discorso vale ovviamente anche per la Russia, in cui il numero di abitanti e i chilometri di strade sono oltre il doppio rispetto ai nostri. Dai dati emerge come l’Italia superi per numero di rilevatori della velocità anche gli Stati Uniti, che si fermano a 8.190 autovelox, pur avendo un numero di abitanti pari quasi a sei volte quello italiano e una rete stradale di 6.586.610 chilometri, ben 13,5 volte più grande di quella del nostro Paese. L’unico Stato fuori dall’Europa che vede più autovelox dell’Italia è il Brasile, con 18.091 apparecchi. A ogni modo, si parla di un Paese di 217,5 milioni di persone, con due milioni di chilometri di strade. Anche in questo caso, dunque, il confronto non regge.

Le entrate economiche prodotte dalle multe degli autovelox rappresentano una significativa frazione della voce “Proventi derivanti dall’attività di controllo e repressione delle irregolarità e degli illeciti”, che viene inserita dai Comuni nei bilanci. L’ipotesi che la gran parte di tali apparecchi siano installati col solo obiettivo di incamerare denaro si ricava anche dal fatto che, mentre essi abbondano sulle nostre strade, in Italia a scarseggiare rispetto ad altri Paesi siano semafori e tutor. Questi ultimi, che rilevano la velocità media in un tratto, nel nostro territorio sono soltanto 638, mentre nel resto d’Europa se ne contano 6.314.

Nel frattempo, negli scorsi giorni è entrato in Gazzetta Ufficiale il nuovo decreto autovelox. Molte le novità presenti nel testo, in cui si prevede che i Comuni saranno chiamati a chiedere al prefetto il nulla osta per l’installazione di autovelox, assicurando che il dispositivo servirà a limitare gli incidenti dovuti alla velocità (obbligo che si estende anche ai dispositivi mobili montati su treppiedi). Per quanto concerne le distanze della segnaletica, gli autovelox dovranno essere anticipati ai guidatori 1.000 metri prima sulle strade extraurbane, 200 metri prima sulle urbane a scorrimento e 75 metri prima sulle altre strade. Vista la volontà di evitare le cosiddette “multe in serie”, il ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha spiegato che «tra un dispositivo e l’altro dovranno intercorrere distanze minime differenziate in base al tipo di strada»: la distanza minima è di 3 km sulle strade extraurbane e 1 km sulle strade secondarie. Per quanto riguarda città, si è stabilito lo stop agli autovelox sotto ai 50 km/h. Fuori dall’abitato, invece, potranno essere installati nei tratti in cui il limite è inferiore di oltre 20 Km a quello previsto dal Codice della Strada. Secondo le nuove norme, gli occhi elettronici dovranno essere sempre ben visibili e, nel caso di dispositivi mobili, la contestazione dovrà essere immediata.

[di Stefano Baudino]

La svolta del Sudafrica: termina dopo 30 anni il dominio del partito di Nelson Mandela

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Dopo un dominio politico durato ininterrottamente dalla fine dell’apartheid e dalle prime elezioni democratiche del 1994, il partito fondato da Nelson Mandela (African National Congress – ANC) ha perso la maggioranza assoluta e dovrà cercare alleanze parlamentari per governare. I voti raccolti dal partito si sono infatti fermati al 40%, in un brusco crollo dal 57,5% di appena 5 anni fa. A pesare sull’elettorato l’arretramento del Paese nella redistribuzione sociale della ricchezza e la crescente disoccupazione. Exploit, invece, per il partito dell’ex Presidente Jacob Zuma, che fu Capo di Stato proprio alla guida dell’ANC, e che era precedentemente stato dichiarato “incandidabile” dalla Corte Costituzionale sudafricana a causa di una passata condanna. Nonostante non dovrebbero verificarsi cambi di rotta troppo bruschi, le elezioni segnano anche una possibile svolta geopolitica visto che non risulta ancora chiaro con chi l’ANC si alleerà per formare una nuova maggioranza governativa. Il Sudafrica è infatti il Paese più avanzato dell’Africa meridionale, nonché uno dei membri fondatori dei Brics insieme a Brasile, Russia, India e Cina.

Elezioni in Sudafrica: affluenza e risultati

Le elezioni in Sudafrica si sono tenute in data 29 maggio, e già solo guardando i dati sull’affluenza riflettono la assoluta crisi politica e sociale che investe il Paese da anni: ai seggi di mercoledì si sono infatti presentati solo il 58,64% degli aventi diritto, contro il 66% di cinque anni fa. Dal 1994, data delle prime elezioni dal termine del regime di apartheid, si è infatti passati dal picco di affluenza dell’89,3% nel 1999, al dato pubblicato nelle ultime ore, che risulta il più basso di sempre. Generalmente parlando, è almeno dallo stesso 1999 che la affluenza al voto in Sudafrica vive una tendenza al ribasso: nelle due tornate successive a quello stesso anno, infatti, il numero dei votanti è calato di 12 punti, rimanendo all’incirca stabile per due giri di boa; le elezioni del 2014 hanno visto invece un calo più considerevole, pari a poco meno del 4%, e nel giro degli ultimi dieci anni, gli aventi diritto andati a votare sono diminuiti in proporzione di poco meno del 15%.

Alle elezioni, dietro all’ANC con il 40,18% è arrivato il partito liberista, principale portavoce degli interessi della popolazione bianca ed ex colonizzatrice, Alleanza Democratica con il 21,81%. Il suo risultato appare relativamente simile a quello degli anni precedenti. A cambiare le carte in tavola è stato piuttosto l’MK dell’ex Presidente Zuma, che nella sua primissima tornata elettorale ha ottenuto il 14,58% dei voti. Esso si presenta come un partito antisistema dalle istanze radicali, che accusa l’ANC di avere perso quella stessa radicalità del passato: il medesimo nome del partito “Lancia della Nazione” richiama quello del vecchio braccio armato dell’ANC ai tempi della lotta di liberazione, e si fa portatore dello spirito rivoluzionario del fu movimento di Mandela, incarnandone i principi di modificazione della società. Al di là dei fattori esterni quali la presenza di Zuma, tuttavia, l’origine effettiva della disfatta dell’ANC va cercata nella profonda crisi sociale economica e lavorative che stringe il Paese dalla sua stessa rinascita nel 1994.

La crisi del Sudafrica oggi

Il presidente sudafricano uscente Cyril Ramaphosa

A trent’anni dalla fine del brutale regime di segregazione razziale conosciuto come apartheid, il Sudafrica risulta infatti ancora oggi un Paese dalle forze disuguaglianze sociali ed economiche, che vengono alimentate da una sempre più incombente crisi strutturale e dei servizi. In Sudafrica, infatti, non sono rari i guasti alle linee elettriche, che spesso portano a causare blackout di varia portata, problemi ingigantiti dalla imminente crisi energetica che investe il Paese. Problematica risulta anche la fornitura della rete idrica, che a detta dell’ultimo rapporto del World Economic Forum si posizionerebbe quinta nella classifica dei rischi del Paese. La forte crisi infrastrutturale non risulta che un riflesso della depressione economica che affligge il Paese. Secondo vari rapporti della Banca Mondiale e del WEF, infatti, lo Stato sarebbe sull’orlo dell’implosione. L’anno scorso lo stesso World Economic Forum ha inserito al primo posto nella classifica dei rischi proprio la possibilità di collasso, e al secondo l’ingente crisi di debito. Quest’anno la situazione pare essere migliorata e si parla di semplice «fragilità».

I problemi economici sono causa diretta della dilagante crisi lavorativa che investe il Paese. Secondo l’ultimo report dell’ufficio statistico nazionale sudafricano, il 32,1% delle persone in età lavorativa figurerebbe disoccupata, e la maggior parte di esse sarebbe proprio nera. Al di là del tasso di occupazione, anche la differenza di reddito sarebbe ingente, a testimonianza che dopo il 1994 nonostante sia stata risolta la crisi civile, quella sociale rimane ancora incombente. In generale, secondo la Banca Mondiale, il Sudafrica vivrebbe nell’area più diseguale del pianeta, specialmente sul fronte economico e lavorativo. A tale crisi si aggiunge, inoltre, quella dei migranti: nonostante i suoi innumerevoli problemi, il Sudafrica è infatti un punto di riferimento importante per tutti i Paesi dell’Africa meridionale, tanto che secondo l’Organizzazione Internazionale per la Migrazione «il Sudafrica è la meta preferita per varie categorie di migranti», e per tale motivo vive una serie di problemi legati al fenomeno, quali l’arrivo di migranti irregolari, problemi di gestione dei confini, e analoghe problematiche relative alla gestione dei flussi e all’accoglienza. Di fronte a questo quadro generale, non può che emergere un ultimo, ma non per questo meno importante problema: quello della criminalità. I dati che riportano episodi di microcriminalità sono infatti in costante aumento, e vari rapporti mettono la criminalità organizzata in cima alla lista dei problemi del Paese. Il Sudafrica è inoltre uno dei Paesi con il tasso di omicidi più alto al mondo, pari, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite sui crimini e sulle droghe, a oltre 41 persone su 100.000.

Possibili alleanze conseguenze del risultato

L’ex presidente Jacob Zuma, attuale leader del movimento Lancia della Nazione

Vista la crisi dilagante e gli evidenti problemi irrisolti, un calo dell’ANC era prevedibile. Ora tuttavia non figura altrettanto facile da prevedere il futuro del Paese tanto sul fonte interno quanto su quello esterno. In questo momento non risulta ancora chiaro con chi l’ANC possa formare una possibile maggioranza di governo. Il fronte di Alleanza Democratica parrebbe da escludersi per gli ovvi contrasti tra le idee politiche dei seguaci di Mandela e quelle dei discendenti degli ex colonizzatori, mentre le intenzioni di Zuma dopo l’inaspettato successo sono ancora una nebulosa difficile da decifrare. Possibile una apertura verso i marxisti dell’Economic Freedom Fighters (EFF), che da sempre condividono le stesse posizioni dell’ANC con una postura tuttavia più radicale; messi insieme però potrebbero non bastare per formare una maggioranza solida, e dovrebbero aprirsi a un terzo micropartito, che in questo scenario potrebbe fare la differenza.

Sulla base degli alleati che l’ANC sceglierà per formare il nuovo governo, poggia il futuro del Paese nello scacchiere internazionale: il Sudafrica, infatti, nonostante i suoi enormi problemi economici, è il principale leader della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale, nonché uno dei Paesi più importanti dell’Unione Africana. Pretoria è anche uno degli Stati fondatori dell’unione dei BRICS che, per quanto si presenti come una mera alleanza economica, sta tramutandosi di fatto in una alleanza internazionale che raggruppa i Paesi che sfidano l’egemonia globale statunitense. Lo stesso Sudafrica dell’ANC non ha mai condannato Putin per le azioni in Ucraina, rifiutandosi di lanciare sanzioni nei confronti della Russia, posizione avversa dai più europeisti oppositori di Alleanza Democratica, e in questo momento è il Paese trainante nella causa di genocidio intentata contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia. Se dovesse allearsi con EEF, tali posizioni non muterebbero di direzione, ma anzi verrebbero confermate con maggior forza, proprio in virtù della maggiore radicalità del movimento di stampo marxista-leninista di minoranza.

[di Dario Lucisano]

Un dialogo tra i movimenti di ieri e quelli di oggi

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La questione di fondo sta tutta nell’asticella. Più esattamente in quella misura di tolleranza con cui vengono percepiti gli eventi. Un esempio recente su tutti: le proteste dello scorso marzo nelle università per chiedere al governo italiano di stracciare gli accordi sulla ricerca sottoscritti dal Ministero degli Esteri con gli atenei israeliani (quelle ricerche potrebbero essere finalizzate a scopi bellici) ma anche per ribadire la solidarietà col popolo palestinese e chiedere il cessate il fuoco a Gaza, sono state presentate dalla stampa italiana come una specie di presa del Palazzo d’Inverno nella rivoluzione bolscevica del 1917. Proteste pacifiche, con qualche intrinseco elemento di radicalità (tipo, l’occupazione del rettorato dell’ateneo o i cortei spontanei all’interno o all’esterno dell’università stessa) raccontate quasi come assalti terroristici. Con l’inevitabile corredo in casi come questo, quale l’usurato allarme per «il ritorno degli anni di piombo». Così. Come fosse un riflesso condizionato. Come se non bastasse, in quella protesta che il 16 marzo venne caricata da polizia e carabinieri in assetto antisommossa, si contarono, secondo la questura, 27 feriti tra le forze dell’ordine. Significativi i titoli dei giornali del giorno dopo: «Scontri nelle università, chi sono i leader dell’ala dura: cinque anarchici storici e un estremista palestinese» (Corriere della Sera), «Scontri con la polizia: gli studenti assaltano un commissariato» (AdnKronos). «27 refertati: vogliamo i vostri medici», hanno risposto ironicamente gli studenti su uno striscione.

«Come possa essere stato possibile, ce lo chiediamo ancora – dice sconcertata Ilaria, giovane militante del Fronte della Gioventù comunista che, insieme a Cambiare Rotta e ad altre sigle studentesche, da mesi è in mobilitazione a fianco del popolo palestinese –, non avevamo neppure l’asta di una bandiera, niente di niente». Gli fa eco Luca, anche lui attivista del FdGC: «Abbiamo visto aumentare la repressione in questi ultimi anni in maniera sproporzionata: ragazzi denunciati per manifestazioni dove non era successo nulla o tantomeno violenze. È praticamente impossibile provocare 27 feriti tra le forze dell’ordine quando non hai alcuno strumento di offesa. Eravamo praticamente a mani nude». «Ma poi – aggiunge Ilaria – il corteo era praticamente finito. Eravamo passati alla Facoltà di Scienze politiche dopodiché molti se ne erano andati, era quasi tutto concluso. Tant’è che il ragazzo che poi è stato arrestato, stava tornando a casa, non l’hanno preso in mezzo al corteo».

All’interno dell’Università La Sapienza, tra i lunghi viali in una giornata particolarmente assolata (le aiuole “prese d’assalto” dagli studenti sdraiati sull’erba a chiacchierare) sono in corso da tempo i lavori per il restauro conservativo della statua della Minerva e quella parte dell’ateneo risulta divisa praticamente in due a causa dei cantieri. Proprio su questa piazza, il 17 febbraio del 1977, il movimento studentesco si rivoltò contro il segretario della CGIL, Luciano Lama, venuto in forze col suo nutrito servizio d’ordine sindacale per cercare di “addomesticare” quel movimento che da settimane portava avanti l’occupazione. Quel tentativo della CGIL finì male, con scontri (e feriti) tra studenti e sindacati e la fuga precipitosa dello stesso Lama insieme al servizio d’ordine che lo accompagnava. Gli studenti si chiusero dentro ai cancelli (la foto scattata da Tano D’Amico con gli studenti aggrappati a quei cancelli, coi fazzoletti davanti al viso e il giornale Lotta Continua in bella vista ne è ormai memoria condivisa). Il pomeriggio poi arrivarono i bulldozer della polizia che abbatterono i cancelli. E quindi ancora scontri, che si spinsero fino al vicino quartiere di San Lorenzo dove morì un poliziotto, Settimio Passamonti. 

Era la stagione delle rivolte, come si direbbe un po’ retorici, eppure quell’evento, pur così “radicale”, fu soltanto uno dei tanti passaggi di quel periodo “rivoluzionario”. Cosa si direbbe oggi, quando per un corteo pacifico anche se con qualche forzatura (le forzature fanno parte di ogni conflitto sociale da che mondo è mondo e in ogni parte del mondo), si evoca il rischio terrorismo? E come mettono a confronto gli studenti di oggi con quell’epoca storica di 50 anni fa? «Mah, veramente non ce la fanno studiare – dicono quasi all’unisono i due studenti, uno dei due appena laureato in Storia – ed è un grave vulnus perché sono gli eventi più vicini a noi, alla nostra epoca storica e sarebbero importanti per capire quello che accade oggi». 

In quegli anni esistevano giornali come Il Male, Frigidaire, Cannibale, tutta quella formidabile produzione editoriale che da quel movimento degli anni ’70 venne prodotta. «Sì, de Il Male ne ho sentito parlare, degli altri no», dice Luca. Renato Nicolini? L’Estate romana? No, sono troppo giovani e si può comprendere. Il sospetto però è che questo gap culturale e storico, favorisca alla fine proprio “l’innalzamento dell’asticella”, per cui le vicende non essendo messe a confronto con quello che storicamente accadde in Italia nei decenni precedenti, fa sì che a fronte di questo reset della memoria si possano poi criminalizzare a proprio piacimento le lotte e le proteste, non solo con la narrazione edulcorata degli “anni di piombo” ma rappresentandole come un unicum, un “tavolo da gioco” su cui giocare le proprie pedine senza regole. Oggi però questo è quello che accade nelle piazze. Almeno in Italia. Come andrà avanti ora la vostra protesta? «Noi non ci tiriamo indietro – dice Luca che spiega di provenire da una famiglia non certo benestante («mia madre guadagna 900 euro al mese, io stesso ho dovuto lavorare e studiare») –, tutto sommato, le prese di posizione di importanti università come quelle di Torino, Pisa, Bari contro gli accordi MAECI ci fanno ben sperare. Il periodo storico che stiamo vivendo, con la repressione e la criminalizzazione che stiamo vivendo è quello che è e lo sappiamo». 

Come reagisce la maggioranza degli studenti qui a La Sapienza di fronte alle vostre proteste? «Alla fine nemmeno troppo male – dice Ilaria – abbiamo fatto una raccolta firme contro gli accordi con le università israeliane e almeno 2500 hanno aderito. La gran parte magari sta pure con noi, poi però non sempre è disposta a mettersi in gioco, a scendere in piazza».

[di Giancarlo Castelli]

Ddl Sicurezza, emendamento Lega: indagini sui poliziotti all’Avvocatura dello Stato

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Con l’ennesimo emendamento al Ddl Sicurezza, la Lega ha presentato una proposta secondo cui non dovrebbero più essere i pm a indagare sugli episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine, bensì l’Avvocatura dello Stato, organo della pubblica amministrazione che normalmente si occupa di difendere nei processi l’amministrazione statale. Che, recita l’emendamento, “se non ravvisa la sussistenza del reato o la responsabilità dell’imputato chiude rapidamente il procedimento”. Il pm potrebbe intervenire solamente nel caso siano necessari “atti urgenti, relativi alla prova di reato” per i quali “non è possibile rinvio”. Sulle barricate le opposizioni, che parlano di una misura «incostituzionale».

Bilderberg 2024: le élite si incontrano a porte chiuse per parlare del “futuro della guerra”

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Nel fine settimana le élite economico-politiche del mondo occidentale sono tornate a radunarsi all’annuale ritrovo a porte chiuse del gruppo Bilderberg, quest’anno svoltosi a Madrid. Come si legge nello scarno comunicato stampa, tra i temi principali della riunione compaiono “il futuro della guerra” e lo stato e la sicurezza dell’intelligenza artificiale. In particolare, la guerra in Ucraina sembrerebbe aver ricoperto un ruolo centrale nella discussione, considerato che tra gli invitati erano presenti alcuni esponenti di spicco della politica di Finlandia e Svezia, recentemente entrate nella NATO. Nella lista degli invitati divulgata dal gruppo, infatti, compaiono i nomi di Anders Aldercreutz, Ministro degli affari esteri della Finlandia, e Alexander Stubb, Presidente della Repubblica, mentre per la Svezia era presente Oscar Stenström, principale negoziatore per l’ingresso di Stoccolma nell’Alleanza atlantica. Tra gli altri erano presenti anche Dmytro Kuleba, Ministro degli esteri ucraino, Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, James Appathurai, vicesegretario generale dell’Alleanza atlantica specializzato nella guerra ibrida e anche Christopher Cavoli, leader del SACEUR, la forza di comando sempre della NATO. Considerata la presenza dei vertici dell’Alleanza atlantica e dei ministri degli Esteri dei principali Paesi “russofobi”, si può supporre che scopo delle discussioni definite “informali” sia una strategia da attuare per contrastare la Russia, dopo i sostanziali fallimenti riportati finora dal blocco atlantico. Tuttavia, non è possibile conoscere nel dettaglio i contenuti dell’incontro, in quanto le riunioni del Bilderberg si svolgono secondo la Chatham House Rule, che stabilisce che i partecipanti sono liberi di utilizzare le informazioni ricevute, senza però rivelare né l’identità né l’affiliazione degli oratori né di altri partecipanti. In realtà, ben pochi esponenti del Gruppo hanno facilmente fatto trapelare non tanto i temi – che sono pubblici – bensì i contenuti degli stessi anche in condizioni di anonimato.

Tra gli altri temi trattati, specificati nel comunicato, compare la questione, dai toni transumanisti, “cambiare i volti della biologia”, le sfide economiche di Europa e Stati Uniti e prevalentemente questioni legate alla politica internazionale e agli equilibri globali con approfondimenti su Medio Oriente, Cina, Russia e Ucraina. Tuttavia, l’attenzione riservata a quest’ultima sembra preponderante, in quanto lo scoppio del conflitto a Kiev ha dato vita a un processo graduale di de-globalizzazione e de-dollarizzazione, tale da mettere in discussione l’egemonia atlantista-liberista propugnatrice del cosiddetto globalismo finanziario, economico, militare e politico, di cui il Bilderberg è uno dei principali fautori. «Una congrega dei più ricchi, dei più economicamente e politicamente potenti e influenti uomini nel mondo occidentale, che si incontrano segretamente per pianificare eventi che poi sembrano accadere per caso»: così nel 1977 il Times definiva il Gruppo Bilderberg. Una definizione che aiuta a comprendere il legame tra il Gruppo, l’Alleanza atlantica, le logiche neoliberiste e la volontà di unificare le sorti del mondo attraverso quella che il WEF ha definito “governance globale” o “governance 4.0”. Tra gli argomenti più “misteriosi” dell’ultimo incontro c’è sicuramente quello sui volti della biologia che andrebbero cambiati: non si specifica di quale biologia si tratti, ma il sospetto – considerate le teorie transumaniste in voga presso altre centrali di potere collegate al Bilderberg come il World Economic Forum (WEF) – è che il riferimento sia alla biologia umana e a un suo innaturale e forzato mutamento.

Nella lista dei partecipanti compaiono anche personaggi di spicco italiani, alcuni dei quali dediti alla pratica delle cosiddette “porte girevoli”, per la quale si ricoprono più incarichi, contemporaneamente o uno dopo l’altro, nelle istituzioni politiche, in gruppi industriali e/o finanziari, in attività di lobbying e presso potenti banche d’affari, dando vita a potenziali fenomeni di clientelismo o conflitti d’interesse. Tra questi era presente Mario Monti, senatore a vita e consulente della potente banca americana Goldman Sachs dal 2005 al 2011, anno in cui venne scelto da Napolitano per formare il nuovo governo, e abituale frequentatore del Gruppo Bilderberg. Presenti anche la giornalista Lilli Gruber e il commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni, anche loro membri abituali del club.

Fondato nel 1954 da Henry Kissinger e David Rockefeller – il primo, stratega della politica estera americana e segretario di Stato durante la presidenza di Nixon; il secondo uno dei più potenti magnati industriali e petroliferi americani – l’obiettivo ufficiale dichiarato del Bilderberg è quello di favorire il dialogo tra Europa e Nord America. In realtà, secondo diversi osservatori, l’obiettivo di fatto è quello di influenzare la politica mondiale esercitando pressioni sui governi attraverso la costruzione di una fitta rete composta da rappresentanti politici, esponenti dei media e influenti oligarchi. È questa, del resto, la missione che caratterizza l’essenza dei “think tank”, nati in America all’inizio del Novecento come gruppi di studio formati da tecnici per “affiancare” e consigliare la politica. Nel panorama attuale, priorità imprescindibile del Gruppo sembrerebbe essere quella di affrontare le percepite minacce di Russia e Cina, ossia di quegli attori geopolitici che stanno mettendo in discussione la governance globale fondata sui pilastri della globalizzazione, del liberismo e dell’interventismo umanitario. Si tratta di quei cardini di cui proprio il Bilderberg è uno dei principali sostenitori e che oggi paiono gravemente compromessi dall’ascesa di nuove potenze non più subordinate alla sfera euro-atlantica.

[di Giorgia Audiello]

I giudici rimandano ai domiciliari Nicoletta Dosio, simbolo della lotta No Tav

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Un anno e nove mesi di domiciliari: questa la condanna che dovrà scontare Nicoletta Dosio, 78 anni, volto storico della resistenza No TAV. Quella che l’ha portata alla condanna è una vicenda di lotta e resistenza iniziata nel 2015, con una marcia del Movimento in Val di Susa. A causa di alcuni tafferugli con le forze dell’ordine, a Nicoletta e altri membri del Movimento verranno contestati reati di violenza contro pubblico ufficiale e devastazione e applicate misure cautelari di restrizione della libertà personale, che la donna deciderà di non rispettare. Sarà la Cassazione a darle ragione, nel 2016, derubricando i reati a danneggiamento, da scontare pagando una multa di 800 euro. Le “evasioni” messe in atto durante i mesi in cui avrebbe dovuto scontare prima l’obbligo di firma, poi i domiciliari, le sono tuttavia valse un altro processo, conclusosi oggi con la condanna ai domiciliari.

Nel luglio 2015 si svolge una grande manifestazione in Val di Susa. È un evento che si ripete ogni anno per ricordare la “riconquista”, da parte del Movimento, della baita della Maddalena, situata nella zona del cantiere TAV di Chiomonte, avvenuta il 3 luglio 2011, alla quale presero parte decine di migliaia di persone. Nel 2015 la manifestazione era partita da Exilles con l’obiettivo di attraversare le vigne, passare davanti ai cancelli della centrale idroelettrica, dai quali si accede all’area del cantiere (distante circa un chilometro e mezzo), e arrivare infine a Chiomonte, dove erano previsti concerti e altre iniziative. «Eravamo in migliaia, con tanti bambini e tanti anziani» ricorda Nicoletta, parlando a L’Indipendente. Una volta arrivato davanti ai cancelli, il corteo si trova la strada sbarrata da un gran numero di jersey e agenti in tenuta antisommossa. «Sono cominciati a piovere lacrimogeni a non finire – racconta Nicoletta – ricordo una donna anziana caduta per terra, la gente che non riusciva a respirare per i fumi, che si è sentita male». Così, il corteo decide di tornare indietro e provare ad arrivare a Chiomonte passando dalla statale, ma anche per quella via la strada è sbarrata da jersey e agenti. «A quel punto, noi anziani abbiamo deciso di fare un’azione dimostrativa: a volto scoperto, abbiamo tentato di tirare giù i jersey, e ci siamo riusciti! Fu una cosa eccezionale». Alla riuscita di quel gesto seguì qualche momento di concitazione, che si concluse con una ventina di denunciati (tra i quali Nicoletta) per violenza contro pubblico ufficiale, devastazione e altri reati, per i quali sono state disposte le misure cautelari – in misura diversa per ciascuno.

«La comunicazione è arrivata un anno dopo: nel 2016 la Digos è venuta a casa mia, l’hanno perquisita e mi hanno riferito dell’obbligo di firma quotidiano, che io ho deciso di violare. La cosa è andata avanti, dalle firme si è passati all’obbligo di dimora, ma anche in quel caso ho deciso di non rispettarlo, con il consenso del Movimento. È stata una decisione collettiva, come tutte. Così ho cominciato a viaggiare, dentro e fuori il Piemonte, per raccontare la nostra storia. Fu una vera manifestazione di popolo, perchè uscivo sempre accompagnata da qualcuno». Tutti sono a conoscenza delle “evasioni” di Nicoletta, compresi i carabinieri, che più volte l’hanno vista fuori di casa. «Evidentemente avevano l’ordine di non fermarmi perchè non sono mai intervenuti – in seguito ho letto nei verbali che questo era stato disposto perchè ero sempre accompagnata da qualcuno e vi era il rischio di disordini pubblici». Il Movimento ha sempre sostenuto con forza la protesta di Nicoletta: «era una protesta anche contro le misure preventive, contro il Movimento e non solo. Non c’era stato ancora nessun processo contro di me, tutto era stato disposto sulla base della presunzione del reato».

Durante una delle sue “evasioni”, quando si reca di fronte al tribunale di Torino per portare sostegno durante il processo agli inquisiti per i fatti del 3 luglio 2011, viene prelevata da alcuni agenti, che la trattengono per una giornata. «Mi fu fatto il processo per direttissima, al termine del quale mi furono dati 8 mesi di domiciliari in aggiunta a quelli che già avevo scontato». Ma, come in precedenza, Nicoletta sceglie di non piegarsi a quanto disposto. Ed è la giustizia stessa a darle ragione. Il 30 dicembre del 2016, infatti, a seguito del ricorso presentato dai suoi avvocati, la Cassazione stabilisce, in prima istanza, che non vi sono prove sufficienti a sostegno delle accuse di violenza per i fatti del 2015 e decreta la revoca delle misure cautelari. L’accusa viene alla fine derubricata a danneggiamento, con una multa di 800 euro. Nel frattempo, il processo per le “evasioni” procede: «gli agenti avevano fatto i verbali di tutte le volte che mi avevano vista uscire, contanto alla fine 130 violazioni. Hanno messo insieme le condanne e così si è arrivati a un anno e nove mesi». La notifica è stata consegnata lo scorso sabato 1° giugno dai carabinieri.

Al netto di quanto accaduto, Nicoletta è tuttavia molto chiara sulle sue posizioni. «Non avrei chiesto nessuna attenuante, perchè continuo a pensare che chi può permettersi di farlo non deve trattare con questa giustizia ingiusta. Chi è giovane ha da perdere, ma io no». E aggiunge: «Quello che facciamo, come Movimento, ha sempre un significato politico ed è sempre condiviso. Il potere non finge nemmeno più di velare la sua arroganza, la usa con tutta la sua forza in ogni momento. Per questo non mi pento: rifarei tutto altre mille volte perchè era giusto farlo. Non è una questione mia individuale, ma è una lotta per tutti, contro un sistema sbagliato».

[di Valeria Casolaro]

Elezioni Messico, vince Claudia Sheinbaum

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Come previsto da molti, le prime proiezioni per le elezioni presidenziali del Messico danno per vincitrice la nazionalista di sinistra Claudia Sheinbaum, che ha anche annunciato il proprio trionfo con un post su X. Secondo i primi dati ufficiali, Sheinbaum avrebbe ottenuto una percentuale di preferenze compresa tra il 58,3% e il 60,7%, diventando così la prima Presidente donna del Paese. In campagna elettorale Sheinbaum ha dichiarato di volere lavorare in continuità con la appena passata politica del Messico, tanto proseguendo le politiche sociali, quanto mantenendo una postura di opposizione nei confronti degli Stati Uniti d’America.

Islanda, Halla Tomasdottir è la nuova presidente

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L’imprenditrice Halla Tomasdottir, 55 anni, ha guadagnato il 34,3% delle preferenze alle elezioni presidenziali, diventando così la nuova presidente dell’Islanda. Attualmente, Tomasdottir, seconda presidente donna dell’Islanda, è in congedo dal ruolo di amministratore delegato di The B Team, ONG globale che promuove pratiche incentrate sul clima e sull’umanità. Il ruolo del presidente islandese è per lo più cerimoniale, dovendo garantire il rispetto della Costituzione e dell’unità nazionale.