Come previsto da molti, le prime proiezioni per le elezioni presidenziali del Messico danno per vincitrice la nazionalista di sinistra Claudia Sheinbaum, che ha anche annunciato il proprio trionfo con un post su X. Secondo i primi dati ufficiali, Sheinbaum avrebbe ottenuto una percentuale di preferenze compresa tra il 58,3% e il 60,7%, diventando così la prima Presidente donna del Paese. In campagna elettorale Sheinbaum ha dichiarato di volere lavorare in continuità con la appena passata politica del Messico, tanto proseguendo le politiche sociali, quanto mantenendo una postura di opposizione nei confronti degli Stati Uniti d’America.
Islanda, Halla Tomasdottir è la nuova presidente
L’imprenditrice Halla Tomasdottir, 55 anni, ha guadagnato il 34,3% delle preferenze alle elezioni presidenziali, diventando così la nuova presidente dell’Islanda. Attualmente, Tomasdottir, seconda presidente donna dell’Islanda, è in congedo dal ruolo di amministratore delegato di The B Team, ONG globale che promuove pratiche incentrate sul clima e sull’umanità. Il ruolo del presidente islandese è per lo più cerimoniale, dovendo garantire il rispetto della Costituzione e dell’unità nazionale.
OMS, prorogati di un anno negoziati per piano pandemico globale
In un comunicato rilasciato alla chiusura della 77ma Assemblea Mondiale della Sanità, l’OMS ha dichiarato di aver prorogato di un anno le discussioni circa la realizzazione di un piano pandemico globale. I negoziati per arrivare alla stesura di un testo definitivo proprio in vista dell’Assemblea, conclusasi ieri, non avevano infatti portato ad alcun risultato, con Italia, Regno Unito e Russia tra i Paesi che avevano sollevato più perplessità in merito alla sua realizzazione. L’intento è «garantire che in tutti i Paesi siano in vigore sistemi completi e solidi per proteggere la salute e la sicurezza di tutte le persone, ovunque, dal rischio di future epidemie e pandemie».
In quasi tutta Europa (Italia compresa) si sa pochissimo sui finanziamenti ai partiti
I meccanismi di finanziamento dei partiti della maggior parte dei Paesi europei sono estremamente opachi. È quanto emerge da un’inchiesta svolta dalla piattaforma Follow The Money, che, in collaborazione con 49 giornalisti d’inchiesta e 27 media partner provenienti da 24 Stati membri, ha esaminato le entrate finanziarie di oltre 200 partiti politici che saranno protagonisti delle prossime elezioni europee. Grazie all’esame di 1.200 rapporti annuali dei partiti europei e di diverse fonti pubbliche recanti informazioni sulle donazioni individuali, gli autori della ricerca hanno attestato come, nell’arco temporale compreso tra il 2019 e il 2022, queste forze politiche hanno ricevuto finanziamenti per una quota complessiva di 941 milioni di euro. E che, di questi, ben 664 milioni sono arrivati da donatori di cui non si conoscono le generalità.
A livello quantitativo, a incassare di più è stata la Germania, con ben 641 milioni, seguita da Olanda e Francia, che restano sotto la soglia dei 50 milioni. Dalla ricerca emerge che le maggiori criticità sono presenti proprio in Germania – dove Follow The Money attesta “una soprendente mancanza di trasparenza” -, i cui partiti incamerano il 75% circa delle donazioni risultate anonime. Qui i nomi dei donatori vengono resi noti soltanto se essi finanziano un partito con più di 10mila euro. Se entrano tra i 500 e i 10mila euro, il partito deve conoscere le generalità dei finanziatori e riferire al Parlamento, senza che l’informazione arrivi ai cittadini, mentre importi inferiori a 500 euro possono essere accettati dalle forze politiche senza conoscere il nome dei donatori. In Germania – così come in Danimarca, Svezia, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Estonia e Bulgaria – non vi sono limiti sulle cifre che è possibile donare ai partiti. Tutti gli altri Stati hanno fissato un limite, ma si va tra i 500 euro del Belgio a i 300.000 euro della Slovacchia.
Una situazione simile è quella della Francia, dove non vengono resi pubblici i nomi dei donatori, ufficialmente per motivi di “privacy”. Rivelare il nome di un donatore è “soggetto alla riservatezza della sua vita privata”, ha infatti scritto in una e-mail un portavoce dell’autorità incaricata di verificare i conti dei partiti politici in Francia, Paese in cui i cittadini non possono dunque conoscere chi, nell’arco di 4 anni, ha finanziato 11 partiti nazionali per 47 milioni di euro e i partiti regionali e locali per una cifra di tre volte superiore. Un contesto similare è quello della Spagna, dove i nomi dei donatori vengono pubblicati solo se la donazione supera i 25.000 euro. Cosa che, dal 2015, non è mai avvenuta, anche perché vige una scappatoia che consente a chiunque sia formalmente affiliato a un partito politico di donare somme ben più consistenti senza che si applichino le regole sulle donazioni. In Portogallo e Lussemburgo si può accedere alla documentazione solo recandosi fisicamente presso la Corte dei conti o il parlamento nazionale. Anche in questo caso, è vietato rendere pubblici i nomi dei donatori per motivi di “protezione dei dati”.
A distinguersi per trasparenza, secondo i risultati dell’inchiesta, sono i Paesi Baltici. Il caso più virtuoso è probabilmente quello dell’Estonia, dove vengono resi pubblici i nomi dei quasi 50.000 iscritti ai 13 partiti del Paese e le quote mensili che pagano. Inoltre, le donazioni a partire da 1 euro sono visibili a tutti, con gli elenchi delle generalità e degli importi versati che vengono pubblicati a cadenza trimestrale. Il quadro è simile nella maggior parte dei paesi dell’Europa centrale e orientale, che ogni anno pubblicano i dati sulle donazioni e sui finanziatori. Eppure, Follow The Money fa notare come anche in Estonia e Lettonia, dove “vengono rese pubbliche informazioni dettagliate come la data di nascita di un donatore”, si sono verificati “diversi casi in cui si è scoperto che il donatore nominato non era la persona effettiva che aveva donato il denaro”, poiché “gli uomini d’affari che avevano bisogno dei favori dei politici usavano uomini di paglia per nascondere la propria identità”.
Un discorso a parte va fatto per l’Italia. Nel nostro Paese il finanziamento pubblico ai partiti è stato abrogato nel 2013, ma i partiti possono ancora ottenere risorse grazie al 2 per mille che deriva dalle dichiarazioni dei redditi dei cittadini. Il partito che nel 2023 ha incamerato più denari è stato il PD (8,1 milioni), seguito da Fratelli d’Italia (4,8) e dal M5s (1,2). Nonostante la rigidità delle regole sulla rendicontazione delle donazioni, Follow The Money scrive che in Italia “i partiti sembrano aver trovato un modo per aggirarli”. Infatti, “le aziende e gli individui tendono a donare non direttamente ai partiti, ma ad altre entità correlate, come fondazioni politiche o comitati elettorali”, contribuendo a creare di fatto “un sistema parallelo per la raccolta di fondi e l’organizzazione di eventi a beneficio dei partiti politici”. Il report ricorda infatti che “quando il governo ha creato nuove regole nel 2019 per costringerle a pubblicare i nomi dei loro donatori, le fondazioni si sono trasformate in organizzazioni senza scopo di lucro e hanno potuto, ancora una volta, mantenere segreto da chi ricevevano denaro: le organizzazioni no-profit sono esenti dalle regole di divulgazione”.
In conclusione, in Italia e in generale in tutta Europa, il sistema di finanziamento pubblico dei partiti è stato progressivamente smantellato e sulle sue ceneri si è sviluppato un sistema di finanziamenti privati che però è totalmente opaco. E, quindi, potenzialmente di facile accesso per interessi lobbistici e particolari.
[di Stefano Baudino]
La lista nera dell’Antimafia: i sette candidati “impresentabili” per le europee
Sono in tutto sette i candidati italiani alle prossime elezioni europee segnalati come “impresentabili” dalla Commissione parlamentare Antimafia, in violazione del codice di autoregolamentazione. Ad aggiudicarsi il primato è Forza Italia, che conta tre profili in lista, seguita da Fratelli d’Italia, con due nominativi, e dal Partito Democratico, che vede un singolo esponente nell’elenco. In queste ore, la discussione si è però in particolare focalizzata sui criteri di candidabilità del codice di autoregolamentazione redatto dalla Commissione parlamentare Antimafia – dichiarazione comunque non vincolante per le forze politiche – che ha prodotto l’inserimento nella lista degli “impresentabili” di candidati che, nella maggior parte dei casi, sono a processo senza essere al momento incorsi in condanne, mentre alcuni personaggi già colpiti da condanne per reati non inclusi nel Codice non sono stati ricompresi.
La rilevazione effettuata dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo su una lista di 817 nominativi che le era stata sottoposta dalla Commissione ha prodotto una scrematura scremato fino a un totale di 20 nomi, seguita dalle verifiche degli stessi commissari, che hanno individuato 7 profili che risultano in violazione del Codice di Autoregolamentazione. Analizzando la lista degli “impresentabili”, ne troviamo quattro di area centro-destra. Si tratta di Angelo Antonio D’Agostino (Forza Italia), presidente dell’Avellino calcio e responsabile Innovazione e sviluppo del partito, a processo per corruzione; Luigi Grillo (Forza Italia), già sottosegretario a palazzo Chigi nel primo governo Berlusconi, condannato a 2 anni e 8 mesi per associazione per delinquere e corruzione; Marco Falcone (Forza Italia), assessore all’Economia della Regione siciliana, rinviato a giudizio per induzione indebita e tentata concussione; Alberico Gambino (Fratelli d’Italia), coordinatore provinciale di FdI ed ex sindaco di Pagani, Comune sciolto per mafia; Giuseppe Milazzo (Fratelli d’Italia), europarlamentare uscente del partito meloniano ed ex capogruppo di Forza Italia all’Assemblea regionale siciliana, a processo per tentata concussione. È poi presente il nome di una candidata renziana di Stati Uniti d’Europa, Filomena Greco, sindaca di Cariati (Cosenza) dal 2016 al 2018 e dal 2018 al 2023, rinviata a giudizio per turbativa in gara d’appalto, e dell’esponente del Partito Democratico Antonio Mazzeo, Presidente del Consiglio regionale della Toscana, rinviato a giudizio per bancarotta fraudolenta.
I criteri di candidabilità del Codice di Autoregolamentazione, stabiliti dalla Commissione nel 2019 durante il governo M5S-Lega, sono particolarmente dibattuti. Per entrare nella lista degli “impresentabili”, infatti, occorre essere formalmente imputati – ma solo per specifici reati –, oppure essere stati colpiti da misure di prevenzione personali o patrimoniali ai sensi del Codice antimafia, rimossi dall’incarico di amministratore locale ai sensi del testo unico degli enti locali o aver ricoperto la carica di sindaco o di componente della giunta negli enti sciolti per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso. Se si alza lo sguardo sullo spaccato complessivo, ci si rende subito conto di alcuni effetti che potrebbero sembrare critici, se non paradossali. Se infatti da una parte all’interno della lista compaiono persone le cui responsabilità penali non sono ancora state compiutamente accertate, dall’altra non figurano esponenti politici – anche di primo piano – già raggiunti da sentenze di condanna. È per esempio il caso di Vittorio Sgarbi (FDI) pregiudicato per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, Roberto Cota (Forza Italia), condannato definitivamente per peculato, e Aldo Patriciello (Lega), condannato per finanziamento illecito. Tutti reati che non rientrano nel codice. Il caso più eclatante è forse quello di Carlo Fidanza (FDI), che ha patteggiato 1 anno e 4 mesi per corruzione. Essendo questo un caso di patteggiamento “standard”, ovvero di un accordo su una pena inferiore a due anni, da quanto si apprende Fidanza avrebbe infatti beneficiato di una norma introdotta due anni fa dalla riforma Cartabia, che stabilisce che, ove non siano applicate le pene accessorie, “non producono effetti” le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che vanno a equiparare il patteggiamento alla sentenza di condanna.
[di Stefano Baudino]
La “proposta di pace” di Israele ad Hamas: ridateci gli ostaggi, noi continuiamo a bombardare
Nelle scorse ore il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha presentato l’ultimo piano israeliano per il raggiungimento della pace e del cessate il fuoco a Gaza. Nonostante i pochi dettagli, il grosso dei media lo sta già descrivendo come un generoso programma di mediazione con l’auspicio che esso venga accolto da Hamas. In verità, guardando le dichiarazioni dello stesso ufficio del Primo Ministro israeliano e l’indiretto botta e risposta tra le due parti, l’interpretazione israeliana del piano di pace presentato risulterebbe abbastanza evidente: Hamas dovrebbe riconsegnare tutti gli ostaggi e in cambio Isaele continuerebbe a bombardare indiscriminatamente la Striscia. Lungi dal cercare un’autentica soluzione per la crisi umanitaria che da ormai quasi otto mesi soffoca il territorio palestinese, il piano israeliano esposto da Biden sembrerebbe insomma sfociare nel solito gioco mediatico volto a giustificare il massacro dei civili palestinesi, scaricando la colpa del mancato raggiungimento di un accordo di tregua sulla controparte.
Il piano presentato da Biden è diviso in tre fasi: durante la prima, della durata di sei settimane, la Striscia dovrebbe vivere un «pieno e completo cessate il fuoco», e avverrebbe il ritiro delle forze israeliane da «tutte le aree popolate di Gaza»; inizierebbe così un iniziale scambio di ostaggi israeliani, inclusi anziani, feriti, e donne, in cambio di «centinaia» di prigionieri palestinesi; in questa stessa fase, verrebbero liberati anche prigionieri statunitensi. Nelle sei settimane di fase uno, parte dei corpi dei defunti ostaggi israeliani dovrebbero venire consegnati alle famiglie così da fornire «una prima chiusura» al momento di lutto dei parenti delle vittime, e i palestinesi potrebbero tornare nelle loro case. In aggiunta a ciò, in virtù della deposizione delle armi, potrebbero entrare fino a 600 camion di aiuti umanitari al giorno per fornire assistenza ai civili palestinesi massacrati dall’esercito israeliano. Durante questi 42 giorni, rappresentanti diplomatici aprirebbero un canale di comunicazione per le negoziazioni della seconda fase della pace, ma se le vie diplomatiche dovessero sforare le sei settimane, il cessate il fuoco verrebbe garantito col sostegno di USA, Egitto e Qatar. Entrati nella «fase due», ci sarebbero lo scambio dei rimanenti ostaggi, inclusi i soldati maschi, e il ritiro completo delle forze israeliane. Stando a quanto dice Biden «fino a che Hamas rispetterà i propri impegni, il cessate il fuoco diventerà, per usare le parole della proposta israeliana, ‘una cessazione delle ostilità permanentemente’». Nella terza fase verrebbe portato avanti un piano di ricostruzione per Gaza, e verrebbero restituiti gli ultimi corpi dei defunti.
Letto nei suoi punti chiave il piano abbozzato da Biden in conferenza stampa sembra avanzare un progetto equilibrato e propositivo, cosa abbastanza curiosa visto quanto mostrato da Israele negli ultimi mesi di trattative. Hamas ha infatti risposto positivamente all’invito con una dichiarazione comparsa sul suo canale Telegram alle 22.26. Appena 15 minuti dopo, però, è arrivata una prima risposta da Israele: alle 22.41, l’account X dell’ufficio del Primo Ministro ha pubblicato un post in cui spiega che Netanyahu ha autorizzato il team di negoziazioni a «presentare una proposta che consentirebbe a Israele anche di continuare la guerra fino a che tutti i suoi obiettivi non vengano raggiunti, inclusa anche la distruzione delle capacità militari e governative di Hamas», specificando che la proposta letta da Biden «inclusa la fase di transizione dalla fase 1 alla successiva» risponde alle esigenze dello Stato ebraico. Probabilmente in risposta a ciò, all’01.12, il Canale di Hamas ha riportato una dichiarazione di uno dei leader del gruppo, che ha comunicato di non avere ancora ricevuto nessun vero dettaglio sull’operazione, e chiesto al Presidente degli Stati Uniti di esercitare pressioni su Netanyahu affinché egli risponda positivamente all’appello. L’esponente di Hamas ci ha inoltre tenuto a specificare come «nessun accordo potrà essere raggiunto prima che le richieste di ritiro dell’occupazione dell’esercito israeliano, e di cessate il fuoco siano rispettate». A chiudere quello che sembrerebbe un ufficioso botta e risposta – perché i messaggi e le dichiarazioni delle parti non fanno mai esplicito riferimento al proprio interlocutore – è tornato l’ufficio del Primo Ministro israeliano, che stamattina alle 09.52, ha ribadito che «le condizioni di Israele per terminare la guerra non sono cambiate: la distruzione delle capacità militari e governative di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi e assicurare che Gaza non costituisca minaccia a Israele», specificando che «l’idea che Israele accetti un cessate il fuoco permanente prima che queste condizioni vengano soddisfatte è fuori discussione». Ad aggiungersi alla “conversazione” sono il Jihad Islamico Palestinese (JIP) e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), che hanno rilasciato due comunicati, rispettivamente alle 11.27, e alle 12.25: il JIP ha scritto di «vedere con sospetto» la proposta statunitense, e ha rilanciato le proprie condizioni di pace, analoghe a quelle di Hamas; l’FPLP ha invece denunciato con forza la complicità di Biden nel genocidio del popolo palestinese, sostenendo che il Presidente USA non può ricoprire il ruolo di mediatore, e ha a sua volta ribadito che la pace deve passare per «una completa cessazione delle aggressioni contro il nostro popolo, il ritiro dell’occupazione, la fine dell’assedio, e la ricostruzione».
Da questo scambio informale di dichiarazioni, il vero “piano di pace” Israele risulterebbe chiaro: Hamas dovrebbe riconsegnare tutti gli ostaggi mentre intanto Israele continuerebbe senza soluzione di continuità a bombardare a tappeto la Striscia, così da terminare quanto iniziato. E questo effettivamente, sta succedendo. Dall’escalation del 7 ottobre Israele ha ucciso almeno 36.284 persone, ferendone più di 80.000; a inizio maggio, è iniziata la maxi-operazione a Rafah, che, nonostante gli ordini della Corte Internazionale di Giustizia, non solo non si è fermata, ma si è addirittura intensificata. Il 26 maggio, dopo l’attacco lanciato dal braccio armato di Hamas su Tel Aviv, Israele ha infatti lanciato otto bombe su un campo profughi situato nella stessa città, uccidendo almeno 45 persone, molte delle quali sono morte arse vive.
[di Dario Lucisano]
Elezioni Sudafrica: vince l’ANC, ma perde la maggioranza parlamentare
Con il 99,01% delle sezioni scrutinate manca solo la dichiarazione ufficiale: il Partito che fu di Nelson Mandela ha vinto le elezioni in Sudafrica, ma per la prima volta nella sua storia non avrà la maggioranza assoluta in Parlamento. In questo momento l’African National Congress (ANC) risulta infatti primo con il 40,27% dei voti, seguito al secondo posto dalla liberista Alleanza Democratica con il 21,69% dei voti e al terzo da Lancia della Nazione (MK), il partito dell’ex Presidente affiliato proprio all’ANC Jacob Zuma, con il 14,67% dei voti. L’esito delle elezioni, tenutesi mercoledì 29 maggio, era abbastanza aspettato, ma non è ancora chiaro con chi l’ANC formerà la maggioranza di governo.
La guerra come mito
Il mito in questione riguarda l’origine del fuoco e la connessione che esiste tra questo e l’origine della guerra. I miti arcaici parlano o di una contesa tra le forze naturali o degli obblighi imposti dalle divinità, principalmente il sole. Il fuoco – e di conseguenza la guerra – mettono in scena una obbedienza. «Per poter illuminare la terra, il sole deve nutrirsi di cuori umani e bere sangue. Per questo motivo dovette venir creata la guerra, la sola maniera con cui si potevano ottenere cuori e sangue. Poiché tutti gli dei lo volevano, essi crearono la guerra»: questo il racconto azteco ma non molto diverso il mito malgascio riportato da Frazer (Miti sull’origine del fuoco, 1930, trad.it. Xenia 1993, p. 149). Anche qui fuoco e guerra sono correlati: la guerra è quella tra Sole e Tuono, tra le fiamme che divampano e il rumore prodigioso del tuono che fa scaturire cascate d’acqua dalle nuvole spegnendo le fiamme. Ma le truppe del Sole si nascosero per sopravvivere tra le rocce e anche in elementi naturali come il legno e le pietre dure da cui possono scaturire, come vulcani o come semplici scintille.
Lo statuto mitologico della guerra risiede dunque in uno scontro di forze naturali per un irragionevole primato, un primato che spetta agli esseri umani razionalizzare nella opposizione e complementarità logica di ‘cotto’ e ‘crudo’. Una leggenda etiopica, infatti, narra che “una volta gli uomini non avevano fuoco, e dovevano mangiare tutto crudo. In quel tempo, però, gli uomini non morivano, e quando diventavano vecchi Dio li faceva ritornare giovani. Ma un giorno pensarono di chiedere a Dio un po’ del suo fuoco. All’uomo che gli rivolse questa preghiera Dio disse: «Ti darò del fuoco se sei disposto a morire». L’uomo accettò ed ebbe da Dio il fuoco, ma da allora tutti dobbiamo morire”. (Favole etiopiche, Xenia 1993, p. 147).
Il grande antropologo francese, Claude Lévi-Strauss, nel suo capolavoro Il crudo e il cotto dimostrò efficacemente come gli attributi delle cose indichino proprietà logiche, e che c’è una stretta correlazione tra le esperienze sensibili e le categorie intellegibili. I segni consistono appunto nell’esprimere e organizzare dati naturali in forme logiche. Così nella lotta tra acqua e fuoco il pensiero mitico sudamericano dei Bororo distingue due tipi d’acqua: un’acqua creatrice, di origine celeste e un’acqua distruttrice di origine terrestre. Così pure per il fuoco, uno celeste distruttore, l’altro terrestre e creatore: quest’ultimo è il fuoco di cucina (p. 247). Da cui per semplificare due azioni ‘belliche’, una devastatrice e portatrice di morte e un’altra benefica, trasformatrice, a patto di conoscere determinate tecniche.
Se riconduciamo, grazie al mito, il concetto di guerra a due distinti versanti, uno per ottenere energia, l’altro per ottenere distruzione, capiamo perché i miti parlano di una vita abbreviata, che in termini di una logica moderna diremmo contrassegnata dalla violenza e dalla morte, a fronte di una vita prolungata, dove la resurrezione consiste nel mantenere in vita gli antenati, nel dare cioè, nei nostri termini, continuità al tempo, in qualche modo ‘cucinandolo’, sfruttando le sue potenzialità. Nello stesso tempo, nel pensiero mitologico le risorse vengono presentate come non illimitate e ad esempio la siccità si alterna consapevolmente alla stagione delle piogge, grazie a una rappresentazione simbolica delle costellazioni celesti e delle stagioni.
L’idea di guerra originaria non è dunque da correlare principalmente a uno scontro tra forze umane, tra fronti bellici in lotta per la supremazia ma farebbe parte di quella «impresa collettiva di significazione» di cui parla Lévi- Strauss, dal momento che «il pensiero mitico non accetta la natura se non a condizione di poterla ripetere» (p. 447). Dall’inevitabile esprimersi contraddittorio, potente delle forze naturali, spetta all’uomo trovare una via d’uscita per preservare «una immagine del mondo inscritta nell’architettura dello spirito» (p. 446). Trascurare dunque questo orizzonte significa inevitabilmente precipitare nella vera e propria guerra tra opposte fazioni, dove l’uso legittimo della forza non riesce più a essere disciplinato dagli stati e l’idea di guerra viene unicamente declinata in quella di conflitti armati.
Conflitti che nei nostri anni indicano la perdita di forme di controllo, l’emergere di insurrezioni su media e vasta scala e che giustamente uno studioso come Giovanni Carbone individua, ad esempio in Africa, come «il frutto di una competizione per risorse sempre più scarse»(L’Africa, Il Mulino 2021, p. 95). A dimostrare che le stesse competizioni per la terra e per l’acqua tra popolazioni nomadi e popolazioni stanziali mostrano ancora una volta la genesi remota dell’idea di guerra.
Un’idea di guerra che nel mondo occidentale e nella coscienza comune si è fatta sempre risalire alla espansione territoriale, al prevalere di interessi economici e di potere per il dominio ad esempio nei traffici, nei commerci, nella espansione coloniale, nelle risorse energetiche, nei bacini naturali da sfruttare. L’evoluzione industriale e tecnologica ha poi trasformato l’idea stessa di guerra da scontro su fronti a un distruttivo coinvolgimento globale, facendo dilagare il concetto di insicurezza (anche nella popolazione civile, pensiamo ai bombardamenti aerei nei conflitti mondiali del secolo scorso) a tal punto da produrre forme di controllo assoluto.
Mi pare di poter dire che nel migliore dei casi attualmente l’orizzonte è quello di creare una permanente atmosfera bellica, e questo, ancora una volta, grazie al mancato controllo e assennato sfruttamento e gestione delle risorse naturali.
Abbiamo inventato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso una idea di convivenza in Europa centrata prima sulla crescita ma poi sulla competizione e sulla supremazia. Troppo rare e inconsistenti le iniziative per acquisire coscienza comune, per fare dell’Europa un centro di proposte e di visioni anche soltanto culturali. Un’Europa che non dimenticasse quanto è avvenuto nel Novecento, lasciando conseguenze devastanti, ma anche esprimesse una forte capacità di ricostruzione, tentando una armonia purtroppo precaria perché indifferente al mondo naturale, alle esigenze di tutti i viventi, prigioniera di una idea di sviluppo a tutti i costi.
I passi che seguono mostrano – due esempi presi davvero a caso – come fin dai tempi di Omero si ritenesse che i potenti – gli dèi – se ne stessero tranquilli nel loro Olimpo, disinteressandosi dei conflitti che avevano provocato o sostenuto. E come la guerra militare, non quella simbolica, con i suoi scontri sanguinari sia stata una fonte di angoscia e di orrore. Ciò insomma che non vorremmo mai, che nessuno dovrebbe volere realmente, soprattutto coloro che hanno il compito di governare.
«L’Aurora dal letto, lasciando Titone glorioso,/ sorse a portare la luce agli immortali e ai mortali;/ e Zeus verso le navi snelle degli Achei lanciò la Lotta/ tremenda, che in mano aveva il segno di guerra./ …/ Qui ritta la dea gettò un grido forte, pauroso,/ acuto; e ispirò gran furia agli Achei, a tutti/ nel cuore, per lottare e combattere senza riposo:/ e la guerra divenne per loro più dolce del ritornare/ sopra le concave navi alla terra paterna./…/ Gli altri dèi non eran fra essi: quieti/ sedevano nei loro palazzi, dove a ciascuno/ è costruita la bella dimora, tra le gole d’Olimpo» (Omero, Iliade, trad. R. Calzecchi Onesti, XI, 1-4, 10-14, 75-77).
«Silenzio rotto da un’agitazione ansimante, senza posa, nel fango. Ad est il cielo schiariva inavvertitamente, come per la morte più che per la nascita di qualcosa ed essi scrutavano davanti a loro senza vedere nulla. Sembrava che lì la guerra non ci fosse, benché alla loro destra si levasse e cadesse denso e pesante sull’alba stanca un rumore gutturale di fucili. Powers, l’ufficiale, era passato dall’uno all’altro. Nessuno doveva sparare; c’era una pattuglia là fuori in qualche posto nell’oscurità. L’alba cresceva grigia e lenta; dopo un po’ la terra prese una forma vaga e qualcuno, vedendo una minore oscurità, gridò: ‘I gas!’. Powers e Madden balzarono in mezzo ad essi che lottavano ciecamente cercando a tastoni e strappandosi le maschere antigas, calpestandosi a vicenda, ma furono impotenti. Il tenente dava pugni a destra e a sinistra, cercando di imporsi, e l’uomo che aveva dato l’allarme si voltò improvvisamente sulla linea del fuoco, la testa e le spalle stagliate contro l’alba dolorosa. ‘Ci ha accoppati,’ urlò, sparando a bruciapelo in viso all’ufficiale» (W. Faulkner, La paga del soldato, trad.it. Garzanti 1965, pp. 165-66).
[di Gian Paolo Caprettini]