Oltre mille arrivi in 27 distinti approdi nelle ultime 24 ore; è questo l’ultimo numero relativo ai migranti sbarcati in territorio italiano. A far superare quota 1.000 è stato l’arrivo, all’alba di oggi, di altri 48 migranti, aggiuntisi ai 960 di ieri, giunti in Italia in oltre 23 sbarchi. Gli ospiti stanno venendo trattenuti all’hotspot di contrada Imbriacola, a Lampedusa, dove ieri erano state trasferite 233 persone. Per questa mattina, invece, la prefettura di Agrigento ha disposto lo spostamento di 220 migranti a bordo di un traghetto di linea diretto a Porto Empedocle; nel pomeriggio, altri 168 migranti verranno imbarcati su un volo dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni diretto a Milano.
Il numero degli animali selvatici nel mondo è più che dimezzato in mezzo secolo
Le popolazioni di animali selvatici stanno scomparendo a un ritmo allarmante, una situazione descritta come “catastrofica” dal WWF. L’analisi, basata su oltre 35.000 popolazioni di più di 5.000 specie diverse, mostra un declino globale del 73% negli ultimi 50 anni. Questa perdita sarebbe particolarmente grave in America Latina e nei Caraibi, dove alcune regioni hanno visto un crollo del 95%. Il Living Planet Index, curato dal WWF e dalla Zoological Society of London, e a cui hanno contributo oltre 125 esperti di tutto il mondo, traccia l’andamento delle popolazioni di vertebrati come anfibi, uccelli, mammiferi, rettili e pesci. I dati evidenziano che le popolazioni di acqua dolce sono le più colpite, con un calo medio dell’85%. Anche le popolazioni terrestri e marine hanno subito diminuzioni significative, rispettivamente del 69% e del 56%.
Secondo il rapporto, le specie più a rischio d’estinzione includono il gorilla di pianura orientale, il cui numero nel Parco Nazionale Kahuzi-Biega (Repubblica Democratica del Congo), ha visto un calo stimato dell’87% tra il 1994 e il 2015, principalmente a causa della caccia illegale, e il pappagallo cenerino in Ghana sud-occidentale, il cui numero è diminuito fino al 99% tra il 1992 e il 2014 a causa delle trappole usate per il commercio di uccelli selvatici e la perdita di habitat.
Le principali cause di questo declino sono legate al sistema alimentare e alle attività umane, con la distruzione degli habitat, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, l’inquinamento e le specie invasive che esercitano una pressione costante sugli ecosistemi. La deforestazione e il cambiamento climatico, in particolare nelle regioni tropicali, sono altri fattori che contribuiscono a questa crisi.
La drastica riduzione della fauna selvatica non solo rappresenta una perdita significativa, ma compromette anche la stabilità degli ecosistemi, mettendone a rischio la sopravvivenza.
Ogni specie svolge infatti un ruolo unico e insostituibile nel mantenimento dell’equilibrio naturale. La scomparsa di una singola specie può innescare effetti a cascata sull’intero ecosistema. La fauna selvatica offre servizi ecosistemici fondamentali, come l’impollinazione, la regolazione del ciclo idrico e la decomposizione della materia organica, contribuendo alla conservazione della biodiversità. Quest’ultima è essenziale per la produttività e la resilienza degli ecosistemi, migliorando la loro capacità di resistere a eventi avversi come inondazioni, siccità e malattie.
Non tutto è però ancora del tutto perso: sappiamo anche che agendo sull’attività di conservazione delle specie possiamo allontanarci dal baratro. È stato infatti provato che terreni sterili con risaie abbandonate che vanno a fuoco ogni anno, degradati e privi di fauna selvatica possono essere completamente ripristinati e diventare un vero e proprio ecosistema per flora e fauna che aiuta le popolazioni locali: lo dimostra nello specifico uno studio sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista Tropical Natural History, che descrive l’impegno e i risultati ottenuti sull’isola del Borneo, in Indonesia, grazie ad un lavoro durato quasi 15 anni. Qui, dal 2009, un gruppo ambientalista locale e le comunità vicine collaborano per ripristinare i terreni seminando piante autoctone, estirpando le erbacce e irrigando la zona. Un impegno che ha portato ad un calo significativo della deforestazione e alla comparsa di oltre 47 specie di cui 18 a rischio estinzione.
[di Gloria Ferrari]
La Corea del Nord ha fatto esplodere parte delle strade intercoreane
Il Comando dei capi di stato maggiore congiunti di Seul ha riferito che la Corea del Nord ha fatto saltare in aria le parti settentrionali della rete stradale intercoreana non più utilizzate, aggiungendo che la detonazione «è avvenuta intorno a mezzogiorno». La mossa, annunciata negli scorsi giorni, rappresenta un ulteriore segnale dell’intensificarsi delle tensioni tra Seul e Pyongyang. In risposta alle azioni della Corea del Nord, i militari sudcoreani hanno sparato alcuni colpi di avvertimento. Lo ha reso noto l’agenzia Yonhap, citando il Comando dei capi di stato maggiore di Seul.
L’Europa ci ha messo 4 giorni per decidere che è “preoccupata” dagli attacchi israeliani
Dopo giorni di forti dichiarazioni, gravi condanne, e intenso dibattito, i ministri degli Esteri dell’Unione Europea sono riusciti a esprimere unitariamente la loro «grave preoccupazione» per le azioni israeliane in Libano, in particolare riguardo alla missione UNIFIL. Nella dichiarazione, non una parola è stata spesa sugli oltre 2.000 morti e sul milione di sfollati in Libano, né una nota a margine è stata fatta su Gaza. Anche la discussione che ha seguito la dichiarazione sembra essersi concentrata prevalentemente sulla condotta dell’esercito israeliano nei confronti di UNIFIL. In sede di conferenza stampa, Josep Borrell, Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE, è apparso con le mani legate: «Non basta dire che il diritto umanitario debba essere rispettato», bisogna farlo rispettare. Eppure, quando si tratta di compiere azioni concrete affinché questo avvenga, sembra non esserci nulla da fare. «Preferirei poter rilasciare una dichiarazione più velocemente», ha detto Borrell, ma i ministri sono divisi: se alcuni chiedono un embargo di armi nei confronti di Tel Aviv, c’è ancora chi, dopo decine di migliaia di morti, «chiede che vengano consegnate più armi a Israele».
Malgrado il coro unanime di condanne che Israele ha attirato su di sé dopo i suoi continui attacchi al contingente UNIFIL, la forte presa di posizione dei grandi leader europei sembra starsi rivelando un fuoco di paglia. La dichiarazione del Consiglio per gli Affari Esteri dell’UE, pubblicata nelle ultime ore di domenica 13 luglio, tratta esclusivamente della situazione in Libano, ignorando completamente il resto del Medio Oriente. Il tema principale del documento è costituito proprio dagli attacchi israeliani all’UNIFIL, sui quali i 27, dopo quattro giorni di discussione, sono finalmente riusciti a manifestare nero su bianco il proprio disappunto. Ironicamente, dei ben più gravi attacchi alla missione internazionale avvenuti la stessa domenica non vi è stata alcuna menzione, né nella dichiarazione, né prima della conferenza stampa, né durante il colloquio con i giornalisti. Josep Borrell sembra essere consapevole della a tratti tragicomica situazione delle istituzioni europee quando si tratta di criticare Israele: «Ci vuole troppo tempo per dire alcune cose che sono abbastanza evidenti. È evidente che dovremmo essere contrari agli attacchi israeliani contro l’UNIFIL, soprattutto perché i nostri soldati sono lì», ha risposto a un giornalista; «sarei lieto se gli Stati membri riuscissero a raggiungere un accordo in merito più rapidamente». Intanto, l’ONU ha dichiarato che non intende spostare i propri caschi blu.
A rendere grottesco lo scenario europeo non basta il fatto che, di fronte a immagini di morti bruciati vivi, l’UE discuta sulle telecamere rotte dell’UNIFIL, ma si aggiunge anche la quasi totale assenza di voci – a eccezione delle solite Irlanda e Spagna – che chiedano di fare qualcosa di concreto. Interrogato in merito alla proposta di rivedere gli accordi di Associazione con Israele avanzata da Dublino e Madrid, Borrell ha dichiarato che proverà a fare quel che può perché «il Consiglio si assuma le sue responsabilità», suggerendo tuttavia che l’emergere di una decisione in tempi celeri sia improbabile. «Il fatto che Israele soddisfi il lato politico dell’Accordo di Associazione è», infatti, «un elemento di competenza del Consiglio, non della Commissione», ha puntualizzato Borrell. Le norme europee sugli accordi di scambio impongono che i patti multilaterali si svolgano nel pieno rispetto dei diritti umani, e l’Accordo UE-Israele non fa eccezione. Borrell ha dichiarato senza mezzi termini che «il diritto umano è sotto le macerie a Gaza», ma, nonostante ciò, i 27 sembrano voler fare poco affinché esso venga rispettato.
Nel frattempo, l’escalation di violenza prosegue: lunedì, l’esercito israeliano ha effettuato il suo primo attacco nel nord del Libano, colpendo la città di Aitou, a maggioranza cristiana. L’attacco ha colpito una casa di sfollati e ha ucciso almeno 21 persone. Continuano, inoltre, i raid nel sud del Paese e nella valle della Bekaa, così come l’invasione terrestre. Domenica, invece, Hezbollah ha lanciato una vasta offensiva con droni su una base militare a Binyamina, a sud di Haifa. L’attacco, indirizzato contro la Brigata d’élite Golani, ha causato la morte di 4 persone e decine di feriti. Ieri, inoltre, il movimento libanese ha attaccato Tel Aviv. A Gaza aumentano i morti dell’assedio nel nord, dove solo ieri le IDF hanno ucciso 29 persone. Dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 42.289 persone, anche se il numero di morti totale potrebbe superare le centinaia di migliaia di vittime, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet, e dalla recente lettera di medici volontari nella Striscia.
[di Dario Lucisano]
Calcio, la nazionale israeliana in Italia: vietato protestare allo stadio
Alle 20:45 di oggi, a Udine, la nazionale di calcio italiana scenderà in campo per affrontare la formazione israeliana, in un incontro valido per la Nations League. Numerose voci di protesta hanno chiesto che l’Italia prendesse una posizione, e che la partita non si svolgesse. Contro la presenza dell’undici di Tel Aviv, e in opposizione al patrocinio del Comune di Udine, che quest’ultimo ha deciso di concedere nonostante le richieste contrarie da parte dei cittadini, diverse organizzazioni hanno indetto un corteo, iniziato alle 17:00 in Piazza della Repubblica. La risposta del Comune non si è fatta attendere: in occasione della manifestazione, contro i dimostranti, è stato imposto un divieto assoluto di avvicinarsi allo stadio, e, parallelamente, è stata istituita una zona rossa militarizzata attorno all’impianto.
Le voci di protesta contro l’evento sportivo vanno avanti da mesi. A luglio, il Sindaco di Udine, Alberto Felice De Toni si era inizialmente rifiutato di concedere il patrocinio del Comune alla partita, attirando dure contestazioni da parte di politici e della regione. «La nostra scelta poteva essere diversa solo se ad oggi fosse stato annunciato un cessate il fuoco», aveva dichiarato De Toni. «Purtroppo così non è». Secondo il sindaco fornire il patrocinio «come se non esistesse una guerra» sarebbe stato come «mettere la testa sotto la sabbia». Solo qualche giorno fa, però, è avvenuto il cambio di rotta: il 9 ottobre, a meno di una settimana dalla partita, il sindaco ha cambiato idea, e ha deciso di concedere il patrocinio, nonostante la presa di posizione di tre mesi prima. La manifestazione in corso a Udine si è mossa anche per criticare l’incoerenza del primo cittadino, oltre che per denunciare la presenza della nazionale israeliana in città.
Il corteo è stato organizzato dalle comunità palestinesi di Friuli e Veneto, assieme ai Giovani Palestinesi, al comitato per la Palestina di Udine, e ai Ragazzi dell’Olivo di Trieste. La manifestazione è partita da Piazza della Repubblica per un percorso che, passando per Via Aquileia arriva a Piazza XX settembre, ben lontana dallo stadio. Nonostante ciò, la città è stata blindata. Le autorità hanno disposto posti di blocco all’ingresso della città e nei punti chiave, schierando circa un migliaio di agenti, in particolare nelle zone limitrofe allo stadio. Proprio le strade adiacenti alle aree d’accesso alla struttura sono state chiuse al traffico sin dalla mattina, e in questo stesso momento stanno venendo effettuati controlli stringenti sugli spettatori.
Un’analoga richiesta di interdire agli atleti israeliani di partecipare a un evento sportivo era emersa in occasione delle ultime Olimpiadi. Tale rivendicazione era portata avanti dal gruppo Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni ai sensi della Convenzione internazionale contro l’apartheid nello sport, un documento redatto nel 1985 sulla scia della precedente Dichiarazione contro l’apartheid nello sport del 1977, concepita per affermare la piena condanna internazionale all’apartheid in Sudafrica. La Convenzione e la Dichiarazione sono due documenti sui quali si fonda l’intero universo del diritto sportivo, e sono alla base della concezione dello sport come mezzo di promozione dei diritti umani. Le due carte condannano fermamente le violazioni di quei valori generalmente riconosciuti come universali, tanto da stabilire che chiunque se ne macchi dovrebbe venire escluso dalle competizioni sportive; allo stesso Sudafrica fu impedito di partecipare alle Olimpiadi per anni per non avere riconosciuto l’apartheid. Le migliaia di persone scese in piazza oggi a Udine, intendono denunciare proprio questo: «La partita Italia Israele non ha soltanto un valore sportivo, ma rappresenta una scelta politica ben precisa, ovvero la legittimazione internazionale dello Stato di Israele e del suo operato», hanno scritto gli organizzatori; «Questa partita non deve trovare spazio né a Udine né altrove».
[Dario Lucisano]
Ucraina: retate nei locali per stanare i renitenti alla leva militare
Nel fine settimana, ufficiali di reclutamento dell’esercito ucraino hanno fatto irruzione in una sala concerti, in ristoranti e bar di Kiev per controllare i documenti di registrazione militare e trarre in arresto le persone ritenute non in regola. È quanto hanno riferito testimoni e media locali, che hanno diffuso online una serie di video in cui si vedono ufficiali di stanza fuori dagli ingressi intercettare vari uomini mentre escono dalle strutture, trattenendo con la forza molti di loro. I controlli sono stati effettuati al Palazzo dello Sport di Kiev, al centro commerciale Goodwine e presso il noto ristorante Avalon. Le incursioni delle forze dell’ordine per stanare i renitenti alla leva, che raramente si verificano nella capitale, riflettono il disperato bisogno dell’Ucraina di nuove reclute da impiegare nel conflitto contro la Russia.
I video degli arresti sono stati diffusi da alcuni media ucraini, tra cui Hromadske, citati da Associated Press. Gli ufficiali si sarebbero recati in vari punti nevralgici della movida della capitale ucraina, effettuando incursioni mirate. Dai filmati trasmessi è possibile vedere gli agenti fermare alcune persone in strada, alcune delle quali sono state arrestate. In sottofondo, si sentono le urla della folla che grida «vergogna» all’indirizzo delle forze dell’ordine. Testimoni oculari hanno riferito che la polizia ha controllato tutti i documenti degli uomini intercettati. Quelli che si sono rifiutati di mostrare le carte che li avrebbero esentati dal servizio militare, o i cui documenti sono stati giudicati non conformi a quanto previsto dalla legge, sono stati trascinati via. Un portavoce del Centro territoriale di reclutamento e supporto sociale di Kiev (TRSSC) ha dichiarato in seguito a Ukrinform che gli ufficiali di leva del centro di reclutamento hanno lavorato insieme agli ufficiali delle forze dell’ordine della Polizia nazionale per condurre le perquisizioni. Da tempo, i metodi utilizzati da molti uffici di arruolamento in Ucraina sono stati oggetto di inchieste, in particolare per i presunti abusi e violenze che i suoi funzionari avrebbero commesso nei confronti di civili e coscritti. Parallelamente, la magistratura ha portato avanti indagini incentrate su un dilagante fenomeno di corruzione che avrebbe segnato l’azione di centinaia di centri di reclutamento militare, con il coinvolgimento di funzionari degli uffici e di responsabili degli esami medici, finalizzato a permettere a numerosi coscritti di eludere il servizio militare.
In Ucraina è in vigore la legge marziale, secondo la quale tutti gli uomini ucraini aventi un’età compresa tra i 25 e i 60 anni possono essere arruolati e quelli tra i 18 e i 60 anni non possono lasciare il Paese. Una nuova norma entrata in vigore questa primavera impone inoltre a coloro che hanno diritto al servizio militare di inserire le proprie informazioni in un sistema online o affrontare sanzioni. In questo contesto, le forze dell’ordine hanno la facoltà di richiedere ai coscritti un documento di registrazione militare e un documento di identità, potendo anche verificare se le persone abbiano aggiornato i propri dati in conformità con le novità normative sulla mobilitazione. Se la polizia scopre che un coscritto è ricercato dall’ufficio di registrazione e arruolamento militare, è autorizzata a trattenere e consegnare il trasgressore al Commissariato Militare. Ad aprile, il servizio di guardia di frontiera del Paese ha dichiarato che almeno 30 uomini sono morti nel tentativo di fuggire dal Paese dall’inizio della guerra, spesso annegando nel tentativo di attraversare a nuoto fiumi in piena o morendo congelati sui passi di montagna. Da alcuni mesi, come già fatto precedentemente da Mosca, l’Ucraina ha iniziato a rilasciare migliaia di detenuti al fine di inserirli nell’esercito e inviarli al fronte, rimpinguando le brigate d’assalto.
[di Stefano Baudino]