domenica 24 Novembre 2024
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La guerra come mito

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Il mito in questione riguarda l’origine del fuoco e la connessione che esiste tra questo e l’origine della guerra. I miti arcaici parlano o di una contesa tra le forze naturali o degli obblighi imposti dalle divinità, principalmente il sole. Il fuoco – e di conseguenza la guerra – mettono in scena una obbedienza. «Per poter illuminare la terra, il sole deve nutrirsi di cuori umani e bere sangue. Per questo motivo dovette venir creata la guerra, la sola maniera con cui si potevano ottenere cuori e sangue. Poiché tutti gli dei lo volevano, essi crearono la guerra»: questo il racconto azteco ma non molto diverso il mito malgascio riportato da Frazer (Miti sull’origine del fuoco, 1930, trad.it. Xenia 1993, p. 149). Anche qui fuoco e guerra sono correlati: la guerra è quella tra Sole e Tuono, tra le fiamme che divampano e il rumore prodigioso del tuono che fa scaturire cascate d’acqua dalle nuvole spegnendo le fiamme. Ma le truppe del Sole si nascosero per sopravvivere tra le rocce e anche in elementi naturali come il legno e le pietre dure da cui possono scaturire, come vulcani o come semplici scintille.

Lo statuto mitologico della guerra risiede dunque in uno scontro di forze naturali per un irragionevole primato, un primato che spetta agli esseri umani razionalizzare nella opposizione e complementarità logica di ‘cotto’ e ‘crudo’. Una leggenda etiopica, infatti, narra che “una volta gli uomini non avevano fuoco, e dovevano mangiare tutto crudo. In quel tempo, però, gli uomini non morivano, e quando diventavano vecchi Dio li faceva ritornare giovani. Ma un giorno pensarono di chiedere a Dio un po’ del suo fuoco. All’uomo che gli rivolse questa preghiera Dio disse: «Ti darò del fuoco se sei disposto a morire». L’uomo accettò ed ebbe da Dio il fuoco, ma da allora tutti dobbiamo morire”. (Favole etiopiche, Xenia 1993, p. 147).

Il grande antropologo francese, Claude Lévi-Strauss, nel suo capolavoro Il crudo e il cotto dimostrò efficacemente come gli attributi delle cose indichino proprietà logiche, e che c’è una stretta correlazione tra le esperienze sensibili e le categorie intellegibili. I segni consistono appunto nell’esprimere e organizzare dati naturali in forme logiche. Così nella lotta tra acqua e fuoco il pensiero mitico sudamericano dei Bororo distingue due tipi d’acqua: un’acqua creatrice, di origine celeste e un’acqua distruttrice di origine terrestre. Così pure per il fuoco, uno celeste distruttore, l’altro terrestre e creatore: quest’ultimo è il fuoco di cucina (p. 247). Da cui per semplificare due azioni ‘belliche’, una devastatrice e portatrice di morte e un’altra benefica, trasformatrice, a patto di conoscere determinate tecniche.

Se riconduciamo, grazie al mito, il concetto di guerra a due distinti versanti, uno per ottenere energia, l’altro per ottenere distruzione, capiamo perché i miti parlano di una vita abbreviata, che in termini di una logica moderna diremmo contrassegnata dalla violenza e dalla morte, a fronte di una vita prolungata, dove la resurrezione consiste nel mantenere in vita gli  antenati, nel dare cioè,  nei  nostri termini, continuità al tempo, in qualche modo ‘cucinandolo’, sfruttando le sue potenzialità. Nello stesso tempo, nel pensiero mitologico le risorse vengono presentate come non  illimitate e ad esempio la siccità si alterna consapevolmente alla stagione delle piogge, grazie a una rappresentazione simbolica delle costellazioni celesti e delle stagioni.

L’idea di guerra originaria non è dunque da correlare principalmente a uno scontro tra forze umane, tra fronti bellici in lotta per la supremazia ma farebbe parte di quella «impresa collettiva di significazione» di cui parla Lévi- Strauss, dal momento che «il pensiero mitico non accetta la natura se non a condizione di poterla ripetere» (p. 447). Dall’inevitabile esprimersi contraddittorio, potente delle forze naturali, spetta all’uomo trovare una via d’uscita per preservare «una immagine del mondo inscritta nell’architettura dello spirito» (p. 446). Trascurare dunque questo orizzonte significa inevitabilmente precipitare nella vera e propria guerra tra opposte fazioni, dove l’uso legittimo della forza non riesce più a essere disciplinato dagli stati e l’idea di guerra viene unicamente declinata in quella di conflitti armati. 

Conflitti che nei nostri anni indicano la perdita di forme di controllo, l’emergere di insurrezioni su media e vasta scala e che giustamente uno studioso come Giovanni Carbone individua, ad esempio in Africa,  come «il frutto di una competizione per risorse sempre più scarse»(L’Africa, Il Mulino 2021, p. 95). A dimostrare che le stesse competizioni per la terra e per l’acqua tra popolazioni nomadi e popolazioni stanziali mostrano ancora una volta la genesi remota  dell’idea di guerra.

Un’idea di guerra che nel mondo occidentale e nella coscienza comune si è fatta sempre risalire alla espansione territoriale, al prevalere di interessi economici e di potere per il dominio ad esempio nei traffici, nei commerci, nella espansione coloniale, nelle risorse energetiche, nei bacini naturali da sfruttare. L’evoluzione industriale e tecnologica ha poi trasformato l’idea stessa di guerra da scontro su fronti a un distruttivo coinvolgimento globale, facendo dilagare il concetto di insicurezza (anche nella popolazione civile, pensiamo ai bombardamenti aerei nei conflitti mondiali del secolo scorso) a tal punto da produrre forme di controllo assoluto.

Mi pare di poter dire che nel migliore dei casi attualmente l’orizzonte è quello di creare una permanente atmosfera bellica, e questo, ancora una volta, grazie al mancato controllo e assennato sfruttamento e gestione delle risorse naturali. 

Abbiamo inventato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso una idea di convivenza in Europa centrata prima sulla crescita ma poi sulla competizione e sulla supremazia. Troppo rare e inconsistenti le iniziative per acquisire coscienza comune, per fare dell’Europa un centro di proposte e di visioni anche soltanto culturali. Un’Europa che non dimenticasse quanto è avvenuto nel Novecento, lasciando conseguenze devastanti, ma anche esprimesse una forte capacità di ricostruzione, tentando una armonia purtroppo precaria perché indifferente al mondo naturale, alle esigenze di tutti i viventi, prigioniera di una idea di sviluppo a tutti i costi.

I passi che seguono mostrano – due esempi presi davvero a caso – come fin dai tempi di Omero si ritenesse che i potenti – gli dèi – se ne stessero tranquilli nel loro Olimpo, disinteressandosi dei conflitti che avevano provocato o sostenuto. E come la guerra militare, non quella simbolica, con i suoi scontri sanguinari sia stata una fonte di angoscia e di orrore. Ciò insomma che non vorremmo mai, che nessuno dovrebbe volere realmente, soprattutto coloro che hanno il compito di governare. 

«L’Aurora dal letto, lasciando Titone glorioso,/ sorse a portare la luce agli immortali e ai mortali;/ e Zeus verso le navi snelle degli Achei lanciò la Lotta/ tremenda, che in mano aveva il segno di guerra./ …/ Qui ritta la dea gettò un grido forte, pauroso,/ acuto; e ispirò gran furia agli Achei, a tutti/ nel cuore, per lottare e combattere senza riposo:/ e la guerra divenne per loro più dolce del ritornare/ sopra le concave navi alla terra paterna./…/ Gli altri dèi non eran fra essi: quieti/ sedevano nei loro palazzi, dove a ciascuno/ è costruita la bella dimora, tra le gole d’Olimpo» (Omero, Iliade, trad. R. Calzecchi Onesti, XI, 1-4, 10-14, 75-77).

«Silenzio rotto da un’agitazione ansimante, senza posa, nel fango. Ad est il cielo schiariva inavvertitamente, come per la morte più che per la nascita di qualcosa ed essi scrutavano davanti a loro senza vedere nulla. Sembrava che lì la guerra non ci fosse, benché alla loro destra si levasse e cadesse denso e pesante sull’alba stanca un rumore gutturale di fucili. Powers, l’ufficiale, era passato dall’uno all’altro. Nessuno doveva sparare; c’era una pattuglia là fuori in qualche posto nell’oscurità. L’alba cresceva grigia e lenta; dopo un po’ la terra prese una forma vaga e qualcuno, vedendo una minore oscurità,  gridò: ‘I gas!’. Powers e Madden balzarono in mezzo ad essi che lottavano ciecamente cercando a tastoni e strappandosi le maschere antigas, calpestandosi a vicenda, ma furono impotenti. Il tenente dava pugni a destra e a sinistra, cercando di imporsi, e l’uomo che aveva dato l’allarme si voltò improvvisamente sulla linea del fuoco, la testa e le spalle stagliate contro l’alba dolorosa. ‘Ci ha accoppati,’ urlò, sparando a bruciapelo in viso all’ufficiale» (W. Faulkner, La paga del soldato, trad.it. Garzanti 1965, pp. 165-66).

[di Gian Paolo Caprettini]

India, ondata di caldo record: 85 vittime in un solo giorno

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È di 85 morti nelle ultime 24 ore il bilancio delle vittime causate dall’ondata di caldo senza precedenti che ha colpito l’India. Lo hanno reso noto le autorità degli Stati interessati dall’eccezionale aumento delle temperature, che negli ultimi giorni hanno addirittura superato i 50 gradi. Secondo quanto hanno riferito gli organi di informazione locali, la maggior parte dei morti, a causa della fortissima umidità, si è registrata nello Stato orientale di Odisha, dove si contano 46 vittime. Gli altri Stati fortemente colpiti sono Bihar, Jharkhand, Rajastan e Uttar Pradesh.

In Russia sono ancora attive oltre duemila multinazionali occidentali

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A due anni e quattro mesi di distanza dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina sono ancora più di duemila e cento le aziende multinazionali che non hanno lasciato la Russia, nonostante fossero teoricamente tenute a farlo dai vari pacchetti di sanzioni approvati da Stati Uniti ed Unione Europea. È quanto emerge da una rilevazione effettuata dalla Kyiv School of Economics, ateneo della capitale ucraina associato all’Università di Houston. Il medesimo rapporto specifica che le aziende che hanno effettivamente lasciato Mosca sono 1.600, quindi quasi sei multinazionali occidentali su dieci continuano ad operare in Russia.  Come fanno? Gli escamotage utilizzati sono diversi, dalla dichiarazione dell’impossibilità di trovare acquirenti locali non sottoposti a sanzioni occidentali, agli stratagemmi come quello adottato dalla Coca-Cola che, ufficialmente afferma di avere lasciato il Paese, ma nei fatti ha creato una nuova società controllata che continua a vedere la stessa celebre bibita sotto diverso nome.

A incidere sono state anche le contromisure adottate dal governo russo. Alcune aziende, come Danone e Carlsberg, che hanno annunciato la vendita di alcune loro produzioni e/o servizi, hanno visto il sequestro e la nazionalizzazione dei loro beni. Mosca ha poi permesso alle multinazionali straniere di lasciare il Paese ma ad un costo elevato, ponendole dunque di fronte ad una gravosa scelta. La Russia ha gradualmente aumentato il costo della partenza delle aziende, imponendo uno sconto obbligatorio del 50% sui beni provenienti da Paesi “ostili” venduti ad acquirenti russi e una “tassa di uscita” minima del 15%. In tal modo è stato anche sempre più difficile trovare acquirenti locali che fossero accettabili sia per il venditore sia per Mosca, il cui coinvolgimento non fosse in contrasto con le sanzioni occidentali. Quindi, nonostante tantissime aziende avessero annunciato il loro ritiro dal mercato russo, alla fine hanno deciso di rimanervi per non dover svalutare enormemente le loro filiali locali. O, almeno, questa è la versione ufficiale che hanno fornito.

Ad esempio, la multinazionale francese Air Liquide, che fornisce gas industriali e servizi a vari settori, tra cui produttori medici, chimici ed elettronici, nel settembre 2022 aveva annunciato di aver firmato un memorandum d’intesa per vendere la sua attività in Russia al gruppo di amministratori locali che l’aveva gestita fin a quel momento; tuttavia, l’accordo non ha mai ricevuto l’approvazione del governo russo, lasciando l’azienda in un limbo. PepsiCo, nel marzo 2022, aveva annunciato di aver sospeso la vendita e la produzione della sua bevanda di punta in Russia, ma continua tutt’ora a gestire un’attività lattiero-casearia che impiega circa 20.000 lavoratori diretti e più di 40.000 lavoratori indiretti. «Come azienda di alimenti e bevande, ora più che mai dobbiamo rimanere fedeli all’aspetto umanitario della nostra attività. Ciò significa che abbiamo la responsabilità di continuare a offrire i nostri altri prodotti in Russia», scrisse nel settembre 2022 l’amministratore delegato, Ramon Laguarta, in un’e-mail ai dipendenti, a giustificazione della scelta di non abbandonare del tutto il mercato russo.

La Dobri cola ha sostituito la Coca-Cola sugli scaffali dei supermercati russi, ma è prodotta dalla stessa multinazionale americana

Come accennato, invece, Coca-Cola, ha utilizzato un altro stratagemma. Sebbene abbia deciso di non vendere più direttamente la sua bibita nel Paese, la multinazionale statunitense ha optato per la creazione di una società russa formalmente autonoma, Multon Partners, le cui versioni russe dei marchi Coca-Cola includono la Dobry Cola, adesso tra le bibite più vendute in Russia. Nelson Peltz, membro del consiglio di amministrazione di Unilever, ha detto di aver fatto pressioni sul gruppo, che ha esplorato le opzioni per una cessione delle attività, affinché la società non se ne andasse dal Paese. «Se ci ritiriamo dalla Russia, si prenderanno i nostri marchi. Non penso che sia un buon affare», ha detto Peltz, sottolineando che rivali come P&G e Colgate-Palmolive non hanno lasciato il paese e chiedendosi: «Perché diavolo dovremmo?». Insomma, al di là dei proclami e degli annunci, le sanzioni occidentali non sono riuscite a portare effettivamente le aziende occidentali fuori dal mercato russo.

[di Michele Manfrin]

Russia Ucraina: scambio di 150 prigionieri; Mosca avanza nel Donetsk

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Venerdì, la Federazione russa e l’Ucraina hanno liberato 75 persone a testa in uno scambio di prigionieri, il primo da quasi 4 mesi. A riportare la notizia è l’agenzia di stampa russa Ria Novosti, che spiega che lo scambio di prigionieri sarebbe avvenuto attraverso la mediazione degli Emirati Arabi Uniti. Tra i prigionieri, pare ci fossero anche 4 civili ucraini. Il Ministero della Difesa russo, invece, ha comunicato che l’aereo dove viaggiavano i propri prigionieri è atterrato a Mosca questa mattina. Intanto procede l’avanzata russa su suolo ucraino: il battaglione nord sarebbe infatti penetrato più a fondo nelle aree di confine tra oblast di Donetsk e di Dnipro.

La lobby della carne avrebbe sabotato un terzo delle politiche ecologiche europee

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L’industria degli allevamenti intensivi, seguendo gli insegnamenti delle compagnie fossili, ha fatto pressioni significative affinché le politiche climatiche dell’UE venissero indebolite. Ad oggi, già un terzo delle misure europee per la riduzione delle emissioni è stato compromesso dal settore. A renderlo noto, un rapporto del gruppo di esperti indipendente InfluenceMap, il quale ha esaminato le campagne di lobbying condotte presso l’UE negli ultimi tre anni da 10 compagnie e 5 associazioni di categoria afferenti all’industria della carne e dei prodotti caseari. Il focus è stato in particolare su 6 politiche ecologiche cardine, come la direttiva sulle emissioni industriali o la strategia Farm to Fork. Le aziende coinvolte nell’allevamento e nella produzione di carne – quali Arla, Danish Crown, Tonnies group, FrieslandCampina, Vion food group – hanno nello specifico promosso le posizioni più critiche e influenti. Il rapporto ha suggerito inoltre che alcuni colossi dell’industria della carne si sono serviti delle rispettive associazioni di categoria per portare avanti i loro interessi, proteggendosi così da polemiche indesiderate.

La nuova analisi di InfluenceMap ha quindi messo in luce una campagna concertata dell’industria della carne e dei prodotti lattiero-caseari volta a ostacolare gli sforzi politici per affrontare l’impatto climatico del settore. Una vera e propria strategia che ha influenzato in modo significativo le politiche ambientali dell’UE relative alla produzione e al consumo di carne e latticini. Il rapporto, in particolare, ha esaminato il coinvolgimento delle aziende e delle relative associazioni di categoria in merito alle politiche dell’UE volte a ridurre le emissioni climalteranti in linea con il Rapporto speciale 2019 del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC). Secondo l’analisi, i giganti dei beni di consumo, come Unilever e Nestlé, hanno in questo caso mostrato un impegno più positivo nei confronti delle politiche dell’UE rispetto ai produttori di carne e latticini come Arla e Danish Crown. Inoltre, è emerso che le associazioni di categoria che rappresentano queste aziende sono state fortemente coinvolte in queste azioni di lobbying, spesso allineandosi con le posizioni più contrarie assunte dalle aziende produttrici di alimenti. Nel complesso, i produttori di carne e latticini, insieme alle loro associazioni industriali, hanno impiegato tattiche simili a quelle utilizzate dall’industria dei combustibili fossili per ostacolare le politiche climatiche. Queste tattiche comprendono la costruzione di una narrativa strategica e un impegno politico dettagliato. Entrambi i settori hanno infatti utilizzato argomentazioni fuorvianti nella loro comunicazione pubblica per seminare dubbi e minare la necessità di affrontare le emissioni di gas serra. Tra le principali tattiche, figura il tentativo di allontanare il settore dalle responsabilità in termini di crisi climatica, negando la necessità di un cambio di dieta, sminuendo l’impatto delle emissioni ed enfatizzando i loro miglioramenti in termini di efficienza. Al contempo, il settore ha lavorato per far risaltare l’importanza degli allevamenti per la società, esaltandone i benefici in termini economici, di salute e di sicurezza alimentare.

Nel complesso, il documento indica che gli sforzi dell’industria sono riusciti in gran parte a indebolire le principali politiche climatiche rivolte al settore nell’UE. Tra il 2020 e il 2023, l’intensa pressione delle aziende ha infatti portato a un significativo indebolimento di un terzo delle politiche esaminate, con la metà di esse che sembra essersi del tutto bloccata a causa dell’opposizione delle aziende e delle associazioni di settore. Tra le politiche interessate figurano il Quadro per i sistemi alimentari sostenibili, una pietra miliare della strategia Farm to Fork, e la revisione della Direttiva sulle emissioni industriali che regola le emissioni inquinanti delle grandi aziende europee. Come se non bastasse, il lobbying dell’industria della carne e dei prodotti lattiero-caseari ha influenzato anche la posizione del partito politico conservatore europeo sulle politiche relative alla transizione della dieta e alle emissioni del settore agricolo. Tra il 2022 e il 2023, l’opposizione del Partito Popolare Europeo a politiche chiave e alla riduzione delle emissioni di gas serra del settore ha infatti rispecchiato la narrativa promossa dai produttori di carne e latticini e dalle loro associazioni industriali. Un allineamento che, verosimilmente, ha influenzato anche l’approccio del Partito alle elezioni europee del 2024.

[di Simone Valeri]

Friuli, tre dispersi per la piena del fiume Natisone

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Un ragazzo e due ragazze risultano dispersi, in Friuli, dopo essere stati travolti dalla piena del fiume Natisone. I giovani avevano lanciato un SOS con i propri telefoni poco prima di essere trascinati via dal fiume in piena. Il livello dell’acqua si è alzato rapidamente a causa delle intense precipitazioni riversatesi sulla Regione. Sul luogo sono in azione le squadre dei vigili del fuoco. Le forti piogge hanno aumentato il livello di allerta anche in Trentino, dove i laghi sono in osservazione, e in Veneto, dove vi sono stati allagamenti ed esondazioni.

Dagli stadi al controllo urbano e del dissenso: il DASPO come strumento repressivo

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Libertà, repressione, sicurezza. Un triangolo plurisecolare, intorno al quale continua a ruotare incessante la vita degli individui all’interno degli Stati. Un triangolo che facilmente si presta ad abusi e sconfinamenti arbitrari. «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza», affermava nel XVIII secolo Benjamin Franklin, uno dei protagonisti della Rivoluzione americana. In Italia, un paio di secoli dopo, libertà, repressione e sicurezza sono andate incontro a un nuovo equilibrio coinvolgendo da...

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Caso Omerovic, chiesto rinvio a giudizio per tre agenti accusati di tortura

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La procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per tre poliziotti per quanto accaduto il 25 luglio 2022 nel quartiere Primavalle della Capitale, quando Hasib Omerovic, 36enne sordomuto, si lanciò dalla finestra del suo appartamento mentre era in corso un sopralluogo degli agenti. Secondo quanto emerso dalle indagini, il gesto fu compiuto dall’uomo per sottrarsi ai comportamenti violenti degli agenti, intervenuti senza un mandato per un “controllo preventivo”. Secondo l’accusa, uno dei poliziotti (Andrea Pellegrini, assistente capo della polizia) avrebbe persino minacciato Omerovic con un coltello. Ai tre agenti vengono contestati, a seconda delle loro posizioni, i reati di falso e tortura.

Pena di morte: nel 2023 il numero di esecuzioni è stato il più alto da quasi un decennio

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Il numero delle condanne a morte eseguite in tutto il mondo nel 2023 è il più alto mai registrato dal 2015. È quanto emerge dall’ultimo rapporto diffuso da Amnesty International, che da un decennio collabora con la task force contro la pena di morte istituita dal Ministero degli affari esteri. Nello specifico, dalla ricerca emerge che l’anno scorso hanno avuto luogo ben 1153 esecuzioni – il 31% in più rispetto alle 883 del 2022 -, mentre sono state emesse 2428 condanne alla pena capitale, circa il 20% in più rispetto all’annata precedente. L’unico dato positivo che si ricava dalla ricerca è che il numero di Paesi che hanno eseguito le condanne a morte – sedici – è al minimo storico.

Il rapporto spiega che l’89% del totale delle esecuzioni registrate sono avvenute in Iran (il 74%) e in Arabia Saudita (il 15%). L’importante aumento del totale globale, scrive Amnesty, è fra l’altro primariamente dovuto “a un picco nelle esecuzioni in Iran” (aumentate del 48% rispetto alle 576 del 2022 e più che raddoppiate dalle 314 del 2021), che è particolarmente evidente in riferimento alle esecuzioni effettuate per reati legati alla droga, passate “da 255 nel 2022 a 481 nel 2023”. Nel rapporto si denuncia inoltre che, in Iran, almeno 5 persone sono state messe a morte “per reati commessi quando avevano meno di 18 anni”. Nel rapporto si scrive poi testualmente che “i dati totali non includono le migliaia di persone che si ritiene siano state messe a morte in Cina, che nel 2023 è rimasta il principale esecutore nel mondo”, poiché “le informazioni sulla pena capitale sono classificate come segreti di stato”. Inoltre, Amnesty non è riuscita a determinare “delle cifre minime attendibili riguardo le condanne eseguite nella Repubblica Democratica Popolare di Corea (Corea del Nord) e in Vietnam, paesi in cui si ritiene si continuino a mettere a morte persone in modo estensivo”. L’organizzazione ha inoltre evidenziato che, per il 15esimo anno di fila, gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese a eseguire condanne alla pena capitale in tutto il continente americano. In particolare, il numero delle esecuzioni effettuate negli USA ha subito un’impennata del 33%, passando da 18 nel 2022 a 24 nel 2023. Nel report, Amnesty ha denunciato che “persone con disabilità mentali o intellettive sono state condannate a morte in diversi paesi, tra cui Giappone, Maldive e Stati Uniti d’America”, e in molti altri “sono state inflitte condanne a morte dopo procedimenti giudiziari non in linea con gli standard internazionali sul giusto processo”. Quattro Paesi, ovvero Cina, Iran, Arabia Saudita e Singapore, hanno messo a morte delle donne.

Se le esecuzioni registrate aumentano in maniera importante rispetto al 2022, sono comunque sempre meno i Paesi che le attuano. Non risulta, infatti, che siano state messe a morte persone in Bielorussia, Giappone, Myanmar e Sudan del Sud, tutti Paesi che “avevano invece eseguito condanne a morte nel 2022 (quando erano risultati 20 i paesi ad averne eseguite)”. Lo stesso discorso vale per le condanne a morte: in cinque nazioni – Bahrain, Comore, Sudan, Sudan del Sud e Zambia –, a differenza di quanto accaduto nel 2022, non sono state emesse. Sono quattro i metodi di esecuzione dei condannati a morte utilizzati nel mondo: l’impiccagione in Bangladesh Egitto Iran Iraq Kuwait Singapore Siria; la fucilazione in Afghanistan, Cina, Corea del Nord, Palestina, Somalia e Yemen; l’iniezione letale in Cina, Stati Uniti d’America e Vietnam; la decapitazione in Arabia Saudita.

Nel gennaio di quest’anno, aveva destato molto scalpore l’uccisione tramite ipossia da azoto di un condannato a morte negli Stati Uniti. Un metodo mai utilizzato prima per le pene capitali – considerato inaccettabile anche come forma di eutanasia per gli animali –, sperimentato dall’Alabama sul 58enne Kenneth Eugene Smith, condannato per omicidio e detenuto nel braccio della morte da 35 anni, che nel 2022 era sopravvissuto a un’iniezione letale. A muoversi, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, era stata proprio Amnesty International, che aveva scritto in un comunicato che “l’esecuzione tramite un metodo mai provato potrebbe essere estremamente dolorosa e costituire tortura o altro trattamento o punizione crudele, inumana e degradante, in violazione di norme internazionali ratificate dagli Usa” e aveva chiesto fino all’ultimo alla Governatrice dello Stato di fermare la procedura. Senza successo.

[di Stefano Baudino]

Come la “terapia canguro” salva la vita a migliaia di bambini ogni anno

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La “terapia canguro”, ovvero il posizionare il figlio a stretto contatto con le madri collocandolo sul loro petto, aiuta a stabilizzare i nati prematuri e può salvare migliaia di vite ogni anno: è ciò che emerge da una nuova ricerca sottoposta a revisione paritaria pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet. L’analisi ha coinvolto cinque ospedali in tutta l’Uganda e ha scoperto che iniziare la “marsupio terapia” prima che i bambini fossero stati clinicamente stabilizzati ha salvato il 14% in più di vite umane nei primi 28 giorni di vita. La ricerca, secondo l’autrice senior, pediatra e professoressa Joy Lawn, è la prima a dimostrare il vantaggio nel rapporto costo-efficacia dell’implementazione della tecnica prima della stabilizzazione clinica dei neonati e rappresenta quindi una vera e propria «opportunità» per adottare nuove strategie per combattere la mortalità neonatale, che è una delle principali cause di morte infantili nel mondo.

La terapia canguro consiste nel tenere il bebè appena nato in un contatto pelle a pelle continuo e prolungato, favorendo anche l’allattamento al seno e la dimissione veloce. Il bambino viene avvolto in una copertina e sistemato in posizione verticale sul petto del genitore, che decide di tenerlo con lui sulla base dello stato di salute del figlio. Grazie alla connessione fisica ed emotiva, che si attua attraverso sguardi, sorrisi, suoni e contatto fisico, si ottiene anche una modulazione dello stress e viene promosso un sano sviluppo neuro-comportamentale. In particolare, come spiegano gli esperti, serve anche a «stabilizzare i parametri cardio-respiratorio e l’omeostasi termica del neonato». Tale tecnica non è magia quindi, ma scienza, e ciò trova conferma anche in un recente studio pubblicato su The Lancet.

La ricerca è stata condotta individualmente a gruppi paralleli in cinque ospedali in Uganda e – spiegano i ricercatori – mira a proporre nuove strategie per la gestione della nascita prematura, che è la causa principale di morte nei bambini di età inferiori a 5 anni in tutto il mondo. Sono stati considerati idonei 2.221 neonati dal peso compreso tra i 700 ed i 2.000 grammi senza instabilità cliniche pericolose per la vita e si è scoperto che la terapia canguro ha salvato il 14% in più di bambini nei primi 28 giorni di vita. «L’effetto del 14% sulla mortalità è notevole se lo si applica a milioni di neonati vulnerabili in tutto il mondo. Questa è un’opportunità per cambiare davvero la traiettoria della sopravvivenza neonatale, che è uno degli obiettivi globali più fuori strada. Ma per ottenere questi vantaggi, i governi e i partner nazionali dovranno investire», ha dichiarato la professoressa Joy Lawn, coautrice, pediatra ed epidemiologa presso la London School of Health & Tropical Medicine. La tecnica «pone giustamente la famiglia al centro della cura del proprio bambino» ha poi affermato, aggiungendo: «Il contatto pelle a pelle fornisce calore, ma supporta anche meglio l’allattamento al seno e protegge i bambini dalle infezioni, quindi spesso tornano a casa prima».

Si tratta di una scoperta che potrebbe avere conseguenze tutt’altro che indifferenti soprattutto per i Paesi a basso reddito che dispongono di attrezzature specialistiche limitate: «Questo studio dimostra che ci sono azioni che possiamo intraprendere ora per ridurre le morti neonatali, ma la terapia canguro non è una bacchetta magica. Abbiamo ancora bisogno di più infermieri neonatali, di più spazio e di dispositivi di base, ma insieme una maggiore attenzione a questi interventi potrebbe iniziare a cambiare il progresso della sopravvivenza nazionale in molti paesi, soprattutto in tutta l’Africa», ha aggiunto, sottolineando però che anche la madre non interviene da sola: «La madre ha bisogno di rispetto. Ha bisogno di una stanza con letti, non puoi aspettarti che faccia dalle 12 alle 18 ore di marsupio cura senza docce. Anche l’assistente ha bisogno di cure». In tutti i casi però, conclude la professoressa, «ovunque tu sia nel mondo, se sei nato molto prematuro, è meglio essere pelle a pelle con tua madre».

[di Roberto Demaio]