Per anni hanno alzato la voce, organizzato presìdi, studiato dossier e promosso mobilitazioni. E oggi i comitati veneti possono finalmente esultare: il progetto dell’inceneritore Eni a Porto Marghera è stato bocciato. Il 25 giugno 2025 segna una data storica per la battaglia ambientalista in Veneto. In quella stessa giornata in cui è stato stoppato anche il progetto per una discarica di amianto a Valeggio sul Mincio, il Comitato Tecnico Regionale per la Valutazione di Impatto Ambientale (CTR VIA) ha infatti emesso un parere negativo sull’impianto proposto da Eni Rewind per il trattamento dei f...
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Si è chiusa a Nizza la terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano, un appuntamento cruciale per il futuro del Pianeta che ha riunito oltre 60 capi di Stato e di governo e complessivi 15.000 partecipanti tra esperti, rappresentanti di ONG, scienziati e attivisti. Il bilancio, come spesso accade in questi grandi vertici multilaterali, è fatto di promesse solenni e slanci ambiziosi, ma soprattutto di contraddizioni, ritardi e pesanti assenze. Tra queste, quella dell’Italia, presente formalmente ma di fatto assente nelle decisioni strategiche e contraria a qualsiasi potenziale positivo passo in avanti.
«La scienza è chiara, i fatti sono evidenti: abbiamo il dovere di mobilitarci», ha affermato con fermezza il presidente francese Emmanuel Macron in apertura dei lavori. E in effetti, il quadro tracciato dagli esperti non lascia spazio a esitazioni: oceani surriscaldati e acidificati, inquinati da plastica e sostanze chimiche, svuotati dalla pesca eccessiva, devastati dalle attività industriali e minacciati dalla nuova frontiera delle estrazioni minerarie profonde. Il futuro della salute marina è in pericolo e con esso quello dell’equilibrio climatico, della sicurezza alimentare globale e dell’economia di milioni di persone. Eppure, nonostante l’urgenza, il risultato finale della Conferenza è stato definito dalle stesse Nazioni Unite come «una promessa fragile, ma condivisa». Il Piano d’azione di Nizza, cuore politico dell’incontro, è un documento non vincolante che ribadisce l’obiettivo “30×30”, proteggere il 30% degli oceani entro il 2030, e raccoglie oltre 800 impegni volontari da parte di governi, agenzie ONU e società civile.
Tra le iniziative più concrete spicca quella dell’Unione Europea, che ha annunciato lo stanziamento di un miliardo di euro per finanziare 50 progetti incentrati sulla tutela degli ecosistemi marini, la pesca sostenibile e la ricerca scientifica. Un terzo dei fondi sarà dedicato ad attività in aree particolarmente vulnerabili, e 40 milioni andranno al programma Global Ocean, che si avvicina alla soglia di ratifica con il supporto di quasi 60 Paesi. La Polinesia francese, dal canto suo, si è impegnata a creare la più grande area marina protetta del mondo. La Germania ha lanciato un piano per la bonifica delle munizioni nei mari del Nord, mentre la Spagna ha istituito cinque nuove aree marine protette. Nuova Zelanda, Indonesia, Canada e Panama hanno aderito a nuove alleanze internazionali, mentre 95 Paesi hanno firmato una dichiarazione congiunta per un trattato globale contro l’inquinamento da plastica.
Proprio la plastica è stata uno dei temi centrali del vertice, con un forte appello a concludere con successo i negoziati per un trattato internazionale vincolante che dovrebbe trovare un punto di svolta a Ginevra, nel prossimo round di agosto. Sul fronte pesca, l’attenzione è andata all’accordo sui sussidi dannosi promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, ratificato da oltre 100 Paesi, ma che per l’entrata in vigore richiede ancora una decina di adesioni. In questo contesto, il WWF ricorda che senza la fine dei sussidi alla pesca illegale e sovrasfruttata non sarà possibile garantire la sostenibilità a lungo termine delle risorse ittiche. Altrettanto centrale il dibattito sul deep sea mining, l’estrazione di minerali dai fondali oceanici per cui 37 Paesi hanno chiesto una moratoria, alla quale l’Italia ha scelto di non aderire. La richiesta di fermare queste attività, considerate «la minaccia emergente più pericolosa per gli oceani» secondo Greenpeace, resta priva di una convergenza globale. L’estrazione mineraria dai fondali oceanici profondi, in nome della transizione energetica, rischia di distruggere ecosistemi ancora poco conosciuti ma fondamentali per l’equilibrio del pianeta. Le attività di estrazione potrebbero infatti generare danni irreversibili a habitat che impiegano millenni a rigenerarsi, mettendo in pericolo specie rare e aumentando il disturbo e l’inquinamento nelle profondità marine. Il presidente del Consiglio dell’UE António Costa – in rappresentanza di tutti gli Stati membri dell’Unione – ha però sostenuto per la prima volta la moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde. Gli Stati Uniti, assenti al vertice, sembrano invece intenzionati ad accelerare lo sfruttamento minerario dei fondali, aprendo la strada alla compagnia The Metals Company, con una mossa unilaterale che preoccupa gli osservatori internazionali. Forse anche per non scontentare gli alleati d’oltreoceano, l’Italia ha scelto nel complesso un profilo di basso livello, non ha presentato nuove iniziative, né ha firmato alcuno degli accordi chiave. Manca ancora la ratifica del Trattato sulla biodiversità marina in alto mare, uno strumento promosso in questi giorni a Nizza e considerato fondamentale per raggiungere l’obiettivo del 30% di oceani protetti. Dei 60 Paesi necessari per l’entrata in vigore dell’accordo, hanno firmato in 51. L’Italia non è tra questi. «Il nostro Paese è ben lontano dal raggiungere il target del 30% entro il 2030 – spiega Valentina Di Miccoli di Greenpeace Italia – e meno dell’1% dei mari italiani è oggi davvero protetto da misure efficaci». Secondo dati del National Biodiversity Future Center, solo il 15,5% delle nostre aree marine gode di una qualche forma di tutela, ma le ONG denunciano che molte di queste sono “parchi di carta”, prive di regolamenti vincolanti o controlli reali.
In definitiva, la Conferenza di Nizza ha rilanciato l’urgenza di proteggere gli oceani, producendo però come al solito deboli impegni a causa del mancato slancio politico. I nodi cruciali, come l’entrata in vigore del Trattato sulla biodiversità marina in alto mare, la moratoria sull’estrazione mineraria e un trattato vincolante contro l’inquinamento da plastica, restano così sospesi. Il multilateralismo sembra resistere, ma con fatica, in un contesto geopolitico segnato da tensioni e nazionalismi. Per l’Italia, questa era un’occasione per assumere un ruolo attivo in una sfida globale che riguarda anche il Mediterraneo. Invece, ha scelto il silenzio o l’opposizione. La non-pervenuta Roma resta quindi ai margini di un dibattito che non può più permettersi ritardi. Perché, come ha ricordato il presidente del Costa Rica, co-ospite del vertice, «l’oceano ci sta parlando, sta a noi decidere se ascoltarlo davvero».
La Regione Sicilia ha emesso un’ordinanza che sospende, fino al 31 agosto, alcune attività lavorative nei giorni e nelle zone più calde per prevenire infortuni dovuti alle alte temperature. Lo stop, valido dalle 12:30 alle 16, riguarda i settori agricolo, vivaistico, edile e i lavori nelle cave. Le aree a rischio saranno indicate quotidianamente su una mappa dell’INAIL. Escluse dallo stop le attività di pubblica utilità, protezione civile e sicurezza, purché vengano adottate misure di tutela per i lavoratori. L’ordinanza mira a contrastare gli effetti delle ondate di calore sempre più frequenti.
Una donna originaria della Guadalupa e residente a Parigi è stata identificata come la sola persona conosciuta a possedere un gruppo sanguigno mai osservato prima, ribattezzato “Gwada negativo”. Lo ha annunciato l’Ente francese per il trattamento del sangue (EFS), sottolineando che la scoperta ha ricevuto il risconoscimento ufficale della Società Internazionale di Trasfusione di Sangue (ISBT) e che si tratta così del 48° sistema di gruppi sanguigni mai registrato. La storia ha avuto inizio nel 2011, quando la donna si sottopose a un semplice esame del sangue pre-operatorio. Fu allora che i ricercatori notarono un anticorpo anomalo, senza però avere gli strumenti per approfondirne la natura. Otto anni dopo, grazie al sequenziamento genetico di nuova generazione, il caso è stato riaperto e ha portato a una svolta che potrebbe potenzialmente cambiare alcune regole della medicina trasfusionale.
Per comprendere la portata di questa scoperta bisogna partire da come funzionano i gruppi sanguigni. I più noti – A, B, AB e 0 – fanno parte del sistema AB0, identificato all’inizio del Novecento e basato sulla presenza o assenza di specifici antigeni sulla superficie dei globuli rossi. Negli anni, spiegano gli esperti, i sistemi riconosciuti sono cresciuti fino a 47 – ciascuno con caratteristiche molecolari proprie – anche se, tuttavia, viene sottolineato che nelle trasfusioni resta cruciale un principio: il sangue di chi dona deve essere compatibile con quello di chi riceve, altrimenti si rischiano gravi reazioni immunitarie. È per questo che la scoperta di nuovi gruppi non rappresenta solo una curiosità scientifica, ma può rivelarsi vitale per le persone con combinazioni rare. Per quanto riguarda il caso in questione, dopo i prelievi effettuati ben quattordici anni fa, la svolta è arrivata nel 2019, quando i ricercatori dell’EFS hanno riesaminato il campione della paziente utilizzando il sequenziamento del DNA ad alto rendimento. Grazie a tale tecnica hanno identificato una mutazione genetica mai registrata prima nei database mondiali, trasmessa da entrambi i genitori della donna. È proprio questa doppia eredità genetica a renderla, di fatto, incompatibile con ogni altro donatore.
Il nome scelto, “Gwada negativo”, omaggia le origini caraibiche della paziente e, secondo i ricercatori, ha una sonorità che funziona in tutte le lingue. «È l’unica persona al mondo compatibile con se stessa», ha dichiarato Thierry Peyrard, biologo medico dell’EFS coinvolto nella ricerca, il quale ha poi aggiunto che la scoperta – ed in particolare i metodi che sono stati utilizzati – potrebbe migliorare concretamente l’assistenza per chi presenta gruppi sanguigni rari e difficili da classificare. «Scoprire nuovi gruppi sanguigni significa offrire ai pazienti con gruppi rari un livello di assistenza migliore», aggiunge l’EFS, concludendo che l’obiettivo ora è quello di individuare altre persone con la stessa mutazione, anche se finora la donna della Guadalupa resta un caso unico al mondo.
Il governo federale tedesco ha interrotto i finanziamenti per le ONG che portano avanti operazioni di salvataggio in mare. La notizia è stata diffusa dal ministero degli Esteri del Paese, che ha spiegato che nel bilancio 2025 non sono stati stanziati fondi per tali organizzazioni. I fondi tedeschi venivano utilizzati dalle ONG per coprire i costi del carburante, delle tasse di ormeggio e del personale.
Non senza parecchie e ovvie difficoltà logistiche – ma anche politiche –, l’Associazione Stampa Romana è riuscita ad allestire e tenere un seminario nell’ambito della formazione obbligatoria dell’Ordine dei Giornalisti, dal titolo emblematico: Gaza e informazione nel mirino. Le testimonianze dei giornalisti sotto le bombe. Le difficoltà non sono mancate: da più parti è giunta agli organizzatori l’accusa di essere simpatizzanti o sostenitori di Hamas. Il semplice fatto di dare la parola a chi, per lavoro, deve raccontare quello che accade in Palestina ha suscitato malumori e acceso critiche anche in Italia.
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha aperto i lavori denunciando le reticenze e polemiche che emergono perfino sull’uso del termine “genocidio”: «Le cose vanno chiamate col loro nome e non bisogna avere esitazioni nell’usare questa parola», ha ribadito, sostenuto da Anna Foa, storica ebrea e professoressa emerita dell’Università La Sapienza, membro del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah e autrice de Il suicidio di Israele (Laterza, 2024), candidato al Premio Strega 2025.
La stessa Foa ha raccontato come la drammaticità della situazione l’abbia convinta a sostenere un embargo nei confronti di Israele, pur riconoscendo l’esistenza di aree di pensiero critico – come le università – all’interno dello Stato. Noury ha inoltre sottolineato come l’ennesima risoluzione ONU per Gaza, bocciata con veto dagli USA, allontani ancora di più la possibilità di fermare il genocidio in corso.
L’obiettivo del webinar era raccontare, attraverso le voci dei cronisti, le difficoltà e i rischi di chi informa sul campo: a Gaza e in Palestina, oggi, fare il giornalista è estremamente pericoloso. Sono 222 i cronisti uccisi dall’inizio dell’operazione militare israeliana. 178 sono stati arrestati, 48 si trovano ancora in prigioni israeliane, dove subiscono torture fisiche e psicologiche, privazioni di cibo e cure mediche.
Dall’8 ottobre 2023, il governo israeliano ha bandito l’ingresso dei giornalisti stranieri nella Striscia di Gaza, consentendo solo l’accesso a troupe embedded con l’esercito e sottoposte all’approvazione militare. Con una legge dell’aprile 2024, Israele ha chiuso le sedi dei media stranieri nel Paese, con la motivazione di «proteggere la sicurezza nazionale».
Questo ha prodotto un vero e proprio blackout informativo, un buco nero in cui scompaiono non solo civili, ma anche i giornalisti. Come ha sottolineato ancora Anna Foa: «I testimoni scomodi della verità vengono eliminati o messi a tacere in ogni dittatura».
Haggai Matar, giornalista israeliano e direttore esecutivo di +972 Magazine, ha denunciato la disinformazione sistematica imposta da media israeliani: «Alcuni giornalisti si uniscono all’esercito durante i raid, uno è stato persino ripreso mentre sparava contro un’abitazione. C’è una censura generalizzata, ma la vera censura è autoimposta dai giornalisti stessi».
Matar ha parlato di minacce anonime, di droni abbattuti e omicidi mirati. Ha ricordato che nel solo 2024 oltre 1000 articoli sono stati bloccati o modificati. «Dal 7 ottobre si parla solo di quell’attacco, ma nulla su quanto accade a Gaza. È una scelta: raccontare o coprire».
Shrouq Al Aila, giornalista e produttrice palestinese, oggi alla guida della società Ain Media dopo l’uccisione del marito e cofondatore Roshdi Sarraj, ha detto: «Non posso garantire che sarò viva tra due minuti. L’odore della morte è sempre intorno a noi. Restare vivi è una forma di resistenza».
Shuruq As’ad, storica conduttrice della Palestine TV e corrispondente per Dubai TV, ha parlato da Rafah, raccontando la vita quotidiana in Cisgiordania: «Ci sono 980 check-point. Da Rafah a Gerusalemme ci vogliono tre ore, umiliazioni e minacce continue. I coloni attaccano anche se indossi il giubbotto ‘stampa’», Ha denunciato la distruzione di 112 sedi di media, la scomparsa di 170 giornalisti, e il fatto che una volta arrestati, «nessuno può aiutarti: né la Croce Rossa, né avvocati». Ha concluso: «Non è un conflitto. È un’occupazione. Abbiamo tutto il diritto di parlare di genocidio. L’80% del territorio è distrutto. Non accetto più che gli israeliani si sentano vittime».
Faten Elwan, giornalista esperta di zone di guerra, ha raccontato:«Nel 2001, a un check-point, un soldato mi ha sparato da tre metri. Non c’era Hamas. È squallido dire che lo sosteniamo». Elwan ha parlato degli anni di carcere, delle minacce alla madre, e di come:«Viviamo nel terrore. Hanno cancellato 2800 famiglie. E ci sono funzionari che dicono: ogni neonato palestinese è un obiettivo».Ha concluso con un grido d’accusa: «Sono stanca di dover spiegare all’Occidente perché abbiamo diritto ad esistere».
Dopo lo sfollamento forzato dei cittadini dall’isola di Warraq, la polizia egiziana poche settimane fa ha effettuato una vasta operazione per prendere il controllo di Firdaus, un piccolo villaggio residenziale che ospita circa mille famiglie, a nord dell’Egitto, vicino alla città portuale di Port Said. Le forze di sicurezza avrebbero staccato le utenze poco prima dell’attacco, dando l’ordine ai residenti di lasciare con effetto immediato le abitazioni, mentre bulldozer e gru procedevano con l’abbattimento dei complessi residenziali: in totale 110 palazzi, 1650 appartamenti, in un clima di caos...
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Undici persone sono state uccise e almeno venti ferite in una sparatoria avvenuta martedì sera durante una festa religiosa a Irapuato, nello stato messicano di Guanajuato, segnato dalla violenza dei cartelli. L’attacco è avvenuto durante le celebrazioni per la Natività di San Giovanni Battista. Tra le vittime anche un ragazzo di 17 anni. La presidente messicana Claudia Sheinbaum ha definito «deplorevole» quanto accaduto. In una dichiarazione, l’amministrazione locale di Irapuato ha definito l’attacco un «atto codardo», affermando che le forze di sicurezza stanno dando la caccia ai responsabili e promettendo sostegno psicologico ai colpiti.
Paolo Borsellino, poco prima di essere ucciso, stava indagando sui presunti collegamenti tra gli uomini dell’eversione nera e la strage di Capaci. A provarlo è infatti l’emersione di un verbale, risalente a una riunione andata in scena a Palermo il 15 giugno 1992 – tra gli due attentati di Capaci e via D’Amelio – alla quale presero parte cinque magistrati, tra cui proprio Borsellino. Dal documento si evidenzia come i giudici presenti all’incontro si scambiarono informazioni legate alla strage di Capaci e alle intercettazioni disposte nei confronti del pentito Alberto Lo Cicero, braccio destro del boss di San Lorenzo Mariano Tullio Troia – condannato per l’attentato del 23 maggio ’92, detto “‘U Mussolini” per le sue simpatie di estrema destra e, a detta di Lo Cicero, legato al capo di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie – e della sua ex compagna Maria Romeo, in cui si accennava proprio all’attentato in cui morì Giovanni Falcone.
Un nuovo documento
Da alcuni mesi pende una richiesta di archiviazione da parte della Procura di Caltanissetta rispetto alla “pista nera” dietro alla strage di Capaci. Ma il legale Fabio Repici, difensore di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha chiesto alla gip Graziella Luparello di interrompere la camera di consiglio e la decisione sulla richiesta dei pm, al fine di «rimediare a un grosso difetto procedimentale che si è creato con la mancata conoscenza (da parte del sottoscritto difensore e, quel che è ancora peggio, della Giudice) di alcuni atti che non solo erano già nella disponibilità della Procura della Repubblica ma che avevano trovato discovery in altro procedimento, che si trova addirittura in corso di istruttoria dibattimentale». Si parla, nello specifico, proprio del verbale del 15 giugno ’92, sfociato dalla riunione a cui presero parte il Procuratore Capo di Palermo, Pietro Giammanco, i procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Paolo Borsellino, il sostituto procuratore Vittorio Teresi e Pietro Maria Vaccara, sostituto procuratore a Caltanissetta. «Convengono i presenti – è scritto nel verbale – sulla opportunità che dette intercettazioni (quelle disposte nei confronti di Lo Cicero e Romeo, ndr) proseguano a cura della procura della Repubblica di Palermo, concernendo esse più ampio tema di indagine, e con l’intesa che ogni elemento che emerga circa l’omicidio del dottor Falcone verrà immediatamente comunicato alla procura della Repubblica di Caltanissetta». «È sconvolgente – ha dichiarato l’avvocato Repici – aver reperito solo a 33 anni di distanza dalla strage di via D’Amelio un documento procedimentale sull’omicidio di Falcone nel quale compare la sottoscrizione di Borsellino».
L’avvocato Repici cita poi una circostanza concernente l’onorevole Guido Lo Porto, membro di spicco del MSI dai primi anni Settanta fino ai primi anni Novanta e Sottosegretario alla Difesa nel primo Governo Berlusconi (’94-’96). Da giovane fu il presidente del FUAN di Palermo e, tra i suoi principali collaboratori, c’era proprio Paolo Borsellino. Poi, nel 1968, venne arrestato insieme al killer neofascista Pierluigi Concutelli per possesso di armi da guerra non dichiarate. Nella sua memoria, Repici scrive che l’allora magistrato Vittorio Teresi, in una relazione di servizio datata primo giugno 1992 «sicuramente nota al dottor Borsellino» mise nero su bianco che Lo Cicero riferì di aver conosciuto «presso la villa del Troia l’on. Lo Porto, che più di una volta si sarebbe intrattenuto a cena dallo stesso, e che un nipote o cugino del Lo Porto sarebbe proprietario di una villa nello stesso complesso». «La riunione del 15 giugno – continua l’avvocato – nella quale le Procure di Caltanissetta e di Palermo parlarono di Lo Cicero e delle sue rivelazioni (e sicuramente, quindi, anche dell’on. Lo Porto), fu di pochissimo precedente all’incontro del dr. Borsellino con la dr.ssa Camassa e il dr. Russo, nel corso del quale il magistrato, di lì a breve ucciso, si lasciò andare a uno sfogo su “un amico” dal quale si era sentito tradito».
L’interesse di Borsellino
Secondo Repici, l’interesse di Borsellino per quanto dichiarato da Lo Cicero è provato da una informativa dei carabinieri dell’8 giugno 1992, redatta da Walter Giustini e Antonio Coscia, a cui era allegato un rapporto del 1988 firmato dal maggiore Mauro Obinu (che poi finirà a processo insieme all’ex ROS Mario Mori, assolto «perché il fatto non costituisce reato», per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995). Il documento concerneva gli affari di Cosa Nostra nel territorio di Capaci e menzionava il mafioso Giuseppe Senzale, «oggetto delle rivelazioni di Lo Cicero della primavera-estate 1992». Repici ricorda che, in una deposizione dell’ottobre 1995, il tenente Carmelo Canale, stretto collaboratore di Borsellino, riferì che lo stesso magistrato «gli aveva fatto cercare un rapporto a firma del maggiore Obinu» poiché «interessato a individuare gli autori della strage di Capaci». L’ex brigadiere Walter Giustini e Maria Romeo hanno raccontato di aver saputo da Lo Cicero della presenza di Delle Chiaie a Capaci. La Procura di Caltanissetta ha bollato come inattendibili le loro dichiarazioni, mandandoli addirittura a processo. La circostanza sarebbe stata però recentemente confermata dal giornalista del Giornale di Sicilia Giuseppe Martorana, che a Report e ad Antimafia Duemila ha rivelato di aver visto Delle Chiaie a Capaci tra il febbraio e il marzo 1992.
Il “filo nero”
Indagini e processi continuano a delineareil «filo nero» che collega mafia, eversione di destra e servizi deviati in stragi e omicidi eccellenti. Proprio durante il processo Mori-Obinu del 2015, il colonnello Michele Riccio rivelò come l’ex infiltrato Luigi Ilardo avesse accusato «ambienti di destra eversiva» in contatto con settori deviati dello Stato di essere i veri mandanti delle stragi del ’92-’93, mascherate da attentati mafiosi per destabilizzare il Paese. Dietro a questi attentati affiorano nomi e sigle come quelle della «Falange Armata», utilizzata per rivendicare azioni eversive presumibilmente affidate a colonne interne agli apparati statali. Figure come Paolo Bellini – ex Avanguardia Nazionale e agente coperto dai servizi, condannato in appello per la strage di Bologna – e Nino Gioè – tramite tra Cosa Nostra e i servizi – confermano la pericolosa convergenza tra terrorismo nero, poteri deviati e mafia, in un intrico che ancora oggi sfida il racconto ufficiale della storia repubblicana. Per non parlare delle agende elettroniche di Giovanni Falcone “manomesse” da mani ignote al Ministero della Giustizia dopo la sua morte, proprio nelle parti in cui il giudice si occupava dei presunti collegamenti tra l’organizzazione paramilitare “Gladio” e i delitti Mattarella, Reina e La Torre. Nonostante questo, la Commissione Antimafia a guida Chiara Colosimo sembra in tutti i modi voler scacciare le “ombre nere” dal novero delle ipotesi legate all’omicidio Borsellino, sponsorizzando la pista del «rapporto mafia-appalti» del ROS come sua unica causale. Le novità emerse, però, potrebbero cambiare il corso delle cose.
Dal 1° luglio 2025, in Svizzera (ma non nell’UE), entrerà in vigore una nuova norma che impone l’obbligo di indicare sugli imballaggi esterni dei prodotti di origine animale se, durante il ciclo produttivo dell’alimento, sono state impiegate pratiche dolorose per gli animali. Tra questi prodotti rientrano, per esempio, il latte proveniente da mucche sottoposte a cauterizzazione dell’abbozzo corneale senza anestesia, oppure la carne bovina di animali decornificati o castrati senza anestesia. Si tratta di pratiche molto diffuse negli allevamenti industriali e particolarmente dolorose se eseguite senza anestesia.
Basti pensare alla cauterizzazione delle corna, chiamata anche decornazione: consiste nell’eliminazione delle corna attraverso la distruzione dell’anello di crescita mediante calore. Questo intervento viene effettuato quando i bovini sono molto giovani, generalmente entro le tre o quattro settimane di vita, quando le corna non sono ancora sviluppate. Prima si esegue la cauterizzazione, minori saranno il dolore e lo stress per il vitello. Solitamente si utilizza un ferro caldo dopo avere anestetizzato la zona con anestesia locale, ma esistono anche altri metodi, come il taglio con coltelli o seghe, oppure l’applicazione di una pasta caustica. Quest’ultima viene usata nei vitelli di età inferiore ai due giorni: si rasano i peli attorno al corno e si applica la pasta sul germoglio e alla base, in corrispondenza delle cellule di crescita. La pasta uccide l’anello di crescita, e il corno si stacca come una crosta, una volta guarita la ferita. Tuttavia, questo metodo comporta il rischio di lesioni agli occhi o ad altri tessuti, specialmente in caso di pioggia.
Queste pratiche sono infatti vietate da tempo sul territorio svizzero, e il Governo federale ha voluto rafforzare la trasparenza verso i consumatori, permettendo loro di compiere scelte più consapevoli e informate attraverso l’obbligo di etichette che segnalino, quando presenti, tali interventi. È previsto un periodo di transizione di due anni per permettere ai produttori di adeguarsi al nuovo sistema, ma il provvedimento entrerà in vigore già a partire da luglio 2025, ovvero tra pochissimi giorni. Il Governo federale svizzero rivendica che, con questa legge, si vuole offrire maggiore trasparenza e informazione per guidare le scelte di acquisto dei cittadini:
«Al momento dell’acquisto di derrate alimentari di origine animale, come carne, latte o uova, i consumatori avranno accesso a informazioni supplementari sul metodo di produzione. In questo modo potranno sapere se tali alimenti sono stati ottenuti tramite interventi dolorosi eseguiti senza anestesia, come nel caso della castrazione o della decornazione, oppure senza stordimento. Anche il fegato e la carne derivanti dall’alimentazione forzata di oche e anatre saranno soggetti all’obbligo di caratterizzazione. La cosiddetta alimentazione forzata è vietata in Svizzera da oltre 40 anni, ma è ancora consentita all’estero».
Gli alimenti interessati
I prodotti soggetti al nuovo obbligo di etichettatura sono i seguenti:
carne bovina da animali sottoposti a decornazione o castrazione senza anestesia;
carne suina da animali che hanno subito il taglio della coda, la resezione dei denti o la castrazione senza anestesia;
uova e carne di pollame sottoposto a taglio del becco senza anestesia;
latte da vacche decornificate senza anestesia;
cosce di rana ottenute senza stordimento dell’animale;
fegato e carne di oche e anatre alimentate forzatamente.
In pratica, sulle confezioni di latte, uova, carne o formaggi verranno apposte diciture molto esplicite, simili a quelle presenti sui pacchetti di sigarette, del tipo: «sono state usate pratiche dolorose per l’animale».
Verso il benessere animale?
Dopo questa novità introdotta dal governo svizzero — uno dei primi tentativi in Europa (esiste un’etichettatura simile anche in Danimarca) e nel mondo — possiamo trarre alcune considerazioni più ampie, utili a comprendere meglio la questione.
Anzitutto, va apprezzata la volontà di promuovere maggiore trasparenza verso i consumatori: il benessere animale, i maltrattamenti e le sofferenze inflitte negli allevamenti intensivi sono ormai temi centrali per un’ampia fetta della popolazione. Un’etichetta chiara e dettagliata consente scelte di acquisto più consapevoli e volontarie. Tuttavia, si tratta solo di un primo, piccolo passo nella giusta direzione, non certo del traguardo finale. È un provvedimento ancora insufficiente se vogliamo parlare di vero benessere animale e di allevamenti privi di pratiche crudeli. Infatti, interventi come il taglio della coda o del becco, la castrazione, la decornazione, la stabulazione permanente all’interno di capannoni, l’inseminazione forzata ricorrente e altri tipici dell’allevamento industriale non verranno affatto eliminati da questo provvedimento, che peraltro riguarda solo la Svizzera.
Si continuerà quindi con gli allevamenti intensivi, un metodo intrinsecamente legato al maltrattamento animale, alla crescita forzata, alla reclusione in ambienti chiusi e alla somministrazione continua di farmaci, con conseguenze gravi per la salute e per l’ambiente. I prodotti alimentari derivanti da questo tipo di filiera continueranno a essere di qualità discutibile e talvolta persino dannosi, come ormai ampiamente noto. Il fatto che alcune di queste pratiche vengano ora esplicitamente indicate sulla confezione non equivale purtroppo al raggiungimento dell’obiettivo più importante: allevare gli animali in modo etico e rispettoso della loro biologia, senza forzarli per ragioni di profitto, come accade da decenni.
Certo, questo provvedimento della Svizzera rappresenta comunque un piccolo ma significativo passo, che potrebbe fungere da esempio per altri Stati e favorire futuri miglioramenti.
Infine, è bene ricordare che esistono già aziende e allevamenti che, per filosofia aziendale, adottano spontaneamente pratiche naturali e non dolorose nei confronti degli animali. Non tutti i prodotti di origine animale in commercio provengono dunque dall’industria, né rappresentano necessariamente un simbolo di maltrattamento. Sta a noi, consumatori consapevoli, informarci sulle modalità di produzione del cibo che acquistiamo. Abbiamo già affrontato in passato i temi dell’allevamento e dell’agricoltura rigenerativa, dei piccoli produttori e dei circuiti virtuosi come i GAS o i supermercati autogestiti, nei quali è possibile trovare alimenti provenienti da filiere molto diverse da quelle industriali della grande distribuzione.
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