martedì 25 Novembre 2025
Home Blog Pagina 180

Mozambico, almeno 120 bambini rapiti da jihadisti

0

Human Rights Watch ha denunciato il rapimento di almeno 120 bambini nel nord del Mozambico da parte di insorti jihadisti affiliati allo Stato Islamico. Gli attacchi si concentrano nella provincia di Cabo Delgado, epicentro di un conflitto iniziato nel 2017. I bambini sarebbero costretti a trasportare beni, lavorare forzatamente e, in alcuni casi, combattere. Il gruppo responsabile, noto come al-Shabab (senza legami con l’omonimo somalo), ha causato migliaia di morti e oltre 600.000 sfollati. Nonostante il sostegno militare di Paesi vicini, il governo mozambicano non riesce a garantire la sicurezza dell’area.

Mafia, la Guardia di Finanza ha sequestrato 50 milioni al “re” del settore ittico

0

La Guardia di Finanza di Caltanissetta ha eseguito un sequestro da 50 milioni di euro nei confronti di Emanuele Catania, imprenditore gelese storicamente attivo nel settore della pesca e della commercializzazione di prodotti ittici, anche su scala internazionale. I beni sequestrati – immobili, società, conti, pescherecci – sono distribuiti tra Sicilia, Campania, Abruzzo e Nord Africa. L’operazione ha coinvolto 60 militari e rivelato un imponente reticolo societario e familiare. Catania, che è stato condannato definitivamente per associazione mafiosa, essendo stata accertata la sua appartenenza sin dai primi anni ‘90 alla famiglia mafiosa dei Rinzivillo, avrebbe favorito l’infiltrazione dell’organizzazione nell’economia legale, riciclando capitali illeciti e alterando la concorrenza. Un business, quello del controllo del mercato ittico, che da oltre quarant’anni ingrassa le tasche dei mafiosi siciliani.

Le indagini, che hanno coinvolto 45 soggetti tra persone fisiche e giuridiche, si sono concentrate su un’anomala sperequazione tra redditi dichiarati e ricchezza accumulata tra il 1985 e il 2022. I capitali investiti dalla famiglia Catania – sostengono gli investigatori – non risultano giustificabili con fonti lecite e sarebbero frutto delle disponibilità della consorteria mafiosa. Determinanti, per ricostruire i legami tra l’imprenditore e l’organizzazione, sono state le dichiarazioni convergenti di numerosi collaboratori di giustizia. I pentiti hanno infatti confermato che già dagli anni Ottanta Emanuele Catania intratteneva rapporti privilegiati con i vertici del clan Rinzivillo, in particolare con Antonio Rinzivillo, che avrebbe investito i proventi del traffico di droga proprio nelle attività economiche della famiglia Catania, offrendo in cambio protezione e appoggi mafiosi. In particolare, il settore ittico siciliano sarebbe stato “monopolizzato” da Cosa Nostra, che imponeva fornitori, dettava le regole del mercato e operava indisturbata in un sistema privo di reale concorrenza. A Catania veniva affidato il compito di espandere le attività all’estero: un piano che ha portato all’apertura di ramificazioni in Marocco, dove l’imprenditore ha assunto il ruolo di socio e amministratore unico della società “Gastronomia Napoletana”, utilizzata – secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – come piattaforma per il commercio internazionale e il riciclaggio di capitali di dubbia provenienza.

Emanuele Catania era stato assolto in primo grado dal Tribunale di Gela – che aveva disposto la restituzione dei beni sequestrati –, per poi essere condannato dalla Corte d’Appello di Caltanissetta il 16 marzo 2022 a 6 anni e 8 mesi di reclusione per associazione mafiosa. La sentenza è stata successivamente confermata dalla Corte di Cassazione, sancendo in via definitiva la responsabilità penale dell’imprenditore. Secondo la Corte, il rapporto tra Catania e il clan mafioso non si fondava solo su connessioni personali, ma su un vero e proprio “patto d’affari” fondato sull’interesse reciproco a consolidare il potere economico e criminale nell’area del Mediterraneo.

Cosa Nostra, come dimostrano i numerosi spunti offerti dalle relazioni della DIA nel corso del tempo, ha tradizionalmente fatto del mercato ittico siciliano una fonte stabile di reddito e influenza, imponendo regole e “tasse” su pescatori e commercianti. Da oltre quarant’anni i clan hanno stretto un “patto” con operatori locali per spartirsi carichi di tonno, pesce spada e novellame. Secondo quanto ha dichiarato il pentito Santo La Causa, ex capo militare della potentissima famiglia dei Santapaola, esisterebbe una regola consolidata secondo cui occorre versare nelle casse di Cosa Nostra «somme variabili in considerazione del quantitativo di pesce che viene pescato». La mafia è progressivamente riuscita a espandere i suoi traffici, entrando nei mercati di Roma e Milano con volumi di migliaia di tonnellate l’anno. «Cosa Nostra – è stato scritto nel 2017 nell’ordinanza dell’operazione “Extra fines” che, ha inferto un duro colpo al clan Rinzivillo – ha praticamente il controllo del mercato ittico siciliano, decidendo chi può inserirvisi e dove potere praticare il commercio. Nei mercati esiste da tempo la regola secondo cui i commercianti di pesce sono costretti a versare, a titolo estorsivo, una quota per ogni carico di pesce che viene prelevato».

I fossili di dinosauri stanno raggiungendo prezzi di mercato mai visti

0

Un giovane dinosauro carnivoro, scoperto nel 1996 nel Wyoming e lungo appena tre metri, sta per essere messo all’asta con una stima compresa tra i 4 e i 6 milioni di dollari, anche se si prevede che il prezzo possa aumentare ulteriormente. È quanto accadrà al fossile di un ceratosauro vissuto circa 150 milioni di anni fa che sarà venduto da Sotheby’s, nota casa d’aste internazionale. Il tutto a distanza di un anno da un altro fossile di dinosauro con stima simile ma che ha raggiunto quota 45 milioni di dollari, il che, secondo esperti intervistati recentemente dalla stampa internazionale, conferma una tendenza: i fossili di dinosauri stanno raggiungendo prezzi di mercato mai visti. Una crescita che allarma paleontologi e ricercatori, preoccupati per il rischio che questi reperti finiscano sempre più spesso in mani private e fuori dalla portata della comunità scientifica.

Per decenni, i fossili di dinosauri sono stati considerati reperti scientifici da destinare esclusivamente a collezioni pubbliche e istituzioni accademiche. Ma negli ultimi anni, il mercato ha conosciuto un’impennata impressionante, culminata con la vendita dello stegosauro “Apex” per 45 milioni di dollari. Secondo molti esperti, tra cui il presidente dell’Associazione di Paleontologia Applicata André LuJan, queste aste multimilionarie stanno generando un “effetto Apex”, alimentando la speculazione e causando un aumento vertiginoso dei prezzi dei fossili e degli affitti dei terreni di scavo, rendendo difficile l’accesso ai paleontologi accademici. A complicare il quadro, alcune società iniziano a promuovere i fossili come investimenti: nel dicembre scorso, infatti, 2,75 milioni di dollari in azioni sono stati venduti per finanziare lo scavo di uno stegosauro in Wyoming, con l’80% delle quote detenute dagli escavatori stessi. Per alcuni, come il commerciante Peter Lovisek, ciò rappresenta un modo per «democratizzare l’accesso ad asset di alto valore». Ma per altri, tuttavia, si tratta solo di un modo per approfittare dell’ottimismo degli investitori, con il rischio che «molte persone rimarranno con le mani in mano».

Per quanto riguarda il reperto prossimamente in vendita, dopo anni di inattività presso il Museum of Ancient Life, il fossile è stato venduto a Brock Sisson, «amico fidato di lunga data e partner del museo», come dichiarato da McKay Christensen, amministratore delegato di Thanksgiving Point, fondazione che possiede il Museum of Ancient Life. La decisione, ha aggiunto, è stata presa con l’approvazione unanime del consiglio e i fondi saranno destinati al mantenimento delle collezioni e all’educazione dei visitatori. Sisson e il suo team hanno ricostruito lo scheletro utilizzando stampa 3D e supporti metallici removibili, preservandone la possibilità di studio. Ora, l’esemplare può essere venduto con ampia documentazione che ne attesta la provenienza e i lavori di restauro, un aspetto che secondo Sotheby’s contribuisce a garantirne l’integrità scientifica. «Questo giovane ceratosauro è un esemplare davvero straordinario», ha affermato Cassandra Hatton, vicepresidente della casa d’aste, aggiungendo che l’esemplare non è mai stato completamente studiato poiché il museo che lo ospitava non è certificato come deposito paleontologico pubblico. Inoltre, citando casi come la vendita del Tyrannosaurus rex “Sue” al Field Museum e il prestito dello stesso “Apex” all’American Museum of Natural History, Hatton ha difeso il ruolo di Sotheby’s nel «far entrare esemplari come questo nella fiducia del pubblico».

D’altra parte però, non tutti sono convinti: secondo Stuart Sumida, presidente della Society of Vertebrate Paleontology, simili operazioni rischiano di sottrarre materiale scientifico alla comunità. «Rendono più difficile per i ricercatori accedere a esemplari importanti», ha spiegato. E secondo lo storico Lukas Rieppel, dell’Università Brown, il mercato resta imprevedibile: l’hype mediatico, le pubblicazioni o il semplice fatto che un fossile sia stato esposto in un museo possono gonfiarne artificialmente il valore. Di fronte a queste incertezze, le opinioni restano divise.

Diretta – Dopo le violazioni israeliane il cessate il fuoco sembra tenere – Netanyahu: “vittoria storica su Iran”

16

Martedì 24 giugno. Dopo i bombardamenti americani sull’Iran, la risposta iraniana contro le basi militari USA in Medio Oriente (qui il nostro flusso di ieri) e dopo che nella notte di oggi Donald Trump ha annunciato il raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco. Oggi si misura la tenuta di un accordo che formalmente non è stato ufficialmente accettato da nessuna delle parti.


Il primo ministro israeliano Netanyahu ha dichiarato che quella ottenuta contro l’Iran è stata una “vittoria storica”, che “rimarrà per generazioni”. L’esercito israeliano ha inoltre dichiarato, in un post su X, che gli attacchi contro l’Iran hanno “fatto arretrare di anni il programma nucleare dell’Iran, e lo stesso vale per il suo programma missilistico”.


Mentre Teheran festeggia, continuano le aggressioni in Cisgiordania. A partire da stamattina, l’esercito israeliano ha effettuato un raid contro il villaggio di Al-Mazra’a Al-Gharbiya, nel Governatorato di Ramallah; sempre nel governatorato di Ramallah, sono state registrate operazioni di demolizione degli olivi della città di Turmus Aya. Israele ha inoltre continuato le operazioni di demolizione nel campo di Nur Shams, a Tulkarem, così come nel quartiere arabo Ras Khamis di Gerusalemme.

I maggiori episodi di violenza da parte di esercito e coloni, tuttavia, si sono concentrati a Jenin e Nablus. Nella prima, nel tardo pomeriggio, le IDF hanno lanciato un attacco con colpi di mortaio, mentre intanto hanno portato avanti le operazioni di demolizione. Nella seconda, invece, le IDF hanno attaccato il campo profughi di Askar al-Jadeed, e sgomberato un edificio di Luban e-Sharkiya, città situata qualche chilometro a sud di Nablus, per convertirlo in un avamposto militare.

Le ruspe israeliane entrano in un campo coltivabile a Ramallah.

Intanto, il popolo iraniano è sceso in piazza per celebrare quella che il Paese sta descrivendo come una vittoria contro gli Stati Uniti e Israele. I cittadini si sono riuniti a Piazza Enqelab, a Teheran, dove hanno intonato cori contro gli USA e Israele.


Parlando all’agenzia di stampa iraniana Mehr, il direttore dell’organizzazione per l’energia atomica iraniana, Mohammad Eslami, ha affermato che l’agenzia sta prendendo disposizioni per prevenire l’interruzione del programma nucleare del Paese, sottolineando che «l’Iran ha capacità e competenze che gli consentono di continuare a progredire nel settore nucleare senza interruzioni». L’annuncio di Eslami arriva dopo una dichiarazione del direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Rafael Grossi, che si è congratulato con le parti per il raggiungimento di un cessate il fuoco, e ha affermato di volere riaprire i tavoli per parlare del programma nucleare iraniano con le autorità della Repubblica Islamica.


Dopo la momentanea de-escalation, il presidente degli Stati Uniti ha condiviso un post in cui dice alla Cina che può tornare a comprare il petrolio dall’Iran, a testimonianza della sua convinzione della tenuta del cessate il fuoco: «La Cina può ora continuare ad acquistare petrolio dall’Iran. Si spera che ne acquistino parecchio anche dagli Stati Uniti. È stato un onore riuscire a renderlo possibile!».


Dopo circa due ore dall’attacco al radar iraniano da parte di Israele, il cessate il fuoco sembra tenere. Mentre la tensione sembra scemare, il presidente Trump si è preso i meriti della temporanea buona riuscita della pacificazione tra le parti. In generale dopo una notte particolarmente violenta, gli attacchi di oggi sono diminuiti non appena raggiunto l’orario del cessate il fuoco annunciato da Trump. A parte l’attacco che Israele ha affermato di avere ricevuto e quello che successivamente ha lanciato, nessuna delle parti ha denunciato di essere stata bersagliata.


Il governo Netanyahu ha dichiarato di aver condotto un attacco contro un sistema radar iraniano a nord di Teheran. Secondo il governo israeliano l’attacco non sarebbe una violazione del cessate il fuoco, ma una legittima risposta alle violazioni iraniane. Dopo avere discusso con Trump, si legge in un comunicato del governo israeliano, Israele «si è astenuto da ulteriori attacchi».

L’attacco sarebbe stato fortemente ridotto, quasi di carattere dimostrativo. Non è chiaro – scrive il quotidiano Times of Israel – quanto esteso fosse inizialmente l’attacco pianificato da Israele.


Secondo Trump, il cessate il fuoco è stato violato sia da Israele che dall’Iran. Lo ha dichiarato ai media statunitensi prima di partire per il vertice NATO nei Paesi Bassi. Il presidente degli Stati Uniti si è detto «insoddisfatto» dell’atteggiamento di entrambi i Paesi, ma soprattutto di Israele, precisando che Tel Aviv ha colpito Teheran subito dopo aver accettato l’accordo.

Successivamente, in un comunicato pubblicato sul suo social Truth, ha rincarato la dose, minacciando Israele: «Non lanciate quelle bombe. Se lo fate, è una violazione grave. Riportate a casa i vostri piloti, subito!». Poi, alle ore 13:28, ha aggiunto: «Israele non attaccherà l’Iran. Tutti gli aerei torneranno a casa, mentre faranno un saluto amichevole all’Iran. Nessuno sarà ferito, il cessate il fuoco è in vigore!».


Fonti mediche di Gaza, riportate da Al Jazeera, affermano che le forze israeliane hanno ucciso almeno 37 palestinesi nella Striscia dalle prime ore di questa mattina. Ventinove di questi sono stati uccisi in un attacco avvenuto nei pressi di un centro di distribuzione alimentare gestito dalla controversa agenzia statunitense Gaza Humanitarian Foundation (GHF).

Il direttore dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), Philippe Lazzarini, è tornato ad attaccare con forza il sistema di aiuti predisposto a Gaza da Stati Uniti e Israele, definendolo «un abominio» e «una trappola mortale».

Da fine maggio, più di 450 persone sono state uccise e circa 3.500 ferite sotto il fuoco israeliano mentre cercavano aiuto, molte delle quali nei pressi dei siti della GHF.

Nel video seguente sono mostrati palestinesi di Gaza in fuga dagli spari dell’esercito israeliano contro i civili in fila per avere aiuti umanitari.


Secondo quanto riportato dalla tv pubblica iraniana il governo di Teheran ha negato con forza l’accusa israeliana di aver violato il cessate il fuoco. L’Iran nega di aver lanciato missili su Israele dopo la sua entrata in vigore.


Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato di aver dato istruzioni all’esercito di «rispondere con forza alla violazione del cessate il fuoco da parte dell’Iran con attacchi intensi contro obiettivi del regime nel cuore di Teheran». Mentre il Ministro Delle Finanze, Bezalel Smotrich, tra i membri più estremisti dell’esecutivo sionista, ha promesso che «Teheran tremerà».


L’esercito israeliano ha dichiarato che due missili balistici sono stati lanciati dall’Iran verso il territorio israeliano dopo l’entrata in vigore della tregua. Nel nord di Israele e nella città di Haifa sono entrate in funzione le sirene antiaeree. I missili sarebbero stati intercettati dal sistema di difesa israeliano. La tregua già vacilla.


Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato un cessate il fuoco «completo e totale» tra Israele e Iran, che aprirebbe la strada alla conclusione definitiva di quella che ha ribattezzato «Guerra dei 12 giorni». La tregua è iniziata formalmente questa mattina. L’annuncio è stato dato in una serie di comunicati, dai toni insieme biblici e quasi surreali, pubblicati sul social network Truth. Nel primo Trump ha scritto «Congratulazioni mondo, ora è tempo di pace», nell’ultimo – dopo aver annunciato i dettagli della tregua – ha specificato che «Israele e l’Iran sono venuti da me, quasi simultaneamente, e mi hanno detto: “Pace!”». E che lui già sapeva «che era l’ora». Prima di promettere: «Entrambe le nazioni vedranno un futuro ricco di amore, pace e prosperità. Hanno tanto da guadagnare, eppure tanto da perdere se si allontanano dalla strada della giustizia e dalla verità. Il futuro per Israele e l’Iran è illimitato e pieno di grandi promesse. Dio vi benedica entrambi!»

Il ministro degli Esteri iraniano Araghchi ha smentito il raggiungimento di un accordo, ma ha affermato che l’Iran avrebbe rispettato la tregua se Israele avesse fatto lo stesso, riservandosi il diritto di rispondere agli attacchi. È esattamente quello che è successo: nella notte, Israele e Iran hanno continuato a scambiarsi attacchi, l’ultimo dei quali è giunto da Teheran attorno allo scoccare dell’ora stabilita. Non risulta insomma chiaro se la tregua annunciata da Trump terrà, ma le rispettive emittenti di Stato hanno riportato l’entrata in vigore del cessate il fuoco, e Israele ha annunciato di avere accettato la proposta di Trump.


Colombia, rilasciati i 57 soldati rapiti dai civili

0

Il ministro della difesa colombiano, Pedro Sánchez, ha annunciato che i 57 soldati colombiani che erano stati rapiti lo scorso fine settimana sono stati rilasciati. Il rilascio è avvenuto in seguito a una operazione congiunta tra esercito e polizia nazionale. Secondo le ricostruzioni dell’esercito, i soldati erano stati rapiti da un gruppo di 200 civili per ordine del gruppo ribelle dello Stato Maggiore Centrale, maggiore gruppo dissidente delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). I rapimenti si erano verificati nella zona sud-occidentale del Canyon Micay, nel dipartimento del Cauca, area centrale nel trasporto di cocaina verso i porti del Pacifico.

Meloni insiste sulle privatizzazioni: il 20% di Eni-Plenitude a un fondo americano

3

Il colosso energetico italiano ENI ha annunciato ieri di aver firmato un accordo con il fondo statunitense Ares Management che prevede la cessione del 20% delle azioni di Plenitude, società di fornitura di gas e luce controllata al cento per cento da ENI, per un valore di circa due miliardi di euro. Il cane a sei zampe aveva già venduto il 10% della sua controllata, che fino al 2022 si chiamava Eni gas e luce, al fondo d’investimento svizzero Energy Infrastructure Partners (EIP). ENI – azienda controllata del ministero del Tesoro – rimane l’azionista di maggioranza con il 70% delle azioni della società, mentre Ares diventa il primo azionista di minoranza. La cessione rientra nella “strategia” di sviluppo del «modello satellitare» di ENI che ha l’obiettivo di valorizzare le attività collegate ai business della transizione energetica rendendo più indipendenti le cosiddette società satellite attraverso investimenti esterni. «L’accordo annunciato oggi conferma la grande attrattività del modello di business di Plenitude, una delle nostre società satellite costituita pochi anni fa per valorizzare al meglio una parte dei nostri asset a elevato potenziale, creare sempre più valore e contribuire ai nostri obiettivi di azzeramento netto delle emissioni Scope 3», ha commentato Francesco Gattei, responsabile della transizione e direttore finanziario di Eni.

Se da un lato, la società sottolinea l’attrattività delle sue controllate per il mercato e lo sviluppo del modello satellitare, dall’altro, la cessione di una percentuale di minoranza di Plenitude risulta in continuità con quella tendenza a privatizzare parti di società strategiche per la sicurezza nazionale che è proseguita e si è accentuata con il governo Meloni. Pur mantenendo, infatti, quote di maggioranza nelle compagnie chiave per l’indipendenza energetica e infrastrutturale italiana, l’esecutivo di centro-destra ha approvato e agevolato la privatizzazione di parti importanti di società anche tutelate dal cosiddetto Golden power (in italiano “poteri speciali”) a favore di compagnie straniere, in particolare fondi statunitensi. Il che non ha solo ripercussioni economiche, ma anche politiche e geopolitiche, considerata la cessione e la condivisione di dati sensibili e la possibilità di influenzare le decisioni delle compagnie stesse da parte di azionisti stranieri. Anche nell’ultima operazione effettuata da ENI è coinvolto uno dei principali fondi d’investimento statunitense al mondo: si tratta di un gruppo di fondi Alternative Credit, tutti affiliati del principale gestore globale di investimenti Ares Management Corporation. Inoltre, ad affiancare il colosso energetico italiano nel perfezionamento dell’operazione, oltre a Mediobanca, è intervenuta la potente banca statunitense Goldman Sachs, mentre Ares è stata supportata da Deutsche Bank, UniCredit, L&B Partners con lo studio Chiomenti per la parte legale. Ares Management, fondato nel 1997, vanta, nel suo complesso, 546 miliardi di dollari di asset in gestione (di cui circa 43 miliardi di dollari in capo al “braccio” Ares Alternative Credit).

L’operazione di ENI si inserisce in una traiettoria che il Cane a sei zampe e il governo italiano hanno intrapreso da tempo: quella di privatizzare gli asset strategici con il fine non solo di “ottimizzare” la struttura del capitale delle aziende, ma anche, in ultima analisi, di utilizzare i fondi ricavati per finanziare la spesa pubblica. ENI, il colosso energetico fondato da Enrico Mattei, è controllato per il 30% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, attraverso Cassa Depositi e Prestiti SpA (CDP SpA) ed è protetto da Golden power, lo strumento normativo che conferisce all’esecutivo la facoltà di porre condizioni o veti in caso di tentativo d’acquisto di una compagnia strategica italiana da parte di una società straniera. La presenza di questa tutela sugli asset strategici non ha impedito all’attuale governo di concedere l’autorizzazione per la vendita di azioni di minoranza: il 24 ottobre del 2024, ad esempio, Eni e il fondo statunitense KKR hanno firmato il contratto per l’ingresso di KKR nel 25% del capitale sociale di Enilive, una controllata di ENI che fornisce prodotti decarbonizzati. Pochi mesi dopo, a stretto giro, il Cane a sei zampe ha ceduto un altro pezzo della sua controllata che si occupa di mobilità sostenibile al medesimo fondo attraverso la vendita del 5% del capitale sociale della compagnia. Precedentemente, il governo Meloni, in continuità con il governo Draghi e con quasi tutti i governi precedenti, aveva autorizzato la vendita al fondo statunitense KKR  della rete primaria e secondaria delle telecomunicazioni di TIM, azienda coperta da Golden Power a partecipazione statale.

Dopo essersi dichiarati contro le privatizzazioni durante l’opposizione e in campagna elettorale, il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, e l’esecutivo hanno spiegato senza giri di parole che l’obiettivo è quello di ricavare 20 miliardi in tre anni dalla vendita di quote di società pubbliche. Meloni ha osservato che si tratta di un «lavoro che si può fare con serietà, senza compromettere il controllo pubblico». Intanto però le società strategiche italiane sono sempre più nell’orbita dei fondi finanziari statunitensi e la vendita di aziende chiave per la sicurezza nazionale a fondi e cordate straniere porta a termine quel progetto di privatizzazione degli asset pubblici, pilastro della dottrina neoliberista, volto a ridurre l’influenza dello Stato nell’economia a favore dei grandi investitori finanziari internazionali. Sebbene ENI mantenga la maggioranza in Plenitude, anche l’ultima operazione del colosso energetico italiano coinvolge un potente fondo statunitense e rientra in questa logica di ingerenza dei fondi privati in società chiave per la sicurezza e lo sviluppo nazionale.

Antitrust, multate Novamont ed Eni per abuso di posizione dominante

0

L’Antitrust ha multato Novamont per 30,36 milioni di euro e Eni, che la controlla, per 1,7 milioni, per abuso di posizione dominante nel mercato dei sacchetti compostabili. Tra il 2018 e il 2023, Novamont ha detenuto quote rilevanti di mercato imponendo l’uso esclusivo del proprio materiale Mater-Bi a produttori e supermercati, ostacolando così la concorrenza. Questo sistema ha favorito un quasi monopolio, penalizzando lo sviluppo di alternative più sostenibili. Nel 2024 Novamont ha registrato 265 milioni di ricavi, mentre Eni ha ottenuto 6,4 miliardi di utili.

A Venezia si sta allargando la protesta contro il turismo di lusso

1

Monta la protesta veneziana contro il matrimonio di lusso del magnate statunitense Jeff Bezos. L’evento si svolgerà dal 26 al 28 giugno, ma i dettagli della maxi-festa restano ancora poco chiari. Sin dal lancio dell’iniziativa, sui media generalisti e su quelli specializzati sono apparse diverse ipotesi sulla quantità di risorse mobilitate dal multimiliardario, che avrebbe organizzato concerti ed eventi esclusivi in tutta la città. Contro il matrimonio, i lagunari si sono riuniti in un comitato apposito, organizzando manifestazioni e flash mob e promettendo di boicottare l’evento: in piazza San Marco è comparso uno striscione con scritto «se puoi affittare Venezia per il tuo matrimonio, puoi pagare più tasse». La protesta contro il matrimonio del magnate si colloca all’interno di un movimento che da tempo reclama una città che torni ad essere pensata per i cittadini, opponendosi a quel modello che inquadra la laguna come una vetrina privatizzabile per masse di turisti e feste di super ricchi.

Il matrimonio di Jeff Bezos a Venezia è stato annunciato mesi fa, e ha sin da subito attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo. Per quanto i giornali speculino da settimane su sede della cerimonia, eventi e budget della maxi-festa, i dettagli non sono noti. Alla festa parteciperanno oltre 200 invitati, la maggior parte nomi noti, che dovrebbero atterrare all’aeroporto Marco Polo tra oggi e domani, mercoledì 25 giugno. Per il matrimonio, Bezos avrebbe “affittato” l’intera isola di San Giorgio, cosa che, secondo informazioni verificate da L’Indipendente, comporterà la chiusura anticipata di alcuni spazi della Fondazione Cini, una delle sedi della festa. Pare inoltre che l’evento principale, che si sarebbe dovuto tenere alla Misericordia il 28 giugno, sarà spostata all’Arsenale. Nei giorni c’è chi ha scritto che Bezos avrebbe prenotato l’intera flotta di taxi acquatici (informazione poi smentita dall’amministrazione comunale) e le migliori suite degli alberghi di lusso, affittato interi spazi ed edifici, organizzato concerti ed eventi esclusivi, provato a portare in laguna uno dei suoi yacht privati, pianificato l’allestimento di buffet extra-lusso con posate placcate in oro, chiamato diverse agenzia di sicurezza. La sposa cambierà 27 abiti e la cifra di spesa stimata è di 30 milioni di euro.

Malgrado le innumerevoli speculazioni dei media, tutte le informazioni sulla celebrazione sono riservate, e si sa davvero poco del matrimonio. Quello che è certo è che in un modo o nell’altro sarà coinvolta l’intera città, tanto che sarebbe in programma la chiusura di alcune strade e di parte dei canali. È proprio contro questo che i cittadini protestano: «Contro l’arroganza degli oligarchi e dei loro lacchè», e contro quel sempre più pervasivo «modello di gestione della città come una vetrina svuotata di abitanti». I lagunari hanno messo in piedi il comitato No Space for Bezos, a cui hanno aderito realtà variegate che spaziano dai gruppi locali come il comitato No Grandi Navi, ai movimenti ambientalisti come Extinction Rebellion. Il comitato ha organizzato diverse proteste, l’ultima delle quali si terrà in varie aree della città proprio sabato 28 giugno per boicottare i festeggiamenti. Gli attivisti rivendicano una città con maggiori spazi dedicati ai cittadini, contro la logica di turistificazione che la affligge da anni.

Le proteste dei cittadini, insomma, non si limitano a contestare la presenza di un ultraricco in città, ma si oppongono all’intero sistema di svendita degli spazi urbani promosso in prima battuta dall’amministrazione comunale. «Il fatto», ci dice un attivista locale che ha preferito rimanere anonimo, «è che se qualcuno affitta un’intera città è perché qualcun altro la mette in vendita; è naturale che Bezos, o chi per lui, compri Venezia per qualche giorno, se qualcuno glielo permette». La relegazione degli spazi pubblici – e privati – a luoghi di intrattenimento per miliardari, la messa a vigilanza di un’intera città, l’interruzione dei servizi, la chiusura delle strade, dei canali, delle biblioteche, delle mostre, «sono cose che non dovrebbero accadere da nessuna parte, ma non è questo il punto». Il punto è che «c’è un sistema che promuove» la messa in vetrina dii questi spazi, a scapito dei cittadini, innescando così un «inarrestabile» circolo vizioso. «Più spazio viene dato al turista, più ne viene tolto al cittadino», sottolinea infatti l’attivista; e a sua volta, «più spazio viene tolto al cittadino, più ne viene dato al turista». Destinando tutte le risorse al turismo, insomma, «il tessuto sociale viene gradualmente eroso».

La maxi-festa di Bezos, in questo, è solo il più eclatante dei casi che hanno interessato Venezia nell’ultimo periodo: già ad aprile dell’anno scorso, un’attivista di Assemblea Sociale per la Casa criticava su L’Indipendente l’introduzione del ticket d’accesso, sottolineando come esso non facesse altro che accelerare il processo di trasformazione degli spazi urbani in un sostanziale «parco giochi» per turisti. A settembre, è poi scoppiato il caso degli studenti cacciati dalle abitazioni a loro riservate per fare spazio ai turisti, che gli stessi universitari ci hanno confermato essere una pratica sistematica. A novembre, siamo tornati sulla questione, evidenziando come il turismo di massa stia annientando la città di Venezia. Per quanto possa apparire diametralmente opposto, il caso di Bezos non è davvero differente a questi altri: «Turismo di lusso e overtourism sono la stessa cosa; cambia la forma, ma resta invariata la sostanza». Il meccanismo speculativo che c’è dietro, infatti, rimane sempre lo stesso: quello di «svendere completamente la città e togliere spazio alla vita locale».

USA, Corte Suprema: ok a espulsione migranti in Paesi terzi

0

La Corte Suprema ha accolto la richiesta d’urgenza del presidente Donald Trump di riprendere le espulsioni dei migranti verso Paesi terzi, come il Sud Sudan, anche con un preavviso minimo. La decisione sospende un’ordinanza del giudice Brian Murphy, che aveva giudicato incostituzionali le espulsioni senza avviso e possibilità di contestazione, in particolare in caso di rischio di tortura. I tre giudici progressisti della Corte hanno dissentito. Il caso passerà ora in appello. Intanto, gruppi legali rappresentano migranti anonimi che denunciano la violazione del diritto al giusto processo da parte dell’amministrazione.

Meloni incatena l’Italia ai diktat della NATO: “Rispetteremo il 5% del PIL alla difesa”

6

Mentre in Europa crescono le voci contrarie, con il governo slovacco che si è affiancato a quello spagnolo nel rifiutare il vertiginoso aumento delle spese militare al 5% del Prodotto interno lordo come richiesto dagli Stati Uniti e dalla NATO, la premier italiana Giorgia Meloni dà ancora una volta prova di obbedienza alle direttive di Washington. Quelli richiesti sono «impegni importanti e necessari che l’Italia rispetterà», ha detto davanti ieri, lunedì 23 giugno, al Parlamento. Per giustificarlo ha citato con un mezzo secolo di ritardo la leader liberista del Regno Unito degli anni 1980 Margareth Thatcher: «Non dimentichiamoci mai che il nostro stile di vita, i nostri valori, non saranno assicurati da quanto sono giuste le nostre cause ma da quanto è forte la nostra difesa». Una frase in cui riecheggia la retorica militarista della pace da ottenere attraverso la forza, potenzialmente in grado di giustificare spese militari senza fine.

Nel suo discorso, Meloni ha rivendicato il raggiungimento da parte del suo governo del 2% del PIL in spese per la difesa richiesto dalla NATO nel 2014, «rispettando così la parola data dall’Italia a livello internazionale». La premier ha poi confermato un completo allineamento anche sui nuovi impegni: «Attualmente la proposta presentata prende atto della valutazione aggiornata che la NATO fa delle minacce e dei rischi per l’Europa, dei conseguenti piani di Difesa, della possibile riduzione del contributo in termini di forze e capacità da parte degli Stati Uniti», il che «si traduce in un impegno per tutti i membri dell’Alleanza ad arrivare al 3,5% del PIL in spese di difesa e al 1,5% in spese di sicurezza – ha detto Meloni -. Sono impegni importanti, certo, sono impegni necessari, che finché questo Governo sarà in carica, l’Italia rispetterà restando un membro di prim’ordine della NATO». Le parole di Meloni sono arrivate mentre ancora non era stata annunciata la tregua tra Israele e Iran. Anzi, la premier non aveva nemmeno escluso l’idea di concedere le basi italiane agli Stati Uniti, seppur precisando che, nel caso, avrebbe dovuto prima avere luogo un passaggio parlamentare.

I numeri recentemente forniti dall’osservatorio Milex chiariscono le vere dimensioni dell’impegno finanziario: oggi l’Italia spende complessivamente circa 45 miliardi di euro tra difesa e sicurezza (pari al 2% del PIL), mentre per raggiungere il 5% nel 2035 la spesa annuale salirebbe a circa 145 miliardi, ovvero un incremento netto di 100 miliardi rispetto ad oggi, con aumenti medi di 10 miliardi all’anno nel decennio 2025–2035. Se si confrontano i due scenari in termini cumulativi, per la spesa decennale fino al 2035 servirebbero quasi 1 000 miliardi con l’obiettivo del 5%, contro poco più di 500 miliardi mantenendo il 2% con una crescita fisiologica: la differenza è dunque superiore a 400 miliardi in dieci anni, pari in media a 40 miliardi in più ogni anno. Un balzo di spesa per difesa e sicurezza di queste dimensioni non potrà che impattare enormemente sulla spesa sociale. Ogni miliardo “dirottato” verso la difesa è infatti un miliardo tolto a welfare, politiche attive per il lavoro e sostegni alle fasce più deboli, ma anche a sanità, istruzione, infrastrutture, cultura e ricerca.