domenica 24 Novembre 2024
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Dopo 236 giorni artisti e influencer si sono accorti che a Gaza è in corso un genocidio

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È da due giorni, ormai, che su Instagram circola senza soluzione di continuità un’immagine che intende rivolgere l’attenzione sul massacro in corso a Gaza. “All Eyes on Rafah”, questa la scritta che appare nell’immagine e che ha anche dato il nome al fenomeno, ha rapidamente catturato milioni di consensi, tanto che a stamattina solo nelle precedenti 24 ore si contavano poco meno di 50 milioni di condivisioni. Tra tutte queste persone non potevano certamente non rispondere all’appello i vari artisti, influencer e celebrità che ogni giorno monopolizzano gli schermi dei nostri telefoni, primi della fila proprio quelli che, alle porte dell’ottavo mese di massacro, non avevano ancora alzato una parola di denuncia nei confronti del genocidio che Israele perpetra sul popolo palestinese. Sebbene gli scopi dell’immagine paiano essere nobili, infatti, il sempre più crescente numero di persone che ha deciso di diffonderla suggerisce più che delle centinaia di milioni di persone che l’hanno condivisa, parecchi, specialmente quegli stessi influencer, lo abbiano fatto per seguire quello che è andato definendosi come un vero e proprio trend. A riprova di ciò arriverebbe anche la controtendenza ormai in auge dal 6 maggio di #blockout2024, nata proprio per boicottare quelle celebrità che dal 7 ottobre a oggi non hanno alzato un dito per la causa palestinese.

All Eyes on Rafah è stato condiviso a partire da un paio di giorni fa, in risposta al bombardamento del campo profughi di Tal Al-Sultan, che ha portato al massacro di oltre 40 civili, molti dei quali arsi vivi. L’immagine è stata generata con una Intelligenza Artificiale e a capo del progetto pare essere un fotografo indipendente. In pochi giorni le condivisioni del post hanno toccato quote senza precedenti, e il fenomeno pare essersi trasformato in un’autentica tendenza da social, riflettendo dunque le stesse logiche e i medesimi meccanismi degli analoghi “balletti” su TikTok. Proprio per tale motivo, la diffusione dell’immagine da parte dei vari artisti e influencer che mai hanno speso una parola di condanna del genocidio – e nemmeno per rivendicare una pace – sembra più un tentativo di salire sul carro della tendenza, in modo tale da lavarsi via la coscienza. La stessa locuzione “tutti gli occhi su Rafah” è dopo tutto dotata di una carica relativamente neutra, e mira a rivolgere l’attenzione su quello che sta succedendo in Palestina senza tuttavia lanciare in maniera davvero esplicita giudizi di valore.

Ed ecco che, magicamente, artisti e influencer in voga, molti dei quali non avevano mai espresso un pensiero in merito al massacro in corso in Palestina, hanno condiviso l’immagine virale. Nel migliore dei casi un modo facile per dimostrare che si occupano della questione, senza dirlo troppo forte. Oppure, a voler pensar male, un modo facile per ripulirsi la coscienza e provare a smarcarsi dai pericoli della campagna di boicottaggio condividendo una semplice “stories”. Al fenomeno globale non hanno fatto difetto artisti e influencer italiani: da Fedez a Guè Pequeno, passando per Mahmood e Annalisa, in tanti tra i “vip” nostrani della canzone e di Instagram hanno condiviso l’immagine.

All’iniziativa, comunque, andrebbero riconosciuti i suoi meriti: come tutti i fenomeni virali, essa catalizza l’interesse del grande e variegato pubblico dei social network verso una imminente emergenza umanitaria, e può portare più persone a interessarsi di quanto stia succedendo nella Striscia di Gaza e a informarsi meglio; la stessa condivisione da parte degli artisti, letta in questo quadro, si potrebbe configurare come un virtuoso esempio di come, quando spesi per determinate cause, i social abbiano un potere mediatico ed ecoico senza rivali. Eppure, a fare dubitare della buona volontà se non di tutte, quanto meno di alcune delle celebrità che hanno ripostato l’immagine arriva l’iniziativa #blockout2024.

Blockout è un hashtag di tendenza lanciato il 6 maggio 2024. Esso è nato dopo la netta discrepanza che sussiste tra il mondo delle celebrità e quello reale che gli utenti dei social hanno osservato plasticamente in occasione dell’annuale celebrazione del Met Gala. Durante l’evento – partecipato da numerosissime personalità pubbliche – i vari invitati hanno sfoggio del lusso che caratterizza il mondo delle celebrità, causando l’indignazione del pubblico dei social. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata nello specifico il video pubblicato dalla modella Haley Kalil, in cui l’influencer, vestita in abiti sfarzosi, pronuncia l’ultima frase della celebre citazione attribuita a Maria Antonietta: “[Il popolo ha fame?] Dategli le brioche“. Osservato il forte distacco dalla quotidianità esibito dal Met Gala, paragonato alle feste dipinte nel celebre fantasy distopico Hunger Games, è stata così lanciata una campagna di boicottaggio contro tutti quei personaggi e quelle realtà pubblici che dopo l’escalation del 7 ottobre non si sono mai espressi su Gaza. Nello specifico, gli utenti sono invitati a smettere di seguire e a bloccare le persone prese di mira. A oggi le celebrità direttamente colpite sono una ventina, ma quelle in piano sono, per ora, almeno un migliaio. Gli effetti di blockout sono stati devastanti, tanto che celebrità come Kim Kardashian sono arrivate a perdere più di un milione di follower su Instagram in un solo mese, mentre altre, come Zendaya, hanno quasi raggiunto il mezzo milione di “seguaci” in meno.

[di Dario Lucisano]

 

GIP Catania, sequestro di 29 milioni di euro per frode fiscale

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Il Giudice per le Indagini Preliminari di Catania ha disposto varie misure cautelari con parallelo sequestro di beni pari a un totale di 29 milioni di euro. A essere oggetto di accusa sono 16 persone indagate per frode fiscale. Gli indagati sarebbero parte di una vasta rete che farebbe capo a Catania, e attiva in varie Provincie italiane, tra cui Siracusa, Ragusa, Enna, Palermo, Milano, Brescia, Roma e Pesaro. Nello specifico, secondo l’accusa, gli indiziati avrebbero messo in piedi un “sistema di frode fiscale su scala nazionale”, abusando dei vantaggi previsti per il distacco del personale nei casi di contratti di rete tra imprese.

Un monumento al coraggio, quello di Julian Assange, ora in tour in Italia

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Sta facendo il tour della Penisola la stupenda opera statuaria di Davide Dormino Anything to Say?  Si tratta di un gruppo scultoreo in bronzo massiccio che si può vedere, toccare con le mani e anche salirci sopra. Dormino lo chiama un “monumento” al coraggio di tre eroi moderni, rappresentati a grandezza naturale: Julian Assange, Chelsea Manning e Edward Snowden.  Diversamente dalle statue tradizionali, Anything to Say? non sta su un piedistallo. Così è possibile guardare Assange, ad esempio, direttamente in faccia e notare da vicino sia la determinazione espressa dalla sua bocca, sia il rimuginio interiore espresso dal suo sguardo. 

Le tre figure sono dritte in piedi, ciascuno su una sedia, come per sfidare il Potere. Accanto a loro si vede una quarta sedia, vuota, sulla quale i visitatori sono invitati a salire per dire la verità in faccia al Potere anche loro. Gesto che fa pensare agli studenti nel film L’attimo fuggente (1989, di Peter Weir) i quali, salendo in piedi sui banchi, contestano il loro Preside autoritario.  

Spesso le statue di bronzo vengono commissionate per onorare gli eroi di guerre di conquista; Anything to Say?, invece, è un tributo agli eroi che si sono battuti per la pace e la giustizia.  Assange, infatti, con il suo sito WikiLeaks, e Manning che gli ha fornito i documenti scottanti da pubblicare, ci hanno rivelato come il Potere, per meglio manipolarci e venderci le sue guerre, presenta falsamente, come missioni di pace per il bene comune, le sue missioni militari cruente e imperialiste. In quanto a Snowden, il giovane informatico statunitense ci ha rivelato come il Potere, sempre per poterci manipolare, ci spia illecitamente, persino nei nostri cellulari, per scoprire i nostri punti deboli e i temi ai quali siamo più sensibili.  

Come ricorda Chomsky, il Potere ha bisogno di poter agire nell’ombra per commettere i suoi misfatti e fa pagare un prezzo altissimo a chi osa gettarvi luce. Assange, Manning e Snowden hanno accettato di pagare quel prezzo pur di difendere il nostro diritto di sapere.

Oggi sono innumerevoli i tentativi, da parte del Potere, di imporre su tutti noi un pensiero unico e di punire severamente chiunque cerca di sottrarsi.  Per esempio, gli studenti che protestano per lo sterminio dei Palestinesi a Gaza chiamandolo genocidio, vengono accusati dal Potere di antisemitismo e manganellati. I giornalisti che documentano come la guerra in Ucraina sia il risultato delle provocazioni deliberate della NATO vengono tacciati di “putinisti”, messi sulle liste di proscrizione e anche licenziati. Gli attivisti di Extinction Ribellion che protestano contro il greenwashing di Eni in una sua assemblea degli azionisti, vengono scortati prontamente al commissariato.  In pratica, oggi come oggi il Potere ci permette – se non vogliamo guai – un unico pensiero, quello che recita: «Israele sta soltanto facendo autodifesa», «l’escalation di Putin è immotivata» e «le multinazionali abbassano le emissioni CO2». 

Questo clima asfissiante, tuttavia, non è una cosa nuova.  Nel 2014 e 2015, Dormino ha realizzato e poi esibito la sua opera Anything to Say? ed erano gli anni più bui dell’illecita rioccupazione dell’Iraq da parte delle forze armate USA ed alleate, comprese quelle italiane.  Solo che non si poteva parlare di “illecita rioccupazione” per “impadronirsi del petrolio”; bisognava parlare invece di “sradicamento” dei “terroristi dell’ISIS” venuti da non si sa dove.  Così, l’operazione Inherent Resolve, come veniva chiamata, si faceva passare come l’ennesima missione di pace per il bene comune. Chiunque osava dire il contrario veniva tacciato di essere filo-terrorista, con una veemenza che non ha nulla da invidiare alla  repressione del dissenso praticata dal Potere oggi. A tal punto che la gente ha cominciato a disinteressarsi della nuova occupazione militare che dura ancora. Oggi, infatti, il nord est dell’Iraq rimane sempre occupato illegalmente dalle truppe NATO a guida italiana; si tratta di un territorio grande quanto il Donbass, un territorio ricco di petrolio sottratto manu militari allo Stato iracheno. Ma nessuno in Occidente ci fa più caso. E il Potere si strofina le mani.

Dieci anni fa, dunque, in questo clima asfissiante di pensiero annientato che tutti subivamo, ad un tratto è apparso, come un raggio di luce nell’Alexanderplatz di Berlino, l’immenso monumento al coraggio che Davide Dormino ha voluto installare e far vedere, per prima, nel pieno cuore dell’Europa. Su tutti i giornali del mondo, poi, si vedevano le immagini delle effigi di Assange, Manning e Snowden scagliarsi fieri contro il cielo berlinese. Che ventata di aria fresca!  Abbasso il Pensiero Unico!  Vedevamo che era sì possibile dire la verità in faccia al Potere ed essere persino onorati con un monumento per averlo fatto! «Riconosco che i tre sono eroi controversi, soggetti amati e odiati», ebbe a dire Dormino; «ma sono pur sempre soggetti capaci di scardinare le regole di un sistema di controllo che gestisce tutte le nostre vite».  

Poi le tre statue e la sedia vuota si sono messe in moto.  La “scultura itinerante” è stata esibita in decine di città europee: Dresda, Ginevra, Parigi, Belgrado, Londra. A Strasburgo, nel 2016, un signore anziano si è avvicinato a Dormino per dirgli: «Questa è la vera Statua della Libertà».  Ed effettivamente lo è.

«I monumenti di solito sono per le persone morte, invece (Assange, Manning e Snowden) sono ancora vivi e possono essere salvati! Quindi l’idea di farli stare nelle piazze è un po’ come liberarli simbolicamente», dice Dormino sul suo sito. «L’arte prova a unire quei puntini della nostra emotività. Non potrà cambiare il mondo, ma può darci la capacità di guardare alto, di avere una visione diversa e di mostrarci le contraddizioni del nostro tempo e di vedere il mondo con occhi nuovi»

Si può vedere, toccare con le mani e salire sopra Anything to Say? a Napoli, in piazza Dante, fino a domani 31 maggio, con sei interventi e performance sulla sedia vuota alle ore 18.30 e chiusura alle 19.30 con la Banda Basaglia. Poi ci sarà la puntata a Roma davanti all’ex Mattatoio in piazza Orazio Giustiniani, fino al 7 giugno. Sabato 1 giugno gli attivisti di Free Assange Italia faranno interventi sulla sedia vuota a partire dalle ore 17, poi alle 20 ci sarà una performance live con musica; martedì, invece, alle ore 18.30, Dario Morgante e Gianluca Costantini presenteranno il loro graphic novel Julian Assange.  

Poi sarà il turno di Bologna, il 13 e 14 maggio, in piazza del Nettuno. Ci saranno interventi e performance libere sulla sedia vuota, dalle ore 11 fino alle ore 21, nonché una piccola mostra riguardante Assange. 

Anything to Say? approderà infine il 15 e il 16 giugno, al Castello Sforzesco di Milano dove Stella Assange, moglie del giornalista-editore australiano, parlerà ai partecipanti del Wired Next Fest. L’opera statuaria doveva essere installata dal 20 al 23 maggio al Parco Sempione che spesso ospita installazioni artistiche; ma all’ultimo momento e senza offrire una spiegazione, il Comune ha rifiutato di concedere quello spazio pubblico. Grazie all’ANPI, gli attivisti del Comitato per la Liberazione di Julian Assange – Italia hanno potuto installare il monumento in piazza dei Mercanti il giorno 20; ora grazie alla collaborazione con il festival Wired, potranno offrire ai milanesi la possibilità di vedere il monumento per altri due giorni. La libreria-chiosco Latte Creative ha lanciato una campagna crowdfunding per consentire al “monumento al coraggio” di riprendere il suo tour anche in altre città italiane, dopo l’estate. 

Intanto, sul piano giudiziario, Assange, pur avendo ottenuto il 20 maggio scorso il permesso di appellarsi contro l’estradizione negli USA, rimane pur sempre incarcerato nella temibile prigione di Belmarsh e rischia di rimanerci per mesi, se non anni, mentre il suo appello viene giudicato. Sei giorni fa, il 24 maggio, gli avvocati di Julian e del Dipartimento di Giustizia statunitense hanno depositato le loro draft order (bozza di proposta) per calendarizzare l’appello. Avremo già una indicazione della volontà della magistratura britannica di protrarre o di accorciare il calvario di Julian, dalla calendarizzazione che notificheranno alle parti nelle prossime settimane.

[di Patrick Boylan – autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo Free Assange Italia]

Venezia si mobilita contro la nave sospettata di portare armi a Israele

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Le autorità spagnole le avevano negato l’attracco al porto di Cartagena, quelle italiane invece non hanno trovato nulla da ridire e ora la nave Borkum, carica di esplosivi e armi che si sospetta siano diretti in Israele, è attraccata nella laguna di Venezia. Nonostante il silenzio generale dei media, portuali e cittadini lo hanno notato e si sono organizzati per contestarne la sua presenza. Nella giornata di ieri, mercoledì 29 maggio, sulle coste del porto veneziano di Marghera, il “Comitato permanente contro le guerre e il razzismo” e i Giovani Palestinesi hanno organizzato una manifestazione contro la presenza della nave Borkum in Italia. Centinaia le persone presenti, tra cui comitati cittadini e studenti provenienti dalle diverse mobilitazioni universitarie che hanno colpito la città, riuniti per rilanciare il boicottaggio accademico e istituzionale contro le realtà israeliane, all’insegna dell’esempio spagnolo.

Il presidio di protesta è iniziato attorno alle 17.30, nei pressi del parcheggio davanti al varco portuale dell’attracco di Porto Marghera. Al sit-in iniziale sarebbero arrivate circa una cinquantina di persone, raggiunte qualche decina di minuti dopo da una settantina di studenti e studentesse provenienti dalle diverse realtà di protesta della città. Durante il presidio dimostrativo sono intervenute diverse persone, che hanno alzato la voce contro la politica che sostiene il trasporto delle armi verso Israele, domandando che venisse seguita la linea spagnola; all’appello, tuttavia, hanno risposto anche le forze dell’ordine, che si sono schierate davanti all’entrata del casello portuale, rallentando così il cammino dei camion che, stando a quanto comunicano i manifestanti, sarebbero transitati di fianco al presidio, finendo per dialogare con alcuni dei presenti e ricevere da loro dei volantini. Il Comitato permanente contro le guerre e il razzismo ha ricordato la manifestazione tenutasi il 1 maggio in occasione della festa dei lavoratori, in cui decine di persone si erano riunite per protestare contro le attività di Fincantieri nella provincia lagunare. I Giovani Palestinesi, invece, hanno rilanciato le mobilitazioni regionali e nazionali per la “festa della contro-repubblica” del 2 giugno, che si terranno rispettivamente a Padova e a Roma.

Presenti anche gli studenti delle varie realtà universitarie veneziane, tra cui gli occupanti di San Sebastiano, che da ormai oltre due settimane hanno preso controllo della sede didattica dell’Università Ca’ Foscari per chiedere che la rettrice Tiziana Lippiello si dimetta dalla fondazione Med-Or di Leonardo, che l’università condanni il genocidio in corso a Gaza, e che la stessa istituzione dia un taglio agli accordi con le omologhe israeliane e le aziende legate alla filiera bellica, tra cui figurerebbe anche la controversa banca francese Crédit Agricole. A tal proposito, gli studenti di San Sebastiano hanno anche rilanciato il presidio «aperto a tutta la cittadinanza» del 31 maggio, che si terrà in parallelo al Consiglio di Amministrazione dell’università, in risposta al due di picche ottenuto il passato 22 maggio in occasione della riunione del Senato accademico, che ha bocciato tutte le loro proposte.

Le proteste nella città di Venezia si stanno sempre più intensificando: tra la rinascita del movimento contro le grandi navi e le iniziative contro il neonato ticket d’accesso, la città sta vivendo sempre più manifestazioni di dissenso contro l’amministrazione cittadina e nazionale. Riguardo alla questione palestinese, la laguna è ormai da giorni sede di una delle più resilienti acampade della ribattezzata intifada studentesca, ed è stata testimone anche di proteste contro grandi realtà accusate di finanziare guerra e genocidio, quali la stessa Fincantieri, ma anche gli istituti bancari di Crédit Agricole e Intesa San Paolo. Quella contro la nave Borkum, dal canto suo risulta solo l’ennesima delle iniziative di dissenso che da mesi coinvolgono la gran parte dei cittadini. L’imbarcazione è finita al centro dell’attenzione dopo i fatti di qualche giorno fa, quando le autorità spagnole le rifiutarono l’attracco perché sospettata di trasportare armi verso Israele. Essa, nello specifico, risulterebbe di proprietà dell’IMI System, che rifornisce di armi l’IDF, e per tale motivo Madrid prima e la Slovenia poi hanno protestato contro il carico stimato di 27 tonnellate di materiale esplosivo che la nave è accusata di trasportare.

[di Dario Lucisano]

IDF: preso il controllo di un importante corridoio sul confine di Gaza

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Il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari, ha comunicato che le IDF avrebbero preso il controllo del “Philadelphi Corridor”, un importante corridoio strategico situato sul confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, da cui Hamas otteneva «l’ossigeno con cui rinvigoriva il proprio movimento». Secondo una intervista esclusiva rilasciata da un ufficiale anonimo al quotidiano israeliano Haaretz, il corridoio, largo circa 100 metri e lungo 14 chilometri (quanto l’intero confine che separa la Striscia di Gaza e l’Egitto) sarebbe dotato di 20 diversi tunnel e 82 differenti punti di accesso. Stando a quanto dice la fonte anonima, la presa definitiva del tunnel andrebbe ancora «finalizzata».

La criminalizzazione della disobbedienza civile: il caso di Ultima Generazione

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Tra le forme di repressione che colpiscono il nostro Paese non vi è solo il ricorso ingiustificato alla violenza, ma anche l’elaborazione di leggi e norme apposite per schiacciare le manifestazioni di dissenso. Tra queste, un esempio lampante sono le leggi pensate deliberatamente per contenere e inibire le azioni di protesta condotte dal movimento Ultima Generazione. Il gruppo ambientalista, tra blocchi stradali e scenografiche proteste attuate incollandosi a opere d’arte, si è guadagnato una certa diffidenza e forse la palma di movimento più antipatico tra ampi strati della popolazione. Tutta...

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Gaza 2035: il piano del governo israeliano per l’occupazione permanente della Striscia

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L’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha pubblicato un avveniristico progetto per Gaza. Tra grattacieli, porti e altre strutture ipermoderne, il futuro di Gaza vedrebbe il sorgere di nuove città che renderebbero la Striscia un importante punto di snodo, un hub commerciale destinato a collegare il Mediterraneo e l’Europa con tutta la regione mediorientale. L’attuazione del progetto israeliano prevederebbe quattro fasi, l’una dipendente dal realizzarsi di quella precedente, al cui termine la Striscia di Gaza sarebbe un polo tecnologico e commerciale “autogovernato” dai palestinesi ma con una forte presa israeliana. Il progetto non è isolato ma andrebbe ad incastonarsi in un più ampio progetto regionale di pacificazione con gli attori statali islamici sunniti, tagliando ovviamente fuori l’Iran. Ovviamente, nessuno ha chiesto niente agli interessati, nell’intrinseca convinzione che quanto Israele propone sia necessariamente cosa buona e giusta.

Ad inizio maggio, l’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha pubblicato un avveniristico progetto post-bellico per la Striscia di Gaza, passato del tutto inosservato. L’attuazione del progetto israeliano prevederebbe quattro fasi, l’una dipendente dal realizzarsi di quella precedente. I documenti pubblicati mostrano il tentativo israeliano di portare ad una pace duratura – ovviamente alle condizioni di Israele – e reintegrare Gaza nell’economia regionale attraverso grandi infrastrutture e investimenti economici, col fine di «moderare la sua politica». Infatti, nell’esplicazione del grande piano, Gaza è definita un «avamposto iraniano» che «sabota le catene di approvvigionamento emergenti» e «ostacola ogni speranza futura per il popolo palestinese». Il piano ha anche evidenziato il posto storicamente centrale che Gaza occupa nelle rotte commerciali Est-Ovest, collocandosi sia sulle rotte commerciali Baghdad-Egitto che su quelle Yemen-Europa.

La prima fase del progetto, che si stima debba durare circa un anno, prevede l’instaurazione di aree libere dal controllo di Hamas, ove una coalizione di Paesi formata da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Bahrein, Giordania e Marocco distribuirà e supervisionerà gli aiuti umanitari. I palestinesi di Gaza gestiranno le zone sicure sotto la supervisione di questa coalizione. La seconda fase si verificherebbe in un arco temporale stimato tra i 5 e i 10 anni, durante i quali la coalizione araba dovrebbe creare un organismo multilaterale chiamato Gaza Rehabilitation Authority (GRA), atto a supervisionare gli sforzi di ricostruzione e gestire le finanze della Striscia. Il GRA sarebbe quindi gestito dai palestinesi di Gaza ma sotto la supervisione della coalizione araba, che si assumerebbe ogni responsabilità. In parallelo, dovrebbe essere attuato una sorta di “Piano Marshall” che fornisca le capacità economiche di realizzazione del progetto, accompagnato da un «programma di deradicalizzazione». La terza fase, definita «autogoverno», vedrebbe un lento trasferimento di potere ad un effettivo governo locale di Gaza o a un governo palestinese unificato, che, in questo caso, comprenderebbe anche la Cisgiordania. Tuttavia, questo sarebbe estremamente subordinato al successo della deradicalizzazione e della smilitarizzazione della Striscia di Gaza e il trasferimento di potere sarebbe soggetto all’accordo di tutte le parti coinvolte, quindi Israele e la coalizione di Stati arabi sopracitata. Durante tutte e tre le fasi, Israele manterrebbe il diritto di agire contro le «minacce alla sicurezza». Tradotto, significa che Israele potrebbe comunque decidere di volta in volta cosa è giusto e cosa non lo è in base ai propri interessi, riservandosi il diritto di intervenire.

Ultimo passo da compiere nell’ambito del piano israeliano, affinché i palestinesi possano gestire la Striscia di Gaza in maniera indipendente (sebbene non si parli esplicitamente della realizzazione di uno Stato) sarebbe quello di aderire agli Accordi di Abramo. Si tratta di una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti risalente al 13 agosto 2020, firmata a Washington sotto la presidenza di Donald Trump, che normalizza i rapporti tra Israele e i suddetti Stati arabi. Anche l’Arabia Saudita avrebbe dovuto essere tra i firmatari degli accordi (suggellando così uno storico accordo tra sauditi e israeliani), ma, anche alla luce di quanto accaduto dopo lo scorso 7 ottobre, lo Stato mediorientale ha più volte affermato di non voler aderire fin tanto che non sorgerà uno Stato palestinese indipendente. Oltretutto, l’Arabia Saudita e l’Iran, con l’intermediazione cinese, nel marzo dello scorso anno hanno siglato un altrettanto storico accordo per la normalizzazione dei rapporti bilaterali, certamente non gradito da Israele e Stati Uniti. L’Arabia Saudita, dal primo gennaio scorso, sarebbe stata ammessa all’organizzazione BRICS, ma ancora non ha ufficialmente ratificato la propria adesione. Molti analisti leggono questo comportamento attendista dei sauditi come un possibile ripensamento in favore di un accordo più ampio che coinvolga Stati Uniti, Israele e gli altri Stati mediorientali. Un simile accordo, ovviamente, non permetterebbe ai sauditi di partecipare ai BRICS ove, oltre alla presenza di Cina e Russia, che gli USA vedono come nemici, c’è anche quella dell’Iran.

Il piano regionale più ampio è quello di intensificare i mega-progetti (come NEOM in Arabia Saudita) e implementarli nel Sinai. Ciò consentirebbe a Gaza di funzionare come un importante porto industriale sul Mediterraneo, cosa che la renderebbe il principale centro di esportazione delle merci del Medio Oriente, così come del petrolio saudita e di altre materie prime provenienti dal Golfo. Il piano prevede anche la creazione di una massiccia zona di libero scambio che copra Sderot-Gaza-El Arish, che consentirebbe a Israele, Gaza ed Egitto di trarre vantaggi in maniera cooperativa. Combinando i nuovi investimenti infrastrutturali e l’integrazione della regione con i giacimenti di gas appena scoperti appena a nord di Gaza contribuirebbero a sostenere la nascitura industria. Tutto questo, tuttavia, non tiene minimamente conto del parere dei palestinesi e della loro volontà di autonomia e indipendenza.

[di Michele Manfrin]

Consiglio dei Ministri, ok a separazione delle carriere

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Il Consiglio dei ministri ha ufficialmente dato il via libera al disegno legge sulla separazione delle carriere dei magistrati. L’approvazione del ddl costituzionale è stata accolta da un lungo applauso da parte dei ministri. Ha lanciato l’allarme l’Associazione nazionale magistrati, il cui presidente, Giuseppe Santalucia, ha convocato una riunione di urgenza della giunta, anticipando che si potrà arrivare allo sciopero. Il Ddl prevede inoltre l’istituzione di un altro organo di autogoverno della magistratura oltre al CSM, rivolto solo ai pm, nonché la selezione dei rispettivi componenti tramite sorteggio secco anche per i laici, che fino ad ora sono stati nominati dal Parlamento.

Corea del Nord: inviati verso Sud palloncini carichi di escrementi e spazzatura

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La Corea del Sud ha accusato quella del Nord di avere inviato oltre i confini del Paese centinaia di palloncini aerostatici carichi di spazzatura ed escrementi. L’iniziativa sarebbe stata una risposta alle centinaia di volantini contro il governo del Nord inviati la scorsa domenica 26 maggio dalla Corea del Sud verso Pyongyang. Il governo di Seul ha dispiegato l’unità militare per gli ordigni esplosivi e la squadra per la risposta alla guerra chimica e batteriologica per raccogliere i palloncini e invitato la popolazione a tenersi alla larga dagli oggetti e «astenersi da tutte le attività all’aperto».

Colla nella pizza e gatti sulla luna: l’IA di Google fraintende la realtà

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I difetti presenti all’interno dei modelli d’intelligenza artificiale sono ormai noti da tempo. Le “allucinazioni” delle macchine sono frutto di una raccolta coatta e massiva di dati, i quali finiscono con il mescolarsi tra di loro ed emergere nelle maniere più inopportune. Senza aver ancora risolto questa storica criticità, Google ha deciso di pubblicare negli Stati Uniti la nuova funzione AI Overviews, un sistema tanto difettato che gli utenti del web si stanno divertendo a raccogliere esempi eclatanti in cui l’IA suggerisce una serie di raccomandazioni ridicole, se non addirittura pericolose.

L’idea alla base di AI Overviews è semplice, brillante e, in alcuni aspetti, leggermente inquietante. Il progetto di Google mira a fornire agli utenti risposte rapide alle loro domande, affidando a un’intelligenza artificiale il compito di sintetizzare i vari risultati ottenuti tramite il tradizionale motore di ricerca. Un’iniziativa che, a prima vista, sembra lodevole, ma che potrebbe profondamente rivoluzionare i sistemi di monetizzazione delle inserzioni su internet e che, d’altra parte, evidenzia nuovamente il limite che deriva dall’utilizzare archivi di riferimento senza poterne comprendere appieno il contenuto.

Lo strumento è entrato in fase di sperimentazione pubblica nel maggio 2023 con il nome di Search Generative Experience. Durante i mesi di collaudo, secondo il CEO Sundar Pichai, è stato possibile ridurre dell’80% i costi energetici associati a questa applicazione dell’IA, da sempre considerata antieconomica. Questa fase di sviluppo non è però stata evidentemente in grado di appianare le carenze contenutistiche, le quali sono ora sotto l’occhio critico di osservatori, giornalisti e analisti americani. In pochi giorni, AI Overviews ha svelato che il sistema ha generato affermazioni assurde, come la possibilità di incrociare gatti sulla Luna, la raccomandazione di assumere minerali mangiando almeno una roccia al giorno e la proposta di aggiungere colla atossica nel sugo di pomodoro per evitare che la mozzarella scivoli dalla pizza.

Alcune di queste esternazioni sono tanto assurde che gli analisti sono riusciti a risalire con una certa facilità a quali fossero le probabili fonti di simili strafalcioni. Nel generare contenuti, l’IA adoperata da Google avrebbe pertanto attinto ad alcuni post ironici presenti su Reddit e da testate satiriche quali The Onion, fraintendendo le loro facezie per informazioni affidabili. Per semplificare il processo di addestramento delle macchine, molte aziende hanno infatti progettato i loro strumenti perché identifico come affidabile tutto ciò che è popolare sulla Rete. La logica adottata è che i canali che registrano traffico e click sono quelli che hanno il maggior supporto del consenso pubblico, dettaglio che garantirebbe la loro serietà. Si tratta di una goffa scorciatoia che non tiene pienamente in considerazione le dinamiche reali che alimentano internet. 

Google ha passato anni a sostenere pubblicamente che il suo approccio al progresso e alla ricerca sia orientato alla prudenza, tuttavia l’avvento di Open AI ha stravolto le aspettative del mondo della finanza, scuotendo gli equilibri del Mercato. Giusto per avere un metro di paragone, si pensi che nel solo 2023 la ricerca sull’IA si è accattivata investimenti da 154 miliardi di dollari, divenendo una miniera d’oro per chiunque operi nel settore tech. Pur avendo a loro volta in mano dei prodotti imperfetti, Open AI e Microsoft si sono lanciate con prepotenza nel ramo dei motori di ricerca nella speranza di logorare il monopolio di Google sfruttando la novità rappresentata dalle intelligenze artificiali, quindi è facile credere che una simile condizione di competitività abbia spinto Pichai a mettere da parte la cautela in favore del sempreverde Dogma del “move fast and break things”.

[Nota 02/06/2024: giovedì 30 maggio, Google ha fornito sul suo blog un riscontro sui difetti emersi, prendendo atto della situazione. La Vicepresidente Liz Reid ha approfittato del post per lamentare che alcuni degli esempi riportati sulla Rete siano stati creati artificialmente al fine di fomentare l’attenzione. Vale la pena rimarcare che, vista la natura stessa dei sistemi di machine learning, non sempre è possibile riprodurre quanto viene generato dalle IA, cosa che a sua volta rende molto difficile verificare le fonti.]

[di Walter Ferri]