lunedì 25 Novembre 2024
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Firenze: la procura indaga i manifestanti pro-Palestina, mentre non si fermano le proteste

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A partire da ieri mattina, le forze dell’ordine di Firenze hanno effettuato perquisizioni negli appartamenti di un gruppo di persone che, lo scorso 23 febbraio, avevano preso parte a una manifestazione pro Palestina nel capoluogo toscano, in cui si verificarono scontri tra polizia e dimostranti. Quel giorno, le cariche della polizia provocarono diversi feriti sia a Firenze che a Pisa, dove parallelamente si svolgeva un’altra manifestazione in favore della Palestina e contro i massacri di Israele a Gaza. Tra i perquisiti – e a detta loro indagati – vi sarebbero anche coordinatori del SUDD Cobas fiorentino, che ha dichiarato che «di fronte al massacro di Gaza, Rafah e tutti i Territori palestinesi, di fronte a governi criminali accusati dalle corti penali internazionali, siamo orgogliosi di stare dalla parte giusta della storia». Nel frattempo non si arrestano le proteste in tutta Italia: ieri la stazione di Bologna è stata occupata da centinaia di manifestanti, con la conseguente sospensione della circolazione dei treni, mentre all’università La Sapienza di Roma gli studenti hanno improvvisato un corteo guidato dallo striscione «Rafah brucia – Israele terrorista – Sapienza complice».

A riportare la «grave azione intimidatoria» delle forze dell’ordine fiorentine è lo stesso SUDD Cobas del capoluogo toscano. Stando a quando comunica il sindacato, le operazioni di perquisizione sarebbero iniziate alle 06.00 del mattino, e avrebbero avuto luogo «nelle case della nostra coordinatrice e coordinatore sindacali e di alcuni membri della comunità di lotta». Non è ancora ben chiaro che cosa le forze dell’ordine cercassero a casa dei sindacalisti di SUDD Cobas. Nello specifico, le persone oggetto di perquisizione avevano partecipato, al fianco degli studenti, alla manifestazione del 23 febbraio sotto il consolato statunitense per «denunciare la complicità morale e materiale del governo Biden nel genocidio in corso in Palestina». Durante quella stessa manifestazione, così come in quella svoltasi in parallelo a Pisa, la polizia aveva caricato i manifestanti, sfoderando gli sfollagente, ed è stata inoltre redatta una prima informativa che scaricava la responsabilità di quanto accaduto sugli studenti.

Nel frattempo continuano le proteste a favore della Palestina, per chiedere che il Paese faccia qualcosa per fermare il genocidio in corso a Gaza. Ieri pomeriggio a Bologna centinaia di persone coordinate dai Giovani Palestinesi hanno bloccato la stazione dei treni, causando ritardi fino a oltre 90 minuti, e anche causando qualche cancellazione. La stessa associazione ha inoltre ricordato la manifestazione regionale che si terrà il 2 giugno a Modena in occasione della Festa della Repubblica, parallelamente al presidio nazionale che avrà sede a Roma nello stesso giorno. Nella stessa capitale continuano le proteste, tanto che gli studenti della Sapienza si sono mossi in corteo chiedendo il boicottaggio accademico e istituzionale, e rilanciando una ulteriore mobilitazione nazionale che inizierà il 1 giugno.

In Italia e in generale in tutto il mondo, le proteste a favore del popolo palestinese sono sempre più forti e non sembrano arrestarsi; a trainare, anche se non sono da soli, sono nella maggior parte dei casi gli studenti. Nel nostro Paese risultano ancora in doppia cifra le sedi universitarie occupate dagli universitari, e in generale la ribattezzata “intifada studentesca” ha assunto i connotati di un movimento globale.

[di Dario Lucisano]

La perdita di biodiversità sarebbe la principale causa delle epidemie di malattie infettive

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Secondo un nuovo studio pubblicato su Nature, la perdita di biodiversità è la principale causa ambientale delle epidemie di malattie infettive, le quali divengono più pericolose e diffuse. In quella che in gergo tecnico è definita ‘meta-analisi’, i ricercatori hanno scoperto che tra tutti i ‘fattori di cambiamento globale’, la perdita di specie è risultata come il più importante nell’aumentare il rischio di epidemie. Seguono i cambiamenti climatici, l’inquinamento chimico e l’introduzione di specie non autoctone. L’urbanizzazione è risultata invece associata a una diminuzione del rischio, questo perché le aree urbane tendono ad ospitare meno animali selvatici e ad avere migliori infrastrutture igienico-sanitarie rispetto agli ambienti rurali. Gli esperti hanno analizzato 2.938 osservazioni sulle risposte delle malattie infettive ai fattori di cambiamento globale in 1.497 combinazioni ospite-parassita, coprendo tutti i continenti tranne l’Antartide.

L’interesse per le zoonosi, le malattie causate da agenti trasmessi per via diretta o indiretta dagli altri animali all’uomo, è aumentato dopo la pandemia di Covid19. Al di là dell’effettiva provenienza del Sars-Cov2, sono molte le patologie che attualmente allarmano le autorità sanitarie mondiali, come l’influenza suina e l’influenza aviaria, che hanno avuto indubbiamente origine nella fauna selvatica. Nel complesso, tre quarti delle malattie emergenti nell’uomo sono zoonotiche. Studi precedenti hanno già evidenziato il legame tra queste patologie e i cambiamenti ambientali, ma non era stato ancora chiarito quali fossero i fattori con il maggiore impatto. I ricercatori hanno inoltre notato che molti dei fattori sono interconnessi. Ad esempio – hanno scritto gli scienziati – “i cambiamenti climatici e l’inquinamento causano la perdita e la frammentazione degli habitat, che a loro volta possono indurre una maggiore perdita di biodiversità”.

L’insorgenza di nuovi agenti eziologici, tuttavia, non è un accadimento del tutto al di fuori del nostro controllo, piuttosto un evento che ha quasi sempre una sua genesi potenzialmente evitabile. Il requisito è però quello di essere pronti a modificare l’impatto dell’uomo e della produzione sull’ambiente. Dal virus della Mers che prima di arrivare a noi è passato per i dromedari, all’HIV arrivato all’uomo direttamente dai cugini scimpanzé: non è un caso che tutte le patologie infettive potenzialmente epidemiche si siano sviluppate in contesti in cui lo spillover – il cosiddetto ‘salto di specie’ – sia stato agevolato. Stesso discorso per i focolai di Ebola e i due coronavirus che hanno provocato l’epidemia di SARS. Un rapporto pubblicato dal WWF, ad esempio, evidenziava già nel 2020 che tra la perdita di biodiversità e il verificarsi di epidemie c’è uno stretto legame e che, in particolare, «il passaggio di patogeni dagli animali selvatici all’uomo è facilitato dalla progressiva distruzione e alterazione degli ecosistemi». Le specie selvatiche quindi, costantemente minacciate, vengono sacrificate in aree sempre più ristrette dove il contatto con le attività umane è via via maggiore. «In assenza di zone tampone naturali – spiegava il documento – l’uomo è criticamente esposto a malattie che diversamente tenderebbero a diffondersi esclusivamente tra le specie animali».

Insomma, non è una novità che il rischio di nuove epidemie sia esacerbato dalla devastazione dell’ambiente naturale. Uno studio pubblicato su Nature Food poco dopo la pandemia di Covid, ad esempio, è perfino riuscito a generare una mappa delle aree della Cina più vulnerabili in tal senso. I ricercatori, allo scopo, hanno analizzato circa 30 milioni di chilometri quadrati di copertura forestale, agricola e artificiale, assieme alla densità del bestiame e della popolazione umana, la distribuzione delle specie di pipistrello e i cambiamenti nell’uso del suolo nelle regioni da quest’ultime popolate. I risultati hanno evidenziato che le interazioni uomo-bestiame-fauna selvatica in Cina possono originare hotspot potenzialmente in grado di incrementare la trasmissività dei coronavirus dagli animali all’uomo. Quindi, non solo la distruzione degli ecosistemi, anche gli allevamenti vanno considerati come dei ‘sorvegliati speciali’. Infatti, è soprattutto quando gli animali sono tenuti in condizioni intensive che diventano focolaio di malattie zoonotiche, come già accaduto nel 2003, 2009 e 2012 per l’influenza aviaria e suina. Questo al netto di altre possibilità di diffusione, come gli esperimenti di “guadagno di funzione“, verosimilmente all’origine della diffusione del Sars-Cov-2.

[di Simone Valeri]

Puglia, aperta istruttoria su vaccinazione anti-papilloma agli studenti

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Il Garante privacy ha inviato una richiesta di informazioni alla Regione Puglia in merito al progetto di legge che introduce l’obbligo, per l’iscrizione nelle scuole e nelle università, di presentare una documentazione che certifichi la vaccinazione anti-papilloma o, in alternativa, un certificato «attestante la somministrazione, l’avvio del programma di somministrazione, oppure il rifiuto alla somministrazione del vaccino»; la Regione ha ora 30 giorni di tempo per rispondere alla richiesta. Il Garante, nello specifico, sottolinea come la legge europea sancisca un generale divieto di trattamento dei dati sulla salute, i quali in generale possono essere richiesti solo nei casi di vaccinazioni obbligatorie.

Sei Paesi della NATO progettano un “muro di droni” per difendersi dalla Russia

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Sei Paesi della Nato stanno progettando di sviluppare un “muro di droni” con lo scopo di difendere i loro confini con la Russia, la quale, sostengono, starebbe mettendo in atto azioni provocatorie nei loro confronti. I governi di Lituania, Lettonia, Estonia, Polonia, Finlandia e Norvegia hanno dichiarato di aver discusso la creazione di un sistema coordinato di droni da schierare lungo i loro confini con la Russia per prevenire il contrabbando di merci, fermare l’immigrazione illegale così come per affrontare ulteriori pericoli che la Russia porrebbe nei loro confronti. Il 23 e 24 maggio scorsi, i ministri dell’Interno dei sei Paesi della NATO si sono incontrati a Riga, capitale della Lettonia, proprio per discutere di questo progetto di difesa collettiva.

«Questa è una cosa completamente nuova e l’obiettivo è quello di utilizzare droni e altre tecnologie per proteggere i nostri confini contro le provocazioni da parte di Paesi ostili e per prevenire il contrabbando», ha dichiarato il ministro dell’Interno lituano, Agnė Bilotaitė. Il politico ha detto che tutti e sei i Paesi, negli ultimi mesi, hanno affrontato i cosiddetti attacchi ibridi da parte della Russia, anche nella forma di immigrazione di richiedenti asilo privi di documenti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente che sono stati inviati oltre i loro confini, a parere del ministro, appositamente per creare disagio sociale e politico. Non sono stati forniti dettagli sulle tempistiche e su come funzionerebbe il “muro di droni”. Bilotaitė ha detto però che ogni Paese deve fare i suoi “compiti a casa”, suggerendo anche che vengano utilizzati fondi dell’Unione Europea. La Russia è anche accusata di voler modificare unilateralmente i suoi confini marittimi con Lituania e Finlandia, dopo che la scorsa settimana sul sito del ministero della Difesa russo sarebbe apparsa una bozza contenente progetti in tal senso, poi cancellata. La Lituania ha accusato le guardie di frontiera russe di aver rimosso 25 boe dalle acque che segnavano il confine con il loro Paese, scatenando indignazione e messaggi di sostegno a Tallinn da parte dei membri della NATO.

Mari Rantanen, ministro dell’Interno finlandese, ha dichiarato che il piano del muro di droni «migliorerà nel tempo» ed aiuterà a difendere il confine del Paese con la Russia, lungo circa 1.340 chilometri. «Il nostro obiettivo è garantire che la Finlandia disponga di mezzi efficaci per affrontare le situazioni in cui la migrazione strumentalizzata viene utilizzata per fare pressione sulla Finlandia», ha detto Rantanen in una dichiarazione rilasciata durante l’evento svoltosi a Riga. «Il fenomeno della migrazione strumentalizzata alle frontiere esterne dell’UE è una sfida comune per i nostri Paesi. La Finlandia mira anche a trovare soluzioni a livello dell’UE per combattere questo fenomeno», ha aggiunto il Ministro finlandese.

Molti Paesi della NATO ritengono che la Russia potrebbe testare i confini dell’Alleanza entro i prossimi 5 anni, mentre i servizi di intelligence dei Paesi confinanti dichiarano di aver scoperto una serie di operazioni di sabotaggio sul proprio territorio. I sei Paesi della NATO hanno anche discusso i piani per l’evacuazione di gran parte della loro popolazione in caso di conflitto con la Russia, affermando che i piani di difesa prevederebbero l’evacuazione di tutti i civili che vivono nelle regioni di confine. Vogliamo qui ricordare che è ancora in corso, e si concluderà il 31 maggio, la più grande esercitazione NATO dai tempi della guerra fredda, durata 4 mesi, che ha visto schierare quasi 100.000 soldati e migliaia di mezzi terrestri, marini e aerei, per la maggior parte proprio in quei Paesi che si trovano al confine con la Russia.

[di Michele Manfrin]

Haiti, il Consiglio Presidenziale nomina il nuovo Premier

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Il Consiglio Presidenziale provvisorio di Haiti ha nominato Garry Conille nuovo Primo Ministro ad interim del Paese. L’organo è entrato in funzione a fine aprile per far fronte alla crisi politica, di sicurezza e umanitaria che investe Haiti da settimane. Conille ha 58 anni, una storia politica alle spalle, e attualmente è direttore regionale dell’UNICEF per l’America Latina e i Caraibi. Il Paese caraibico è in una situazione di emergenza da tempo, a causa delle rivolte scoppiate mesi fa, che avevano come oggetto l’ex Presidente Ariel Henry che aveva mancato di istituire un consiglio di transizione con lo scopo di supervisionare l’insediamento di un nuovo governo.

La nuova legge sugli autovelox entra in Gazzetta Ufficiale: cosa cambia

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Dovranno essere autorizzati dai prefetti, dovranno essere segnalati in anticipo nel rispetto delle distanze minime e non saranno più installati nei centri urbani con limiti di velocità inferiori ai 50 km/h: è ciò che prevede la nuova legge sugli autovelox entrata oggi in Gazzetta Ufficiale. Il nuovo decreto, fortemente voluto dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, darà 12 mesi ai sindaci per adeguarsi e – commenta Salvini – mira a rimediare alla «anarchia di autovelox», i quali «saranno impiegati dove effettivamente serve». Mentre da una parte il provvedimento ha suscitato il sollievo di automobilisti e pendolari che percorreranno le strade con meno restrizioni, dall’altra vi sono associazioni dei familiari delle vittime della strada che già da mesi definivano il nuovo Codice della Strada una «brutta notizia».

Tra le novità sostanziali, vi è il fatto che i Comuni dovranno chiedere al prefetto il nulla osta per l’installazione di autovelox assicurando che il dispositivo servirà a limitare gli incidenti dovuti alla velocità. Tale obbligo si estende anche ai dispositivi mobili montati su treppiedi, che anch’essi dovranno essere coordinati con la prefettura. Serve, dice il testo, «un’accurata analisi del numero, della tipologia e, soprattutto, delle cause», con «particolare riferimento alla velocità come causa principale». Per quanto riguarda le distanze della segnaletica, gli autovelox dovranno essere anticipati ai guidatori 1.000 metri prima sulle strade extraurbane, 200 metri prima sulle urbane a scorrimento e 75 metri prima sulle altre strade. Vista la volontà di evitare le cosiddette “multe in serie”, il ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha spiegato che «tra un dispositivo e l’altro dovranno intercorrere distanze minime differenziate in base al tipo di strada»: la distanza minima è di 3 km sulle strade extraurbane e 1 km sulle strade secondarie. La novità più importante poi riguarda le città: stop agli autovelox sotto ai 50 km/h. Fuori dall’abitato, invece, potranno essere installati dove il limite è inferiore di oltre 20 Km a quello previsto dal Codice della Strada. Infine, gli occhi elettronici dovranno inoltre essere sempre ben visibili, distanziati e, nel caso di dispositivi mobili, la contestazione dovrà essere immediata.

Il vicepremier Matteo Salvini ha commentato che «la velocità rilevata dagli autovelox sarà parametrata a quella prevista dal codice della strada in base alla tipologia di viabilità. Basta con gli autovelox trappola, sì all’installazione di dispositivi nei pressi dei luoghi affollati come scuole e ospedali». Ai sindaci restano ora 12 mesi per adeguare le città ai nuovi provvedimenti, allo scadere dei quali gli occhi elettronici dovranno essere disinstallati fino al loro adeguamento. Le multe fatte in questo anno saranno comunque valide però, anche se, come sostiene il comandante dei Vigili di Verona Luigi Altamura, «se un Comune sa che quell’autovelox non risponde più alle caratteristiche del decreto sarebbe auspicabile interrompere subito le sanzioni per non porgere il fianco a migliaia di ricorsi».

Se, da una parte, il provvedimento ha suscitato la reazione positiva di automobilisti e pendolari che percorreranno le strade con meno restrizioni, dall’altra ci sono le voci dei familiari delle vittime della strada che da mesi hanno promosso iniziative in oltre 40 piazze italiane, i quali avevano già descritto come “brutta notizia” il nuovo Codice della Strada in quanto «limita gli autovelox, ostacola i provvedimenti comunali di riduzione della velocità e addirittura delega il governo ad aumentare i limiti». A tali contestazioni si è unita pure Legambiente, associazione ambientalista attiva dal 1980, denunciando che solo pochissime delle osservazioni fatte dalle associazioni familiari vittime e dalle associazioni impegnate nella tutela della sicurezza stradale e promozione della mobilità attiva siano state accolte nelle audizioni e che il provvedimento diminuirebbe la sicurezza, boicotterebbe la mobilità sostenibile, indebolirebbe i Comuni, le ZTL e le zone pedonali e renderebbe più difficili i controlli per velocità e sosta abusiva.

[di Roberto Demaio]

Georgia, Parlamento annulla veto alla legge sull’influenza straniera

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Il parlamento georgiano ha annullato il veto presidenziale alle legge sugli “agenti stranieri”, la quale richiederà alle organizzazioni che ricevono più del 20% dei loro finanziamenti dall’estero di registrarsi come “agenti di influenza straniera”. Il veto è stato respinto con una maggioranza di 84 voti contro 4, in una sessione parlamentare durante la quale un deputato ha gettato acqua su un leader di un partito di opposizione, Giorgi Vashadze, mentre parlava dal palco. Le forze di sicurezza – riportano i media – si stanno radunando davanti al Parlamento georgiano in previsione delle reazioni dei manifestanti.

Spagna, Irlanda e Norvegia hanno riconosciuto ufficialmente lo Stato di Palestina

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È ufficiale: altri tre Paesi si aggiungono alla lista degli oltre 140 Stati che riconoscono formalmente la Palestina in quanto effettiva entità territoriale. Dopo gli annunci semi-ufficiali di mercoledì 22 maggio, Irlanda, Spagna e Norvegia hanno tenuto fede alla parola data, ratificando in via ufficiale il proprio riconoscimento allo Stato di Palestina. Durissime le critiche da parte delle autorità israeliane, primo fra tutti il Ministro degli Esteri israeliano Israel Katz, che ha affermato che nello specifico la Spagna sarebbe complice nel «genocidio» del popolo ebraico, ed è arrivato a impedire a Madrid di fornire aiuti umanitari alla popolazione palestinese. Arrivano così le prime ratifiche dall’ultima seduta dell’Assemblea generale ONU, durante la quale gli Stati membri hanno votato a favore della piena adesione della Palestina, invitando tanto il Consiglio di Sicurezza dello stesso organo, quanto i singoli Stati a esprimersi con forza sulla questione.

La ratifica della Spagna è arrivata dopo la seduta del Consiglio dei Ministri avvenuta oggi, ed è stata confermata in veste ufficiale alle 12:35. Nella sua conferenza stampa, il Premier spagnolo Pedro Sánchez ha spiegato le linee guida seguite dal Governo spagnolo nel riconoscimento dello Stato Palestinese: la Spagna a partire da oggi, riconosce il territorio della Palestina secondo i confini precedenti al 1967, con la Cisgiordania e Gaza connesse da un corridoio, e Gerusalemme Est come capitale, in conformità con le risoluzioni ONU n.242 e n.338. Sánchez ha inoltre affermato che a partire da domani, la Spagna si impegnerà in sedi diplomatiche e istituzionali per promuovere la soluzione dei due Stati, da ottenere seguendo un percorso a tre step: in primo luogo, ponendo fine alla crisi in atto in questo momento a Gaza, con l’apertura dei corridoi umanitari per la popolazione civile, e la restituzione degli ostaggi israeliani; successivamente, mediante il supporto alla Autorità Nazionale Palestinese in quanto entità politica riconosciuta, e infine attraverso la cooperazione con i Paesi arabi. In Spagna, tuttavia, il dibattito si colloca su un piano ben più alto del solo riconoscimento della Palestina: la stessa vicepremier Yolanda Díaz, infatti, ha a più riprese sottolineato come quello di oggi non possa che configurarsi come il «primo passo» di un percorso molto più ampio, che deve passare anche dalla imposizione di un cessate il fuoco, l’embargo nella vendita delle armi a Israele, l’interruzione dei rapporti diplomatici col richiamo dell’ambasciatore, e il supporto al Sudafrica nel caso intentato davanti al tribunale dell’Aia per quello che ella stessa definisce come un «autentico genocidio».

Anche la Norvegia riconosce il territorio palestinese così come delineato nei confini precedenti alla guerra dei sei giorni. La decisione è stata adottata il 24 maggio con decreto reale e il 26 maggio il Ministro degli Esteri Espen Barth Eide ha presentato un documento formale al Primo Ministro palestinese in occasione di un incontro a Bruxelles; essa tuttavia è entrata in vigore oggi. Il riconoscimento formale da parte dell’Irlanda è invece stato annunciato alle 14.00, ed è stato accompagnato da un annuncio di una prossima apertura di un’ambasciata a Ramallah. Qui, la discussione pubblica pare vertere più sui possibili rischi diplomatici che tale decisione può comportare, prima fra tutti la possibilità di incorrere in disinvestimenti economici dei partner israeliani. L’Irish Independent dice addirittura che il Governo di Dublino sarebbe stato soddisfatto dalla «assenza di minacce o moniti di natura economica da parte degli Stati Uniti», elemento che suggerisce il clima di timore nei confronti di possibili ripercussioni finanziarie che aleggia nell’isola.

Nonostante le ratifiche di oggi, la posizione dei vari Paesi europei in materia di riconoscimento della Palestina è ancora disunita. A oggi, contando le nuove aggiunte, solo nove Stati europei riconoscono la Palestina, mentre Malta le riconosce il diritto ad avere uno Stato senza attribuirle una entità territoriale specifica, nonostante si sia mossa per farlo. Con Malta, anche la Slovenia ha annunciato che avrebbe intenzione di procedere con una ratifica ufficiale dello Stato di Palestina, e aggiornamenti a riguardo dovrebbero arrivare questo giovedì. Dall’altra parte della barricata la Danimarca, cui Governo ha oggi stesso bloccato una mozione per il riconoscimento della Palestina, così come l’Ungheria, dove Orbán si è espresso contro la richiesta di emissione di mandati di arresto da parte del Procuratore della Corte Penale Internazionale. In mezzo alle due posizioni, con una scarsa volontà di esporsi, si trova per esempio l’Italia, che ha sempre provato a tenere entrambi i piedi in una scarpa, condannando timidamente le azioni di Israele, e allo stesso tempo astenendosi ogniqualvolta ci fosse l’occasione per esprimersi in maniera più decisa.

[di Dario Lucisano]

Formaldeide e composti tossici: i deodoranti dei marchi più noti sono un disastro

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Formaldeide, fragranze problematiche, composti PEG, dietilftalato e polimeri sintetici: sono queste le criticità riscontrate in alcuni prodotti di marchi noti tra cui Vichy, Dove, Nivea e Avéne. Lo riporta una nuova analisi di laboratorio commissionata da ÖKOTEST, rivista tedesca per i consumatori che classifica i prodotti in base a numerosi criteri. Il test ha coinvolto 39 deodoranti roll-on con la dicitura “senza alluminio” e ha scoperto che, contro ogni aspettativa, ad essere classificati come “insufficienti” sono stati proprio i prodotti dei marchi più noti. Inoltre, alla richiesta di presentare studi che certificassero la durata di efficacia promessa, dieci produttori non hanno mandato documentazione o quella presentata è stata giudicata insufficiente e infine – riporta ÖKOTEST – è stata trovata la presenza di alluminio in un prodotto con dicitura “senza sali di alluminio”.

Secondo l’analisi, la maggior parte dei prodotti ha ottenuto il massimo dei voti ma molti non risultano confezionati in imballaggi costituiti da materiale riciclato e ben 5, appartenenti ai marchi più noti, non hanno superato il test. Tali prodotti sono, in ordine dal peggiore: il deodorante minerale 48H di Vichy, il roll-on “flower fresh” 48h di Rexona, il Dove Original 48h, il Nivea Original Care 0% e il deodorante body 24 h di Avène. Il test ha verificato e rilevato la presenza di sostanze come la formaldeide, ovvero il più semplice delle aldeidi considerata un allergene da contatto e inserita dall’Associazione Internazionale per la Ricerca sul Cancro (AIRC) nell’elenco delle sostanze considerate con certezza cancerogene per la specie umana. Anche nell’Unione Europea poi, dal 1° gennaio 2016, è stata classificata a sostanza che può provocare cancro. Attualmente, l’uso di formaldeide pura come conservante nei cosmetici è stato vietato anche se è ancora consentito l’uso di sostanze che possono rilasciarla.

Inoltre, l’analisi ha rilevato la presenza di altri ingredienti indesiderati. Tra questi, vi sono i PoliEtilenGlicoli (PEG) – composti derivati dalla polimerizzazione dell’ossido di etilene (che è classificato come cancerogeno dall’AIRC) utilizzati anche come emulsionanti e tensioattivi nei prodotti per pulire i forni e negli schiumogeni – riscontrati in alcuni deodoranti Dove, Rexona e Nivea, il dietilftalato (DEP) – estere che si presenta come liquido incolore attualmente sotto analisi per il sospetto che possa influenzare l’equilibrio ormonale umano – e alcuni polimeri sintetici che possono finire nell’ambiente e sono difficilmente biodegradabili, riscontrati nel deodorante del marchio Avène. È stata rilevata poi la presenza di Isoeugenolo – considerato uno degli allergeni più potenti tra le fragranze – trovato nel Dove Original, l’allergene Idrossicitronellale e il Cashmeran, fragranza sintetica caratterizzata da un odore diffusivo, speziato e muschiato e difficilmente biodegradabile. Un altro problema – riporta ÖKOTEST – è stato trovare la dicitura generale “ipoallergenico”, in quanto ciò risulterebbe «fuorviante per i consumatori perché nel prodotto possono comunque essere contenute sostanze allergeniche». Inoltre, è stata scoperta la presenza di alluminio all’interno di un deodorante etichettato “senza sali di alluminio” e, contattato dalla rivista, il produttore ha risposto che tale sostanza potrebbe provenire dall’argilla minerale utilizzata perché contiene naturalmente silicato di alluminio. Infine, è stato chiesto di fornire studi che dimostrassero l’efficacia promessa dalle pubblicità e ben 10 produttori non hanno fornito alcuna documentazione o l’hanno fornita “inadeguata”.

Il problema degli effetti dell’alluminio presente negli antitraspiranti è una questione che divide ancora a metà la comunità scientifica: se da una parte esistono scienziati come la microbiologa inglese Philippa Darbre che hanno ipotizzato che alcuni sali possono ostruire i canali sudoripari e bloccare alcuni condotti di sudore adiacenti al seno e studi italiani che mostrano un livello di alluminio più elevato nei fluidi prelevati da pazienti con carcinoma mammario rispetto ai soggetti sani, dall’altra esistono ricercatori che non condividono tali ipotesi e tra questi vi è la stessa AIRC, che ha affermato che dagli studi epidemiologici “non emergono dati consistenti” che confermino la correlazione tra sali di alluminio e tumore al seno. Tuttavia, i sali di alluminio risultano presenti in tantissimi prodotti antiaspiranti (elencati in maniera completa qui) tra cui anche in quelli più noti come Borotalco, Breeze, Dove e Nivea.

[di Roberto Demaio]

Estrazione in acque profonde: il WWF fa causa alla Norvegia

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Il WWF ha deciso di portare in tribunale la Norvegia dopo il via libera concesso dal Paese scandinavo per l’avvio di operazioni di estrazione mineraria in acque profonde. Nello specifico secondo l’accusa, Oslo non avrebbe condotto una valutazione d’impatto ambientale sufficiente. Lo sfruttamento dei minerali sui fondali marini, spiega l’associazione ambientalista, avverrebbe in aree dell’Artico “vulnerabili e uniche” con conseguenze che la Norvegia non può prevedere. Il governo scandinavo è stato uno dei primi a dare il via libera al cosiddetto deep sea mining, una pratica controversa che potrebbe aprire ad una nuova e impattante categoria di sfruttamento antropico dell’ambiente.