sabato 19 Luglio 2025
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Birmania, giunta militare estende lo stato di emergenza per sei mesi

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L’esercito al potere in Birmania ha esteso lo stato di emergenza per altri sei mesi, hanno riferito oggi i media statali, un giorno prima del quarto anniversario del colpo di stato che ha gettato il Paese nel caos. Negli ultimi due mesi, i militari hanno infatti delineato il piano di avvicinamento alle elezioni del 2025, bollato dalle opposizioni come una «farsa».
Il golpe ha innescato in Birmania una guerra civile che, secondo le Nazioni Unite, ha causato lo sfollamento di circa tre milioni di persone, con un terzo della popolazione bisognosa di assistenza umanitaria.

La vigilanza Rai sta bloccando l’iniziativa per dare spazio alle voci di pace

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Garantire la presenza di almeno una voce pacifista nei dibattiti televisivi sulla guerra: è questo l’obiettivo della campagna #NoPeaceNoPanel, nata dall’appello “Diamo voce alla pace” e sostenuta da giornalisti, intellettuali, sindacati e associazioni pacifiste. Una proposta che si è però scontrata con l’immobilismo della Commissione di Vigilanza Rai, dove è ferma da mesi. Per questo motivo, nelle ultime ore è partita una mobilitazione sui social network per chiedere di sbloccarne l’approvazione. Come denunciano i promotori della campagna, la narrazione dominante nei media italiani è infatti affidata quasi esclusivamente ad analisti geopolitici, esperti militari ed ex ufficiali, mentre le associazioni pacifiste e i movimenti nonviolenti vengono regolarmente ignorati.

«In un momento segnato da conflitti come quello in Ucraina e nel Medio Oriente, il ruolo dei media diventa cruciale per costruire una cultura di pace – si legge nel comunicato diramato dalle associazioni promotrici dell’iniziativa –. Troppo spesso nei talk show e nei programmi di approfondimento l’analisi della guerra viene affidata unicamente a militari e analisti geopolitici, mentre esperti altrettanto competenti vengono sistematicamente esclusi perché promuovono le ragioni del dialogo e della nonviolenza». Mentre si attende un segnale da parte della Commissione, i promotori hanno avviato una mobilitazione sui social con l’hashtag #NoPeaceNoPanel, chiedendo a gran voce un confronto più ampio nei media sui conflitti in corso. L’iniziativa ha raccolto l’adesione di importanti realtà del mondo dell’informazione, tra cui l’Ordine dei Giornalisti, la Fnsi, l’Usigrai, la Cgil e Articolo21, oltre al sostegno di numerose associazioni pacifiste come la Comunità di Sant’Antonio Egidio, la Fondazione Perugia Assisi, Rete Italiana Pace e Disarmo, Archivio Disarmo e Un Ponte Per. Secondo gli esponenti del Movimento 5 Stelle in Commissione Vigilanza Rai, lo stallo non è casuale, costituendo invece «il frutto del ricatto della maggioranza, che paralizza l’approvazione di qualsiasi atto non gradito, calpestando il pluralismo e il diritto dei cittadini a un’informazione equilibrata: una vergogna che stiamo denunciando senza mezzi termini».

La mobilitazione era stata lanciata lo scorso giugno dai giornalisti della RAI, con l’obiettivo di cambiare la narrazione realizzata quotidianamente dai media mainstream sulle guerre. L’iniziativa, lungi dal voler assumere posizioni puramente ideologiche, vuole soprattutto «garantire un contraddittorio» e «tornare a fare un’informazione sana», aveva spiegato il suo ideatore Max Brod. La proposta nasce sulla scia del panel organizzato dai firmatari della campagna “Diamo voce alla pace”, lanciata proprio da Brod nel 2022. Nel corso della presentazione dell’iniziativa, avvenuta il 25 giugno al Senato della Repubblica, il coordinatore nazionale di Rete Italiana Pace e Disarmo, Francesco Vignarca, aveva sottolineato come, a fronte della costante minaccia nucleare, «sentiamo tutti parlare di armi e guerra, tranne noi: la nostra esperienza su questi temi è sparita dall’orizzonte dell’informazione».

[di Stefano Baudino]

Europa, indietro tutta sul Green Deal: di verde rimane solo la retorica

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Si voleva imporre il Green Deal all’industria, ora è l’industria che si impone al Green Deal. Così come si impone la realpolitik sulla Commissione Europea di Ursula Von der Leyen. Come già preannunciato prima delle elezioni europee, con cui Von der Leyen cercava un secondo mandato, e per effetto dell’arrivo di Trump alla presidenza statunitense, la presidente della Commissione inizia la sua retromarcia sul “grande accordo verde”. Nel nome della semplificazione, che permetterebbe maggiore competitività sul mercato, Von der Leyen sta infatti ridimensionando l’insieme di iniziative politiche proposte dalla Commissione Europea con l’obiettivo generale di raggiungere la neutralità climatica in Europa entro il 2050. L’intenzione dell’accordo era quello di rivedere ogni legge vigente in materia di clima e di introdurre nuove leggi sull’economia circolare, sulla ristrutturazione degli edifici, sulla biodiversità, sull’innovazione e sull’agricoltura, ma il testo sarà gradualmente rimaneggiato nel corso delle prossime settimane.

Proprio sull’agricoltura si ero visti i primi segnali di cedimento. La Commissione Europea guidata da von der Leyen aveva ceduto alle  pressioni effettuate sulle riforme con le vastissime e prolungate proteste degli agricoltori, di cui abbiamo parlato approfonditamente nel Monthly Report n. 32 dell’aprile dello scorso anno. Se molte delle motivazioni alla base delle proteste erano più che legittime, specie per quanto concerne le politiche neoliberiste globaliste, il potere della grande distribuzione, la competizione al ribasso e altre questioni di carattere socio-economico portate dal basso, a vincere sono stati i grandi gruppi, che dispongono di lobbisti dentro i palazzi del potere. L’elezione di Donald Trump ha certamente dato una scossa alla situazione e costretto ad un movimento di allineamento rispetto ad essa. Così, in nome della semplificazione e della competitività, il Green Deal verrà ridimensionato passo dopo passo. Il 29 gennaio il collegio dei commissari ha infatti presentato la prima parte dell’agenda per la competitività (“competitiveness compass”). Si tratta del documento programmatico a cui poi seguiranno i singoli provvedimenti utili a rimettere mano al Green Deal nel nome della “semplificazione”, vale a dire di una deregolamentazione a misura di imprese. Il 30 gennaio è stat invece la volta del dialogo strategico sul settore automobilistico.

Il 26 febbraio verrà svelato il Clean Industrial Deal e il pacchetto omnibus, con cui tutti gli interventi di semplificazione in campo industriale verranno effettuati con il giustificato rilancio della competitività europea. Una risposta a quanto chiesto dalle imprese per annacquare l’agenda di sostenibilità. «Per salvaguardare e rafforzare la competitività dell’Europa, anche nei confronti di altri attori globali, la prosperità e l’equità, dobbiamo intraprendere un’azione decisiva. Ciò inizia con il rendere le imprese più facili e veloci e con l’approfondimento del mercato unico in tutti i settori. La bussola per la competitività, in quanto prima grande iniziativa della nuova Commissione, inquadrerà il nostro lavoro futuro sulla base della relazione Draghi», è affermato nella pagina della Commissione europea A new plan for Europe’s sustainable prosperity and competitiveness, dove è contenuto il Clean Industrial Deal. Tra l’altro, la relazione Draghi delinea il futuro economico-politico dell’UE incentrato sul settore della Difesa.

Nel documento del 7 gennaio, che istituisce il “gruppo di progetto dei commissari sul Clean Industrial Deal”, al punto due è scritto: «[..] presentare il Clean Industrial Deal nei primi 100 giorni del mandato per stabilire come accelerare la decarbonizzazione dell’industria dell’UE rafforzandone al contempo la competitività». In altre parole, del Green Deal ne rimarrà solo la retorica. Tra tutte le cose che saranno presentate vi saranno senz’altro delle semplificazioni in ambito di rendicontazione finanziaria sostenibile e sulla cosiddetta “due diligence”. Quest’ultima, traducibile in italiano come “dovuta diligenza”, indica l’attività di indagine in merito alla situazione di un’impresa. Gli acquirenti effettuano questo processo prima, durante o dopo l’acquisizione di immobili e aziende così come di acquisti di titoli e azioni in borsa. Con questa verifica viene accertato il valore dell’impresa, valutando i rischi e analizzando i punti di forza e di debolezza. Una semplificazione in questo campo vuol dire meno controlli sulla stipula dei contratti o di avvio di attività economiche.

Per stimolare il mercato e dare nuovo slancio ai profitti dei grandi gruppi privati che lavorano nelle grandi partnership pubblico-privato, Ursula Von der Leyen vorrebbe sostenere tale piano a misura d’impresa con l’istituzione di uno speciale fondo per la competitività nel prossimo bilancio pluriennale (Mff 2028-2034), la cui approvazione e, soprattutto, la cui dotazione finanziario sono rimessi ai negoziati inter-istituzionali che verranno.

[di Michele Manfrin]

Cisgiordania occupata, Israele bombarda campo profughi di Jenin: 3 feriti

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La Mezzaluna Rossa Palestinese ha riferito che l’esercito israeliano ha bombardato il campo profughi di Jenin. Il bilancio è di tre donne ferite. L’esercito israeliano conduce da settimane un’operazione militare nel governatorato di Jenin, nella Cisgiordania occupata, che di recente è stata estesa al governatorato di Tulkarem, segnato da gravi danni alle infrastrutture civili e agli edifici residenziali a causa degli attacchi. Nelle ultime ore, durante l’assedio di alcune abitazioni in un quartiere meridionale di Tulkarem, si sono registrati scontri tra combattenti palestinesi e forze israeliane.

 

Il Cile vieta la sperimentazione dei prodotti cosmetici sugli animali

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Il Cile si è aggiunto alla lista di Stati che vietano la sperimentazione dei prodotti cosmetici sugli animali, diventando così il quarantacinquesimo Paese al mondo e il quarto dell’America Latina ad abolire la pratica. La legge, sostenuta dalla ONG cilena Te Protejo e da Humane Society International (HSI), è stata approvata dal Senato nel dicembre del 2023 ed è entrata in vigore in questo primo mese del 2025. Essa vieta i test sugli animali sia per quanto riguarda le formule finali dei prodotti che per i singoli ingredienti utilizzati, e vieta l'importazione e la vendita di prodotti testati da...

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Incidente aereo a Washington, Trump: “Nessun superstite”

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Nessuna persona è sopravvissuta alla collisione in volo tra un aereo di linea a un elicottero militare avvenuto nella serata di ieri a Washington (alle 3 ora italiana). Lo ha confermato Donald Trump. A bordo dell’aereo che si è schiantato nel fiume Potomac c’erano sessanta passeggeri e quattro membri dell’equipaggio, mentre nell’elicottero viaggiavano 3 soldati. Il capo della Casa Bianca ha attaccato gli ex presidenti democratici Obama e Biden, che a suo dire avrebbero abbassato la qualità dei controllori di volo grazie alle politiche per la diversità. L’ex segretario ai trasporti sotto l’amministrazione Biden, Pete Buttigieg, ha definito «spregevoli» le parole di Trump.

 

Napoli, la polizia sgombera i lavoratori GLS in protesta contro lo sfruttamento

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A Napoli e provincia va avanti da mesi la lotta di 58 lavoratori GLS, licenziati per aver chiesto il rispetto dei propri diritti. Uno scenario distopico, che si aggiorna di settimana in settimana a suon di repressione. L’ultimo episodio, in ordine cronologico, è avvenuto mercoledì scorso, quando il picchetto al magazzino di Gianturco, quartiere industriale di Napoli, è stato sgomberato dalla polizia. Contestualmente un coordinatore provinciale del SI Cobas è stato condotto in Questura e denunciato per resistenza e violenza privata. Lo stato di agitazione va avanti, con i lavoratori sostenuti da diversi movimenti e associazioni locali, parti della rete Liberi/e di lottare – Fermiamo il DDL 1660.

Martedì sera, con l’inizio dello sciopero nazionale della filiera dei trasportatori indetto dai Cobas, riguardante i dipendenti di SDA, Bartolini e GLS, è partita anche una mobilitazione provinciale a sostegno dei 58 lavoratori licenziati. Questi ultimi, insieme a decine di solidali, hanno bloccato i principali magazzini di TEMI, a Gianturco e Frattamaggiore. La mattina seguente il picchetto nel quartiere industriale di Napoli è stato caricato e sgomberato dalla polizia. Un evento commentato, insieme al fermo del coordinatore provinciale Peppe D’Alesio, dal SI Cobas a L’Indipendente: «Il fronte delle lotte operaie della logistica è da anni, al di là dei colori dei governi nazionali, dai decreti-sicurezza di Salvini, il primo fronte dell’attacco repressivo dello Stato alla classe lavoratrice e ai movimenti sociali con una potenzialità anticapitalistica – come del resto ha riconosciuto lo stesso ministro della polizia Piantedosi. Non a caso, è stato l’unico comparto della classe proletaria a reagire anche contro la legge liberticida, da Stato di polizia, che il governo Meloni vuole varare con il DDL ex-1660».

Alla chiamata di solidarietà lanciata dai Cobas hanno risposto da tutta Italia, da Genova a Roma, passando per Piacenza, Milano, Brescia: all’alba di mercoledì i lavoratori di Bartolini hanno bloccato il magazzino di Orbassano (Torino). A San Pietro Mosezzo, in provincia di Novara, i corrieri GLS hanno incrociato le braccia per tutta la mattinata. La mobilitazione nazionale ha dunque colpito la Federazione Italiana Trasportatori (FEDIT) dove fa più male, dritto al profitto.

La TEMI, di proprietà del gruppo Tavassi, lavora in franchising con GLS, gestendone per Napoli e provincia il servizio di trasporto e spedizione delle merci. Lo schema è quello tipico dell’imprenditoria italiana, cioè ad appalto. Proprio le aziende in appalto del gruppo Tavassi, due mesi fa, hanno licenziato 58 lavoratori. «La loro unica “colpa” – sottolinea l’ala napoletana del SI Cobas – è quella di aver denunciato pubblicamente le condizioni di sfruttamento, sotto-salario e illegalità di ogni tipo in cui erano costretti a lavorare quotidianamente». Gli ex dipendenti hanno denunciato turni spezzati massacranti, dalle 5 del mattino fino a mezzogiorno e dalle 16 alle 22, con una pausa di quattro ore, che per molti vuol dire pranzare senza rincasare a causa delle distanze. 13 ore di lavoro, per un impegno che di fatto copre i tre quarti della giornata, sei giorni su sette. Si configura un sistema da oltre 300 ore lavorative mensili, a fronte di uno stipendio di 1300 euro netti (per una paga oraria di circa 4 euro), che non rispetta il diritto basilare a un riposo giornaliero di 11 ore continuative. Parte dei licenziati lavorava inoltre stabilmente con un contratto interinale – un tipo di rapporto di lavoro attraverso cui le aziende ricevono una prestazione senza offrire un’assunzione vera e propria.

La pressione su Tavassi e sulla filiera FEDIT, arricchitasi del fronte nei magazzini di SDA e Bartolini, ha come obiettivo immediato la difesa della libertà di scioperare e il reintegro dei lavoratori licenziati, guadagnando allo stesso tempo terreno, forza e consenso per il rinnovo dei contratti di secondo livello. Questi ultimi «hanno permesso a migliaia di lavoratori in tutta Italia di ottenere il riconoscimento dei ticket, dei passaggi automatici livello in base all’anzianità, dei premi di risultato, del pagamento di indennità di disagio per i turni spezzati e così via. Gli accordo-quadro di secondo livello sono ormai scaduti e non è stata manifestata alcuna volontà da parte padronale di procedere a un loro rinnovo ed adeguamento», ha commentato l’organizzazione sindacale a L’Indipendente. Con l’approvazione del disegno di legge repressione alle porte, Napoli, territorio oppresso dal lavoro nero e dallo sfruttamento, batte un colpo per rivendicare la crucialità dello sciopero e del dissenso nella tutela dei diritti.

[di Salvatore Toscano]

Trump intende rimuovere gli USA da ogni aiuto di cooperazione e alla “eguaglianza marxista”

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A una settimana dall’insediamento di Donald Trump, stanno già arrivando i primi tagli alla spesa pubblica. L’Ufficio di Gestione e Bilancio della Casa Bianca (OMB) ha emesso una nota in cui ordina la sospensione temporanea di «tutta l’assistenza finanziaria federale», paralizzando potenzialmente una vasta gamma di programmi federali. A venire coinvolti sembrano essere progetti e attività che potrebbero essere implicati da uno qualsiasi degli ordini esecutivi del presidente, che vanno dai programmi di diversità e inclusione a quelli di assistenza per i migranti. L’iniziativa prevede tagli per un valore totale di circa 3 mila miliardi di dollari, ma è stata temporaneamente congelata da un giudice federale; a causa dell’eccessiva confusione generatasi dopo la sua pubblicazione, il governo ha revocato il memorandum, ma la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha specificato che l’ordine rimane in vigore. Nel frattempo, la Casa Bianca ha annunciato un’analoga sospensione dei finanziamenti per la cooperazione internazionale USAID; questo provvedimento dovrebbe garantire il risparmio di oltre 70 miliardi di dollari, con un possibile fermo generalizzato di tutti i programmi di assistenza estera in fase di approvazione, a esclusione di quelli in Israele e in Egitto.

I tagli alla spesa assistenziale interna prevedono uno stop ai finanziamenti per quello che la Casa Bianca definisce «avanzamento di eguaglianza marxista». L’ordine esecutivo, di preciso, istituisce una pausa temporanea nei programmi legati agli altri ordini del presidente, con lo scopo di dare alle agenzie il tempo di stabilire se l’assistenza finanziaria è conforme alle politiche stabilite da Trump e alla legge degli USA. I programmi coinvolti, sosteneva il memorandum poi abrogato, costituiscono il 30% della spesa assistenziale federale. Essendo il contenuto del documento vago e generalizzato, la Casa Bianca ha pubblicato una nota di domande e risposte (Q&A) per fugare ogni possibile dubbio. Eppure, anche il Q&A è vago, scritto per slogan e contraddittorio. Esso elenca generici obiettivi, quali quello di «proteggere il popolo americano dall’invasione», che sembrano suggerire che a venire minati saranno programmi di assistenza per i migranti, piani di diversità e inclusione, progetti di tutela delle persone transgender, e piattaforme legate alle politiche ambientali e all’energia rinnovabile. Tuttavia, in un passo si legge che «qualsiasi programma che offra vantaggi diretti ai singoli individui non è soggetto alla pausa» e non risulta chiaro se questo includa anche le persone affette dai programmi che l’ordine esecutivo intenderebbe bloccare: una cosa è infatti fermare i finanziamenti ai programmi, un’altra l’assistenza agli individui che non passa dalle piattaforme. Quando passa alla spiegazione di questo punto, il Q&A parla esplicitamente di Medicaid, assistenza alla casa, e finanziamenti alla produzione agricola, senza invece citare migranti, transgender e individui inclusi nei programmi per i quali è stata istituita la pausa.

Vista la confusione creatasi, la Casa Bianca ha deciso di revocare il memorandum, sostituendone l’intero contenuto con un più sintetico «se avete domande contattate il consigliere generale della vostra agenzia». Leavitt ha inoltre dichiarato in maniera piuttosto limpida che la scelta di ritirare il memorandum non comporta «una rescissione del congelamento dei finanziamenti federali». In sede di conferenza stampa, la stessa Leavitt ha confermato che la pausa dovrebbe riguardare i programmi destinati a persone transgender e migranti. La decisione di tagliare le spese federali è stata sin da subito oggetto di critiche da parte di attivisti umanitari e politici democratici. Poco prima della sua entrata in vigore, che era fissata per il pomeriggio del 27 gennaio, un giudice federale ha bloccato temporaneamente l’ordine. La sospensione amministrativa, motivata da una causa intentata da gruppi no-profit che ricevono fondi federali, durerà fino al pomeriggio di lunedì 3 febbraio; la mattina dello stesso giorno è infatti prevista un’udienza in tribunale per esaminare la questione.

Analogamente a quanto successo con il provvedimento sui sovvenzionamenti federali, anche l’annuncio dello stop agli aiuti tramite l’agenzia USAID ha generato caos e confusione, paralizzando diversi programmi. L’ordine esecutivo risale a lunedì 20 gennaio e stabilisce che «nessuna ulteriore assistenza estera venga erogata se non pienamente in linea con la politica estera del Presidente degli Stati Uniti». Il decreto, di preciso, istituisce una pausa di 90 giorni nell’assistenza allo sviluppo estero degli Stati Uniti per gli stessi motivi per cui sono stati fermati gli aiuti federali, ossia per lasciare spazio a una «valutazione dell’efficienza programmatica e della coerenza con la politica» – questa volta estera – «degli Stati Uniti». Esso è diretto a tutti i nuovi obblighi, ai fondi di assistenza allo sviluppo verso Paesi stranieri, alle organizzazioni non governative e alle organizzazioni internazionali. Il decreto dispone che le revisioni dei programmi vengano ordinate dal dipartimento responsabile e dai capi delle agenzie secondo le linee guida fornite dal segretario di Stato, dando un ampio margine di manovra a Rubio. Il segretario, di preciso, ha ordinato il fermo di tutti i programmi che non coinvolgono Egitto e Israele.

Dalla Birmania alla Thailandia, i programmi di aiuto di tutto il mondo hanno vissuto un attimo di terrore, senza capire se il 20 gennaio segnasse la fine dei finanziamenti statunitensi. In un primo momento, il fermo alle sovvenzioni sembrava coinvolgere progetti assistenziali di diversa natura, dai fondi per l’AIDS a quelli di assistenza ai rifugiati, e molteplici ONG e associazioni umanitarie hanno criticato aspramente l’iniziativa. Il Segretario Generale dell’ONU, Guterres, ha espresso «preoccupazione» per la manovra e chiesto ulteriori proroghe per i programmi umanitari più critici. Successivamente, tuttavia, Rubio ha disposto una deroga – di cui il Washington Post ha ottenuto una bozza – all’ordine, dichiarando che le forme di «assistenza salvavita» come medicine e servizi medici di base, cibo, alloggio, e tutti i costi associati per fornire tale assistenza non saranno soggetti alla pausa; non è tuttavia ancora chiaro quali programmi rientrino tra le piattaforme «salvavita». Una nota a margine va fatta per l’Ucraina, dove la situazione sembra particolarmente incerta. Un funzionario ucraino ha confermato al Financial Times che non ci sarà alcuna interruzione degli aiuti militari da parte degli Stati Uniti, ma sul destino delle altre piattaforme non si hanno ancora notizie. Ieri, riporta il Kiev Indipendent, il presidente Zelensky ha ordinato ai propri funzionari di redigere un elenco dei programmi che verranno affetti dall’iniziativa statunitense, dopo non essere riuscito a rispondere a una domanda sul tema postagli in conferenza stampa.

[di Dario Lucisano]

Svezia, 1,2 miliardi all’Ucraina

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Il ministro della Difesa svedese ha dichiarato che il Paese erogherà un pacchetto di aiuti per l’Ucraina del valore di 13,5 miliardi di corone svedesi (circa 1,23 miliardi di dollari). Il pacchetto di aiuti è il diciottesimo della Svezia dallo scoppio della guerra ed è uno dei più grandi approvati finora. Secondo quanto riferito dal ministro, il governo starebbe ora negoziando con produttori svedesi ed europei per fornire a Kiev attrezzature prioritarie, come artiglieria e droni.

Cisgiordania: è in vigore il divieto israeliano all’UNRWA di operare a Gerusalemme Est

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A partire da oggi entra in vigore l’ordine di Israele di cessare tutte le operazioni dell’Agenzia ONU per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA) a Gerusalemme Est. L’ultimatum era stato lanciato lo scorso 26 gennaio, quando Tel Aviv ha emesso l’ordine di sgombero di tutti gli edifici e ridotto la durata dei visti per la permanenza del personale internazionale sul posto. Per l’UNRWA, questo rappresenta una «contraddizione con gli obblighi di diritto internazionale degli Stati membri delle Nazioni Unite». Negli scorsi mesi, Israele aveva ripetutamente accusato l’Agenzia di impiegare personale direttamente coinvolto negli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 e in associazioni terroristiche, senza tuttavia mai fornire prove a supporto di queste teorie. Lo scorso ottobre, sono state approvate dalla Knesset due leggi che, se verranno applicate, impediranno all’UNRWA di avere contatti con le autorità israeliane e di entrare a Gaza e nel resto dei Territori Occupati.

Secondo quanto affermato dall’UNRWA, le affermazioni del governo israeliano in base alle quali l’Agenzia non avrebbe il diritto di occupare i locali a Gerusalemme sono «prive di fondamento», in quanto «le proprietà e i beni dell’UNRWA, anche a Gerusalemme Est, sono immuni da perquisizioni, requisizioni, confische, espropri e qualsiasi altra forma di interferenza». Israele, infatti, è firmatario della Convenzione generale sui privilegi e le immunità dell’ONU, che lo obbligano a «rispettare i privilegi e le immunità delle Nazioni Unite, compreso il rispetto dei locali». «Il governo di Israele ha dichiarato pubblicamente che l’obiettivo di liberare i locali dell’UNRWA a Sheikh Jarrah è quello di espandere gli insediamenti illegali israeliani nella Gerusalemme Est occupata» ha dichiarato l’Agenzia.

Il portavoce dell’UNRWA, Jonathan Fowler, ha dichiarato che il mandato dell’Agenzia, che è rimasto invariato per decenni, non cesserà le operazioni. Tuttavia, «gli impatti pratici e l’incertezza significano che le nostre operazioni potrebbero essere sostanzialmente influenzate». A partire da ieri mattina, il personale internazionale dell’Agenzia che operava a Gerusalemme Est ha dovuto evacuare e trasferirsi ad Amman, in Giordania, dopo che il governo israeliano ha ridotto la durata dei loro visti per la permanenza sul posto. Il personale nazionale, invece, potrà rimanere, ma con i rischi che ne conseguono – tra i quali le violente proteste israeliane, che durante la guerra di Gaza (dove 270 membri del personale sono stati uccisi dagli attacchi israeliani) avevano già comportato attacchi incendiari e violenze contro gli uffici dell’Agenzia.

L’UNRWA, che opera da oltre 70 anni in Palestina, costituisce un unicum nella galassia di agenzie e fondi delle Nazioni Unite, in quanto è la sola a dedicarsi ad un gruppo etnico specifico e delimitato. Il mandato che ne sancisce l’esistenza viene rinnovato ciclicamente, in quanto essa rappresenta per i palestinesi una garanzia in merito all’esistenza di un qualche diritto di ritorno alle proprie terre, sancito dalla Risoluzione 194 del 1948. Da anni Netanyahu chiede lo smantellamento dell’Agenzia, proprio perchè essa permette la trasmissione dello status di rifugiato da una generazione all’altra, mantenendo un vita la questione del destino dei rifugiati palestinesi anche per chi non ha subito in prima persona l’esodo del 1948. In caso di cessazione definitiva del lavoro dell’UNRWA, la questione dei rifugiati palestinesi passerebbe sotto la gestione dell’UNHCR (l’Agenzia ONU per i Rifugiati), il cui mandato mira all’integrazione dei migranti nel Paese di destinazione e non al ritorno verso le terre di origine.

La presenza dell’UNRWA è fondamentale ora più che mai in Cisgiordania, in quanto, dopo il cessate il fuoco a Gaza, le forze militari israeliane stanno intensificando le operazioni nel resto dei Territori Occupati: sono decine i palestinesi arrestati o uccisi a Jenin, Tulkarem e altre località, altrettanti quelli arrestati. Nel frattempo, proseguono a fatica le operazioni di scambio di prigionieri tra le due parti: questa mattina, sette ostaggi di Hamas sono stati rilasciati, mentre è stata ritardata la liberazione dei 110 ostaggi palestinesi da parte di Israele. Netanyahu ha dichiarato che questi dovrebbero essere rilasciati alle 17, ora locale, in quanto era necessario che Hamas offrisse garanzia che in futuro gli ostaggi saranno rilasciati “in sicurezza”.

[di Valeria Casolaro]