mercoledì 2 Aprile 2025
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Ghana, centinaia in piazza contro l’estrazione illegale di oro

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Centinaia di persone sono scese oggi in piazza nella capitale del Ghana, Accra, contro l’estrazione illegale di oro nel Paese. La pratica ha subito infatti un’impennata dopo che il prezzo dell’oro è aumentato quasi del 30% in tutto il mondo quest’anno. Tuttavia, l’estrazione di questo metallo comporta gravi danni per la salute degli operai, nonché l’inquinamento dei fiumi e la distruzione delle foreste. La questione è dirimente anche per la politica, dal momento che il Ghana andrà alle urne il prossimo 7 dicembre per le elezioni presidenziali.

Sondaggio: per due italiani su tre il mondo deve fermare Israele

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Il 64,1% degli italiani sarebbe d’accordo: la comunità internazionale dovrebbe intervenire per fermare la furia israeliana in Medio Oriente. Solo il 15,3% riterrebbe invece che lo Stato ebraico debba essere lasciato libero di agire, mentre il 20,6% è indeciso. Il dato proviene da un sondaggio condotto dll’Istituto Eumetra e smentisce ancora una volta la politica estera del governo italiano, che all’ONU si sta sistematicamente astenendo nelle risoluzioni contro Israele. Dal sondaggio emergerebbe inoltre che il 47,4% degli intervistati teme un allargamento del conflitto, mentre il 30,9% sarebbe preoccupato soprattutto per una catastrofe umanitaria. Solo il 18% teme le eventuali conseguenze del conflitto sull’economia italiana. Divisa l’opinione sulle manifestazioni per Gaza nella settimana del 7 ottobre: il 38,6% pensa sia sbagliato vietare i cortei, mentre il 35,8% ritiene sia giusto; gli incerti rappresentano il 25,6%.

L’esito del sondaggio, presentato nel corso della trasmissione Piazza Pulita, sottolinea lo scollamento tra le politiche perseguite dal governo in carica e l’opinione degli italiani. Mentre infatti il governo italiano si mantiene saldo sulla linea del sostegno a Tel Aviv (l’ultima conferma è arrivata dalla tiepida reazione all’attacco del 10 ottobre alla base UNIFIL in Libano, dove è presente anche un contingente italiano), solamente una minoranza della popolazione sembra essere convinta che Israele abbia «diritto a difendersi». Un risultato simile era giunto pochi mesi fa, quando da un sondaggio effettuato da Demopolis era emerso che per il 65% degli italiani il governo dovrebbe smettere di inviare armi a Kiev, impegnandosi piuttosto in trattative di pace.

Il fronte pacifista è infatti presente nel nostro Paese e guadagna sempre maggior consenso, a prescindere dalle politiche messe in atto da Palazzo Chigi. Una conferma la si trova negli esiti delle scorse europee, dove l’alleanza di governo ha perso oltre un milione di voti, mentre il fronte pacifista ha conquistato circa cinque milioni di preferenze – un dato significativo, a fronte del fatto che metà dell’elettorato non va è andato a votare.

Per quanto condotto su di un campione ridotto e non su larga scala, il sondaggio di Eumetra offre uno spaccato sulla volontà di una parte di opinione pubblica che viene quasi del tutto ignorata dalla politica: quella sempre più insofferente riguardo al clima di guerra che si respira in questo periodo storico, che vorrebbe l’Italia non complice dell’uccisione di migliaia di civili.

[di Valeria Casolaro]

Nuovo attacco alla base UNIFIL in Libano: feriti due militari

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Questa mattina la base UNIFIL di Naqoura, in Libano, è stata colpita per la seconda volta nel giro di due giorni dall’esercito israeliano. Secondo quanto comunicati dall’UNIFIL, i caterpillar dell’IDF hanno abbattuto i muri a T della postazione 1-31, causando nell’attacco il ferimento di due militari ONU. La notizia, inizialmente smentita dal governo italiano, è stata confermata dalla stessa missione UNIFIL, che riferisce come «la sicurezza e l’incolumità del personale e delle proprietà delle Nazioni Unite devono essere garantite» e che «l’inviolabilità dei locali delle Nazioni Unite deve essere rispettata in ogni momento».

Una fuga di dati rivela il panorama dietro al porno IA

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Il portale Muah.ai, specializzato in porno con ragazze create dall’intelligenza artificiale prive di censura, è stato hackerato. Per una volta, non si è trattato di uno dei sempre più frequenti attacchi ransomware, di cybercriminali pronti a chiedere un riscatto, bensì di un normale utente che, incuriosito, si è infiltrato negli archivi dell’azienda, scoprendo contenuti pensati per simulare rapporti abusivi nei confronti di minori. “Ho fatto un salto sul sito per masturbarmi e ho notato che il portale era messo in piedi alla bene e meglio”, ha riferito l’uomo a 404 Media, testata che ha avuto l’occasione di consultare i file trafugati a Muah.ai. “In pratica è un insieme di progetti open-source che sono stati uniti insieme con lo sputo. Ho iniziato a guardarmi in giro e ho scoperto rapidamente alcune vulnerabilità”. Infastidito da ciò che ha visto, l’hacker ha fatto trapelare le discussioni registrate dal chatbot alla stampa.

Nell’archivio sono presenti richieste relative a argomenti più o meno spinti. Le sollecitazioni dalle tinte sadomaso sono comuni, quindi ci sono derive che si concentrano sulle più controverse fantasie di rapporti non consensuali. Ad allarmare l’informatico sono però stati i richiami espliciti alla pedopornografia, a orge incestuose e alla sessualizzazione dei bambini in fasce. I file esfiltrati all’azienda non riportano quali risposte abbia prodotto lo strumento, ma rivelano comunque quali siano i contenuti prevalenti cercati tramite prompt dagli utenti della piattaforma.

Ufficialmente, Muah.ai si appoggia su policy che proibiscono qualsiasi forma di eroticizzazione dell’infanzia, una posizione che è stata recentemente ribadita dai moderatori del portale, interpellati in occasione di questa fuga di dati. L’azienda non ha tuttavia negato la veridicità delle informazioni fornite dall’hacker, lamentando piuttosto che “la fuga di dati è stata finanziata dai nostri concorrenti dell’industria IA priva di censure, i quali sono guidati dal profitto. Muah Ai si presta a essere un bersaglio poiché è un progetto alimentato dalla comunità”.

L’azienda ha scoperto di essere stata compromessa la settimana scorsa e ha prontamente notificato la situazione ai suoi utenti attraverso il social network Discord. Il messaggio pubblicato dai gestori malcelava la loro frustrazione, tuttavia assicurava al pubblico che “i vostri messaggi di chat non sono mai conservati, tutto viene cancellato”. L’evolversi della vicenda dimostra l’opposto: attingendo ai dati dell’hacker, 404 Media è riuscita a risalire ai contatti degli utenti, chiedendo loro un commento. Nessuno di loro ha offerto un riscontro.

Il fenomeno dei servizi parasociali su base IA è esploso durante il 2020, in concomitanza con la pandemia e con la progressiva diffusione dei modelli di machine learning. Dal nulla sono emerse realtà di piccole dimensioni dalla natura finanziaria e gestionale vagamente torbida. Spesso, il servizio viene erogato in via gratuita previa registrazione, magari riservando le funzioni “adulte” a dei contratti di abbonamento. Gli strumenti generativi IA e i chatbot sono d’altronde sempre più semplici da programmare e condividere online, un’accessibilità che da una parte favorisce virtuose possibilità, ma che dall’altra offre potenti mezzi con cui truffatori e dilettanti possono imbastire servizi tutt’altro che sicuri.

Essendo un raro spaccato di – involontaria – trasparenza, quanto accaduto a Muah.ai rappresenterà un caso studio importante attraverso cui ricercatori e legislatori potranno sondare i vari utilizzi delle intelligenze artificiali. Allo stesso tempo, questo genere di situazioni rischiano di essere manipolate, più che studiate. Sempre più Governi stanno facendo leva sulle paure riguardanti terrorismo e pedopornografia per suggerire che la società debba eliminare ogni forma di anonimato digitale, una posizione che è spesso più propedeutica a favorire il controllo statale, piuttosto che la tutela degli individui.

[di Walter Ferri]

La Banca Mondiale ha approvato un nuovo fondo per l’Ucraina

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Il consiglio esecutivo della Banca Mondiale giovedì ha approvato la creazione di un nuovo Fondo di intermediazione finanziaria (FIF) per sostenere l’Ucraina, grazie ai contribuiti che arriveranno da Stati Uniti, Canada e Giappone. Lo riferisce l’agenzia di stampa britannica Reuters che precisa come gli importi che dovranno versare i tre Stati sono ancora in fase di definizione e saranno garantiti dai beni sovrani russi congelati. Il Fondo, che sarà amministrato dall’organismo finanziario internazionale, servirà a fornire a Kiev fino a 50 miliardi di dollari aggiuntivi entro la fine dell’anno, secondo gli impegni assunti dai Paesi del G7 all’ultimo vertice di giugno svoltosi in Puglia. La decisione della Banca mondiale di istituire il fondo arriva il giorno dopo quella dell’Unione Europea di trasferire all’Ucraina fino a 35 miliardi di euro (38,3 miliardi di dollari) come parte di un prestito più ampio pianificato dai paesi del G7 nel medesimo vertice. Secondo Josh Lipsky, direttore senior del GeoEconomics Center dell’Atlantic Council, le due iniziative permetteranno di fornire un notevole impulso finanziario all’Ucraina: «Si tratta di una cifra che cambierà le carte in tavola», ha affermato, aggiungendo che «Sono risorse reali sul campo che possono fare la differenza».

L’istituzione del fondo da parte della BM e i prestiti approvati dall’UE arrivano in concomitanza a una situazione di difficoltà sul campo da parte di Kiev e mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha intrapreso un nuovo viaggio nelle capitali europee per illustrare agli alleati il suo “piano per la vittoria” e ottenere ulteriore sostegno dalle Nazioni europee. Zelensky non ha reso noti pubblicamente i dettagli del suo piano per la vittoria volto, a suo dire, a «creare le giuste condizioni per una giusta fine della guerra» contro la Russia. Nella sua tappa a Londra, il presidente ucraino ha discusso con il primo ministro inglese e il nuovo segretario generale della NATO, Mark Rutte, di cooperazione transatlantica e di un ulteriore rafforzamento militare dell’Ucraina. Londra ha affermato che l’Ucraina ha il diritto, in determinate circostanze, di colpire obiettivi all’interno della Russia,  ma non ha dato il suo benestare all’uso dei suoi missili a lungo raggio Storm Shadow per colpire in profondità il territorio russo. Interrogato sulle armi a lungo raggio, il neosegretario dell’Alleanza atlantica ha affermato di averne discusso col presidente ucraino, ma che «alla fine la decisione spetta ai singoli alleati». Successivamente Zelensky ha incontrato anche il presidente francese Macron a Parigi e poi la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni a Roma, la quale ha ribadito il suo sostegno a Kiev.

Parallelamente, sul campo di battaglia la Russia sta avanzando in aree strategiche del Donbass. Secondo un articolo della Reuters, “Le truppe russe stanno avanzando gradualmente in diversi settori dell’Ucraina orientale, nonostante l’incursione a sorpresa di Kiev nella regione occidentale russa di Kursk ad agosto, che l’Ucraina sperava avrebbe rallentato l’avanzata”. In particolare, le forze di Kiev il 2 ottobre hanno dovuto ritirarsi dalla città chiave di Vuhledar nell’oblast’ di Donec’k. Si tratta di una città strategica per la sua altura e per la sua posizione vicino all’incrocio dei due fronti principali, nell’Ucraina orientale e meridionale. La sua conquista permette quindi alle forze russe di migliorare la logistica, facilitando una possibile ulteriore avanzata nella regione. La tempistica del tour di Zelensky nelle capitali europee per ottenere il sostegno degli alleati risulta, dunque, dettata, da un lato, dai deludenti risultati sul campo di battaglia e, dall’altro, dalla possibile elezione di Donald Trump alle prossime elezioni di novembre. L’ex presidente repubblicano, infatti, ha spesso criticato gli aiuti statunitensi all’Ucraina facendo intendere di volerli annullare per intraprendere una soluzione diplomatica. Lo stesso fondo gestito dalla BM avrebbe questa finalità: i 50 miliardi erogati garantirebbero, infatti, a Kiev finanziamenti per tutto il 2025, indipendentemente da chi vincerà le elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre.

Da parte sua, il presidente della Banca Mondiale, Ajay Banga, aveva dichiarato a maggio di essere assolutamente aperto all’idea di gestire un fondo di prestiti del G7 per l’Ucraina, garantito dai guadagni derivanti dai beni sovrani russi congelati, per scopi non militari. La BM, infatti, può solo gestire il fondo per conto dei donatori e ha il divieto di effettuare prestiti per scopi militari, sia direttamente sia tramite un fondo di intermediazione finanziaria. Banga, aveva affermato che la BM ha una vasta esperienza nella gestione di simili strutture per la gestione di fondi, in quanto una era stata istituita anche per l’Afghanistan (l’Afghanistan Resilience Trust Fund, che gestisce da anni per conto dei paesi donatori). Sarebbe quindi pronto a replicare quel modello anche per l’Ucraina, ha affermato. Emerge così come la BM, che dovrebbe perseguire la riduzione della povertà nel mondo, sostenga in realtà gli interessi politici del blocco occidentale.

[di Giorgia Audiello]

29 allevamenti di carne emettono il metano di 100 compagnie petrolifere

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Le emissioni di metano di 29 grandi aziende produttrici di carne e latticini, tra cui l’italiana Cremonini, eguagliano quelle delle 100 principali aziende del settore dei combustibili fossili: è quanto emerge da un nuovo rapporto dell’Ong ambientalista Greenpeace Nordic, che denuncia come tale contributo rappresenti una seria minaccia per la crisi climatica. Il tutto, secondo l’organizzazione, potrebbe essere mitigato dalla riduzione della sovrapproduzione e dell’assunzione di carne e latticini nei paesi a medio e alto reddito – dove spesso se ne consuma in eccesso – abbattendo così la temperatura media globale di 0,12°C entro il 2050. «Per tanto tempo abbiamo osservato la crescita senza freni delle grandi aziende di carne e latticini, come se il settore fosse in qualche modo esente da responsabilità verso la crisi climatica, ma non è affatto così», ha commentato Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia.

Il metano (CH4) è un idrocarburo semplice ed è il principale componente del gas naturale. Viene emesso durante la decomposizione di materia organica attraverso attività agricole, durante l’estrazione e il trasporto di combustibili fossili, e in discariche. È considerato un gas serra a causa della sua capacità di intrappolare il calore nell’atmosfera, contribuendo così al riscaldamento globale: in un arco temporale di 20 anni, infatti, il suo potere di riscaldamento è 80 volte superiore della CO2. Ciò significa che, a parità di massa, il metano ha un impatto notevolmente maggiore sul riscaldamento globale a breve termine, al contrario dell’anidride carbonica che è stata correlata ai cambiamenti climatici delle ultime centinaia di milioni di anni.

Secondo il rapporto, tra il 1910 ed il 2015 si è registrato un enorme aumento della produzione e del consumo di carne e latticini, al punto che la produzione zootecnica ha rappresentato il secondo più importante fattore di aumento delle emissioni nel sistema alimentare globale negli ultimi decenni. Lo studio prosegue mostrando i diversi percorsi che l’umanità dovrebbe considerare di intraprendere tra il 2025 ed il 2050 per accelerare o rallentare il riscaldamento globale attraverso il settore della carne e dei prodotti lattiero-caseari. Visto che, attualmente, si stima che le 5 maggiori aziende produttrici di carne e latticini (JBS, Marfrig, Minerva, Cargill e Dairy Farmers of America) emettano più metano di BP, Shell, ExxonMobil, TotalEnergies e Chevron messe insieme, se si riducesse la produzione industriale per allinearci ad una dieta differente si potrebbe evitare un aumento di temperatura di 0,12°C entro il 2050 mentre, d’altra parte, se non verrà ridotto il numero di animali allevati, il settore sarebbe responsabile di un aumento di temperatura di 0,32°C entro i prossimi 26 anni. Nonostante le cifre possano sembrare irrisorie, Greenpeace aggiunge che per ogni 0,3°C di riscaldamento evitato si potrebbe ridurre l’esposizione al caldo estremo per 410 milioni di persone.

Inoltre, nel documento viene citato anche il gruppo italiano Cremonini che, tramite Inalca, risulta uno dei maggiori produttori europei di carne bovina ed il numero uno nel Belpaese. Il gruppo Cremonini controlla anche i marchi Montana, Manzotin, Fiorani e Montagna e nel 2022, secondo le stime, ha commercializzato complessivamente quasi 480 mila tonnellate di carne, per un totale di emissioni pari a 0,32 megatonnellate di metano. «Siamo spesso stati messi di fronte a una realtà nella quale sono gli allevatori o i consumatori a dover cambiare, mentre queste aziende decidono cosa gli agricoltori devono produrre, quanto devono essere pagati e cosa noi dobbiamo mangiare. Ora però sappiamo che un cambiamento del sistema è possibile. I governi devono guidare gli investimenti e le politiche per avviare il cambiamento. Abbandonando la sovrapproduzione e il consumo eccessivo di carne e latticini, sostenendo gli agricoltori e i lavoratori del settore in una giusta transizione. E così facendo, salvando milioni di vite limitando il riscaldamento globale», ha commentato Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. Infine, Greenpeace conclude aggiungendo che, per tenere alta l’attenzione sul tema, in vista del summit mondiale sul clima delle Nazioni Unite di novembre (COP29), gli attivisti cercheranno di rendere visibile, tramite fumogeni rosa, le emissioni di metano di queste aziende e di «denunciare i tentativi di greenwashing dei giganti del settore».

[di Roberto Demaio]

Nobel per la pace ai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki

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Il premio Nobel per la Pace 2024 è stato assegnato all’organizzazione giapponese Nihon Hidankyo, composta da sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki (detti anche Hibakusha), per «gli sforzi volti a realizzare un mondo libero da armi nucleari». Gli Hibakusha, scrive il Comitato norvegese, hanno contribuito, con il racconto delle loro esperienze, a «generare e consolidare un’opposizione diffusa alle armi nucleari in tutto il mondo». «È quindi allarmante che oggi questo tabù contro l’uso delle armi nucleari sia sotto pressione» ha dichiarato il Comitato.

Sostiene che la lotta palestinese è resistenza: Imam di Bologna espulso dall’Italia

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In Italia siamo «al ritorno a uno stato di polizia e al perseguimento di reati di opinione». Queste le parole dell’avvocato Francesco Murru al termine dell’udienza del Tribunale Civile di Bologna, che ha confermato il decreto di espulsione nei confronti di Zulfiqar Khan, l’Imam di Bologna raggiunto da un provvedimento firmato dal ministro dell’Interno Piantedosi. Le accuse mosse nei suoi confronti sono di un «crescente fanatismo religioso, connotato da un forte risentimento antioccidentale e antisemita». Per questo motivo è stata disposta per lui l’espulsione dall’area Schengen per almeno 10 anni e il ritorno nel suo paese d’origine, il Pakistan. 

Peccato che Zulfiqar Kahn di pachistano abbia ormai ben poco. Da 30 anni vive in Italia, con un permesso di soggiorno prolungato, lavora come commerciante in una ditta alimentare, si è sposato in Italia e ha tre figli che hanno la cittadinanza italiana. «È perfettamente inserito nel nostro Paese – ha spiegato a L’Indipendente l’avvocato Murru – è un imprenditore, ha un’azienda con 8 dipendenti, paga le tasse, i suoi figli parlano il dialetto bolognese, la sua famiglia è totalmente integrata nella città». 

L’espulsione per «motivi di sicurezza dello Stato» è uno dei provvedimenti più gravi cui può essere sottoposta una persona straniera e può essere disposto sia dal ministero che dalla prefettura. Il tribunale civile, che deve rendere esecutivo il provvedimento, valuta solo la correttezza della procedura, senza entrare nel merito. In pratica per difendersi dalle accuse di essere un pericoloso fanatico religioso, l’Imam dovrà attendere l’udienza del TAR, che si terrà tra 30 giorni. Nel frattempo però, dovrà fare ritorno in Pakistan. 

Ma quali sono, nel dettaglio le accuse mosse contro Khan? Nel testo si parla di «propensione a posizioni radicali». Kahn è solito pubblicare i suoi sermoni in italiano sul web, durante i quali, spiega il decreto, «ha più volte manifestato una visione integralista del concetto di jihad, arrivando a definirlo un pilastro della religione mussulmana». Inoltre, «ha esaltato il martirio e l’operato dei mujaheddin nell’ambito dell’odierno conflitto israelo-palestinese». In alcuni discorsi, Kahn ha accusato americani, tedeschi, francesi, inglesi e italiani di sostenere il massacro di civili nella striscia di Gaza, usando parole molto dure nei confronti dello Stato di Israele, che gli sono valse l’appellativo di «Sostenitore di Hamas». 

«A volte usa parole forti, ma facendo riferimento a testi religiosi, che poi commenta in un’ottica di insegnamento religioso – spiega l’avvocato Murru – è vero che in un video ha detto che Netanyahu è un delinquente perché sta assassinando migliaia di bambini, ma non è certo l’unico al mondo che lo dice, penso che sia un’opinione comunque legittima».

«Finalmente lo abbiamo rispedito a casa» ha commentato sui social Matteo Salvini. La Lega, infatti, aveva cominciato a interessarsi di Kahn già dallo scorso giugno, buttandola come al solito in caciara. Il sottosegretario Alessandro Morelli aveva pubblicato su X un video di pochi secondi dal titolo L’Imam di Bologna invita alla Jihad, nel quale si sentiva il predicatore dire in uno dei suoi sermoni: «Dobbiamo ucciderli tutti, anche i più piccoli e le donne incinte». In realtà la frase era stata estrapolata dal contesto. Nel suo discorso Kahn accusava Netanyahu di «voler uccidere donne e bambini». L’esatto contrario insomma, motivo per cui l’Imam ha denunciato Morelli per diffamazione.

Salvini ha risposto così: «Anziché vergognarsi denuncia il leghista Alessandro Morelli: l’Imam Zulfiqar Khan merita soltanto una richiesta di espulsione immediata dal nostro Paese». Espulsione che è arrivata pochi mesi dopo. «Sembra quasi una rappresaglia contro il fatto che abbia denunciato una situazione della quale lui è vittima» spiega Murru.

Quella dell’Imam di Bologna è la 164esima espulsione per motivi di sicurezza da quando il governo è entrato in carica, la 94esima dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Kahn è stato a sua volta denunciato da alcuni esponenti della Lega per istigazione all’odio e su di lui pende un procedimento penale della Procura di Bologna per istigazione a delinquere. Tutte accuse dalle quali lui non potrà più difendersi in tribunale perché espulso dal Paese. «Sarebbe stato più facile giudicarlo in Italia per il reato penale – spiega Murru – e invece si è preferito adottare un provvedimento amministrativo che intanto toglie al mio assistito la possibilità di difendersi». 

Entro poche ore Kahn verrà quindi rimandato in Pakistan, da li attenderà i 30 giorni per l’udienza al TAR. «Lui è fiducioso, credo che il TAR possa entrare nel merito e decidere in maniera favorevole, siamo speranzosi» afferma l’avvocato.

[di Fulvio Zappatore]

Il Senato approva una nuova stretta sulle intercettazioni

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Il Senato ha approvato in prima lettura una nuova stretta sulle intercettazioni, introducendo per la prima volta un limite chiaro alla durata delle operazioni di ascolto. La votazione ha visto 83 voti favorevoli, 49 contrari e un astenuto. La nuova legge prevede un massimo di 45 giorni per le intercettazioni, prorogabili solo in caso di assoluta necessità e supportati da nuovi elementi giustificati in dettaglio. Tuttavia, questa stretta non si applica ai reati di mafia e terrorismo. La misura fa parte di una più ampia riforma delle intercettazioni proposta dal governo, che nell’estate del 2023 aveva già introdotto limitazioni sulle motivazioni e sui contesti per il loro utilizzo.

Israele attacca i soldati italiani in Libano: il governo lascia solo Crosetto a protestare con Tel Aviv

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Nel pomeriggio di ieri l’esercito israeliano ha attaccato le postazioni della missione militare UNIFIL delle Nazioni Unite in Libano. Tra gli obiettivi vi erano anche le postazioni dell’esercito italiano, che in Libano è presente con oltre mille soldati. Dopo che un drone ha sorvolato ripetutamente la base UNP 1-31, area dove sono presenti 18 militari italiani, i colpi israeliani hanno preso di mira l’ingresso del bunker dove sono rifugiati i soldati italiani e hanno danneggiato i sistemi di comunicazione della base. Rabbiosa la risposta del ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, che ha convocato d’urgenza l’ambasciatore israeliano e poi ha accusato: «Non si è trattato di un errore, né di un incidente, ci devono spiegazioni formali, reali, nei tempi più rapidi possibili», aggiungendo che gli attacchi israeliani potrebbero «costituire crimini di guerra». Il resto del governo ha avuto reazioni tiepide, se non nulle. La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha riferito di aver presentato formali proteste alle Autorità israeliane, mentre il ministro degli Esteri Tajani ha dichiarato alla stampa di augurarsi le scuse di Israele. Non una parola dal vicepremier Matteo Salvini, che sui propri social nelle ore seguenti l’attacco ha postato come al solito di tutto (dal video di una madre che riprende il figlio che corre col motorino, ai soliti sproloqui sulla castrazione chimica), ma proprio non si è accorto dell’attacco dell’esercito di Netanyahu, che non a caso in passato aveva definito il leader leghista «un grande amico di Israele». L’impressione è, dunque, che la rumorosa avanscoperta di Crosetto serva a coprire la totale irrilevanza del governo italiano, la cui complicità con Israele – testimoniata dalla sistematica astensione a tutte le risoluzioni dell’ONU che ne hanno condannato il massacro a Gaza – non pare scalfita nemmeno dall’attacco diretto contro il proprio contingente militare.

Sulla volontarietà dell’attacco israeliano non paiono esserci dubbi e da Tel Aviv non sembrano nemmeno porsi il problema diplomatico. Anziché scusarsi per gli attacchi, che hanno colpito anche la base di Naqura, dove sono stati feriti due soldati indonesiani, l’ambasciatore israeliano all’ONU ha infatti contrattaccato dicendo che il contingente UNIFIL dovrebbe «spostarsi di cinque chilometri più a nord per evitare pericoli». L’impunità garantita dall’Occidente ad Israele, in pratica, ha prodotto il paradosso per il quale ora Tel Aviv si sente le spalle abbastanza larghe per minacciare l’esercito dell’ONU, forte di oltre diecimila soldati in Libano. Diversi governi europei, guidati da Francia e Spagna, hanno attaccato le dichiarazioni dell’ambasciatore israeliano e Crosetto, usando toni forti, ha sottolineato che «le Nazioni unite e l’Italia non prendono ordini da Israele». L’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE, Josep Borrell, ha condannato «questo attacco inammissibile», per il quale «non esiste alcuna giustificazione». Dai vertici del governo italiano, tuttavia, le reazioni sono state molto più contenute. In un comunicato, il governo riferisce di aver «formalmente protestato» con le Autorità israeliane, mentre Tajani ha riferito alla stampa di augurarsi le scuse Israele.

Ma perché l’esercito israeliano ha attaccato il contingente UNIFIL? Militarmente parlando il senso non è immediatamente comprensibile. L’attacco Israeliano sul Libano, scatenato con il pretesto di sgominare le milizie di Hezbollah, sta procedendo senza incontrare freni a livello internazionale, e i soldati ONU fino ad oggi sono rimasti a guardare. Non è difficile immaginare che l’obiettivo, per Tel Aviv, sia proprio quello di liberarsi degli occhi del contingente internazionale. La guerra di distruzione che Israele sta portando avanti nel sud del Libano appare ogni giorno più simile nelle modalità al massacro di Gaza. Secondo le ultime stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) sono oltre 1.150 i morti in Libano a partire dal 17 settembre, giorno dell’esplosione simultanea di centinaia di cercapersone di Hezbollah, più di 7 mila i feriti e oltre 608 mila gli sfollati (un milione secondo le autorità libanesi). E l’esercito delle Nazioni Unite rappresenta uno scomodo testimone, contando che proprio l’UNIFIL, nel luglio scorso, denunciò in un report l’utilizzo da parte israeliana delle micidiali (e vietate da ogni convenzione internazionale) bombe al fosforo bianco.

La missione UNIFIL è stata istituita dall’ONU nel 1978 con il compito, tra gli altri, di «ripristinare la pace e la sicurezza in Libano». Tra i diecimila effettivi sono presenti ben 1068 soldati italiani, che costituiscono il secondo contingente più numeroso. Il compito era, in particolare, verificare il ritiro delle forze israeliane, ripristinare la pace e la sicurezza internazionali e aiutare il governo libanese a ripristinare la sua effettiva sovranità. Obiettivi che, a distanza di 46 anni, risultano lontani dall’essere realizzati, tanto che oggi questi si sono ridotti al solo piano umanitario, mirando soprattutto a fornire assistenza alla popolazione civile.

[di Andrea Legni]