sabato 19 Aprile 2025
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Pisa, dieci poliziotti indagati per violenze sugli studenti durante la manifestazione

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Dopo otto mesi dalla manifestazione, la Procura di Pisa ha avviato un’indagine su dieci agenti delle forze dell’ordine in relazione ai fatti avvenuti nella stessa città lo scorso 23 febbraio, quando gli studenti sono scesi in piazza per la Palestina. In quell’occasione, la polizia in tenuta antisommossa aveva caricato violentemente i giovani che stavano manifestando e che avevano cercato di superare pacificamente il cordone di agenti. Sull’accaduto si era espresso anche il Presidente della Repubblica Mattarella, che all’indomani della manifestazione aveva dichiarato che «con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento». A venire indagati, con accuse di eccesso colposo di legittima difesa e lesioni lievi colpose sembrano essere agenti del reparto mobile di Firenze e gli ufficiali addetti al mantenimento dell’ordine pubblico durante la manifestazione.

«Come disposto dalla procura di Pisa, la questura ha proceduto alla notifica delle informazioni di garanzia e dell’invito a rendere interrogatorio dinanzi al pm nei confronti di dieci appartenenti alla Polizia di Stato, coinvolti nei fatti accaduti a Pisa durante la manifestazione dello scorso 23 febbraio». Così, un comunicato della polizia annuncia l’avvio delle indagini sui membri delle forze dell’ordine accusati di cooperazione colposa, eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi, e lesioni personali. La procura ha affidato le indagini al Servizio Centrale Operativo, col supporto della squadra mobile e della Digos. Esse mirano a chiarire le circostanze e le dinamiche che hanno portato gli agenti a imbracciare gli sfollagente, e dovrebbero coinvolgere nello specifico sette agenti e tre funzionari. In questo momento, nessuno dei membri delle forze dell’ordine coinvolti nelle indagini svolge incarichi operativi all’interno della questura. L’iscrizione nel registro degli indagati è stata effettuata dopo le identificazioni degli interessati negli scontri, condotte dalla polizia scientifica di Pisa. Secondo la questura, a questi eventi hanno preso parte anche i circa cinquanta agenti presenti durante gli scontri, che si sarebbero autoidentificati.

I fatti del 23 febbraio riguardano un corteo per la Palestina svoltosi nella città di Pisa. I manifestanti erano partiti da piazza Dante, per poi sviare verso la stretta via San Frediano, in quel momento blindata dalla polizia. Imboccata la stradina, i manifestanti hanno provato ad avanzare con le mani alzate, venendo di tutta risposta colpiti da quella che la polizia ha definito «carica di alleggerimento» per allontanare i dimostranti e disperdere la folla, sfoderando i manganelli contro i presenti. Il bilancio è stato di 15 ragazzi feriti, di cui 11 minorenni, tutti refertati al pronto soccorso. Poco dopo gli eventi, il ministro degli Interni Matteo Piantedosi si è espresso sulla vicenda, scaricando la colpa sugli studenti. Secondo l’informativa del titolare del Viminale, i ragazzi erano infatti venuti “volutamente a contatto con i reparti mobili”, avendo “provato, nonostante gli ammonimenti” a “forzare il blocco” della Polizia.

[di Dario Lucisano]

Brasile: nuove prove fossili svelano l’origine di uno dei dinosauri più antichi della Terra

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Aveva un corpo slanciato, un becco tagliente e caratteristiche simili a quelle dei primi dinosauri, ma è vissuto circa 237 milioni di anni fa: è il fossile di Gondwanax paraisensis, un antico rettile che potrebbe essere tra i dinosauri più antichi mai trovati. I resti, rinvenuti in Brasile, suggeriscono che i dinosauri ornitischi – un gruppo di erbivori preistorici – potrebbero essere apparsi fino a 10 milioni di anni prima di quanto si pensasse e potrebbero contribuire a risolvere questioni paleontologiche che rimangono ancora un mistero. I risultati della ricerca sono stati inseriti in uno studio firmato dal paleontologo Rodrigo Temp Müller dell’Universidade Federal de Santa Maria, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Gondwana Research. Nonostante la portata della scoperta, esperti non coinvolti nella pubblicazione spiegano che mancano ancora prove definitive per chiudere il caso, prove che però, replica Müller, potrebbero arrivare grazie a un nuovo esemplare rinvenuto proprio all’inizio di ottobre e ancora in fase di studio.

Gli ornitischi sono uno dei due grandi ordini di dinosauri, raggruppanti esclusivamente forme erbivore. Comparvero nel Carnico — periodo compreso tra circa 228,7 e 216,5 milioni di anni fa — in Patagonia e arrivarono a popolare l’intero pianeta. Includono famosi dinosauri erbivori come il Triceratops, lo Stegosaurus e l’Iguanodon, ma fino a oggi i loro fossili sono rari e frammentari. Tale assenza di prove ha generato dubbi sulla reale origine di questa famiglia di dinosauri, spingendo alcuni paleontologi a suggerire che i precursori degli ornitischi fossero nascosti tra i silesauridi, una famiglia di piccoli e medi rettili onnivori, spesso considerati parenti stretti dei dinosauri. «Il problema è che abbiamo molto materiale sui primi silesauridi, ma le forme probabilmente più correlate agli ornitischi sono rare», ha spiegato il dott. Müller, aggiungendo che i primi silesauridi tendono ad avere caratteristiche primitive nei loro scheletri che rendono difficile stabilirne la discendenza.

Studiando un pacchetto di fossili ricevuto in dono da Pedro Lucas Porcela Aurélio, un medico e cacciatore di fossili dilettante, Müller ha identificato fianchi, vertebre e femore di un silesauride. Aveva le dimensioni di un piccolo cane con una lunga coda, pesava tra i 3 e i 6 chili ed era lungo circa un metro. Inoltre, il femore non presentava tratti specifici che collegassero i muscoli della zampa alla coda e ciò, secondo il ricercatore, suggerisce che la creatura camminasse in modo meno efficiente rispetto ad altri silesauridi o dinosauri. Tuttavia, a differenza di altri rettili e dei primi membri della sua famiglia, i resti di ciò che Müller ha chiamato Gondwanax presentavano tre vertebre nei fianchi anziché due, il che indicherebbe che Gondwanax e i suoi simili sono ornitischi del Triassico o i loro diretti antenati, e quindi dinosauri a pieno titolo.

Il dott. Brusatte, paleontologo presso l’Università di Edimburgo non coinvolto nello studio, ha commentato la scoperta spiegando che, se confermata, aggiungerebbe dai sette ai 10 milioni di anni alla storia degli ornitischi, suggerendo anche che i dinosauri erano molto più comuni e diffusi prima di quanto si fosse ipotizzato. Tuttavia, per il ricercatore è ancora troppo presto per dire che il caso è chiuso: «Vorrei poter dire che questo nuovo fossile di silesauride risolve l’enigma una volta per tutte, ma per me è ancora una questione aperta». Müller concorda, ma con ottimismo: all’inizio di ottobre, il team del dottore ha scoperto un nuovo e più completo esemplare di silesauride e, secondo lo scienziato, potrebbe fornire altre prove agli specialisti che cercano una risposta definitiva a uno dei più grandi misteri nella storia dei dinosauri.

[di Roberto Demaio]

Turchia: “Attacco terroristico ad Ankara, morti e feriti”

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In Turchia, nei pressi di Ankara, è stato effettuato quello che è stato definito «un attacco terroristico mortale» presso la sede centrale della Turkish Aerospace Industries, una delle più importanti aziende di difesa e aviazione della Turchia. Lo riferisce il ministro degli Interni Ali Yerlikaya che parla di «morti e feriti». Le cause dell’esplosione e della successiva sparatoria, riprese in alcuni video che stanno circolando in rete, sono ancora poco chiare. Le agenzie di stampa turche riportano che l’ufficio del procuratore capo di Ankara ha avviato un’indagine giudiziaria sull’attentato terroristico e sono stati assegnati un vice procuratore capo e 8 pubblici ministeri a coordinare le ricerche.

Prolungata ancora la detenzione del capitano che difendeva le balene

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L’attivista anti-caccia alle balene Paul Watson rimarrà ancora detenuto in Groenlandia almeno fino al 13 novembre. Lo ha dichiarato la polizia nazionale alla stampa statunitense, aggiungendo che nel frattempo la Danimarca sta decidendo se estradarlo in Giappone. Watson, di 73 anni, era stato arrestato dopo che, più di un decennio fa, il Giappone ha emesso un mandato di arresto internazionale nei suoi confronti, accusandolo di aver fatto irruzione in una nave giapponese nell’Oceano Antartico nel 2010, ostacolandone le attività e causando lesioni e danni materiali. «Continuiamo a lottare affinché il caso si concluda», ha riferito il suo avvocato, aggiungendo che presenterà ricorso contro la decisione intrapresa.

Il Niger nazionalizza l’estrazione di uranio, petrolio e oro

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La giunta militare al potere in Niger ha annunciato la volontà di nazionalizzare l’estrazione di uranio, petrolio e oro, creando due nuove società nazionali per la gestione delle attività estrattive. L’iniziativa costituisce un passo fondamentale verso la sovranità economica e verso l’indipendenza da società e Paesi stranieri – in particolare dalla Francia – che per decenni hanno sfruttato le risorse della Nazione africana a loro esclusivo vantaggio. Nonostante, infatti, il Niger sia una delle nazioni più ricche di materie prime, è anche una delle più povere al mondo. L’istituzione delle due nuove società statali ha come obiettivo proprio quello di garantire che i profitti derivanti dall’estrazione e dalla vendita di queste risorse naturali siano maggiormente nelle mani del governo e del popolo nigerino, così da poter reinvestire le entrate internamente, investendo in infrastrutture, sanità, istruzione e sviluppo economico. L’iniziativa fa parte di un percorso di autonomia e indipendenza strategica intrapreso da diverse nazioni del Sahel, tra cui Niger, Mali e Burkina Faso, dove negli ultimi quattro anni si sono svolti dei colpi di Stato che hanno destituito i governi filoccidentali, instaurando giunte militari che hanno come obiettivo primario restituire sovranità alle nazioni africane, liberandosi dal retaggio neocoloniale francese, ma anche dall’influenza europea e americana.

Il Niger – uno Stato prevalentemente desertico – è il settimo al mondo per riserve di uranio, materiale che ha costituito, nel 2022, il 15% delle importazioni francesi e oltre il 25% di quelle dell’Unione europea. La Francia è particolarmente interessata all’estrazione di questo metallo in quanto è un elemento indispensabile per la produzione di energia nucleare, che costituisce il cuore del mix energetico di Parigi. Non a caso, nel Paese sono presenti diverse compagnie estrattive dell’ex potenza coloniale, tra cui la più importante è Orano (ex Areva), che dal 1971 sfrutta le consistenti riserve di uranio del Paese per alimentare le centrali nucleari d’oltralpe e di parte d’Europa e che detiene pressoché il controllo del business minerario dell’Africa subsahariana. Tuttavia, in seguito al golpe del luglio del 2023, la giunta militare, oltre ad avere espulso le truppe francesi dal suo territorio, sta anche cercando di liberarsi della presenza delle aziende estrattive che fanno capo a Parigi. Così, se prima del 2023, il governo nigerino aveva rinnovato alcuni importanti contratti con le multinazionali straniere, successivamente le cose sono radicalmente cambiate: Niamey ha annunciato negli scorsi mesi di aver ritirato a Orano il permesso per lo “sfruttamento su larga scala” dell’uranio nel giacimento di Imouraren, uno dei più grandi al mondo, con riserve stimate in 200 mila tonnellate, situato nella regione settentrionale di Agadez.

La decisione del governo di transizione nigerino di nazionalizzare l’estrazione delle risorse, non rinnovando i contratti con alcune compagnie straniere, è anche una risposta alle crescenti tensioni interne, in quanto la popolazione chiede un maggiore controllo sulle risorse del Paese. In seguito al cambio di governo nel 2023, questa tendenza è sempre più accentuata con ripercussioni non trascurabili sugli interessi delle potenze occidentali, tra cui Francia, Stati Uniti e Unione Europea.

Dopo i golpe avvenuti in Mali e Burkina Faso, il Niger era rimasto uno degli ultimi alleati chiave per Parigi e Washington nella regione ed era anche un importante partner per l’UE nella lotta contro l’immigrazione irregolare. Le truppe francesi presenti sul territorio dello Stato africano avrebbero poi dovuto costituire un aiuto determinante nella lotta contro il terrorismo nell’area, legato soprattutto a gruppi affiliati al al-Qaeda e allo Stato Islamico. Tuttavia, gli scarsi risultati ottenuti su questo fronte dalle truppe di Parigi e l’insofferenza verso le ingerenze e lo sfruttamento delle risorse da parte dell’ex potenza coloniale, hanno creato le condizioni necessarie per la pianificazione e il successo di un colpo di Stato. Il 26 luglio del 2023, l’allora presidente, Mohamed Bazoum, è stato rimosso dai militari che hanno dato vita alla giunta auto-denominatasi Cnsp (Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria).

La volontà di nazionalizzare le risorse naturali sta accomunando negli ultimi anni molti Stati del Shel, tra cui i già citati Burkina Faso, Mali e Senegal: tutti, infatti, sono attraversati dal medesimo obiettivo di affermare la sovranità nazionale e affrancarsi dal dominio di potenze straniere, riappropriandosi innanzitutto delle proprie risorse. Questo fermento dei Paesi africani del Sahel sta conducendo a uno stravolgimento degli equilibri geopolitici nella regione, dove i Paesi occidentali stanno perdendo la loro egemonia in favore delle grandi potenze rivali di Washington come la Russia a cui l’Africa guarda con sempre maggiore benevolenza, sia sul piano della cooperazione economico-commerciale che su quello militare. La recente iniziativa di istituire due società nazionali in Niger per l’estrazione delle risorse nazionali non fa altro che consolidare e accelerare questo percorso di indipendenza e sovranità, segnando un’ulteriore sconfitta per gli interessi francesi nel Sahel.

[di Giorgia Audiello]

Germania e UK annunciano un accordo di cooperazione nella difesa

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Germania e Regno Unito hanno annunciato che oggi, mercoledì 23 ottobre, firmeranno un accordo di cooperazione nell’ambito della difesa, denominato “Trinity House Agreement”. L’accordo è il primo del suo genere tra i due Paesi, che sono i maggiori investitori europei nel settore della difesa, e intende aumentare gli investimenti nell’ambito bellico. In generale, verranno coinvolti tutti i reparti produttivi nella sfera militare, con “progetti in tutti i settori”, tra “terra, aria, acqua, e cyber”. L’accordo prevede, tra le tante cose, l’apertura di una nuova fabbrica di canne per artiglieria nel Regno Unito, la produzione di veicoli corazzati, e la progettazione di nuove munizioni a lungo raggio.

Benvenuti all’inferno: il rapporto sui centri di tortura israeliani

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Il genocidio orchestrato da Israele ai danni della popolazione palestinese è in corso da ormai oltre un anno e conta ancora su una scorta mediatica diffusa, rimasta nella maggior parte dei casi impassibile di fronte all’uccisione di oltre 40 mila persone, di cui circa la metà bambini. A suon di cortei, dibattiti e boicottaggi, i popoli di tutto il mondo continuano a manifestare la loro solidarietà nei confronti della Palestina. Nello Stato ebraico l’idea della disumanizzazione dei palestinesi continua a fare da cardine: solo il 4 per cento degli israeliani ebrei crede che il massacro in corso ...

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L’attivista curda Maysoon Majidi è stata liberata

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Il tribunale di Crotone ha disposto la liberazione dell’attivista curdo-iraniana Maysoon Majidi, accogliendo l’istanza della difesa, e fissando l’udienza finale del processo per il 27 novembre. Maysoon Majidi, 28 anni, era stata arrestata il 31 dicembre 2023, giorno in cui sbarcò con altre 77 persone sulla costa di Crotone. Accusata di essere una scafista, nonostante le poche prove accusatorie, Majidi rischia fino a 15 anni di carcere per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La sua liberazione è stata disposta alla luce delle dichiarazioni dei testimoni, che hanno fatto venire meno gli indizi di colpevolezza a carico dell’attivista.

Il Consiglio d’Europa ha accusato la politica e la polizia italiane di razzismo

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Le forze dell’ordine italiane soffrono della presenza incombente di una serie di «pratiche di profilazione razziale». Lo sostiene l’ultimo rapporto dell’istituto della Commissione Europea contro il Razzismo e l’Inclusione (ECRI), finito rapidamente in mezzo al polverone della politica. «Le nostre Forze dell’Ordine sono composte da uomini e donne che, ogni giorno, lavorano con dedizione e abnegazione per garantire la sicurezza di tutti i cittadini, senza distinzioni. Meritano rispetto, non simili ingiurie», ha dichiarato senza mezzi termini Giorgia Meloni, sostenuta dagli alleati governativi Antonio Tajani e Matteo Salvini. Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è detto stupito, «ribadendo stima e vicinanza alle forze di Polizia». Ironicamente, questo sollevamento da parte della politica sembrerebbe confermare le preoccupazioni dell’ECRI: tra dichiarazioni e discorsi d’odio, infatti, gli abusi, i controlli ingiustificati, e i fermi della polizia sembrerebbero fomentati, e a tratti giustificati, dalla stessa politica, che, malgrado i passi avanti, sembra non essere ancora dotata dei dovuti anticorpi per risolvere un problema che assume una valenza strutturale.

Il rapporto ECRI sul razzismo e l’intolleranza in Italia è uscito ieri, martedì 22 ottobre. Esso rientra nel sesto ciclo di monitoraggio dell’istituto, iniziato nel 2018. In generale, il documento rileva i positivi passi avanti fatti dall’Italia in materia di razzismo e inclusione, plaudendo agli sforzi del Paese nel dotarsi di meccanismi e istituti atti a contrastare le forme di discriminazione. Nonostante ciò, i problemi della Penisola sembrerebbero ancora molti, primo fra tutti proprio quello delle forze dell’ordine, che ha tanto fatto discutere la politica italiana. In uno degli ultimi paragrafi del rapporto, l’ECRI scrive di essere «venuta a conoscenza di molte testimonianze sulla profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine, in particolare verso la comunità Rom e le persone di origine africana». Si parla di «frequenti fermi e controlli basati sull’origine etnica», spesso «confermati anche dai rapporti delle organizzazioni della società civile». Questi episodi sembrano non essere considerati dalle autorità, elemento che rischia di tradurre «la profilazione razziale come una forma di potenziale razzismo istituzionale».

A rendere ancora più probabile questa forma di istituzionalizzazione del razzismo sono le dichiarazioni e gli episodi di discorso d’odio della politica. «Ad esempio», scrive il rapporto, «nel 2018 l’allora Ministro dell’Interno, nel dichiarare la volontà di procedere ad un’espulsione di massa dei Rom irregolari, ha fatto riferimento anche ai Rom in possesso della cittadinanza italiana e ha affermato: “ma i Rom italiani purtroppo dobbiamo tenerceli a casa”». Secondo l’ECRI, insomma, i vari episodi di razzismo che investono le forze dell’ordine sarebbero fomentati dalla politica, primo fra tutti da Matteo Salvini. Nella sua aperta difesa delle forze dell’ordine dall’ultimo rapporto ECRI, il Ministro delle Infrastrutture ha dichiarato: «Se a questi signori piacciono tanto rom e clandestini se li portino tutti a casa loro a Strasburgo», ripetendo, insomma, quelle stesse «parole d’odio» di cui viene accusato dall’Istituto.

Eppure, da quanto emerge dal rapporto, il problema del razzismo in Italia sembra non limitarsi alle forze dell’ordine e alla politica: analoghi episodi di discriminazione sembrano verificarsi in maniera sistematica anche nelle scuole, sui social, e in generale in vari spazi della vita quotidiana, colpendo specialmente le comunità africane e rom. Malgrado ciò, il rapporto evidenzia i grossi passi avanti fatti dal Paese nell’ultimo ciclo di sei anni. Questi, però, non sembrerebbero essere abbastanza, perché carenti di tutti quegli organismi di monitoraggio e tutela che permettono a un Paese di avere gli anticorpi per contrastare il razzismo. Una delle carenze più paradigmatiche si registra in seno allo stesso esecutivo: il governo italiano si serve infatti dell’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) per controllare e gestire le proprie politiche contro il razzismo. Eppure, esso rimane «un’entità all’interno del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri» e, insomma, manca di indipendenza. In tal senso, l’ECRI consiglia all’Italia di dotarsi di maggiori organismi di controllo e gestione realmente autonomi, e di potenziare quelli già esistenti, andando ad ampliare la loro sfera di azione.

Il fatto che l’Italia sia un Paese con un problema sistematico di razzismo non appare certamente come una novità. L’ECRI si era infatti già espresso a tal proposito e, assieme a esso, avevano fatto lo stesso anche altri organismi internazionali. Ad aprile, Amnesty aveva osservato come in Italia si stessero verificando, ad ampio raggio, significative retromarce sul fronte del rispetto dei diritti umani. Nel rapporto, l’ONG osservava i problemi delle operazioni effettuate dalle autorità italiane nella cornice della tragedia di Cutro, così come la regolamentazione degli arrivi attuata dal decreto Piantedosi. Anche Human Rights Watch, ha osservato più di una volta come in Italia certe politiche sembrerebbero intrise di razzismo, prima fra tutte proprio quella migratoria. In generale, in tanti osservano come in Italia, malgrado i passi avanti, manchino le strutture per combattere il razzismo alla radice, non solo contrastando gli episodi di discriminazione, ma proprio evitando che essi si verifichino. La questione, insomma, sembrerebbe inserirsi in una cornice generale, e assumere, come sottolineato dall’ECRI, le sfaccettature di un problema strutturale.

[di Dario Lucisano]

Milano, vincono gli studenti: l’università congela tutti i rapporti con gli atenei israeliani

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Dopo mesi di mobilitazione, la “intifada studentesca” dell’Università Statale di Milano ha annunciato di avere ottenuto una «straordinaria» vittoria: l’ateneo meneghino congelerà i rapporti con la Reichmann University. «La Reichmann University non è solo un’istituzione accademica, ma un simbolo del sionismo», hanno scritto i Giovani Palestinesi nel comunicato di annuncio. Essa, denunciano gli studenti, risulta particolarmente intrecciata con le istituzioni militari dello Stato ebraico, tanto da ospitare ogni anno una conferenza per gli alti ranghi delle forze militari israeliane. In questo modo, l’Università ha per il momento interrotto tutti gli scambi con gli atenei israeliani. A quasi un anno dalle prime mobilitazioni, gli studenti rilanciano quindi le proprie rivendicazioni: «Abbiamo dimostrato che la resistenza studentesca funziona», continua il comunicato; «Ora vogliamo lo stesso in tutte le città italiane!».

L’annuncio del congelamento dei rapporti tra l’Università Statale di Milano e l’Università israeliana Reichman è arrivato ieri. La Reichman University sorge in territorio israeliano a Herzliya, città intitolata a Theodor Herz, che nel 1897 fondò l’Organizzazione Sionista Mondiale. Essa poi, come tutte le università israeliane, intrattiene strette relazioni con le IDF, dedicandovi programmi di studio, e riservando privilegi ai militari attivi. In tal senso, il congelamento degli scambi con tale università è considerato dal movimento particolarmente simbolico, e «sferra un colpo diretto al cuore del sistema accademico sionista». Con il congelamento delle relazioni con la Reichman University, l’Università Statale di Milano non intrattiene più alcuno scambio con gli atenei israeliani. Precedentemente, nel periodo di maggior coinvolgimento del movimento dell’intifada studentesca in Italia, l’università meneghina aveva infatti interrotto i rapporti con l’Università di Ariel, che sorge in Cisgiordania. Gli attivisti hanno definito questo successo «straordinario», rilanciando poi il movimento: in tutta Italia, infatti, ci sono ancora numerose università che mantengono legami con gli istituti israeliani. La stessa Università di Milano, poi, «rimane ancora legata a dinamiche problematiche», come nel caso di «collaborazioni con la Marina Militare italiana, o della «partecipazione alle esercitazioni di mare aperto», o, ancora, dei rapporti «con Eni». Il movimento studentesco intende interrompere in generale le relazioni, anche trasversali, con lo Stato di Israele, e smantellare i legami delle università con tutte quelle istituzioni che essa ritiene strettamente intersecate con guerra e sfruttamento. In tal senso, la strada è ancora lunga: «Questo è solo l’inizio!».

L’Intifada studentesca va avanti da tempo, e verso maggio aveva ormai assunto i connotati di un movimento globale. In Italia la “mobilitazione dei saperi” è iniziata attorno alla metà di novembre. Poco dopo la metà di marzo, a Torino c’è stato il primo caso di approvazione di una mozione che sospende la partecipazione di una università al bando MAECI per la collaborazione con le università israeliane, e qualche giorno dopo tale soluzione è stata approvata anche dalla Normale di Pisa, i cui studenti si sono raccontati a L’Indipendente. A giugno, una prima grande vittoria: l’università di Palermo è stata la prima in Italia a sospendere tutti gli accordi con Israele. Nel mondo, dopo le proteste studentesche statunitensi analoghe “acampade” sono sorte in ogni angolo del pianeta, arrivando in Canada, Messico, Australia, e Medioriente. Anche l’Europa è stata particolarmente colpita da questa ondata di contestazioni, e nello stesso periodo sono sorti campi di tende nel Regno Unito, in Francia, in Spagna, in Germania, e in numerosissimi altri Paesi del Vecchio Continente.

[di Dario Lucisano]